Come cavalli all’abbeveratoio

di Giovanni Fioravanti

“C’è chi insegna/ guidando gli altri come cavalli/ passo per passo”.
Sono i versi con cui si apre la poesia di Danilo Dolci: Ciascuno cresce solo se sognato.
Mi sono ritrovato spesso a riflettere sul loro significato e ho incontrato un analogo riferimento negli scritti di Helen Parkhurst, quando osserva che insegnare è la stessa cosa che portare un cavallo all’abbeveratoio, non si può costringere il discente ad apprendere più di quanto lo stalliere possa costringere il cavallo a bere.
Ecco, la nostra scuola non sogna i suoi ragazzi e le sue ragazze, ma li conduce all’abbeveratoio del sapere. Non si pone dal punto di vista di ciascuno di loro, non si interroga sulla complessità della vita umana, sul futuro di quel ragazzo o di quella ragazza, sul suo destino di donna e di uomo, della sorpresa che potranno essere una volta cresciuti. Chi oserebbe pretendere che si possano educare i ragazzi senza conoscerli, scriveva Roger Dottrens.
Non so se coloro che sostengono la centralità della cattedra e dell’ora di lezione si siano mai posti dal punto di vista dei giovani che hanno di fronte, delle potenzialità che nascondono e riservano.

Lo studente come oggetto del loro lavoro, come terminale della loro voce.
Se si siano qualche volta posti il problema di pretendere di avere una parte veramente eccessiva nell’attività mentale degli alunni. Se accade che la mente di un insegnante sia sfiorata dall’idea che quella ragazza o quel ragazzo che gli stanno di fronte, di cui se mai disapprova le qualità, possa essere allo stato latente, la crisalide d’una donna o di un uomo che oltrepassa di molto le sue capacità mentali.

Ora, il cambiamento del punto di vista, diremmo meglio, del paradigma, sarebbe quello di considerare lo studente, la studentessa che ci stanno innanzi non tanto il terminale del nostro lavoro ma il protagonista del nostro lavoro, con la capacità di decentrarsi da noi a loro, non già per interpretarli o immaginarli, ma per accettarli per come sono e renderli i primi attori della sceneggiatura che ogni giorno prende corpo nell’aula, classe o laboratorio che sia.
Tutti conosciamo insegnanti che ogni mattina al momento dell’ingresso in aula si spogliano della loro personalità come fosse un soprabito, pur di non manifestare il loro aspetto umano a contatto con gli studenti, timorosi di perdere la loro autorità.

In realtà una scuola laboratorio vivo di conoscenza non sa cosa farsene di simili esibizioni di autorità fittizie. Autorità tutt’altro che educative, che anziché favorire l’ordine generano indisciplina, come è ampiamente dimostrato, e sono fatali al concetto di scuola come luogo sociale, come laboratorio di cultura.

L’acquisizione della cultura è una forma di esperienza, e come tale costituisce un elemento fondamentale della vita di cui la scuola dovrebbe interessarsi da vicino, ma ciò non accadrà mai fino a tanto che la scuola non sia riorganizzata in maniera che essa possa funzionare come una comunità, comunità la cui condizione essenziale è la libertà dell’individuo di svilupparsi. Una comunità di temerari del sapere come scriverebbe Nietzsche.
Ciò è possibile se la scuola è il luogo che fornisce i mezzi per convogliare le proprie energie per perseguire e organizzare lo studio in modo personale, a modo proprio, si potrebbe dire. Se accorda quell’autonomia mentale e morale che noi riteniamo indispensabile per la consapevolezza di sé e il senso di responsabilità nei confronti degli altri.
Per questo l’accento, più che sulle materie di studio, va posto sull’importanza che lo studente viva e si senta vivo, mentre è preso dal suo lavoro, e sul modo in cui agisce come membro della società.
Questo richiede che le materie di studio non siano proposte come ripartizioni a sé stanti, ma in connessione tra loro Storia, Ambiente, Scienza, Letteratura e Arte possono rendere il sapere un organismo vivo e fruttuoso, anziché un monotono e sterile processo.
È più facile apprendere contemporaneamente due materie legate reciprocamente da un vivo rapporto, che apprendere una materia presentata come cosa a sé stante, priva di qualsiasi rapporto con ogni altra cosa. Questa è la condizione per formare menti aperte anziché conformiste e ripetitive, se non addirittura pigre che si cullano nella convinzione di possedere il sapere, quando il sapere che possiedono è misero, parziale e spesso sterile.

Non ci siamo ancora resi conto che insegnare è la stessa cosa che portare un cavallo all’abbeveratoio come ci suggeriscono Danilo Dolci e Helen Parkhurst.
Purtroppo il nostro meccanismo scolastico è stato scrupolosamente congegnato non dal punto di vista dell’alunno, ma dell’insegnante e dell’insegnamento, come del resto ogni sistema che pretenda di essere educativo è pensato dal punto di vista dell’educatore anziché dell’educando.
Fino a quando non prenderemo a mano il nostro meccanismo scolastico per riorganizzarlo profondamente, affrancando le energie degli alunni dalla schiavitù dell’orario, delle materie e della classe essi non potranno mai fare esperienza delle loro autonomia e del fascino di percorrere le strade delle conoscenza come esperienza estrinsecamente legata alla loro vita.
Nel nostro sistema l’insegnante è ancora il primo attore della commedia, ad ogni cambio d’ora fa la sua entrata in scena.
Attore che, forse inconsciamente, è preso dallo sforzo di imporre la sua parte, il suo personaggio e le sue battute al pubblico discente, potremmo dire la sua personalità e le sue idee agli studenti.
Invertire le parti, significherebbe dare valore alla personalità dello studente, affidando all’insegnante il compito di tenere la regia degli apprendimenti senza interrompere la magia del flusso che accompagna ogni impegno cognitivo, come ci ha spiegato Mihály Csíkszentmihályi con la sua Flow theory.
Il vero compito della scuola, ci suggerisce il costruttivismo, non è né di incantare né incatenare l’alunno a idee preconcette, ma consentirgli di scoprire se stesso, i propri pensieri, le proprie potenzialità, di aiutarlo ad uscire dalla crisalide per meravigliarci.




Pensieri intorno ad uno smartphone cacciato di scuola

di Giovanni Fioravanti

Come volavo con la mente fuori dall’aula, oltre la finestra! Là, fuori, c’era la vita, quella vita che lì, dentro alla scuola, restava sospesa tra le mura della classe. Una vita che brulica, che vive. A scuola si va per imparare la vita, ma la vita resta sempre fuori, la vita che si impara a scuola non è quella viva, ma quella già morta da molto tempo.

A scuola bisogna astrarre la mente dalla vita, concentrarsi sulla sua rappresentazione senza alcuna distrazione, se no non si impara. Eppure è strano perché prima di mettere piede a scuola quello che ci siamo imparati ce l’ha insegnato lei direttamente, la vita, semmai senza tanti riguardi, ma da lei abbiamo appreso quello che siamo.
Si sa, alla scuola quello che siamo non gli va bene, la scuola deve formare, raddrizzare le storture, educare, condurci fuori da noi stessi assimilando il verbo docente, il verbo passivo delle parole ascoltate o lette per essere imparate, mandate a memoria, ritornate alle orecchie dell’insegnante così come sono state confezionate per la nostra mente, per la nostra età, che non siano indigeste e storte, che non vadano di traverso, ma ritte e perfette.

Perché la scuola è per carattere riservata, non ha mai amato confondersi con il succedersi degli avvenimenti di fuori, perché il sapere a scuola ha una sua aristocrazia, tramandata di generazione in generazione e più è tramandata più il sapere è nobilitato. Non esistono i quarti di sapere, qui la nobiltà è del casato a cui il sapere appartiene, ognuno con le sue arme, sono discipline, sono materie d’antiche discendenze, già dai Trivi e dai Quadrivi.

Spazio e tempo mutano ritmo e dimensione. Lo spazio è tra il banco e la cattedra, tra le entrate e le uscite, come la vita, anche spazio e tempo restano là fuori. Il tempo si scandisce per suoni di campanelle, per il succedersi di figure alla cattedra, le durate sono ore che, sebbene non siano le ore piene, fanno gli orari quotidiani, settimanali per riempire l’orario e il diario, congiunzione tra dies e orario.
Un tempo usava dire se non studi vai a lavorare, poi anche il lavoro è mancato e ora a non studiare si rimpingue la schiera dei Neet.
Non so come l’avrebbero interpretata gli antichi per il quale lo studio era ozio dai negotia, attività improduttiva, di regola per pochi privilegiati.
Ora non è più un privilegio ma un sortilegio, una sorta di divinazione, un’estrazione a sorte della vita, se la scuola che hai scelto di frequentare ti riserverà più sorprese che delusioni, se sarà un lungo parcheggio o una palestra d’addestramento, se il tuo cervello sarà spento o tenuto sveglio.

Pare che al privilegio sia subentrato il merito. Giusto, democratico! Se non fosse che al merito manca proprio il merito, cioè cosa sia merito e cosa non lo sia. Certo studiare a scuola è merito, mancherebbe altro, è merito dalla notte dei tempi, e dalla notte dei tempi a scuola il merito si misura con i voti. Ma attenzione, qui ci sta l’inganno, o l’equivoco. Perché non è vero che il merito riguarda lo studiare, il merito riguarda solo quello che possiamo definire il risultato dello studio, che a scuola si chiama profitto, il quale deve passare al vaglio delle interrogazioni, dei compiti in classe, o delle verifiche come oggi si usa dire, e degli esami. È il merito della riuscita, della produttività, come a quel merito si arriva conta poco, poco interessa, ciò che pragmaticamente conta è il risultato. E perché il risultato non sia truccato e, dunque, il merito immeritato, a scuola è severamente vietato suggerire e ancor più copiare.

E poi il merito è condotta. Da piccolo la parola condotta l’avevo sentita usare in casa mia solo a proposito del medico, che poi non era condotta, ma condotto, il medico condotto. La condotta era il contratto che i comuni stipulavano col medico, non era una questione di comportamento come a scuola, che del resto anche la condotta dell’alunno è come un contratto stipulato con la scuola a cui corrispondono compensi e sanzioni in voti e provvedimenti.

Ecco la questione del merito, sempre quella vecchia che non cambia con il mutare delle epoche, sempre di premi e di punizioni si tratta.
E allora accostare l’istruzione al merito è come riesumare la pratica della lode e del castigo, arnesi vecchi qualunque sia il restyling a cui si ricorre per rinverdirli, per non dare ascolto ai soliti vecchi sociologi radicali alla Pierre Bourdieu, per i quali la scuola favorirebbe i favoriti e sfavorirebbe gli sfavoriti.

Mentre ci si propone di inculcare le vecchie virtù se ne perdono per strada altre da sempre trascurate. Tipo imparare ad amare lo studio, perché bello, coinvolgente, interessante, indispensabile come l’aria che si respira. Sapersi assumere le proprie responsabilità, apprendere a comportarsi a prescindere dal merito, dai premi e dai castighi. Spogliarsi dalla cultura del peccato a cui deve far seguito l’espiazione, cultura tutta chiesastica che ancora intride le nostre scuole dei suoi miasmi.

La cultura dell’individualismo, a ciascuno il suo banco, la postazione da cui ognuno deve condurre la propria battaglia, ciascuno per sé, compagni ma estranei. Non la cooperazione ma la separazione, non il laboratorio ma l’obitorio in cui sono conservati ed esposti alla classe i cadaveri del sapere.
Quest’anno sono cinquant’anni dalla nascita dei decreti delegati della scuola, quelli con cui si pensava di dare alla scuola “il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica” (DPR del 31 maggio 1974 n. 416, art. 1).

Comunità che interagisce, attenzione bene ! non comunità che regredisce in se stessa.

Sarebbe il caso di farci su una riflessione, semmai chiedersi anche che fine ha fatto quella spinta al rinnovamento, da quale esaurimento e inversione di senso sia ora affetta, dove risieda il virus che la minaccia.
Nel frattempo, in attesa che di questo qualcuno si preoccupi, pare che ogni tipo di connessione sociale via smartphone sarà radicalmente bandita a partire dall’inizio del nuovo anno scolastico, perché a scuola interagire è sempre complesso, scrivevamo più sopra che la scuola, per carattere, è riservata!




La pantera identitaria

di Giovanni Fioravanti

Quando si incita ad affermare la propria identità, in sostanza si invita a sventolarla in faccia agli altri e questo certo non si può dire che sia un gesto di amicizia.

Pensare oggi di porre a coronamento del curricolo del primo ciclo di istruzione l’acquisizione della propria identità nazionale, come sembra nelle intenzioni dell’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito, ispirato dal pensiero della coppia Galli della Loggia, Loredana Perla, rischia di mettere in serio pericolo l’impellente necessità di formare le nuove generazioni a viversi come cittadini di un mondo in cui difendere la convivenza comune e il proprio comune ambiente di vita. Significa non aver appreso la lezione della storia che è apprendimento della “grammatica della civiltà”, la propria e quella degli altri, per non ricadere nelle barbarie del passato.

Non ci sono distinguo che tengano, pretestuose denunce sull’ignoranza della storia e della geografia del proprio paese da parte di studenti e studentesse formati agli apprendimenti e alle competenze prescritte dalle attuali Indicazioni curricolari nazionali per le scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione. Se tali carenze ci sono, le cause vanno ricercate altrove, non tanto perché non sia chiaro a cosa debba servire la scuola pubblica, ma, se mai, perché non è chiaro cosa e come la scuola pubblica debba essere.

Agitare l’identità come elemento di compattazione di un popolo nel terzo millennio del mondo dovrebbe rendere avvertiti dei pericoli che oggi comporta, rispetto ai vantaggi che si presume possano derivare.
Lo spirito patriottico dei fautori dell’insegnamento dell’identità, ci trascina tutti due secoli addietro, a quella storia risorgimentale incompiuta di un’Italia fatta che ora doveva preoccuparsi di fare gli Italiani e a questo avrebbe dovuto provvedere l’istituzione della scuola pubblica con la legge di Gabrio Casati. Ha ragione Galli della Loggia a scrivere che la scuola pubblica non può sfuggire a questo destino iscritto nella sua origine.[1]

Ma il problema è, appunto, ancora di quali italiani vogliamo formare, siamo sempre lì, ieri come oggi.
Si ha l’impressione di assistere ai corsi e ai ricorsi storici. Per Croce e Gentile il Risorgimento fu interrotto all’epoca dell’unificazione politica. Il fascismo rappresentava la prosecuzione del Risorgimento e Benito Mussolini la speranza  nel suo possibile compimento. Il primo dovette ricredersi, il secondo rimase radicato nella sua fiducia nella storia come autocoscienza di un popolo, nello specifico del popolo italiano. A questo scopo mise a disposizione del fascismo la sua riforma della scuola con la religione, filosofia del popolo, a coronamento dell’insegnamento delle medie e delle elementari.

Ora i novelli epigoni, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, propongono non più la religione come agglutinante disciplinare della scuola di base ma il canone cultural-identitario italiano, attraverso la narrazione, il racconto della storia e della geografia del paese.[2] Non solo,  rilanciano i best seller risorgimentali, Cuore e Le avventure di Pinocchio come modelli di educazione nazionale di rara chiarezza[3], la cui ripresa e diffusione scolastica è necessaria per combattere la deriva scolastico-educativa che ha le sue origini negli anni ‘60[4].

In definitiva Insegnare l’Italia è la copertura per tornare al passato, l’identità da inculcare è sempre quella della scuola gentiliana violata dalla scuola media unica, dall’abolizione del latino e dalla pedagogia progressista, è il Risorgimento che tradito dal fascismo si è realizzato nella Resistenza partigiana e l’autocoscienza generata dalla storia ha preso un’altra direzione anche sul piano dei valori educativi come la consapevolezza di appartenere all’avventura umana.

Storia e memoria vanno insieme, l’una sorregge l’altra e allora succede che non è possibile leggere la storia senza la memoria del prima e del dopo e cioè senza chiedersi che significato assume la parola identità oggi, a un quarto di secolo dall’inizio del millennio.

Nel 2005 Amin Maalouf ha scritto L’identità[5], convinto che negli anni in avvenire il problema dell’identità avrebbe indebolito il dibattito intellettuale e avvelenato la Storia. Una proposta per cercare di dominare la pantera identitaria prima che ci divori.
Amin Maalouf ci ricorda che quando il 9 novembre del 1989 è caduto il muro di Berlino molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un’epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Ma dodici anni dopo, l’11 settembre 2001 questa speranza è svanita insieme al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York.

Più nulla è stato come prima. Maalouf lo spiega sostenendo che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari. Se il confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva però un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente, al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L’identità non è oggetto di dibattito, è un a priori, non deriva da una scelta, un’identità si scopre, si assume, si proclama. Si afferma ad alta voce come appartenenza, come sfida di solito all’alterità, al non-io reale o immaginario che sia.

E, dunque, rilanciare il tema dell’identità significa lisciare il pelo alla pantera identitaria, camminare in equilibrio sul filo sottile che corre fra la diversità del mondo e l’esigenza di universalità.
L’opposto di quello che si propone l’insegnamento della storia prescritto dalle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo di istruzione: “Nei tempi più recenti il passato e, in particolare, i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia venga usata strumentalmente, in modo improprio. […] Occorre, dunque, aggiornare gli argomenti di studio, adeguandoli alle nuove prospettive, facendo sì che la storia nelle sue varie dimensioni – mondiale, europea, italiana e locale – si presenti come un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale…[6]

È evidente che andare a intaccare questa impostazione costituirebbe una precisa scelta ideologica, come del resto non nega Galli della Loggia il quale sostiene che nell’ambito dell’istruzione e delle scelte didattiche è impossibile la neutralità, l’assenza di una prospettiva ideologico-culturale.[7]

Attenzione, perché in questo modo si inverte, si altera la prospettiva delle attuali Indicazioni nazionali, vale a dire del nostro sistema scolastico nel suo complesso, non più la persona nella sua specificità come punto di partenza del processo di insegnamento-apprendimento ma la cultura di appartenenza come identità da acquisire, un’inversione netta da soggetto a oggetto dell’istruzione.

[1] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37
[2] idem. p.79
[3] idem. p. 100
[4] idem. p. 110
[5] Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005
[6] Annali della Pubblica Istruzione, Numero Speciale, 2012
[7] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37




Revisione Indicazioni Nazionali: la condanna del restyling

di Giovanni Fioravanti

Non è una buona notizia l’intenzione annunciata dal ministro Valditara di procedere a un restyling delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione.

Pare che, dopo l’epoca dei Programmi, il restyling sia la condanna a cui sono destinate le Indicazioni nazionali. Già nel 2007 il cacciavite del ministro Fioroni aveva provveduto a traghettare le Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati del 2004 di Bertagna e Victor Hoz, a firma della ministra Moratti, da un progetto di scuola a domanda a una scuola impegnata a partire dai bisogni di ciascuno, licenziate poi definitivamente nel 2012 dal ministro Profumo.

Al ministro dell’Istruzione e del Merito però non vanno bene, sembra che gli stiano strette.
Dice che a scuola si studia troppo, soprattutto i bambini studiano roba inutile come ad esempio i dinosauri. Sostiene che dobbiamo dare più spazio ai nostri valori, quelli del Paese e dell’Occidente, che la scuola deve assicurare una prospettiva di inserimento lavorativo.
Se poi si prende in mano il programma elettorale delle destre che formano l’attuale governo dovremmo evitare di stupirci, perché al primo punto del capitolo scuola, che è al quattordicesimo posto su quindici punti programmatici, sta scritto: “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”.

E poiché il ruolo delle Indicazioni nazionali è quello di comunicare l’idea di scuola che ha questo paese, l’attuale governo, dal paventato pericolo della “sostituzione etnica” è passato a procedere sempre più speditamente verso la “sostituzione culturale”, a partire dalla scuola, promuovendo Dio, patria, famiglia, che sarebbero gli autentici valori dell’Occidente secondo il ministro dell’istruzione e del merito e i suoi compagni.
Tutto questo, quando, trascorsi poco più di due lustri dal 2012, il paese è ben lontano dal possedere una propria idea di scuola ed è, senza alcun dubbio, ancora estraneo circa quella espressa in premessa alle Indicazioni del 2012.

Neppure si è accorto, e con lui anche buona parte di chi lavora nella scuola, ad esempio, del passaggio dai programmi scolastici, retaggio della riforma Gentile, alle Indicazioni.
Non so quanti insegnanti oggi saprebbero spiegare perché lo stato fornisce Indicazioni nazionali e non più programmi scolastici. Forse sarebbe una domanda da porre anche all’editoria scolastica.

La prima risposta sta nel DPR n. 275 dell’8 marzo 1999 che sancisce l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ribadita dall’art. 117 del Titolo V della Costituzione che al II° comma recita: Sono materia di legislazione concorrente quelle relative […] all’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Salva l’autonoma delle scuole che si esercita attraverso gli strumenti dell’offerta formativa, dell’autonomia didattica, dell’autonomia organizzativa, dell’autonomia di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo, con la costituzione di reti di scuole.
Nessun programma, ma curricoli di cui sono titolari e responsabili le autonomie scolastiche attraverso quell’organo autonomo di professionisti che è il Collegio dei docenti.

Non spetta dunque al ministro stabilire cosa sia utile o non utile studiare a scuola, perché l’autonomia scolastica è lo strumento che integra la scuola al proprio territorio e permette di partire dai bisogni della persona, come affermano appunto le Indicazioni che il ministro vorrebbe rivedere.
Lì sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità […]. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

Non c’è dunque commissione, neppure di pedagogisti prestigiosi, che possa sostituirsi alla persona che apprende e al docente che esercita la sua professione.§
A meno che le intenzioni del ministro siano ben altre, ad esempio avere come mira di colpire l’autonomia scolastica, che lascia troppa libertà alle scuole, tornare alla piramide verticistica che sempre ha dominato la gestione dell’istruzione nel paese, per cui il nuovo non ha mai potuto farsi strada ostacolato dalla burocrazia ministeriale e dalla cultura politica dei ministri che si sono avvicendati di volta in volta alla guida del dicastero di viale Trastevere.

E se pensiamo alle esternazioni del ministro a proposito dei fatti relativi alla scuola di Pioltello, oltre all’autonomia, l’inclusione scolastica potrebbe essere l’altra vittima del restyling che ha in mente.
Del resto il sospetto non può che sorgere a leggere i candidati alla commissione di esperti che nutre di nominare.
Intanto il maître a penser, elogiatore delle predelle, professor Ernesto Galli della Loggia reduce dall’ultima esternazione sulla necessità di abbattere idoli e miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti, a suo dire oggetto della “scuola menzogna” che copre lo scandalo – caso unico al mondo – scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di scrivere che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.

Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.
La presidente in pectore di questa commissione, professoressa Loredana Perla, ha scritto con il professore Insegnare Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, uscito nelle librerie a settembre dello scorso anno. Gli autori sostengono che la scuola per essere pedagogicamente efficace, deve insegnare ai bambini e agli adolescenti l’Italia, la sua storia, la sua geografia, la sua cultura. In una parola, la sua identità.
Mi sembra che il restyling che ha in mente il ministro sia, almeno da questo punto di vista abbastanza chiaro, essendo pienamente allineato con le politiche del made in Italy di questo governo.
Dietro alle attuali Indicazioni nazionali c’è il pensiero del grande Edgar Morin, la visione di un nuovo umanesimo alle soglie del terzo millennio, come promessa di rinascita della scuola che attende ancora di essere compiuta, ma ora, se queste sono le intenzioni del ministro, siamo alla vigilia della sua distruzione.




A scuola senza bussola

di Giovanni FioravantiStefanel

Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a  generare mostri, se non ci riscuotiamo.
Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci!

Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.

E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.
Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.

Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.
A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.
Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.

Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per  rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.
Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali.
Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione alla meschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.

Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale.
Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.
Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.
Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.

Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà.
La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.
Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.

Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.

La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe.
Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.
Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.

Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.
Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione.

La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.
Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni,  segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.




Dell’educazione, modernità di Lambruschini

di Giovanni Fioravanti

L’educabilità è quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità. Per Louis Meylan, autore di Educazione Umanistica, pubblicato nel 1951 da La Nuova Italia, l’educazione può definirsi come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.
Se questa è l’idea di educazione che si intende perseguire, l’educazione non sarà mai diversa dal modo di pensare di chi l’ha concepita. È un’idea che ha sfidato i secoli fino a approdare tra noi sostanzialmente immutata.

Così capita di leggere una pagina scritta dall’abate Lambruschini verso la seconda metà dell’Ottocento: L’educazione del nostro tempo: Mancanza di principi direttivi, e provare la sensazione che potrebbe essere stata scritta oggi, non tanto e non solo da autori come il generale del Mondo al contrario.

La riporto senza usare né virgolette né corsivo per via del restyling che ho dovuto operare relativamente al lessico datato, che però nulla ha alterato del suo autentico contenuto, ma anche per il sottile piacere che provo all’idea del lettore che nello scorrere queste righe potrebbe essere inquietato dal dubbio circa quanto di queste parole giunge dal passato e quante viene dal presente.

Quello che più merita di essere notato e che ostacola una retta educazione è la mancanza di principi direttivi, l’incertezza nella quale gli educatori, insegnanti, adulti, genitori, ondeggiano nei confronti dei giovani, manca loro la coscienza sicura di quello che fanno e di quello che dicono. Di fronte a un comportamento un poco ribelle, a un caso straordinario sono colti alla sprovvista, non sanno cosa fare. Cedono all’indocilità invece di imporre la sottomissione, favoriscono la scioperataggine e la mala grazia invece di pretendere applicazione e maniere composte. Cosicché gli adulti si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.

Oggi nella casa i figli conversano continuamente con i loro genitori e parenti, ricevono carezze e lodi, insegnamenti, ammonizioni da voci e mani che sono loro care.
Ma i figlioli che una volta obbedivano e tremavano innanzi ai genitori, oggi non tremano e non obbediscono, prima erano sottomessi nella famiglia, ora sono padroni. Prima non aprivano bocca, fissavano gli occhi a terra, stavano immobili e composti, ora chiacchierano senza posa, urlano, s’abbracciano, interrompono il discoro altrui, non accettano la correzione se non è addolcita da parole soavi, quasi direi da scuse.

E (mi costa dirlo, ma lo devo dire) le madri hanno in ciò la colpa maggiore. Gustano la dolcezza, le delizie dell’amore materno e ne sono inebriate, si dolgono talvolta, si sdegnano anche per le molestie arrecate dalla baldanza dei loro figlioli, dal loro essere indocili, ma questi stessi sdegni sono segno della loro debolezza.
Quando i figlioli sono tranquilli, allora si abbandonano alla tenerezza, li guardano con ammirazione come idoli, li adorano, prevengono i loro desideri, cedono volonterose a tutte o quasi tutte le loro voglie.
Ma io noto ora l’amore cieco come pernicioso, l’amore debole, l’amore che in luogo di governare si sottomette, l’amore che rende i figlioli arroganti, inquieti, li rende per di più insofferenti d’ogni più lieve disagio.

Ora questa forza di negare ai fanciulli certe delicatezze, di avvezzarli per tempo ad una vita sobria e un poco dura, è rarità miracolosa tra noi.
La nostra gioventù è svagata, non sa piegarsi all’applicazione profonda e costante, a questa svagatezza e svogliatezza, a questo leggero svolazzare dello spirito sopra le più gravi cose conduce in primo luogo l’instabilità del loro animo, la vivacità della loro immaginazione eccitati oggi più di prima dalla maggior confidenza che si dà loro e dal loro vivere più libero e più allegro.[1]

Ne emerge una visione dell’educazione come strumento di direzione e di subordinazione nei confronti di chi ancora non è adulto, di chi è immaturo e ancora sta crescendo. Un’idea di sottomissione del minor al major come condizione dell’età evolutiva.
Ora che si pensi che l’educazione è fallita, e con essa il ruolo degli adulti e delle istituzioni educative, perché non è più quella di ieri, fa sorgere il dubbio che il fallimento non sia dell’educazione ma della società e della sua cultura quando questa convinzione si fa diffusa fino a divenire un luogo comune.

Perché, se tutto per essere corretto e giusto dovesse corrispondere al passato, significherebbe che si vive una vita disancorata, incapaci di riadattarsi ai continui cambiamenti culturali, sociali  e ambientali. Significherebbe essere inanimati, perché la distinzione più notevole tra gli esseri viventi e gli esseri inanimati consiste proprio nel fatto che i primi si mantengono rinnovandosi.

Ma la cecità e l’arroganza culturale che fanno ritenere che educare significhi forgiare l’altro a propria immagine e somiglianza sono di per sé già ciò che impedisce ogni possibile rinnovamento. Portano a non considerare che l’educazione è partecipazione, è coinvolgimento, è relazione, è comunicazione per divenire attivi protagonisti  della vita sociale della propria specie, per dirla con Dewey.

Relazione e comunicazione stanno a significare che venendo al mondo non si è ingranaggi di una macchina e neppure animali da addestrare, ma vite che assumono significato in relazione agli altri, all’ambiente sociale, non attraverso indottrinamenti ma attraverso la comunicazione, che significa possedere insieme, appunto in comune.
Ora il rischio è essere espressione di una generazione di adulti che non sa porre in “relazione” con il proprio ambiente sociale e culturale le giovani generazioni, proprio perché non sa “comunicare”, cioè non è capace di condividere, di porre in comune su un piano di parità tra chi cresce e chi, in quanto adulto, è già cresciuto.

C’è un’autorità che presiede alla formazione di ciascun essere umano che è il processo della vita nel suo insieme, ed è questo processo ad essere educativo. La vera natura della vita è quella di lottare per continuare ad essere.[2] E l’educazione serve ad apprendere come lottare per essere.
Relazione e comunicazione dovrebbero, dunque,  esprimersi nella naturale empatia degli adulti nei confronti dell’infanzia e dei giovani.
La solidarietà e la comprensione verso età che sono state anche le nostre, verso quelle condizioni, quegli stati, che a nostra volta abbiamo vissuto. Questa consapevolezza dovrebbe portare a stare a fianco dei giovani, senza sostituirsi a loro, di modo che ciascuno trovi le vie d’uscita e le soluzioni che gli confanno, come anche a noi è capitato. Essere vicini significa anche essere sempre disposti a dare una mano se richiesti, a porsi in relazione per comunicare, per stare in comunione.

[1] R. Lambruschini, Della Educazione e Della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
[2] J. Dewey, Democrazia e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 12




A proposito di integrazione, quando il made in Italy è indigesto

di Giovanni Fioravanti

Ecco che Galli Della Loggia risale in cattedra, quella con la predella, per dichiarare che è ora di abbattere gli idoli e i loro miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti.

È giunto il momento di riporre in soffitta la scuola inclusiva e sottrarre alle ragnatele dell’abbandono, spolverata e lustrata, la scuola meritocratica e competitiva.
Sa di parlare all’orecchio di un governo sensibile alle sue sirene e certamente al repertorio suonato dai pifferai, dalla Mastrocola al Gruppo di Firenze, della scuola oltraggiata.

Ora siamo alla “scuola menzogna” che copre lo scandalo — caso unico al mondo —  scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di dire che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.

Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.

Mi sembra che ora il professor Galli Della Loggia faccia la parte dell’asino che si affaccia alla finestra della classe, quell’asino che Andrea Canevaro, fortemente indiziato per la diffusione del mito dell’inclusione, considera una grossa fortuna per un educatore, come meraviglioso strumento didattico. Noi però, contrariamente a Canevaro, sappiamo cosa pensa l’asino di quello che vede.

La cosa che inquieta in questo paese è che non c’è uno, dico uno, intellettuale a Destra o a Sinistra, che sia in grado di usare il verbo “innovare” o il sostantivo “innovazione” a proposito della scuoia e dell’istruzione. Non c’è una visione di prospettiva, una dimensione di processo, un’idea che sia un’idea per innovare, migliorare quello che questa nostra scuola si è conquistata con l’impegno professionale di tanti insegnanti e educatori, come l’inclusione, che certo non è perfetta, ma non ha bisogno di essere cancellata, piuttosto necessita di idee e risorse per progredire.

Invece no, il solone di turno, che nulla sa di scuola perché non la vive quotidianamente, perché l’avversa culturalmente, trova che anziché curare è meglio liberarsi dell’arto infetto..
E allora ci sono quelli che sottoscrivono Manifesti per improbabili Nuove Scuole, quelli che  la scuola non educa più, che, alla faccia del patriarcato, lamentano che leducazione ha smesso di essere la proiezione della funzione del padre, vedi Adolfo Scotto di Luzio.
Altri, come Susanna Tamaro, che incolpano Rousseau di tutti i mali di cui soffre l’educazione e vagheggiano l’uso del kyosaku, il bastone dei maestri Zen, da impiegare sui ragazzi selvaggi del nostro tempo.

Non so se ci rendiamo conto di sprofondare sempre più nella palude dei pregiudizi culturali che si fanno pensiero diffuso nell’anestesia mentale collettiva che insidia questo paese.
Il problema è che questi asini che infilano il muso dalle finestre nelle nostre aule sono talmente sicuri di se stessi che neppure si prendono la briga di studiare, perché tanto una volta sì che si studiava, quando andavano a scuola loro, e tanto a loro è bastato.

Se avessero letto ad esempio documenti come Nell’Educazione un tesoro, quello della Commissione UNESCO presieduta nel 1996 da Jacques Delors, ignorato nell’occasione della sua morte, a partire dal nostro ministro dell’Istruzione e del Merito.
In quel documento, di circa trent’anni fa, vengono indicati i  quattro pilastri su cui dovrebbe poggiare l’educazione del ventunesimo secolo: Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare a vivere insieme, Imparare ad essere.

Ora non dovrei essere io a spiegare al ministro dell’Istruzione e del Merito che se Imparare a vivere insieme e Imparare ad essere fossero praticati nelle nostre scuole, costituissero i pilastri portanti dei curricoli, non ci sarebbe bisogno né di ripristinare un arnese arrugginito come il merito né di inventarsi educazioni alla relazione. Non dovrei essere io neppure a spiegare al professor Galli Della Loggia che considerare l’Inclusione un mito da escludere dalle nostre aule fa palesemente a pugni con i due pilastri appena citati sopra.
E visto che sono sulla strada di utili suggerimenti inviterei a leggere l’ultimo documento dell’UNESCO, giusto per uscire dal campanilismo patriottico. È del 2021 e porta come titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme.

Reimmaginare, cioè immaginare di nuovo, non sognare il passato. Il passato, è ovvio, che non si può immaginare, è il futuro che si immagina, capisco che per il professor Galli Della Loggia e quanti come lui il futuro sia difficile da coniugare.
Però l’UNESCO l’ha coniugato anche per loro: Le scuole dovrebbero essere luoghi educativi protetti per linclusione, lequità e il benessere individuale e collettivo […]. Le scuole devono essere luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove.
Non si può equivocare: “luoghi educativi protetti per l’inclusione”, “luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove”, Nietzsche scriverebbe che le scuole sono i luoghi dei “temerari del sapere”.

Fortunatamente l’inclusione è una realtà radicata e destinata a crescere, perché noi vogliamo vivere  e vogliamo che le generazioni in avvenire vivano in un mondo in cui i bambini che si perdono nel bosco appartengano soltanto al mondo delle favole.