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Ci sono saperi e saperi

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Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Ci sono saperi che valgono in sè e sono quelli che danno un orientamento per dare un senso alla propria vita e ci sono saperi che valgono per orientarsi nel mondo del lavoro; l’approccio per competenze come spesso definito, proposto e incentivato questa distinzione tiene a non farla, tant’è che dappertutto si è visto ridurre il peso delle discipline umanistiche e delle stesse discipline teoretiche della scienza.
Che esistano saperi inerti è una favola da Confindustria; che l’inerzia sia congenita a determinate discipline è un’altra fatta propria dagli apostoli delle competenze.
Ogni sapere è vivido e fruttuoso se viene problematizzato; se si fa comprendere che si è costituito come risposta ai problemi che l’uomo ha dovuto affrontare nella sua storia.
E per la storia è opportuno ricordare che nei tecnici e nei professionali si è sempre considerato il rapporto col mondo del lavoro come proprio principio costitutivo.
Contrariamente a quel che viene detto la scuola che non si lascia trascinare nel dogmatismo dell’approccio per competenze è un scuola che dà strumenti di libertà; la scuola che predica la spendibiltà dei saperi predispone all’accettazione servile, all’adeguamento puro e semplice ai dati del mercato del lavoro.
Un matematico che aveva insegnato negli Stati Uniti e in Italia disse che dal punto di vista della produttività intellettuale è meglio insegnare geometria parlando di segmenti piuttosto che di bastoncini; non c’è nulla di più produttivo di un insegnamento teorico serio, rigoroso e profondo.
Un personaggio come M.Crahay, a cui si deve la realizzazione in Belgio di uno dei primi se non del primo curriculum per competenze in Europa dice della competenza che non ha fondamento e che è simile alla caverna di Alì Babà; non posso tralasciare, infine, B.Rey che delle competenze cosiddette trasversali ha mostrato tutta la loro debolezza, se non proprio l’insostenibilità.
P.S. Le competenze senza conoscenze sono vuote; si è competenti perchè si sa e si sa ciò che viene appreso in materie umanistiche, scientifiche e professionali.

Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009). Continua a leggere

Sanzioni disciplinari agli studenti per salvare il prestigio dei docenti. Il Governo ci crede davvero

di Raimondo Giunta

Mai avrei pensato che per difendere l’autorevolezza degli insegnanti si dovesse pensare di aggravare nei confronti degli studenti indisciplinati e irrispettosi le sanzioni disciplinari esistenti. E’ facilmente comprensibile ai più che l’autorevolezza degli insegnanti è stata gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del lavoro, dall’erosione continua della loro libertà, dalla modestia del loro stipendio, dalle aggressioni dei genitori e dalle continue campagne di diffamazione dei media e non dall’indisciplina degli studenti.

Vediamole allora queste nuove sanzioni disciplinari!

1) Nelle scuole secondarie di I grado, se il disegno di legge del ministro Valditara sarà approvato definitivamente, sarà ripristinata la valutazione del comportamento, che dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta.
Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.

2) A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato. Continua a leggere

Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita. Continua a leggere

La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.

Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Continua a leggere

Far amare agli allievi il sapere che devono possedere


di Raimondo Giunta 

A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).

Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare. Continua a leggere

L’economia dell’istruzione non ha titolo per parlare dei saperi del curriculum

di Raimondo Giunta

Cos’è l’economia dell’istruzione

Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e spesso c’è anche la preoccupazione a non aumentarla.
Alcuni suoi cultori, tra le tante affermazioni che fanno, sostengono che non è più sostenibile l’idea che non si debba cambiare la composizione della spesa pubblica per l’istruzione e che questa debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi. Ma è davvero facile definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo?
Ci sono delle difficoltà e “queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”(Ugo Trivellato).

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.  Alle stesse conclusioni arriva E.  Somaini nel suo testo “Scuola e mercato”
L’autore tiene a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà, logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……..  anche possibile”.
Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione, che non abbia eccessive ambizioni, aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo, anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari, redditizi e vantaggiosi per tutti. Continua a leggere