Decreto reclutamento docenti: una occasione mancata

di Simonetta Fasoli

Sul decreto legge riguardante la formazione iniziale, l’accesso al ruolo e la formazione in servizio dei docenti della scuola secondaria (primo e secondo grado) si stanno registrando le prime reazioni, commenti e sintesi degli organi di informazione, prese di posizione degli organismi di rappresentanza.
Ci sarà luogo e tempo, per quanto mi riguarda, per entrare nel merito di un testo che appare articolato, perché disciplina una materia in sé composita. Peraltro, sono solita farlo di fronte a testi che hanno superato la fase delle bozze, delle anticipazioni più o meno attendibili, per assumere la veste definitiva e formalizzata della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Detto questo, alcune considerazioni che riguardano l’operazione politica sottesa al provvedimento e l’impianto del testo si possono già proporre, senza incorrere nel rischio di una lettura sommaria e impressionistica.
Il contesto è noto: la stesura delle parti riguardanti la tematica specifica, secondo quanto previsto dal PNRR, dunque con vincoli temporali e coordinate di contenuto stringenti.
Pur ammettendo che la cornice richiama l’idea di un’emergenza, mi pare che i modi e gli strumenti adottati da questo Governo esigano un di più di vigilanza e attenzione.
Per cominciare: non credo che sia stato opportuno inserire all’interno dello stesso provvedimento le materie relative alla formazione in ingresso dei futuri docenti e quelle riguardanti il percorso formativo successivo lungo linee di sviluppo professionale.
Non è con questo dispositivo formale, a mio parere, che si persegue il raccordo necessario a garantire coerenza e continuità ad una biografia professionale. Sono fasi che postulano contesti diversi e distinzioni importanti sul piano delle dinamiche politico-istituzionali.


Nel primo caso, infatti (formazione iniziale) è lo Stato, nelle sue articolazioni amministrative, che legittimamente delinea i caratteri culturali e professionali di coloro cui vanno affidate le funzioni di istruzione/formazione, all’interno di un sistema pubblico, secondo il dettato costituzionale. In questo delicato compito, la fonte di legittimazione e di confronto regolato non può essere che il Parlamento, massimo luogo di esercizio di rappresentanza e di sovranità popolare.
Nel secondo caso (formazione in servizio) si tratta di una “manutenzione”, per così dire, destinata ad una professionalità che è già inserita in un contesto, caratterizzato da un sistema di regole, di diritti e di doveri all’interno di un rapporto di lavoro. Ciò comporta la pertinenza dei temi (profili, dimensioni, linee di sviluppo e di progressione, forme e modalità di riconoscimento) alle materie squisitamente contrattuali, postulando il coinvolgimento degli organismi di rappresentanza sindacale.

Ebbene: sia nel primo che nel secondo caso, l’iter del decreto sembra nascere con un vizio di origine, che ne inficia il valore sul piano politico e sostanziale. L’iter parlamentare rischia, infatti, di imboccare le inevitabili scorciatoie della decretazione d’urgenza (strumento cui siamo fin troppo abituati, complice l’emergenza sistematica ingenerata da ultimo dal biennio della pandemia): non possiamo escludere il ricorso al maxiemendamento predisposto dal governo e il voto di fiducia.
Nel secondo caso, siamo sul terreno della constatazione, più che dell’ipotesi. È infatti evidente a chi abbia una sufficiente cognizione delle questioni in gioco che il decreto, disciplinando le modalità di formazione in servizio e correlandole a meccanismi retributivi, sconfina in materie di pertinenza della contrattazione e dei suoi istituti. Il rimando alla contrattazione stessa, contenuto nel testo del decreto al momento noto, non rimedia al vulnus di un confronto tra ministro e sindacati che è stato a dir poco manchevole e inadeguato alla crucialità della posta in gioco.
Le “tre slides tre” presentate, a corredo dell’incontro-informativa che ha preceduto la seduta del C.d.M. e l’approvazione del decreto, sono un eloquente esempio di sottovalutazione del tema e degli interlocutori, se non di supponenza.
Mi pare di poter dire, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, che questo intervento rappresenta un’occasione importante e al tempo stesso mancata per ripensare il compito della docenza all’interno della funzione che la scuola, l’istruzione e l’educazione possono svolgere.

Per elaborare un’idea di insegnante, di scuola e di società che si misuri con le cesure e i mutamenti cui siamo posti di fronte. Sapendo che la semina dell’educazione va oltre i tempi di un ricambio generazionale, e che si confronta con un’accelerazione fino a poco fa impensata.
Non possiamo permetterci che a dettare l’agenda siano i tempi di una politica manifestamente in affanno, spesso drammaticamente attardata o colpevolmente attratta dalle fughe in avanti.
Quello che serve è uno sguardo “a due profondità”: dare risposte ai problemi dell’oggi, ai tempi della contingenza anche quando si presenta come emergenza; ma al tempo stesso fare attenzione affinché le soluzioni di oggi non pregiudichino processi di lungo periodo.

Mi auguro che l’iter parlamentare, pur rispettoso dei tempi, intervenga su quegli aspetti di merito del decreto che mostrano potenziali rischi (che oggi ho dichiaratamente lasciato ai margini per economia di discorso). Auspico che in sede referente siano raccolti contributi di proposte e di emendamenti utili a modificare un impianto per più versi farraginoso. A mio avviso, vanno valorizzate ad esempio le parti che declinano le dimensioni della professionalità docente, perché raccolgono e portano a sintesi una riflessione maturata sul campo, in contesti professionali collettivi di scambio e di ricerca. Il richiamo alla collegialità e al metodo cooperativo deve sottrarsi al rischio di una formulazione vuota e ritualistica, che non stimola soluzioni capaci di intercettare le risorse degli insegnanti di nuova generazione.
Ma queste ultime osservazioni sono solo l’avvio di un’analisi di merito che va condotta, accanto e insieme alle critiche di fondo, di tipo politico-culturale, che ho qui avanzato.




Competenze non cognitive: un passo verso la separazione dell’istruzione dall’educazione

di Simonetta Fasoli

La proposta di legge sull’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi scolastici e formativi, approvata dalla Camera l’11 gennaio scorso, è approdata al Senato (disegno di legge n. 2493).
All’indomani dell’approvazione, scrissi un breve post dal tono ironico, che non intendeva certo minimizzare la questione, ma al contrario dire: “attenzione, qui c’è un problema!”.
Poiché l’iter legislativo prosegue, e come succede in questi casi è destinato, al suo compimento, a produrre effetti, sarà il caso di andare oltre la prima reazione e fare qualche affondo di merito. Partendo dalla messa in questione della materia stessa dell’iniziativa parlamentare e domandandosi anzitutto se sia fondato parlare di “competenza non cognitiva”.
Del resto, lo stesso testo del disegno di legge già all’esordio (art. 1, c.1) pone come finalità quella di “promuovere la cultura della competenza”. Affermazione che va presa sul serio.

Nei contesti di studio e di formazione in cui mi trovo ad operare, mi piace sottolineare (e argomentare) un assunto: che sia possibile e anzi auspicabile sostenere un’accezione pedagogica della nozione di competenza; nozione che, per sé presa, più parti del mondo della scuola e degli addetti ai lavori vedrebbero inficiata irrimediabilmente dalla sua origine nell’universo del lavoro e della catena produttiva. Confortata, in questa intenzione, dal fatto che il termine stesso sia stato da oltre un ventennio “sdoganato” ed acquisito nell’ambito dell’istruzione e formazione, a partire dalle norme sull’autonomia per arrivare a rilevanti documenti europei (le Raccomandazioni del 2006 e 2018 concernenti le competenze chiave di cittadinanza).
A livello di studi e di ricerche, mi piace richiamare spesso, in quei miei contesti di lavoro, una delle definizioni a mio parere più illuminanti della nozione di competenza, che suona così: “una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, affettive e evolutive, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. (Michele Pellerey, 2004).
I caratteri cubitali sono miei, utilizzati nell’ambito di questo mio intervento, con lo scopo di sottolineare quello che ora mi preme sostenere: la dimensione strutturalmente cognitiva di ogni costrutto di competenza. Dunque, a mio parere, l’ossimoro, o se si vuole, la contraddizione in termini di una formulazione come quella su cui è basato l’intero impianto del disegno di legge.
Del resto, le stesse Raccomandazioni europee, con una formula a mio avviso più generica, parlano delle competenze come di un mix di conoscenze, abilità e atteggiamenti. Giusto. Si tratta di vedere COME stanno insieme e come agiscono e interagiscono questi elementi: la definizione che ho appena citata ce ne dà un’immagine dinamica e integrata, non semplicemente giustapposta. Ma quello che qui conta è decostruire il senso della “competenza non cognitiva” e mostrarne l’infondatezza. Tutto il resto del disegno di legge di cui si sta parlando, poggiato su un presupposto errato, va radicalmente discusso e revocato in dubbio.
Ma, una volta sgomberato il campo da questo vizio di fondo, resta in piedi l’interrogativo sul significato politico-culturale dell’operazione sottostante all’iniziativa di legge. Questione non meno decisiva di quella fin qui esaminata.
Detto che nessuna norma è in sé neutrale, qual è il retroterra su cui si innesta questa di cui parliamo? Come anticipo nel titolo, si tratta di “culture politiche”, che, come vediamo dai nominativi dei primi firmatari, sono trasversali a diverse formazioni partitiche, e ben riconoscibili.
Senza peccare di dietrologia, ci sono nel testo di legge alcuni passaggi che fanno luce sul tema. Già nell’articolo 1, comma 2 ne possiamo rintracciare uno. Infatti, vi si prevede (terminata la fase sperimentale) l’emanazione, con decreto ministeriale, di “linee guida (…) che individuano (…) SPECIFICI TRAGUARDI PER LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE E OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO, in coerenza con le Indicazioni nazionali per il curricolo (…) e con le Indicazioni nazionali per i licei e le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali vigenti.”
Dunque, ci troviamo di fronte all’ipotesi di una vera e propria PROGETTAZIONE CURRICOLARE PARALLELA: “in coerenza”, ma distinta da quelle vigenti, e addirittura legittimata da un provvedimento formale quali sono le Linee guida ministeriali.
Ecco che prende forma, a mio avviso, un’IDEA DI SCUOLA, basata su un presupposto preciso e dal mio punto di vista discutibile: la netta separazione dell’educazione dall’istruzione, quelle due dimensioni che la scuola pubblica, come istituzione, tiene e deve tenere insieme nel suo stesso agire.
Non basta. Se incrociamo questo dispositivo con quello contemplato nell’articolo 4, comma 3, punto c, si palesa un elemento che getta ulteriore luce sull’operazione politico-culturale nel suo senso complessivo. Vi si parla, infatti, a proposito della prevista sperimentazione, di “percorsi formativi innovativi (…) di “recupero motivazionale degli studenti”, al fine di “contrastare la dispersione scolastica sia esplicita sia implicita, anche attraverso percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento o PROGETTI DI PARTENARIATO CON ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE E DEL VOLONTARIATO” .
Sono miei i caratteri cubitali inseriti nel testo: stanno a segnalare la comparsa di soggetti che sono tradizionalmente sostenuti da alcune di queste culture politiche. E segnalano un rischio che, in combinato disposto con la netta separazione tra istruzione ed educazione di cui ho detto, appare come qualcosa di ben diverso da una semplice ipotesi da verificare.
In conclusione: quale idea di scuola si fa avanti, in una fase per di più di grande fragilità della scuola stessa, per le note vicende della pandemia e per i modi del tutto inadeguati con cui la stanno affrontando i decisori politici?
Quali insidie politiche e culturali si annidano dentro un’iniziativa che, a questo punto, mi sembra ben più gravida di conseguenze di una maldestra operazione di restyling pedagogico-didattico?
Cosa ne è della scuola pubblica, della scuola come bene comune, fattore di emancipazione e di uguaglianza sociale secondo Costituzione? Ci troviamo di fronte a una scuola che porterebbe in sé il germe della separazione tra educazione e istruzione (entrambe scotomizzate, in quanto artificiosamente separate), tra emozione e conoscenza (come se fosse possibile separare l’una dall’altra nei processi reali di apprendimento…). Una scuola che venisse meno alla sua stessa natura istituzionale, lasciando ad altri soggetti il campo di una parte sostanziale del suo mandato, insieme ad una dimensione fondamentale del suo curricolo.
Il compito della scuola è “tenere insieme”: l’unitarietà del suo sistema, la coerenza della sua azione, le professionalità che vi si esplicano, ma soprattutto le vite e le storie di chi cresce.
Pensiamoci, facciamo vigilanza attiva, anche in tempi difficili. O forse proprio per questo.




Istruzioneducazione

di Simonetta Fasoli

No, non è un refuso quello che si legge nel mio titolo. È un modo per richiamare il nesso inscindibile che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, il nostro sistema scolastico. Dove comincia l’una e dove finisce l’altra? A mio avviso, si tratta di una questione mal posta e insomma indecidibile.
Un fatto è certo: se si perde di vista questo tratto, si va incontro a derive che hanno radici antiche e che purtroppo sembrano allungare le proprie ombre sul presente e sulle sue prospettive. Detto altrimenti: una visione unilaterale della scuola ridotta alla sua funzione di istruzione o, alternativamente, circoscritta al suo compito educativo produce effetti perversi.
La storia ce lo insegna, fino alla più stretta attualità.
Nel primo caso, ecco fiorire prese di posizione, documenti che solennemente sollecitano al ritorno alla scuola delle “conoscenze”, all’ora di “lezione” come stella polare di un sistema smarrito. Come non avvertire in questi richiami il sentore allettante quanto insidioso della nostalgia? Bisogna dire con disarmante linearità che il futuro ha radici antiche, certo!, ma non sta mai dietro alle spalle. E ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quella scuola reca l’impronta elitaria (userei il termine “classista”, con buona pace di chi lo ritiene obsoleto) di un sistema pensato per la riproduzione sociale, non per l’emancipazione.


Quella scuola è sopravvissuta all’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione, ha ignorato nei fatti l’articolo 34 comma 1. L’istruzione enfatizzata e sconnessa dall’educazione ha permesso di usare gli oggetti del sapere come strumenti di selezione e di esclusione. A buon diritto, alla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso, si poteva parlare degli insegnanti che si ispiravano a quelle idee come delle “vestali della classe media” (M. Barbagli, M. Dei, Le vestali della classe media, ed. Il Mulino 1969)
Analoghe distorsioni comportano, a mio parere, le concezioni che risolvono nell’educazione separata dall’istruzione il mandato della scuola. In questo caso, con qualche insidia in più, visto che si presentano nella forma suadente di un’attenzione specifica ai temi della “socialità”. Tutto un fiorire di progetti che fanno leva sulle “educazioni a…” con quel che segue; che enfatizzano il potere salvifico di percorsi programmaticamente lontani da qualsivoglia dimensione cognitiva fondata su saperi sistematizzati, quasi fosse l’origine di ogni male. Con il risultato di far mancare questi riferimenti culturali proprio a quelle fasce di scolarità appartenenti a contesti sociali che solo nella scuola possono incontrarli, forse per la prima e ultima volta. Portando con ciò a compimento quello che da sempre ho ritenuto un “doppio inganno”.
Dunque: la scuola è scuola perché “tiene insieme” istruzione ed educazione. È questa la sua caratteristica fondante, e a mio avviso la sua stessa ragion d’essere. Lo fa misurandosi con una sfida, dall’esito tutt’altro che scontato. Istruisce educando ed educa istruendo, nella medesima circolarità dei suoi percorsi: vuol dire, in buona sostanza, considerare le discipline, e i saperi che esse veicolano, come depositi culturali a cui attingono le nuove generazioni, per interagire criticamente con quel patrimonio. E, in questa azione critica che contempla la messa in questione radicale di quell’eredità, farla rivivere: interpretarla, fino all’eresia (“airesis”, non dimentichiamolo, nel suo etimo vuol dire “scelta”).
La scuola educa perché non ci siano seguaci nostalgici e fedeli di principi indiscussi, ma attivatori di nuovi significati nati dal criterio della discussione. È debitrice a Socrate e alla sua maieutica.
Diffido, e invito a diffidare, di ogni progetto di rinnovamento del sistema scolastico in cui sia contemplata, in modo esplicito o surrettizio, la separazione delle due dimensioni. In cui, per dire, ci sia “un tempo per istruire” e “un tempo per educare”, o una ordinata “divisione del lavoro” tra soggetti deputati all’una e all’altra funzione. Sono, invece, favorevole a un progetto politico-culturale che accetti la scommessa di un sistema scolastico finalmente liberato da quella dicotomia su cui si sono infrante nel tempo le varie intenzioni riformatrici. Soprattutto, si sono perse le opportunità di emancipazione di intere nuove generazioni.




Gruppo classe vs gruppo di apprendimento. La tentazione della “grande riforma”

di Simonetta Fasoli

Leggo e cito testualmente dal Pnrr, missione 4, Riforma 1.3: Riforma dell’organizzazione del sistema scolastico
“La riforma consente di ripensare all’organizzazione del sistema scolastico con l’obiettivo di fornire soluzioni concrete a due tematiche in particolare: la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica. IN TALE OTTICA SI PONE IL SUPERAMENTO DELL’IDENTITÀ TRA CLASSE DEMOGRAFICA E AULA, ANCHE AL FINE DI RIVEDERE IL MODELLO DI SCUOLA […]”
I caratteri cubitali sono miei.

Mi sembra che sia il caso di fare qualche osservazione su questo passo, per le implicazioni che comporta, riguardo all’esplicitato e al non detto. Cercherò di andare per punti: la sintesi aiuta, se non è reticenza.

1) La possibilità di articolare la classe in gruppi individuati in base ai percorsi e agli specifici obiettivi, secondo scelte di natura didattica, è chiaramente prevista dal Regolamento dell’autonomia (D.P.R. 275/99)
2) Questa modalità organizzativa trova riscontro anche nella L. 107/2015, laddove ripercorre e riformula i dispositivi previsti nello stesso Regolamento. Uno degli aspetti che si salvano, per così dire, dentro un impianto normativo largamente discutibile e discusso dal mondo della scuola.
3) Il tutto, tra l’altro, ha un nobile antecedente nella L. 517/1977, che arriva a prevedere e quantificare periodi di riorganizzazione dell’attività didattica, all’interno dell’anno scolastico ordinario, finalizzati a obiettivi di recupero, rafforzamento e ampliamento (le cosiddette “160 ore”, nella scuola media, di cui ho avuto diretta e feconda esperienza da docente, in una scuola della periferia romana, intorno alla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso).
4) Le ipotesi organizzative prospettate e messe in campo, dando ampia libertà di scelta ai docenti nella programmazione collegiale, contemplano, ovviamente, la possibilità di scomporre e ricomporre le classi, articolandole in gruppi di apprendimento. Tale articolazione può effettuarsi sia per classi parallele, della stessa leva anagrafica, sia per classi in verticale, di diverse età.
5) È del tutto evidente che questa progettazione non solo è legata all’autonomia scolastica come autonomia didattica, di ricerca e sviluppo, ma è pienamente realizzabile solo in presenza di risorse di organico idonee, di adeguati spazi e tempi.
6) Il punto di cui sopra spiega in gran parte, anche se non in tutto, le ragioni per cui i dispositivi previsti dalle norme sono per lo più rimasti “lettera morta”. Ciò mentre si continuava a stracciarsi le vesti sulla “piaga” della dispersione scolastica e sulla difficoltà della scuola-istituzione a farsi carico efficacemente della popolazione scolastica più fragile e dei territori culturalmente disagiati.

Alla luce dei punti precedenti, vorrei perciò sottolineare che per rimuovere le forme di rigidità del sistema, che sono tra le cause strutturali più rilevanti della sua inefficacia e di una crisi che nasce da lontano, non è necessario prospettare l’ennesima Grande Riforma. Basta dare alle scuole le risorse necessarie per far valere gli strumenti normativi che esistono da venti (o quaranta) anni.
Non basta. Ritengo rischioso abbandonare in via ordinaria l’articolazione tradizionale del gruppo classe, basata sul criterio dell’età anagrafica, a favore di un suo “superamento” deciso per via amministrativa e non affidato agli strumenti di progettazione delle scuole, che evidentemente saprebbero calibrare i criteri e le modalità di organizzazione in base alle specifiche condizioni di contesto.

Il gruppo classe ha, infatti, due distinte dimensioni: una burocratico-amministrativa e una pedagogico-didattica. La prima serve anche a determinare su parametri chiari e definiti la consistenza della scuola e il fabbisogno delle risorse.
La seconda identifica un gruppo di apprendimento che è anche il contesto dei pari, quell’ambiente in cui si condividono caratteristiche evolutive, istanze e bisogni: come ci insegnano accreditate psicologie dello sviluppo e teorie dell’apprendimento socio-costruttivo. Se questo è il punto di partenza, a mio avviso da tenere fermo, mi piacerebbe sapere verso quale “modello di scuola” (per ripetere l’impegnativa formula usata nel documento governativo) si intende invece andare. O si pensa di liquidare anche la classe come un residuo novecentesco, come si è tentato di fare (in parte, purtroppo, riuscendoci) con il concetto di “obbligo di istruzione”, sostituito con il più ambiguo e addomesticabile “diritto-dovere”?

In conclusione: vorrei che l’attuale ministro, di cui non metto in dubbio la capacità, la solerzia e le buone intenzioni, resistesse alla tentazione di lasciare un segno del suo operato “aere perennius”, attraverso un intervento strutturale di cui non si avverte la necessità.
Sarà piuttosto ricordato con gratitudine dalla scuola e da coloro che hanno a cuore le sue sorti se assicurerà finalmente quegli interventi davvero indispensabili per dare corpo e gambe ai cambiamenti che da tempo aspettano. Stanno scritti in quello che può essere ma ancora non è o non è pienamente.
Un compito meno altisonante, ma grande per generosità di intenti ed efficacia di azioni.




Il voto è morto, viva il voto?

di Simonetta Fasoli 

Non mi piace, di solito, iscrivermi al club dei disfattisti, tra i fautori del “benaltrismo”: il “ben altro”, per definizione, è inesauribile…
Detto questo, non mi sento neanche di entrare a far parte del coro di coloro che stanno prodigandosi in commenti a tutto tondo positivi verso le disposizioni ministeriali che regolamentano la fase attuativa del superamento della valutazione decimale nella Scuola primaria.
Leggendo l’O.M. 172 del 4/12/2020 con le allegate Linee guida che ne fanno parte integrante, parecchi sono i dubbi che mi sorgono.
Non voglio affliggere chi mi legge con una troppo lunga disamina (inadatta, a parer mio, al mezzo…). Mi limiterò a poche, sintetiche osservazioni, rinviando ad altra sede e occasione una più articolata riflessione.


L’impressione complessiva è che il ricorso a indicatori per livelli precostituiti comporti un ragionevole rischio di reintrodurre un criterio surrettiziamente quantitativo e faciliti, nelle pratiche adottate nelle scuole, la traduzione meccanica del voto in livello. Non dimentichiamo che la valutazione discorsiva in sede intermedia e finale adottata a suo tempo (L. 517/77) si è presto trasformata in giudizi alfabetici (livelli), per più versi anticipatori del ritorno al voto.
I livelli, descritti con formule che meriterebbero un’attenta analisi, comportano in ogni caso una concezione di classificazione per scala, presupponendo tra un grado e l’altro della scala medesima intervalli regolari. Ma non è questo il principio di misurazione sotteso al voto decimale?
Mi sfugge, poi, come questo strumento possa comportare, per sé preso, il vantaggio di una vera “valutazione formativa” che i testi ministeriali evocano ripetutamente, facendo eco agli entusiasti sostenitori dell’abolizione del voto. “Valutazione formativa” significa essenzialmente dar conto del processo e non sancire il prodotto (mi scuso di usare, per brevità, parole-slogan…): è questo che consentono i livelli? Mi permetto di dubitarne.
E di prefigurare, a fronte di questa vistosa lacuna, pratiche di valutazione tristemente ricorrenti.
Spero, infatti (e temo fortemente) che non si dica: “ma se diamo ‘livello avanzato’ a Tizio, dobbiamo darlo anche a Caio”…E spero altrettanto che chi è “in via di acquisizione” non resti su quella via…perché la sanzione dell’esito esime fin troppo facilmente dall’intervenire didatticamente sulle condizioni e sul processo che lo determinano.
Insomma, speriamo che morta una scala non ne nasca un’altra.
Non serve cambiare il termometro per curare la febbre.
Un capitolo a parte meriterebbe la scelta di adottare una valutazione (“formativa”, mi raccomando…) applicata alle singole discipline. Questa mi sembra una spia altrettanto significativa delle contraddizioni interne in cui si dibatte la nuova normativa. Va detto che la stessa discutibile impostazione si ritrova, esplicitamente, nelle Indicazioni nazionali 2012, come ho più volte fatto osservare nelle occasioni di formazione e riflessione sull’impianto della Scuola primaria. Una opzione appena temperata dalla motivazione addotta nello stesso documento: lasciare alle istituzioni scolastiche il compito di effettuare le opportune aggregazioni disciplinari.
Resta il fatto che le disposizioni sulla valutazione finiscono per confermare la frammentazione disciplinare, che è estranea alla natura profonda del percorso primario di educazione e istruzione. Una deriva “disciplinarista” che, ancora una volta, fa a pugni con il “valore formativo” delle discipline, evocato dai documenti istituzionali prodotti nel tempo.
Mi fermo qui. Le scuole si stanno mobilitando per rispondere alle nuove (ma quanto davvero “nuove”?) disposizioni. È congruente con il loro compito istituzionale, e certamente a certe condizioni può innescare processi virtuosi. Ma a patto che sia valorizzata la componente professionale dell’operazione, e che una responsabile e condivisa interpretazione prevalga sulla funzione “adattiva”, per non dire sulla tentazione di mera “esecuzione”.
Sarebbe davvero imperdonabile non far diventare vera occasione di cambiamento quello che, per ora, mi sembra un tentativo, significativo certo per la sua matrice istituzionale, ma proprio per questo non privo di insidie. Come ho cercato di sottolineare.




I limiti della “scuola in casa”

di Simonetta Fasoli

L’esperienza della Dad (l’ormai noto acronimo della didattica a distanza) è come sappiamo nata da un’inevitabile scelta nella fase più drammatica dell’epidemia.
Molto è stato detto sulle possibilità che ha in ogni caso offerto e sugli aspetti problematici che ha fatto emergere. Sottraendomi in questa sede ad una disamina degli uni e delle altre, che esula dal fuoco tematico di questo contributo, mi sembra pertinente soffermarmi su uno dei suoi “effetti collaterali” che merita un supplemento di riflessione. Infatti, lo sviluppo delle lezioni a distanza, segnando in parallelo l’implosione della “scuola materiale” ben fissa nell’immaginario e nell’esperienza di noi tutti, ha dato vita ad una parallela diffusione di una “scuola domestica” del tutto inedita.
Insomma, è scomparso lo “spazio pubblico” che è uno dei tratti fondanti della scuola come istituzione storicamente determinata. Al suo posto, un’inedita affermazione degli spazi domestici come luoghi privati, perfino intimi, diventati lo scenario abituale dei processi di insegnamento-apprendimento. Le “aule”, di cui attualmente tanto si discute nella prospettiva dell’imminente ripresa, hanno preso i connotati degli ambienti domestici. Potremmo dire che questo fenomeno ha dato corpo a un vero e proprio processo di “privatizzazione” della scuola: su questo, ognuno potrà svolgere le proprie considerazioni, in coerenza con posizioni politico-culturali e personali convincimenti.
Al di là della prevedibile eterogeneità delle opinioni, resta il fatto oggettivo di una scuola che, arretrata dal suo “naturale” spazio pubblico, si è diffusa prendendo stabile dimora nelle case degli alunni e degli studenti. È plausibile pensare che la pervasività del fenomeno, e dei processi anche simbolici che ha innescato, possa essere all’origine di un incremento delle richieste di “homeschooling” che si va rilevando nel nostro Paese.
Opzione, come sappiamo, prevista dal nostro sistema giuridico, ma finora praticata in modo del tutto residuale; diversamente da quanto accade, per esempio, in altre aree di lingua anglosassone.

Proprio per l’emergente rilevanza del fenomeno, anche dal punto di vista quantitativo, converrà interrogarsi sui limiti e sulle problematicità in cui incorre. Partirei dal più largo e comprensivo ambito educativo, per poi fare qualche affondo sulle dimensioni della funzione di “istruzione” cui assolve la scuola per mandato costituzionale. Riguardo al primo punto, osservo che la scuola, nella sua materialità, è il primo luogo pubblico con cui entrano stabilmente in contatto i bambini e le bambine, fin dalla Scuola dell’infanzia. In questo spazio protetto e aperto al tempo stesso fanno diretta esperienza di un “altrove” rispetto alle pareti domestiche. Un altrove che ben presto assume i contorni di stimoli, routines e presenze che danno concretezza alle azioni di “cura” e di “intenzionalità educativa” predisposte dagli insegnanti.
Questa è la palestra di vita che fa parlare fondatamente di un “ambiente di apprendimento”. Qui maturano le esperienze di esplorazione percettiva, di relazionalità e di primo distanziamento dalle emozioni senza cui non si dà processo di crescita e di conoscenza.
Alla luce di queste sintetiche considerazioni, è legittimo chiedersi cosa comporta in termini educativi il permanere in una condizione di apprendimento “familiare”, per quanto accorto e sensibile alle esigenze dei piccoli. È opportuno interrogarsi sulle limitazioni che inevitabilmente gravano in un contesto di apprendimento integralmente privatizzato. E viene da chiedersi di che natura potrà essere l’inevitabile impatto con il mondo “là fuori”, se l’ingresso nei suoi contesti, formali e non formali, risulta essere procrastinato.
Superfluo sottolineare, da questo punto di vista, la difficoltà a sviluppare le competenze relazionali connesse al senso civico e alle forme più elementari della convivenza. C’è da temere che questa tendenza, magari animata dalle migliori intenzioni, di trattenere nel “nido” i piccoli possa mostrare nel tempo le sue insidie, favorendo il formarsi di personalità narcisistiche, caratterizzate da atteggiamenti auto-riferiti e, al limite, antisociali.
Non meno irto di effetti problematici il percorso di un bambino o una bambina, gestito in ambiente domestico, dal punto di vista dello sviluppo degli apprendimenti.
La prima forte riserva nasce considerando le specifiche competenze che sono in grado di mettere in campo i genitori. Non si discute che possano avere il prezioso bagaglio di competenze acquisito, come si dice, nella “scuola della vita”…ma come negare che, da sola, non basta? Non basta, se non è supportata dalle necessarie conoscenze scientifiche e psicopedagogiche sul delicato e complesso processo di sviluppo. Si dirà che a volte neanche la competenza professionale è sufficiente a garantire rispetto ad approcci non efficaci o addirittura impropri…Vero: mi viene da dire, figuriamoci senza!

Resta da considerare brevemente il nodo problematico costituito dall’assommare in una sola figura la funzione genitoriale e quella docente nei confronti dell’istruzione impartita ai propri figli. Un “corto circuito” di cui non sfuggono le molteplici implicazioni. L’apprendimento è processo complesso, nel quale elementi propriamente cognitivi e dimensioni emotivo-relazionali sono inestricabilmente connessi. Altrettanto, e forse più complesso il rapporto genitore-figlio, in cui più intensamente giocano fattori che sono stati ampiamente studiati dalle psicologie dinamiche di diverse scuole. Per questo, è quanto mai opportuno separare nettamente la figura del genitore, nella sua insostituibile funzione educativa, da quella dell’insegnante. La presenza di un “testimone empatico”, dotato di specifiche conoscenze scientifiche, è quella che più efficacemente accompagna e sostiene il soggetto in crescita nell’appassionante avventura dell’apprendimento.
E, da ultimo ma non in ordine di importanza, il ruolo fondamentale svolto dal gruppo dei pari, che nella scuola è istituzionalmente predisposto. Come sappiamo dalle più accreditate teorie dello sviluppo e dell’apprendimento, il gruppo dei pari è un prezioso referente per esplorare percezioni e conoscenze. È insieme ai pari che si co-costruisce il processo di conoscenza, si negoziano significati, si progettano azioni. I pari nel gruppo di apprendimento sono potenti vettori di nuove acquisizioni, non paragonabili ai pur preziosi “compagni di gioco” che si invitano nello spazio privato domestico.

A scuola è messo in scena il gioco sempre nuovo e aperto della conoscenza: in uno spazio pubblico, allestito intenzionalmente dai docenti e arricchito dalla creatività imprevedibile dei bambini e delle bambine. È l’anticipazione del grande gioco sociale che in modi sempre più articolati e complessi impegnerà gli adulti che saranno diventati. Perché privarli di tutto questo?




Tempo pieno, un modello pedagogico da ritrovare

di Simonetta Fasoli

Vale la pena, di fronte all’emergere di proposte che fanno riferimento al Tempo pieno, sollecitandone l’estensione generalizzata, provare a portare qualche elemento di chiarezza e qualche utile “distinguo”: questo proprio per incanalare le prospettive che si aprono in una direzione promettente ed efficace.
Non starò a fare una puntuale ricostruzione dei modi con cui si è storicamente affermato il Tempo pieno, limitandomi ai suoi tratti costitutivi, pur nella varietà dei contesti in cui si è andato affermando.

1) Il Tempo pieno non è nato come risposta di tipo assistenziale, basata sul mero allungamento della giornata scolastica, in corrispondenza delle esigenze lavorative dell’Italia nella sua fase economicamente espansiva (e socialmente problematica).

2) Esso ha rappresentato, piuttosto, il primo vero tentativo di affrontare gli effetti dell’affermazione di una scuola a larga base sociale, che ha segnato in parallelo l’evoluzione strutturale del Paese.

3) La scolarizzazione che ne è seguita ha fatto emergere fasce di scolarità per le quali il sistema di istruzione/educazione, ancora largamente gentiliano per impostazione culturale e approccio didattico, si era rivelato del tutto inadeguato.

4) Da qui l’intuizione fondamentale su cui poggia il modello pedagogico del Tempo pieno: estendere il tempo scuola come tempo integralmente educativo, in cui cioè la variabile “tempo” diventi la risorsa fondamentale della didattica.

5) Lungi dall’essere una riproposizione del doposcuola, come modalità assistenzialistica di supporto allo studio individuale, la giornata scolastica viene articolata come un unico percorso in cui gli alunni possano connettere vissuti e saperi, secondo le metodologie attive. Fondamentale l’esplorazione e l’uso di linguaggi alternativi a quello puramente verbale della scuola tradizionale, che penalizza da sempre le fasce sociali più fragili.

6) Chiave di volta della nuova modalità di approccio, il rafforzamento delle presenze dei docenti, che superano la figura del maestro unico, raddoppiando il loro numero, per valorizzare al massimo la pluralità di esperienze e linguaggi che liberano le potenzialità espressive degli alunni. Non ci sono insegnanti principali e insegnanti di supporto, essendo entrambi i docenti pienamente titolari del percorso di insegnamento/apprendimento.

Come ognuno può capire, da questi sintetici punti, il Tempo pieno non è semplicemente “più tempo nella scuola”, ma “più scuola nel tempo che si dà”. Il “tempo ritrovato dell’educazione”: come ebbi a dire in un Convegno di studi proprio dedicato al tema parecchi anni fa.
È altrettanto evidente, ma converrà ribadirlo, che questo modello pedagogico-didattico è stato completamente smantellato con gli interventi normativi che da Moratti-Gelmini in poi hanno sottoposto la scuola ad una politica di tagli lineari. Essi hanno riguardato l’articolazione oraria (della Scuola Primaria, in particolare) e la conseguente attribuzione delle risorse di docenti. Al più, si è fatto leva sull’autonomia delle scuole per trasformare il tempo scuola sostanzialmente in un “servizio a domanda individuale”, che tenesse conto delle richieste delle famiglie. Il risultato è stato quello noto come “orario spezzatino”: le 36-40 ore richieste da alcune famiglie per esigenze di lavoro, sono state erogate con la composizione di quote orario dei docenti. Non è difficile capire, anche per i non addetti ai lavori, che in questo puzzle l’unitarietà del tempo educativo e il valore di riferimento della figura docente vanno letteralmente in pezzi.

Alla luce di queste osservazioni, è lecito domandarsi QUALE tempo scuola si sta proponendo di generalizzare ed estendere al quinquennio della Primaria. Se quello innestato sulle norme Moratti – Gelmini o quello descritto in questo contributo. Perché, nel primo caso, direi “no, grazie, non interessa la scuola parcheggio” (sperando che siamo in tanti a dirlo). Nel secondo caso, inviterei sommessamente gli estensori della proposta a non usare l’espressione “estendere il Tempo pieno”, ma piuttosto “ripristinare il Tempo pieno”, estendendolo piuttosto come modello pedagogico all’intera Scuola primaria. Dunque, investire le rilevanti risorse che il governo sembra intenzionato ad assegnare alla Scuola nella direzione che ne consegue, anzitutto in termini di risorse umane (organico docenti e A.T.A.).

Da questo punto di vista, mi rende non poco perplessa leggere in queste proposte un’ulteriore interpretazione dell’espressione “più tempo”, che a mio avviso va proprio in altra direzione. Si tratta, a quanto leggo, di TENERE LE SCUOLE APERTE PER PIÙ TEMPO: per essere a disposizione della progettualità culturale del territorio, delle realtà che lo qualificano, degli operatori del Terzo settore e via elencando. Come ognuno può capire, questo non ha nulla a che vedere con il modello pedagogico-didattico del Tempo pieno di cui stiamo parlando: infatti, esso si avvale del territorio per trarne gli stimoli che gestisce in termini educativo-didattici, in coerenza con il progetto culturale della scuola.
La richiesta di una maggiore apertura nel tempo dei locali scolastici attiene, infatti, alle esperienze di progettazione partecipata, di integrazione di educazione formale (pertinente alla Scuola per mandato costituzionale) e di educazione non formale (preziosa risorsa delle agenzie culturali del territorio).
Nulla in contrario, anzi, come ho più volte ribadito in altri post di argomento analogo. L’importante è che questa opera quanto mai opportuna di integrazione (che significa arricchimento e apertura della scuola nel territorio) avvenga secondo criteri condivisi e trasparenti di riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni. A costo di ripetermi (“repetita iuvant”…) il punto politico è che non ci siano situazioni esplicite o, peggio, surrettizie di cessione di quote del curricolo scolastico a soggetti esterni (chiamasi “esternalizzazione”).

Le risorse pubbliche, che da anni la Scuola aspetta, per rispondere all’emergenza educativa di cui tutti, a parole, si dichiarano preoccupati, vanno destinate alla Scuola. È la Scuola secondo Costituzione, titolare del bene pubblico dell’istruzione/educazione delle nuove generazioni. Esattamente come vanno alla Sanità, per porre fine a quella “distrazione” di risorse di cui con l’epidemia abbiamo visto le drammatiche conseguenze.
Con la salute non si “gioca” a rimpiattino, e neanche con l’educazione.

Se chi propone più Tempo scuola intende muoversi in questo solco, sarà utile fare chiarezza sui punti che ho sollevato. Sarò sempre dalla parte di chi crede sinceramente nel valore di emancipazione della Scuola e dell’educazione. Non intendo “ravvedermi”, andando fuori da questo seminato. Dai principi non ci si ravvede: si accetta che si incarnino nelle diverse forme che assume l’evoluzione del tempo.