Psicopatologia del voto

di Giovanni Fioravanti

C’era il professore di fisica che l’aveva interrogato sulla puleggia, ma lo studente aveva fatto scena muta e quindi era stato rimandato al posto con due. Eppure conosceva tutto sulle carrucole, ma non sapeva che puleggia e carrucola fossero la stessa cosa.
Da questo aneddoto molti anni fa, erano gli anni novanta del secolo scorso, prendeva l’avvio uno dei primi libri, pubblicati nel nostro paese, sulla valutazione scolastica del docimologo Gaetano Domenici. Docimologia è la scienza degli esami, termine introdotto dallo psicologo francese Henry Piéron, quando iniziò le sue prime ricerche sugli esami di licenza elementare nel lontano 1922.
Si  poneva così la questione della valutazione scolastica e della sua affidabilità sulla base della quale docenti e responsabili del governo della scuola avrebbero dovuto strutturare le loro decisioni.

È che la valutazione come consapevolezza dei processi d’apprendimento e dei loro risultati ha sempre faticato a trovare cittadinanza nello spirito delle nostre scuole e del nostro insegnamento, timorosi d’essere contaminati dal germe dell’aziendalismo, tanto che ancora troppi sono i docenti, e non solo, che guardano con sospetto, quando non con ostilità, ai dati forniti di anno in anno dai test Ocse Pisa e da quelli dell’ Invalsi.

In compenso resistono i voti, con i loro ingredienti di soggettività ed emotività, di giudizi morali, di effetti pigmalione che nulla c’entrano  con la misurazione degli apprendimenti e dei processi scolastici. I voti per cui, se sei anche un campione in fisica, ti abbasso il voto perché la tua condotta scolastica lascia a desiderare.
Ora il voto è imputato di produrre ansia e stress ed ogni discorso sulla validità e finalità delle valutazioni scolastiche passa in secondo piano.
Dalla scuola del merito all’ansia da prestazione degli studenti, al burnout degli insegnanti. La nostra scuola sempre più si avvia ad essere una maionese impazzita. Da un lato un ministro che ripristina lo spirito di competizione, dall’altro studenti e docenti che non reggono, che denunciano tutta la loro fragilità.

Studenti stressati dall’essere valutati,  insegnanti, sempre più immiseriti nel loro ruolo,  che, perdendo lo strumento del voto, temono di vedere ancora più svilita la loro funzione, dall’altra parte i genitori restii a rinunciare al voto che resta comunque l’indicatore prioritario per esercitare il controllo sull’andamento scolastico dei figli.

Psicopatologie, dunque, stati d’animo, stress dei protagonisti come se il teatro e il testo della commedia da mettere in scena ogni giorno poco contassero.
Dopo la pandemia da Covid il voto è divenuto l’imputato numero uno delle psicopatologie di tanti studenti, tale da indurre taluni istituti a relegarli esclusivamente al termine dell’anno scolastico.
Una sorta di tregua sul campo di battaglia che resta la scuola, una cura psicoterapica per consentire all’adolescenza di riprendersi dai traumi scolastici.

Curioso, perché nel frattempo l’antico ministero della pubblica istruzione ha perso l’aggettivo “pubblica” per recuperare il sostantivo “merito”.
Questo vezzo tutto italiano di affrontare i problemi del sistema scolastico a spizzichi e bocconi, tipo il liceo quadriennale sperimentale, ora la sospensione di voti e quadrimestri, lasciando inalterato tutto il resto come se ogni parte non fosse funzionale al tutto, come se si fosse potuto fare a meno di voti e quadrimestri o trimestri anche prima. E allora perché non si è provveduto per tempo? Perché alcuni sì ed altri no? Perché nascondere i voti per un intero anno scolastico per poi farli ricomparire al termine di esso? Farli ricomparire all’esame di stato?

Altroché psicopatologia del voto, qui siamo di fronte alla schizofrenia scolastica.
Preoccupa la cultura nelle cui mani è oggi posta la nostra scuola, dal ministro ai dirigenti, agli insegnanti.
Ma siete proprio onestamente convinti che siano i voti la vera causa del disagio di tanti studenti? Ci credete davvero? Le alte percentuali di abbandono e di dispersione scolastica non riescono a suggerirvi altro? È davvero preoccupante, perché significa che la nostra scuola non è nelle mani giuste.
Dovrebbe essere chiaro da anni che il problema dei voti è solo un aspetto, un sintomo di una crisi più vasta del nostro sistema formativo, con il suo seguito di modello docente prevalente, di  cattedre, di interrogazioni, pagelle ed esami ed altro ancora. Tutto coerente con la filosofia persistente dell’ organizzazione gentiliana del nostro sistema scolastico, che ci si ostina a voler mantenere, quando da alcuni addirittura non si pretenderebbe di ripristinarne l’antico splendore, a dispetto  dell’usura dei tempo.

Una struttura scolastica che ancora fa degli esami, anche questi di emanazione gentiliana, non solo il momento finale del processo, ma un fattore di condizionamento di tutto il processo, una motivazione che si sovrappone ad ogni altra motivazione, una gara che esalta il clima competitivo della vita scolastica e l’individualismo conseguente.
Un modello di insegnante che, essendo l’emanazione di questa struttura scolastica, finisce col subordinare alla funzione giudicatrice ogni altra funzione, collocando in essa la sostanziale motivazione dell’insegnamento, quando non la sua gratificazione.
Allora il disagio degli studenti è il sintomo di una contaminazione, di una infezione prodotta da una scuola disagiata e a sua volta disagiante, è l’espressione più eclatante della crisi della sua funzione, quella che dovrebbe essere oggi, rispetto ai bisogni formativi qui e ora, e non quella di ieri, di epoche che non ci sono più.




Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.




Non lo psicologo ma tanta psicologia per curare le patologie della scuola

di Giovanni Fioravanti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

Lo psicologo a scuola c’è ormai da tempo, con un eccesso di certificazioni per ogni disturbo specifico dell’apprendimento, per ogni bisogno educativo speciale.

È la scuola che non è mai ricorsa all’ausilio di uno psicologo per curarsi, eppure è da tempo che si segnalano vere e proprie malattie, crisi di identità, malesseri, sintomi di disadattamento e di sfinimento, addirittura pare che sia la scuola ad essere dannosa a se stessa. Ma non è attraverso il continuo ricorso alla clinica che la scuola può pensare di guarire dalle sue patologie.

La scuola più che di psicologi ha bisogno di psicologia a tutti i livelli.
Nelle professioni di relazione la competenza psicologica è fondamentale. Nella scuola questo vale dall’ultimo dei collaboratori scolastici fino al primo dei dirigenti.

Ma la relazione tra psicologia e scuola nel nostro paese non è mai stata delle più felici.
Ci aveva tentato, all’indomani della Liberazione, Carleton Washburne, pedagogista statunitense, a capo della ricostruzione della scuola italiana, mandando cinque insegnanti della scuola elementare all’Università di Ginevra perché apprendessero le teorie di Piaget. Ma il progetto naufragò perché il governo italiano di allora non aveva i soldi per pagare il viaggio e il soggiorno.


Il resto l’hanno fatto lo spiritualismo e il personalismo per anni imperanti nella scuola italiana, di fatto ostacolando una compiuta formazione psicologica dei suoi operatori.

David Paul Ausubel è stato uno psicologo statunitense, seguace delle teorie di Jean Piaget. Ha fornito contributi significativi nel campo della psicologia dell’educazione, delle scienze cognitive e della didattica delle discipline scientifiche.
Ha introdotto la differenza tra l’apprendimento di qualcosa che ci interessa e qualcosa di noioso che abbiamo acquisito in modo meccanico.
Nel primo caso parliamo di apprendimento profondo, di apprendimento significativo, di un apprendimento costruito e legato al bagaglio di conoscenze che già si possiedono, in cui l’individuo svolge un ruolo attivo ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
Come si può intuire la teoria di Ausubel è influenzata dal costruttivismo: per Ausubel la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Allora già qui si pone il problema. L’ apprendimento non è una questione di condotta, di disciplina, di attenzione passiva. L’apprendimento si costruisce, richiede una partecipazione attiva del soggetto, l’apprendimento significativo è un apprendimento relazionale.

In una scuola il cui perno organizzativo ancora ruota intorno alla disciplina e alla condotta è difficile concepire una didattica della relazione, della reciprocità.
La didattica che ancora prevale è quella condizionata dal comportamentismo, stimolo-risposta, da un “istruzionismo” meccanico e ripetitivo anziché da una prassi costruttivista della conoscenza.

E già questa è la prima patologia della scuola, non di chi la frequenta.

Attenzione, condotta e disciplina alimentano l’errore di Cartesio, segnalato dal neuroscienziato Antonio Damasio.
Classe, cattedra, banco, voti, rigidità degli orari impongono il divorzio tra intelligenza ed emozione. Tra intelletto ed emotività.
Del resto l’intelligenza richiesta dalla scuola non è mai quella del pensiero divergente, ma se la mente deve convergere sull’unica direzione della cattedra di quale intelligenza parliamo? Dunque altra patologia della nostra scuola.

Howard Gardner con le sue intelligenze multiple ha offerto alla scuola l’opportunità di curarsi dai suoi disturbi, ma dimostrazioni che si sia sottoposta a sedute terapeutiche di questo tipo non mi ritornano.

Dopo Gardner non è andata meglio neppure con Daniel Goleman e la sua “Emotional Intelligence”, in Italia appare nel ’97 con il titolo “L’intelligenza emotiva che cos’è, perché può renderci felici.”
Si tratta di un aspetto della nostra intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole sia le nostre emozioni che quelle altrui.
È appunto di quelle altrui che la scuola patologicamente non sa occuparsi. L’educazione emotiva non riguarda solo gli studenti, che si pretenderebbe di formare alla resilienza ed altre varie amenità, come certi progetti di legge prospettavano e forse prospettano ancora.
Chi si deve formare all’emotività in questo caso è l’istituzione. Ciò spiega l’incompetenza delle scuole di fronte alle difficoltà e al disagio di adolescenti e bambini.
È in gioco la relazione tra sistema e comportamenti disfunzionali degli studenti che richiedono non reazioni disciplinari ed emarginalizzanti, ma capacità empatiche che aiutino a ricercare risposte alternative. Pause di attenzione, tempi di decantazione, accompagnamento, cura, pluralità di opzioni, ma soprattutto accoglienza e capacità di riflessione, di ripensamento, flessibilità da parte del sistema stesso.

C’è un’altra patologia di cui soffre istituzionalmente la scuola che si chiama classe e classificazione.
In sostanza l’idionsicrasia conclamata nei confronti del sé. Una classe con troppi sé è una depressione o un’esplosione. A volte sono solo scintille isolate, che immediatamente vengono spente con l’espulsione diretta o indiretta, tale sempre da non turbare il normale follow up della programmazione.
Potremmo riassumere il concetto di sé come fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Elemento delicato soprattutto per un giovane, per il quale il concetto di sé è fortemente condizionato dagli adulti che entrano in relazione con lui.
Il concetto di sé non è qualcosa di statico, è dinamico perché in noi giocano le aspettative e le prospettive. Vale a dire i “Sé possibili”, i Sé orientati al futuro. I sé possibili sono quelli che alimentano il desiderio di raggiungere un certo obiettivo, di migliorare un certo stato, di crescere, di realizzarsi, sono la molla della motivazione ad agire, sono la spinta del sé agente.
La scuola mette in gioco i sé possibili e i sé futuri, molti troppo spesso rimangono sacrificati sul campo, ma di questo la scuola non si preoccupa perché neppure se ne accorge.

C’è poi la patologia dell’identità incerta di un luogo che non ha mai risolto il suo rapporto con i saperi e la conoscenza, limitandosi a fornirli in dosi già confezionate, prendere o lasciare, tipo i libri di testo.
Pertanto non si comprende se la scuola abbia una chiara consapevolezza della sua identità, schiacciata dalla schizofrenia mai risolta, dissociata tra “prendere” e “ap-prendere”. Come passare da un imparare passivo (prendere) ad un imparare attivo (ap-prendere), cos’è che fa dell’imparare un apprendimento?
È come ricevere le conoscenze senza sapere nulla delle conoscenze, della loro natura, come funzionano, come si riversano nella mente, come si combinano quando entrano nel nostro cervello e incontrano quelle che già possediamo. Si chiama meta-cognizione.
La Metacognizione per tradursi in apprendimento ha necessità che le cognizioni calde e fredde si incontrino: intelligenza, motivazione, consapevolezza di sé.
Ha bisogno di attivare quelle abilità mentali superiori che vanno oltre i “semplici” e scontati processi cognitivi primari come ad esempio: leggere, ricordare, calcolare, in pratica si tratta di stimolare il soggetto a controllare come lavora la sua mente.
La scuola soffre di identità mai risolte, di malessere e sfinimento prodotti dalla ripetitività, tali da renderla insofferente al cambiamento.
Il rapporto con il cambiamento è un grosso ostacolo per un’utenza che cambia, la cui peculiarità è il cambiamento, in quanto in via di sviluppo. In queste condizioni il conflitto è inevitabile, è inutile fingere di ignorarlo, porlo a tacere.

Ma poi cos’è lo sviluppo, cosa sarà mai? Ne siamo sempre usciti tutti.
E qui sta il più grande deficit psicologico della scuola che rende particolarmente fragili le relazioni con la sua utenza, dentro e fuori della scuola.
Allo sviluppo è connesso il cambio di stato, sviluppo non è solo crescita, non è soltanto passaggio da una fase all’altra della vita.
Sviluppo è cambiamento. E questo del cambiamento è un fattore importante per chi esercita una professione di relazione con chi deve cambiare per crescere, perché implica l’inaspettato, la sorpresa, come la fiducia.

Umberto Galimberti nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia definisce lo sviluppo come: “Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione per tre ordini di cause: maturazione intrinseca, influenza dellambiente e apprendimento che avviene assumendo una posizione attiva nei confronti dell’ambiente.”
Qui ci interessa sottolineare “la posizione attiva nei confronti dell’ambiente”, di tutti gli ambienti, compreso l’ambiente di apprendimento: la scuola e l’insegnamento.
È la posizione attiva nell’ambiente che consente di apprendere dall’ambiente, di organizzare le conoscenze e maturare le nostre funzioni superiori: ragionamento, memoria, attenzione, elaborazione delle informazioni.

Ce n’è abbastanza per mandare sul lettino dello psicanalista la scuola e il suo personale, compreso lo psicologo di cui il ministro vorrebbe rifornire le scuole.




Apprendimento permanente, per affrontare le sfide del XXI secolo

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.
La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.
La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte.

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.
Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari.

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.
La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.
La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.
Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro.
Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile.

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

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“Scuola media unica”: sessant’anni portati male

di Giovanni Fioravanti

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.
Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”.

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita.
Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.
Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.
Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti.
Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese.
C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.
Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.
Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio.
O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica.
E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.
Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.
La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.
Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni.

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.
E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?
Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.
Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.




Il Ministro dell’Umiliazione Nazionale

di Giovanni Fioravanti

In un celebre Fioretto riportato dai libri di lettura della mia infanzia, san Francesco spiega a frate Leone cosa sia la “perfetta letizia” alla quale la laica e pagana resilienza neppure assomiglia. La perfetta letizia è il piacere d’essere umiliato, vilipeso, una sorta di masochismo esaltato come ascesi. Non so se l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (diciamolo tra parentesi, già il merito puzza di umiliazione per quelli che merito non hanno) sia un terziario francescano, certo è a digiuno, per stare nell’ascesi, di pedagogia, per lo meno di quella non nera.

Di fronte all’uscita, rivelatrice, del Ministro mi è tornata immediatamente alla mente l’iniziativa del suo alleato di governo, onorevole Maurizio Lupi, che nella scorsa legislatura si fece promotore di un disegno di legge per introdurre nei programmi scolastici della Repubblica l’educazione alle competenze non cognitive.
Ecco che il ministro l’ha preso in parola, pensando bene di iniziare con l’educare all’umiliazione; competenza indubbiamente non cognitiva, con i lavori socialmente utili come conseguenza punitiva. Tenere pulita e in ordine l’aula dove lavori e studi è umiliante, perché è come se fosse una punizione. Bella educazione a proposito di educazione civica, materia reintrodotta al posto di Cittadinanza e Costituzione!

Comunque invito a riflettere i fautori della comunità educante, con cui si sono riempite nei tempi recenti circolari e pagine di buoni propositi, a considerare quanto può puzzare una comunità quando pretende di essere “educante”, solo questo dovrebbe consigliare molti a rivedere il proprio lessico e la propria riflessione pedagogica.

Certo, invece di perdersi a discutere di merito senza entrare nel merito, qualcuno un po’ più avveduto in materia di scuola e formazione avrebbe dovuto intuire immediatamente che dietro al Ministero dell’Istruzione e del Merito in realtà si celava il Ministero dell’Educazione Nazionale di antica memoria, ora uscito smaccatamente allo scoperto con le parole del suo ministro.

In pieno revival gentiliano il ministro propone il ritorno alla restaurazione dei valori della “gloriosa Destra che guidò l’Italia al Risorgimento”, rivalutando quindi l’autorità dello “Stato forte, concepito come realtà etica” anche nel campo formativo, da qui la missione  di cui il ministro ha deciso di farsi paladino di “correggere” e “raddrizzare” il legno storto della gioventù.

Humus è la radice latina di umiltà, di umiliazione, e humus è la terra, ciò che sta in basso, ciò che sta sotto i nostri piedi. Invece di levarti da terra, invece di farti crescere, ti abbatto, ti respingo a terra, annichilito, annullo la tua vita, la tua identità.
Come chiamare tutto ciò, se diventasse pedagogia della scuola, se non bullismo di Stato? L’umiltà praticata come obiettivo formativo è violenza ovunque essa si concretizzi, in famiglia come a scuola, perché è negazione di sé, è sfiducia in se stessi, pastoia culturale e psicologica che impedisce la crescita e la piena realizzazione della propria vita. “Meglio la morte con dignità che la vita con umiliazione”, non ricordo dove l’ho letto, ma mi è rimasto impresso.

L’umiltà sarà pure una virtù cristiana ma confligge con la dignità che è una virtù laica.

Ma l’umiliazione dal sen fuggita al ministro neppure avrebbe dovuto attraversare la mente di chi occupa il dicastero dell’istruzione, perché il lapsus freudiano è rivelatore di un modo di pensare, di una cultura, di pulsioni radicate.
Per troppo tempo la pratica dell’umiliazione ha accompagnato la storia scolastica di generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi. Quanti hanno affrontato l’esperienza di essere umiliati dai loro insegnanti e compagni di classe. Insegnanti che non hanno mai pensato a come ci si possa sentire male in quei momenti, danneggiando la fiducia nella scuola, fino a odiare l’insegnante e lo studio. E semmai si comportavano così, perché a loro volta era accaduto di essere stati umiliati a scuola.

Secondo diversi sondaggi, gli insegnanti scelgono di umiliare gli studenti per ottenere il controllo su di loro, per spaventare la classe e mantenere la disciplina. Alcuni insegnanti pensano che sia giusto umiliare gli studenti come rinforzo negativo. Altri ancora ritengono che gli studenti siano abituati a umiliarsi tra loro, soprattutto sui social, per cui dal cyber bullismo si passa al bullismo della cattedra.
D’altra parte anche recentemente le cronache non hanno mancato di riferire pratiche di umiliazione scolastica, dal professore che si rifiuta di ritirare il compito dello studente trans, a quello che si rivolge agli studenti di religione ebraica dicendo: ”voi nasoni dovete essere cremati”, per finire con la maestra elementare che, alla mamma che chiede alla sua piccola, sofferente di autismo, perché piange, risponde: “cosa glielo chiede a fare, tanto non sa parlare!”. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

A un ministro giurista non è richiesto di avere né una competenza pedagogica e neppure psicologica, ma di riflettere prima di parlare questo sì, specie relativamente a terreni particolarmente delicati e scivolosi.
Sapendo che mio figlio è nelle mani di un simile ministro io non esiterei a scendere in piazza e a chiederne le dimissioni, ma ho l’impressione che il paese soffra di una corruzione culturale che ormai non salva più nessuna forza politica.
La cosa maggiormente preoccupante è che, di fronte a chi pensa di azzerare le conquiste dell’educazione progressista, riproponendo la pedagogia correttiva, non vi sia un sussulto di dignità professionale di chi lavora nella scuola, a partire dagli insegnanti e dai dirigenti.
A meno che vi sia chi nelle iniziative del ministro scorga un recupero di ruolo e di autorità dopo decenni di caduta  del proprio prestigio sociale.
Allora significa che davvero questa scuola ha toccato il fondo, è giunta al punto di non ritorno. Significa aver abbandonato la scuola nelle mani di un personale sempre più squalificato  e frustrato, privo delle competenze indispensabili per poter affiancare i nostri giovani di ogni età nell’incontro con i saperi e nella loro crescita.
C’è di peggio. Di fronte a giovani riottosi all’autorità dei genitori e degli insegnanti, la ricetta populista è quella dell’umiliazione nazionale con il ritorno all’autorità di uno Stato educante.




Il volto gesuitico dei voti

di Giovanni Fioravanti

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione.
Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.
Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”
E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.
Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.
Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai Gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro.
Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?
È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.
La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.
No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.
Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.
La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi.
Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.
Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire.[1]

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.
Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.
Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare.

[1] “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017