L’esperienza della Dad (l’ormai noto acronimo della didattica a distanza) è come sappiamo nata da un’inevitabile scelta nella fase più drammatica dell’epidemia.
Molto è stato detto sulle possibilità che ha in ogni caso offerto e sugli aspetti problematici che ha fatto emergere. Sottraendomi in questa sede ad una disamina degli uni e delle altre, che esula dal fuoco tematico di questo contributo, mi sembra pertinente soffermarmi su uno dei suoi “effetti collaterali” che merita un supplemento di riflessione. Infatti, lo sviluppo delle lezioni a distanza, segnando in parallelo l’implosione della “scuola materiale” ben fissa nell’immaginario e nell’esperienza di noi tutti, ha dato vita ad una parallela diffusione di una “scuola domestica” del tutto inedita.
Insomma, è scomparso lo “spazio pubblico” che è uno dei tratti fondanti della scuola come istituzione storicamente determinata. Al suo posto, un’inedita affermazione degli spazi domestici come luoghi privati, perfino intimi, diventati lo scenario abituale dei processi di insegnamento-apprendimento. Le “aule”, di cui attualmente tanto si discute nella prospettiva dell’imminente ripresa, hanno preso i connotati degli ambienti domestici. Potremmo dire che questo fenomeno ha dato corpo a un vero e proprio processo di “privatizzazione” della scuola: su questo, ognuno potrà svolgere le proprie considerazioni, in coerenza con posizioni politico-culturali e personali convincimenti.
Al di là della prevedibile eterogeneità delle opinioni, resta il fatto oggettivo di una scuola che, arretrata dal suo “naturale” spazio pubblico, si è diffusa prendendo stabile dimora nelle case degli alunni e degli studenti. È plausibile pensare che la pervasività del fenomeno, e dei processi anche simbolici che ha innescato, possa essere all’origine di un incremento delle richieste di “homeschooling” che si va rilevando nel nostro Paese.
Opzione, come sappiamo, prevista dal nostro sistema giuridico, ma finora praticata in modo del tutto residuale; diversamente da quanto accade, per esempio, in altre aree di lingua anglosassone.
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Tempo pieno, un modello pedagogico da ritrovare
Vale la pena, di fronte all’emergere di proposte che fanno riferimento al Tempo pieno, sollecitandone l’estensione generalizzata, provare a portare qualche elemento di chiarezza e qualche utile “distinguo”: questo proprio per incanalare le prospettive che si aprono in una direzione promettente ed efficace.
Non starò a fare una puntuale ricostruzione dei modi con cui si è storicamente affermato il Tempo pieno, limitandomi ai suoi tratti costitutivi, pur nella varietà dei contesti in cui si è andato affermando.
1) Il Tempo pieno non è nato come risposta di tipo assistenziale, basata sul mero allungamento della giornata scolastica, in corrispondenza delle esigenze lavorative dell’Italia nella sua fase economicamente espansiva (e socialmente problematica).
2) Esso ha rappresentato, piuttosto, il primo vero tentativo di affrontare gli effetti dell’affermazione di una scuola a larga base sociale, che ha segnato in parallelo l’evoluzione strutturale del Paese.
Quali patti territoriali per ripartire
Il riferimento è alla Legge 285 del 28 agosto 1997 – Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza
Ho avuto modo di sperimentare sistematicamente forme di raccordo interistituzionale e di progettazione partecipata, attivate ai sensi della Legge 285/97, da preside di una Scuola media statale inserita nel territorio cittadino di Corviale-Casetta Mattei, a Roma. Territorio segnato da aree a forte rischio sociale, da povertà educativa e da fenomeni riconducibili alla dispersione scolastica.
È stato in quegli anni, tra i Novanta e l’avvio dei Duemila, che ho visto da vicino quanto sia decisiva la cosiddetta “qualità culturale del territorio” per affrontare efficacemente i molteplici fattori di disagio sociale. Ho toccato con mano che costruire un “patto territoriale” è processo complesso, che non ammette facili scorciatoie; ho imparato che per alimentare il dialogo istituzioni diverse per livelli e finalità devono riconoscersi non autosufficienti e trovare pazientemente modi per parlarsi oltre i rispettivi steccati e linguaggi.
IL TERRITORIO COME “AULA DIDATTICA DECENTRATA”: un’utile prospettiva
Ho virgolettato una parte del mio titolo, perché non ho coniato io quella formula, ma il professor Franco Frabboni.
E ho la buona abitudine di non appropriarmi di ciò che non è mio, ma di citare la fonte, sempre.
Parto da qui, in questo fitto discutere su come potrebbe o dovrebbe essere la scuola prossima ventura, in questo ricorrente prefigurare “patti territoriali” con l’impegnativo intento di mettere in relazione scuola e risorse del territorio sotto il medesimo orizzonte educativo.
Perché mi sembra utile riprendere quella formulazione, che trovo più che mai attuale? Perché penso che possa definire il perimetro della funzione della scuola, non in termini difensivi ma progressivi; perché “integrazione” significa concettualmente ed operativamente incontro di diversi e non con-fusione.
“Aula didattica decentrata” ci suggerisce almeno due riflessioni:
1) L’aula come spazio fisico strutturato non coincide necessariamente con un ambiente dell’edificio scolastico, come invece un consolidato immaginario collettivo, ampiamente confermato dall’esperienza, ci induce a pensare. Teniamolo ben presente, in questo particolare frangente in cui i vincoli e le restrizioni del dopo-Covid chiamano in causa uno sforzo comune di ri-progettazione e innovazione sensata.
Educazione diffusa e scuola nel territorio
La formula “educazione diffusa” è densa di significati e proprio per questo esposta a interpretazioni contrastanti e ad opposte opzioni di natura “politica”.
Dal mio punto di vista, postula alcune premesse:
1) la scuola, titolare della cosiddetta “educazione formale” è l’asse portante di un più vasto processo educativo che vede coinvolti altri attori nel territorio, titolari della cosiddetta “educazione non formale”.
2) In questa sua collocazione, la scuola esercita una funzione strategica, ma al tempo stesso si riconosce non autosufficiente, per la complessità dei processi socioculturali che la interpellano. In tale riconoscimento risiede la radice di una sua sistematica iniziativa di interazione che coinvolge le agenzie educative (o più generalmente culturali) che operano nel territorio.
3) La scuola è NEL territorio in un duplice senso:
A) attesta la presenza dell’istituzione, in questo senso è presidio di diritti sanciti costituzionalmente;
B) progetta e realizza concrete azioni di politica scolastica, con la specificità del suo progetto pedagogico e con gli strumenti giuridici che le sono conferiti dall’autonomia.
4) Le azioni sinergiche della scuola e dei suoi interlocutori nel territorio, istituzionali e non, rendono visibile la cosiddetta “comunità educante”. In questo senso, i confini dell’educazione non coincidono con quelli dell’istituzione-scuola. E ha fondamento l’espressione “educazione diffusa”.
Valutazione formativa, valutazione sommativa: parliamone ancora
Le polarizzazioni in genere non mi sono mai sembrate utili a un confronto produttivo, meno che mai in educazione. Così, mi pare adesso sterile e fuorviante alimentare la polarizzazione “valutazione formativa – valutazione sommativa” che vedo ricorrere in diversi contesti di dibattito, fino a lambire documenti istituzionali.
Come se fosse possibile davvero scartare l’una a favore dell’altra, o teorizzare una supposta superiorità dell’una sull’altra.
Il motivo dell’inutile dilemma è al limite dell’autoevidenza: le due forme di valutazione insistono sul medesimo processo di insegnamento-apprendimento, ma si distinguono per funzione, scopo e tempo di adozione.
La prima, valutazione formativa, si compie in itinere, nel procedere del percorso, con lo scopo di accompagnare, descrivere, orientare il percorso stesso. La sua funzione regolativa investe, in questo senso, sia chi apprende sia chi esplica la sua azione didattica. L’insegnante valuta e si valuta; l’alunno è valutato e al tempo stesso si autovaluta.
Questa forma di valutazione è perciò intrinsecamente correlata alla programmazione educativo-didattica, come ben aveva visto la legge 517/1977 che infatti ha una volta per tutte sancito il nesso profondo, dando grande spessore pedagogico all’una e all’altra.
Scuola-servizio o scuola-diritto?
Non mi convince affatto l’espressione “servizi alla persona”, che accomuna nel burocratese Sanità e Scuola: non sono “servizi”, sono “diritti”. In più di un’occasione pubblica o in incontri di riflessione ho ritenuto opportuno sottolinearlo. Non è una questione terminologica, ma politica, per ragioni che mi sembrano dirimenti. Il “servizio” si modula seguendo la logica economicista del rapporto costi/benefici. Il “diritto” non è modulabile: o c’è ed è garantito, o non c’è.
Questo passaggio epocale della pandemia, che è ben più di una semplice contingenza, sta dimostrando con drammatica evidenza la stortura di quella impostazione. Servizi tagliati, dunque diritti negati. Parliamo di vite, non di casistica.
I tempi sono maturi per innescare una vasta e articolata riflessione collettiva, “dal basso”, capace di condizionare le scelte dei decisori politici, in quanto libera dalla preoccupazione del consenso, o addirittura del successo elettorale, che da troppi anni affligge e distorce il quadro politico.
In caso contrario, c’è da temere che tutto si riduca ad una gestione dei problemi, senza andare a rimuovere le cause strutturali che li hanno determinati.