I limiti della “scuola in casa”

di Simonetta Fasoli

L’esperienza della Dad (l’ormai noto acronimo della didattica a distanza) è come sappiamo nata da un’inevitabile scelta nella fase più drammatica dell’epidemia.
Molto è stato detto sulle possibilità che ha in ogni caso offerto e sugli aspetti problematici che ha fatto emergere. Sottraendomi in questa sede ad una disamina degli uni e delle altre, che esula dal fuoco tematico di questo contributo, mi sembra pertinente soffermarmi su uno dei suoi “effetti collaterali” che merita un supplemento di riflessione. Infatti, lo sviluppo delle lezioni a distanza, segnando in parallelo l’implosione della “scuola materiale” ben fissa nell’immaginario e nell’esperienza di noi tutti, ha dato vita ad una parallela diffusione di una “scuola domestica” del tutto inedita.
Insomma, è scomparso lo “spazio pubblico” che è uno dei tratti fondanti della scuola come istituzione storicamente determinata. Al suo posto, un’inedita affermazione degli spazi domestici come luoghi privati, perfino intimi, diventati lo scenario abituale dei processi di insegnamento-apprendimento. Le “aule”, di cui attualmente tanto si discute nella prospettiva dell’imminente ripresa, hanno preso i connotati degli ambienti domestici. Potremmo dire che questo fenomeno ha dato corpo a un vero e proprio processo di “privatizzazione” della scuola: su questo, ognuno potrà svolgere le proprie considerazioni, in coerenza con posizioni politico-culturali e personali convincimenti.
Al di là della prevedibile eterogeneità delle opinioni, resta il fatto oggettivo di una scuola che, arretrata dal suo “naturale” spazio pubblico, si è diffusa prendendo stabile dimora nelle case degli alunni e degli studenti. È plausibile pensare che la pervasività del fenomeno, e dei processi anche simbolici che ha innescato, possa essere all’origine di un incremento delle richieste di “homeschooling” che si va rilevando nel nostro Paese.
Opzione, come sappiamo, prevista dal nostro sistema giuridico, ma finora praticata in modo del tutto residuale; diversamente da quanto accade, per esempio, in altre aree di lingua anglosassone.

Proprio per l’emergente rilevanza del fenomeno, anche dal punto di vista quantitativo, converrà interrogarsi sui limiti e sulle problematicità in cui incorre. Partirei dal più largo e comprensivo ambito educativo, per poi fare qualche affondo sulle dimensioni della funzione di “istruzione” cui assolve la scuola per mandato costituzionale. Riguardo al primo punto, osservo che la scuola, nella sua materialità, è il primo luogo pubblico con cui entrano stabilmente in contatto i bambini e le bambine, fin dalla Scuola dell’infanzia. In questo spazio protetto e aperto al tempo stesso fanno diretta esperienza di un “altrove” rispetto alle pareti domestiche. Un altrove che ben presto assume i contorni di stimoli, routines e presenze che danno concretezza alle azioni di “cura” e di “intenzionalità educativa” predisposte dagli insegnanti.
Questa è la palestra di vita che fa parlare fondatamente di un “ambiente di apprendimento”. Qui maturano le esperienze di esplorazione percettiva, di relazionalità e di primo distanziamento dalle emozioni senza cui non si dà processo di crescita e di conoscenza.
Alla luce di queste sintetiche considerazioni, è legittimo chiedersi cosa comporta in termini educativi il permanere in una condizione di apprendimento “familiare”, per quanto accorto e sensibile alle esigenze dei piccoli. È opportuno interrogarsi sulle limitazioni che inevitabilmente gravano in un contesto di apprendimento integralmente privatizzato. E viene da chiedersi di che natura potrà essere l’inevitabile impatto con il mondo “là fuori”, se l’ingresso nei suoi contesti, formali e non formali, risulta essere procrastinato.
Superfluo sottolineare, da questo punto di vista, la difficoltà a sviluppare le competenze relazionali connesse al senso civico e alle forme più elementari della convivenza. C’è da temere che questa tendenza, magari animata dalle migliori intenzioni, di trattenere nel “nido” i piccoli possa mostrare nel tempo le sue insidie, favorendo il formarsi di personalità narcisistiche, caratterizzate da atteggiamenti auto-riferiti e, al limite, antisociali.
Non meno irto di effetti problematici il percorso di un bambino o una bambina, gestito in ambiente domestico, dal punto di vista dello sviluppo degli apprendimenti.
La prima forte riserva nasce considerando le specifiche competenze che sono in grado di mettere in campo i genitori. Non si discute che possano avere il prezioso bagaglio di competenze acquisito, come si dice, nella “scuola della vita”…ma come negare che, da sola, non basta? Non basta, se non è supportata dalle necessarie conoscenze scientifiche e psicopedagogiche sul delicato e complesso processo di sviluppo. Si dirà che a volte neanche la competenza professionale è sufficiente a garantire rispetto ad approcci non efficaci o addirittura impropri…Vero: mi viene da dire, figuriamoci senza!

Resta da considerare brevemente il nodo problematico costituito dall’assommare in una sola figura la funzione genitoriale e quella docente nei confronti dell’istruzione impartita ai propri figli. Un “corto circuito” di cui non sfuggono le molteplici implicazioni. L’apprendimento è processo complesso, nel quale elementi propriamente cognitivi e dimensioni emotivo-relazionali sono inestricabilmente connessi. Altrettanto, e forse più complesso il rapporto genitore-figlio, in cui più intensamente giocano fattori che sono stati ampiamente studiati dalle psicologie dinamiche di diverse scuole. Per questo, è quanto mai opportuno separare nettamente la figura del genitore, nella sua insostituibile funzione educativa, da quella dell’insegnante. La presenza di un “testimone empatico”, dotato di specifiche conoscenze scientifiche, è quella che più efficacemente accompagna e sostiene il soggetto in crescita nell’appassionante avventura dell’apprendimento.
E, da ultimo ma non in ordine di importanza, il ruolo fondamentale svolto dal gruppo dei pari, che nella scuola è istituzionalmente predisposto. Come sappiamo dalle più accreditate teorie dello sviluppo e dell’apprendimento, il gruppo dei pari è un prezioso referente per esplorare percezioni e conoscenze. È insieme ai pari che si co-costruisce il processo di conoscenza, si negoziano significati, si progettano azioni. I pari nel gruppo di apprendimento sono potenti vettori di nuove acquisizioni, non paragonabili ai pur preziosi “compagni di gioco” che si invitano nello spazio privato domestico.

A scuola è messo in scena il gioco sempre nuovo e aperto della conoscenza: in uno spazio pubblico, allestito intenzionalmente dai docenti e arricchito dalla creatività imprevedibile dei bambini e delle bambine. È l’anticipazione del grande gioco sociale che in modi sempre più articolati e complessi impegnerà gli adulti che saranno diventati. Perché privarli di tutto questo?




Tempo pieno, un modello pedagogico da ritrovare

di Simonetta Fasoli

Vale la pena, di fronte all’emergere di proposte che fanno riferimento al Tempo pieno, sollecitandone l’estensione generalizzata, provare a portare qualche elemento di chiarezza e qualche utile “distinguo”: questo proprio per incanalare le prospettive che si aprono in una direzione promettente ed efficace.
Non starò a fare una puntuale ricostruzione dei modi con cui si è storicamente affermato il Tempo pieno, limitandomi ai suoi tratti costitutivi, pur nella varietà dei contesti in cui si è andato affermando.

1) Il Tempo pieno non è nato come risposta di tipo assistenziale, basata sul mero allungamento della giornata scolastica, in corrispondenza delle esigenze lavorative dell’Italia nella sua fase economicamente espansiva (e socialmente problematica).

2) Esso ha rappresentato, piuttosto, il primo vero tentativo di affrontare gli effetti dell’affermazione di una scuola a larga base sociale, che ha segnato in parallelo l’evoluzione strutturale del Paese.

3) La scolarizzazione che ne è seguita ha fatto emergere fasce di scolarità per le quali il sistema di istruzione/educazione, ancora largamente gentiliano per impostazione culturale e approccio didattico, si era rivelato del tutto inadeguato.

4) Da qui l’intuizione fondamentale su cui poggia il modello pedagogico del Tempo pieno: estendere il tempo scuola come tempo integralmente educativo, in cui cioè la variabile “tempo” diventi la risorsa fondamentale della didattica.

5) Lungi dall’essere una riproposizione del doposcuola, come modalità assistenzialistica di supporto allo studio individuale, la giornata scolastica viene articolata come un unico percorso in cui gli alunni possano connettere vissuti e saperi, secondo le metodologie attive. Fondamentale l’esplorazione e l’uso di linguaggi alternativi a quello puramente verbale della scuola tradizionale, che penalizza da sempre le fasce sociali più fragili.

6) Chiave di volta della nuova modalità di approccio, il rafforzamento delle presenze dei docenti, che superano la figura del maestro unico, raddoppiando il loro numero, per valorizzare al massimo la pluralità di esperienze e linguaggi che liberano le potenzialità espressive degli alunni. Non ci sono insegnanti principali e insegnanti di supporto, essendo entrambi i docenti pienamente titolari del percorso di insegnamento/apprendimento.

Come ognuno può capire, da questi sintetici punti, il Tempo pieno non è semplicemente “più tempo nella scuola”, ma “più scuola nel tempo che si dà”. Il “tempo ritrovato dell’educazione”: come ebbi a dire in un Convegno di studi proprio dedicato al tema parecchi anni fa.
È altrettanto evidente, ma converrà ribadirlo, che questo modello pedagogico-didattico è stato completamente smantellato con gli interventi normativi che da Moratti-Gelmini in poi hanno sottoposto la scuola ad una politica di tagli lineari. Essi hanno riguardato l’articolazione oraria (della Scuola Primaria, in particolare) e la conseguente attribuzione delle risorse di docenti. Al più, si è fatto leva sull’autonomia delle scuole per trasformare il tempo scuola sostanzialmente in un “servizio a domanda individuale”, che tenesse conto delle richieste delle famiglie. Il risultato è stato quello noto come “orario spezzatino”: le 36-40 ore richieste da alcune famiglie per esigenze di lavoro, sono state erogate con la composizione di quote orario dei docenti. Non è difficile capire, anche per i non addetti ai lavori, che in questo puzzle l’unitarietà del tempo educativo e il valore di riferimento della figura docente vanno letteralmente in pezzi.

Alla luce di queste osservazioni, è lecito domandarsi QUALE tempo scuola si sta proponendo di generalizzare ed estendere al quinquennio della Primaria. Se quello innestato sulle norme Moratti – Gelmini o quello descritto in questo contributo. Perché, nel primo caso, direi “no, grazie, non interessa la scuola parcheggio” (sperando che siamo in tanti a dirlo). Nel secondo caso, inviterei sommessamente gli estensori della proposta a non usare l’espressione “estendere il Tempo pieno”, ma piuttosto “ripristinare il Tempo pieno”, estendendolo piuttosto come modello pedagogico all’intera Scuola primaria. Dunque, investire le rilevanti risorse che il governo sembra intenzionato ad assegnare alla Scuola nella direzione che ne consegue, anzitutto in termini di risorse umane (organico docenti e A.T.A.).

Da questo punto di vista, mi rende non poco perplessa leggere in queste proposte un’ulteriore interpretazione dell’espressione “più tempo”, che a mio avviso va proprio in altra direzione. Si tratta, a quanto leggo, di TENERE LE SCUOLE APERTE PER PIÙ TEMPO: per essere a disposizione della progettualità culturale del territorio, delle realtà che lo qualificano, degli operatori del Terzo settore e via elencando. Come ognuno può capire, questo non ha nulla a che vedere con il modello pedagogico-didattico del Tempo pieno di cui stiamo parlando: infatti, esso si avvale del territorio per trarne gli stimoli che gestisce in termini educativo-didattici, in coerenza con il progetto culturale della scuola.
La richiesta di una maggiore apertura nel tempo dei locali scolastici attiene, infatti, alle esperienze di progettazione partecipata, di integrazione di educazione formale (pertinente alla Scuola per mandato costituzionale) e di educazione non formale (preziosa risorsa delle agenzie culturali del territorio).
Nulla in contrario, anzi, come ho più volte ribadito in altri post di argomento analogo. L’importante è che questa opera quanto mai opportuna di integrazione (che significa arricchimento e apertura della scuola nel territorio) avvenga secondo criteri condivisi e trasparenti di riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni. A costo di ripetermi (“repetita iuvant”…) il punto politico è che non ci siano situazioni esplicite o, peggio, surrettizie di cessione di quote del curricolo scolastico a soggetti esterni (chiamasi “esternalizzazione”).

Le risorse pubbliche, che da anni la Scuola aspetta, per rispondere all’emergenza educativa di cui tutti, a parole, si dichiarano preoccupati, vanno destinate alla Scuola. È la Scuola secondo Costituzione, titolare del bene pubblico dell’istruzione/educazione delle nuove generazioni. Esattamente come vanno alla Sanità, per porre fine a quella “distrazione” di risorse di cui con l’epidemia abbiamo visto le drammatiche conseguenze.
Con la salute non si “gioca” a rimpiattino, e neanche con l’educazione.

Se chi propone più Tempo scuola intende muoversi in questo solco, sarà utile fare chiarezza sui punti che ho sollevato. Sarò sempre dalla parte di chi crede sinceramente nel valore di emancipazione della Scuola e dell’educazione. Non intendo “ravvedermi”, andando fuori da questo seminato. Dai principi non ci si ravvede: si accetta che si incarnino nelle diverse forme che assume l’evoluzione del tempo.




Quali patti territoriali per ripartire

di Simonetta Fasoli

Il riferimento è alla Legge 285 del 28 agosto 1997 – Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza

Ho avuto modo di sperimentare sistematicamente forme di raccordo interistituzionale e di progettazione partecipata, attivate ai sensi della Legge 285/97, da preside di una Scuola media statale inserita nel territorio cittadino di Corviale-Casetta Mattei, a Roma. Territorio segnato da aree a forte rischio sociale, da povertà educativa e da fenomeni riconducibili alla dispersione scolastica.

È stato in quegli anni, tra i Novanta e l’avvio dei Duemila, che ho visto da vicino quanto sia decisiva la cosiddetta “qualità culturale del territorio” per affrontare efficacemente i molteplici fattori di disagio sociale. Ho toccato con mano che costruire un “patto territoriale” è processo complesso, che non ammette facili scorciatoie; ho imparato che per alimentare il dialogo istituzioni diverse per livelli e finalità devono riconoscersi non autosufficienti e trovare pazientemente modi per parlarsi oltre i rispettivi steccati e linguaggi.

Eppure, nella difficoltà dell’impresa, ci ha appassionato la posta in gioco. La scuola ha messo a disposizione i suoi spazi per offrire l’opportunità di fare esperienze formative a chi, spesso, si era trovato fuori precocemente dai percorsi formali di istruzione. Dal canto suo, il territorio ha interagito con l’apporto di competenze e risorse che hanno reso praticabile l’integrazione tra il piano formale e quello non formale dei percorsi educativi.
Tutto questo si è retto su un assunto fondamentale: il progetto, qualunque fosse il suo contenuto, aveva tanto più possibilità di realizzarsi con frutti non estemporanei o effimeri, quanto più fosse ben radicato nell’istituzione scolastica il senso della sua funzione. In altri termini, quanto più si assumesse totalmente la responsabilità del suo compito e non la alienasse da sé, “delegandola” agli altri soggetti, cui pure veniva pienamente riconosciuta una finalità educativa coerente con la stessa progettualità posta in essere.
Furono anni impegnativi e appassionanti, anche nella durezza di alcune situazioni umane estreme con cui ci si misurava: l’espressione “seconda opportunità”, in molte storie, stava a significare un vissuto fatto di discontinuità drammatiche.

Credo che, nella evidente diversità dei tempi, molto di quelle esperienze possa ancora ispirare le azioni del presente. Soprattutto sotto un profilo che mi piace qui richiamare: costruire patti territoriali, con l’ambizione che siano “patti di comunità” (a nessuno dovrebbe sfuggire che un territorio non è perciò stesso una comunità…) postula un valore aggiunto di cultura istituzionale; di certo non richiede formule semplicistiche di elusione di quel piano che rende possibile ogni interazione tra soggetti diversi, istituzionali e non, per storia, per natura, per finalità.
Un piano in cui nessuno dei soggetti implicati pensi di poter svolgere una funzione vicaria o sussidiaria rispetto ad altri, perché ciascuno nei limiti della propria azione trova il senso del progetto comune.
Teniamo fermi questi punti, nei tempi immediati e più lunghi che verranno: credo siano bussole necessarie per governare processi che non si prestano a soluzioni forse suggestive ma di sicuro fragili, se non rischiose.




IL TERRITORIO COME “AULA DIDATTICA DECENTRATA”: un’utile prospettiva

ripresa_scuoladi Simonetta Fasoli

Ho virgolettato una parte del mio titolo, perché non ho coniato io quella formula, ma il professor Franco Frabboni.
E ho la buona abitudine di non appropriarmi di ciò che non è mio, ma di citare la fonte, sempre.

Parto da qui, in questo fitto discutere su come potrebbe o dovrebbe essere la scuola prossima ventura, in questo ricorrente prefigurare “patti territoriali” con l’impegnativo intento di mettere in relazione scuola e risorse del territorio sotto il medesimo orizzonte educativo.

Perché mi sembra utile riprendere quella formulazione, che trovo più che mai attuale? Perché penso che possa definire il perimetro della funzione della scuola, non in termini difensivi ma progressivi; perché “integrazione” significa concettualmente ed operativamente incontro di diversi e non con-fusione.

“Aula didattica decentrata” ci suggerisce almeno due riflessioni:

1) L’aula come spazio fisico strutturato non coincide necessariamente con un ambiente dell’edificio scolastico, come invece un consolidato immaginario collettivo, ampiamente confermato dall’esperienza, ci induce a pensare. Teniamolo ben presente, in questo particolare frangente in cui i vincoli e le restrizioni del dopo-Covid chiamano in causa uno sforzo comune di ri-progettazione e innovazione sensata.

2) In qualunque contesto materiale collochiamo questo ambiente fisico, nella scuola o negli spazi più ampi del territorio, la sua connotazione essenziale risiede nell’attività di mediazione didattica di cui la scuola e gli insegnanti restano, e a mio avviso devono restare, ESCLUSIVI titolari e responsabili.
Se l’attività didattica propriamente detta viene “ceduta” a soggetti terzi, non siamo di fronte ad un processo di integrazione tra educazione formale e non formale (obiettivo irrinunciabile di qualsivoglia “patto educativo” territoriale) ma ad una interpretazione distorcente del compito di istruzione/educazione che la carta costituzionale assegna in via esclusiva alla scuola. Articolo 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”.
LA SCUOLA, infatti.

Fatta chiarezza su questo punto dirimente, ben vengano le iniziative e le forme di collaborazione sistematica tra le scuole e le agenzie che nel territorio svolgono attività di tipo educativo e culturale. Agenzie, appunto, soggetti del terzo settore, non istituzioni. Leggo documenti articolati ed esaustivi che invito a considerare con grande attenzione. Vorrei trovare, in queste proposte animate da una “vis” pedagogica innegabile, punti chiari e inequivocabili attorno a queste questioni che sto richiamando. Assunti espliciti, per sgomberare il campo da una confusione che non giova certo ad affrontare il difficile passaggio che ci si impone, e a sostenere l’interlocuzione con i decisori politici. I quali, per inciso, sembrano ad oggi navigare a vista, indecisi a tutto.

La privatizzazione a me sembra il principale nodo politico di questa tematica: insidia da troppi anni il sistema pubblico di istruzione, veicolata da processi strutturali che hanno investito il nostro sistema produttivo e le forme di organizzazione sociale. Non vorrei (nel senso che temo fortemente) che lo spazio aperto dall’emergenza Covid-19 che ha colpito in pieno la scuola fosse un capitolo ulteriore, e definitivo, di questa “lunga marcia” cui assistiamo da tempo.

Per questo guardo con molta preoccupazione all’assenza di interventi governativi di tipo strutturale, quali quelli da più parti sollecitati, all’incertezza che continua a dominare le prospettive di riapertura dell’anno scolastico. Combinate con una ambigua o fin troppo allusiva progettazione di un malinteso rapporto tra la scuola e le altre risorse del territorio, preparano scenari di rilevante gravità per il presente e il futuro del sistema pubblico di istruzione.
Attenzione, il rischio è più che un’ipotesi: la “torta” delle risorse finanziarie destinate alla scuola è limitata, ma gli appetiti dell’universo che le gira intorno sono tanti.




Educazione diffusa e scuola nel territorio

ripresa_scuoladi Simonetta Fasoli

La formula “educazione diffusa” è densa di significati e proprio per questo esposta a interpretazioni contrastanti e ad opposte opzioni di natura “politica”.

Dal mio punto di vista, postula alcune premesse:
1) la scuola, titolare della cosiddetta “educazione formale” è l’asse portante di un più vasto processo educativo che vede coinvolti altri attori nel territorio, titolari della cosiddetta “educazione non formale”.
2) In questa sua collocazione, la scuola esercita una funzione strategica, ma al tempo stesso si riconosce non autosufficiente, per la complessità dei processi socioculturali che la interpellano. In tale riconoscimento risiede la radice di una sua sistematica iniziativa di interazione che coinvolge le agenzie educative (o più generalmente culturali) che operano nel territorio.
3) La scuola è NEL territorio in un duplice senso:

A) attesta la presenza dell’istituzione, in questo senso è presidio di diritti sanciti costituzionalmente;
B) progetta e realizza concrete azioni di politica scolastica, con la specificità del suo progetto pedagogico e con gli strumenti giuridici che le sono conferiti dall’autonomia.

4) Le azioni sinergiche della scuola e dei suoi interlocutori nel territorio, istituzionali e non, rendono visibile la cosiddetta “comunità educante”. In questo senso, i confini dell’educazione non coincidono con quelli dell’istituzione-scuola. E ha fondamento l’espressione “educazione diffusa”.

Queste sintetiche premesse, se condivisibili, permettono di segnare una netta linea di demarcazione nei confronti di un’idea di “scuola diffusa” che è, al contrario, problematica, in quanto esposta a derive, a mio parere, molto rischiose.
Sarà necessario, dunque, vigilare attentamente affinché non si verifichino impropri processi di “appalto” della funzione di istruzione/educazione della scuola, che le è assegnata dalla Costituzione, a soggetti esterni. Appalto che si sostanzia, in definitiva, nell’esternalizzazione di quote di curricolo ad agenzie esterne.
Non è difficile prevedere l’esito di questi movimenti: un taglio ulteriore di risorse, materiali e professionali, che sarebbero da destinare in via esclusiva alla scuola. E, corrispettivamente, un allocamento (in forme dirette o indirette) di risorse pubbliche a favore di soggetti del privato sociale. Qualcosa di analogo è accaduto nel settore della Sanità, con le conseguenze che in questi mesi sono emerse in modo drammaticamente evidente.

In sintesi
In un caso, PIÙ SCUOLA. Una scuola rafforzata dalla rete di relazioni nel territorio, dalla sua capacità di interagire ed arricchire con azioni sinergiche la densità educativa di un territorio.
Nell’altro caso: MENO SCUOLA. Meno risorse, meno strumenti di iniziativa istituzionale. Come se si offrisse il lasciapassare a un processo di spoliazione, a favore di interessi che, pur legittimi, non devono essere soddisfatti a spese della scuola.

In un quadro chiaro, sgomberate le ambiguità, saranno evidenti le scelte operate e le conseguenti responsabilità.




Valutazione formativa, valutazione sommativa: parliamone ancora

votidi Sinometta Fasoli

Le polarizzazioni in genere non mi sono mai sembrate utili a un confronto produttivo, meno che mai in educazione. Così, mi pare adesso sterile e fuorviante alimentare la polarizzazione “valutazione formativa – valutazione sommativa” che vedo ricorrere in diversi contesti di dibattito, fino a lambire documenti istituzionali.

Come se fosse possibile davvero scartare l’una a favore dell’altra, o teorizzare una supposta superiorità dell’una sull’altra.
Il motivo dell’inutile dilemma è al limite dell’autoevidenza: le due forme di valutazione insistono sul medesimo processo di insegnamento-apprendimento, ma si distinguono per funzione, scopo e tempo di adozione.

La prima, valutazione formativa, si compie in itinere, nel procedere del percorso, con lo scopo di accompagnare, descrivere, orientare il percorso stesso. La sua funzione regolativa investe, in questo senso, sia chi apprende sia chi esplica la sua azione didattica. L’insegnante valuta e si valuta; l’alunno è valutato e al tempo stesso si autovaluta.
Questa forma di valutazione è perciò intrinsecamente correlata alla programmazione educativo-didattica, come ben aveva visto la legge 517/1977 che infatti ha una volta per tutte sancito il nesso profondo, dando grande spessore pedagogico all’una e all’altra.


La seconda, valutazione sommativa, si effettua per rilevare/descrivere le conoscenze- abilità- competenze traguardate dall’alunno al termine di un periodo didattico prestabilito (intermedio, conclusivo). Significativamente, le Indicazioni Nazionali del 2012, usano la formulazione “traguardi di sviluppo delle competenze”: trovo che sia un’espressione felice, perché coniuga l’aspetto terminale (“traguardi”) con quello dinamico (“sviluppo”).

Da queste considerazioni, necessariamente sintetiche, dovrebbero emergere alcuni dati:
1) le due valutazioni non si sovrappongono e non si escludono a vicenda;
2) ognuna di esse ha una sua legittimità, congruenza e collocazione nel processo di insegnamento-apprendimento;
3) la soppressione dell’una o dell’altra andrebbe ad inficiare l’intero processo, sotto il profilo dell’attendibilità e dell’efficacia.
4) sotto il profilo del diritto degli alunni, la mancata adozione dell’una o dell’altra potrebbe costituire un atto lesivo.

In realtà, la messa in questione della valutazione sommativa, dal punto di vista pedagogico-didattico, mi sembra difficilmente sostenibile. Di più, per i rilievi brevemente avanzati fin qui, è abbastanza chiaro che essa ha anche una funzione formativa, proprio perché descrive un traguardo dinamico, dunque aperto ad autocorrezioni sia da parte di chi apprende sia da parte di chi insegna. Tuttavia, poiché ha il compito di descrivere traguardi e non processi, deve necessariamente essere predisposta e formulata al termine del periodo didattico.
In mancanza di valutazione sommativa, la valenza pedagogico-didattica del periodo cui si riferisce verrebbe ad essere amputata di un elemento essenziale. Configurando con ciò la sospensione nel tempo del percorso (e la lesione del diritto soggettivo dell’alunno, che è tutt’uno con il suo diritto all’apprendimento) e la mancata legittimazione del percorso stesso, sotto l’aspetto dei requisiti formali che la scuola, in quanto istituzione, è tenuta a garantire.

Non trovano, dunque, a mio parere, fondamento alcune richieste, avanzate in questo frangente di anno scolastico, di non procedere alla valutazione sommativa, a favore di una valutazione formativa, che non ha le stesse caratteristiche e finalità e pertanto non la potrebbe legittimamente surrogare. Trovano, invece, piena giustificazione, eventuali sollecitazioni volte a valorizzare la funzione formativa che assume il momento della valutazione sommativa (o finale). A questo punto diventa dirimente l’adozione degli strumenti della valutazione, sulla base di un altro punto di chiarezza: valutazione sommativa non si identifica affatto con votazione in decimi (come sembra adombrare qualche ragionamento sotteso alle ipotesi avanzate). È tanto vero che nelle scuole del Primo ciclo per un trentennio (a partire dal 1977) si sono adottate valutazioni descrittivo/qualitative (i cosiddetti “giudizi”) in un primo tempo in forma discorsiva, successivamente con l’uso di descrittori e l’indicazione di livelli sintetici degli esiti.

Tra le diverse iniziative che si stanno succedendo, nella travagliata conclusione di questo anno scolastico decisamente anomalo, ho trovato particolarmente coerente e accorta nella scelta strategica quella intrapresa dalla rivista del Cidi, “Insegnare”, che infatti punta alla moratoria della valutazione decimale in tutti gli ordini e gradi di scuola.
La soluzione sollecitata da “Insegnare” sospende l’uso dello strumento attualmente previsto dalle norme, il voto, ma non sospende l’atto del valutare, che non può che essere, come ho cercato di argomentare, di valutazione sommativa. Si intende con ciò assicurare la sua funzione formativa, attraverso uno strumento più duttile e rispettoso delle specificità di quanto non sia il voto decimale.




Scuola-servizio o scuola-diritto?

bambini_scuoladi Simonetta Fasoli

Non mi convince affatto l’espressione “servizi alla persona”, che accomuna nel burocratese Sanità e Scuola: non sono “servizi”, sono “diritti”. In più di un’occasione pubblica o in incontri di riflessione ho ritenuto opportuno sottolinearlo. Non è una questione terminologica, ma politica, per ragioni che mi sembrano dirimenti. Il “servizio” si modula seguendo la logica economicista del rapporto costi/benefici. Il “diritto” non è modulabile: o c’è ed è garantito, o non c’è.

Questo passaggio epocale della pandemia, che è ben più di una semplice contingenza, sta dimostrando con drammatica evidenza la stortura di quella impostazione. Servizi tagliati, dunque diritti negati. Parliamo di vite, non di casistica.
I tempi sono maturi per innescare una vasta e articolata riflessione collettiva, “dal basso”, capace di condizionare le scelte dei decisori politici, in quanto libera dalla preoccupazione del consenso, o addirittura del successo elettorale, che da troppi anni affligge e distorce il quadro politico.
In caso contrario, c’è da temere che tutto si riduca ad una gestione dei problemi, senza andare a rimuovere le cause strutturali che li hanno determinati.

Temo in particolare che, nella scuola, di tutto quello che l’emergenza ha sollevato, resti qualche aula o spazio in più (non classi, non tempo scuola, non risorse docenti!) e la didattica a distanza come organizzazione ORDINARIA, parallela ad una didattica in presenza sempre più residuale. Un processo che significa, al suo esito estremo, descolarizzazione. E nel frattempo, una politica di tagli alle risorse umane e materiali, in perfetta continuità con il passato recente e meno recente.

Non bisogna ignorare le difficoltà in cui si stanno dibattendo le scuole e gli insegnanti in queste difficili settimane tutt’altro che concluse. Proprio per il riconoscimento che è dovuto all’impegno profuso, è essenziale che la scuola entri nella sua specifica “Fase 2”: no, non mi riferisco in questa sede al quando e al come riaprire…Mi riferisco piuttosto agli orientamenti che devono caratterizzare il passaggio, in un’ottica di largo respiro e di visione lungimirante.
Da questo punto di vista, le elaborazioni dell’universo culturale e professionale che si muove attorno alla scuola-istituzione, le relative concrete iniziative, sono preziosi strumenti di intervento: tanto più efficaci, quanto più frutto di condivisione e di progettazione partecipata.
Sul punto, ritengo che non sia davvero utile in questa fase dare alle singole scuole le “istruzioni per l’uso”: penso sia piuttosto opportuno assumere iniziative coordinate, volte ad incalzare chi ha responsabilità politiche di governo affinché siano superati in modo generalizzato e strutturale modelli iniqui.
Le diseguaglianze sociali e culturali non sono una scoperta della didattica a distanza, che semmai le ha drammaticamente evidenziate e accentuate. Sono la sfida incessante e sempre aperta, perché non definitivamente vinta, di una scuola che sia davvero a misura dei diritti costituzionali.

Dieci…cento scuole “politicamente corrette” non fanno un sistema politico-istituzionale che sia finalmente ed inequivocabilmente impegnato nel superamento di modelli culturali e pedagogici iniqui. E che persegua l’obiettivo con gli strumenti legislativi di cui dispone. Di questo c’è urgente bisogno.
Se non ora, quando?