di Simonetta Fasoli
La proposta di legge sull’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi scolastici e formativi, approvata dalla Camera l’11 gennaio scorso, è approdata al Senato (disegno di legge n. 2493).
All’indomani dell’approvazione, scrissi un breve post dal tono ironico, che non intendeva certo minimizzare la questione, ma al contrario dire: “attenzione, qui c’è un problema!”.
Poiché l’iter legislativo prosegue, e come succede in questi casi è destinato, al suo compimento, a produrre effetti, sarà il caso di andare oltre la prima reazione e fare qualche affondo di merito. Partendo dalla messa in questione della materia stessa dell’iniziativa parlamentare e domandandosi anzitutto se sia fondato parlare di “competenza non cognitiva”.
Del resto, lo stesso testo del disegno di legge già all’esordio (art. 1, c.1) pone come finalità quella di “promuovere la cultura della competenza”. Affermazione che va presa sul serio.
Nei contesti di studio e di formazione in cui mi trovo ad operare, mi piace sottolineare (e argomentare) un assunto: che sia possibile e anzi auspicabile sostenere un’accezione pedagogica della nozione di competenza; nozione che, per sé presa, più parti del mondo della scuola e degli addetti ai lavori vedrebbero inficiata irrimediabilmente dalla sua origine nell’universo del lavoro e della catena produttiva. Confortata, in questa intenzione, dal fatto che il termine stesso sia stato da oltre un ventennio “sdoganato” ed acquisito nell’ambito dell’istruzione e formazione, a partire dalle norme sull’autonomia per arrivare a rilevanti documenti europei (le Raccomandazioni del 2006 e 2018 concernenti le competenze chiave di cittadinanza).
A livello di studi e di ricerche, mi piace richiamare spesso, in quei miei contesti di lavoro, una delle definizioni a mio parere più illuminanti della nozione di competenza, che suona così: “una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, affettive e evolutive, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. (Michele Pellerey, 2004).
I caratteri cubitali sono miei, utilizzati nell’ambito di questo mio intervento, con lo scopo di sottolineare quello che ora mi preme sostenere: la dimensione strutturalmente cognitiva di ogni costrutto di competenza. Dunque, a mio parere, l’ossimoro, o se si vuole, la contraddizione in termini di una formulazione come quella su cui è basato l’intero impianto del disegno di legge.
Del resto, le stesse Raccomandazioni europee, con una formula a mio avviso più generica, parlano delle competenze come di un mix di conoscenze, abilità e atteggiamenti. Giusto. Si tratta di vedere COME stanno insieme e come agiscono e interagiscono questi elementi: la definizione che ho appena citata ce ne dà un’immagine dinamica e integrata, non semplicemente giustapposta. Ma quello che qui conta è decostruire il senso della “competenza non cognitiva” e mostrarne l’infondatezza. Tutto il resto del disegno di legge di cui si sta parlando, poggiato su un presupposto errato, va radicalmente discusso e revocato in dubbio.
Ma, una volta sgomberato il campo da questo vizio di fondo, resta in piedi l’interrogativo sul significato politico-culturale dell’operazione sottostante all’iniziativa di legge. Questione non meno decisiva di quella fin qui esaminata.
Detto che nessuna norma è in sé neutrale, qual è il retroterra su cui si innesta questa di cui parliamo? Come anticipo nel titolo, si tratta di “culture politiche”, che, come vediamo dai nominativi dei primi firmatari, sono trasversali a diverse formazioni partitiche, e ben riconoscibili.
Senza peccare di dietrologia, ci sono nel testo di legge alcuni passaggi che fanno luce sul tema. Già nell’articolo 1, comma 2 ne possiamo rintracciare uno. Infatti, vi si prevede (terminata la fase sperimentale) l’emanazione, con decreto ministeriale, di “linee guida (…) che individuano (…) SPECIFICI TRAGUARDI PER LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE E OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO, in coerenza con le Indicazioni nazionali per il curricolo (…) e con le Indicazioni nazionali per i licei e le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali vigenti.”
Dunque, ci troviamo di fronte all’ipotesi di una vera e propria PROGETTAZIONE CURRICOLARE PARALLELA: “in coerenza”, ma distinta da quelle vigenti, e addirittura legittimata da un provvedimento formale quali sono le Linee guida ministeriali.
Ecco che prende forma, a mio avviso, un’IDEA DI SCUOLA, basata su un presupposto preciso e dal mio punto di vista discutibile: la netta separazione dell’educazione dall’istruzione, quelle due dimensioni che la scuola pubblica, come istituzione, tiene e deve tenere insieme nel suo stesso agire.
Non basta. Se incrociamo questo dispositivo con quello contemplato nell’articolo 4, comma 3, punto c, si palesa un elemento che getta ulteriore luce sull’operazione politico-culturale nel suo senso complessivo. Vi si parla, infatti, a proposito della prevista sperimentazione, di “percorsi formativi innovativi (…) di “recupero motivazionale degli studenti”, al fine di “contrastare la dispersione scolastica sia esplicita sia implicita, anche attraverso percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento o PROGETTI DI PARTENARIATO CON ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE E DEL VOLONTARIATO” .
Sono miei i caratteri cubitali inseriti nel testo: stanno a segnalare la comparsa di soggetti che sono tradizionalmente sostenuti da alcune di queste culture politiche. E segnalano un rischio che, in combinato disposto con la netta separazione tra istruzione ed educazione di cui ho detto, appare come qualcosa di ben diverso da una semplice ipotesi da verificare.
In conclusione: quale idea di scuola si fa avanti, in una fase per di più di grande fragilità della scuola stessa, per le note vicende della pandemia e per i modi del tutto inadeguati con cui la stanno affrontando i decisori politici?
Quali insidie politiche e culturali si annidano dentro un’iniziativa che, a questo punto, mi sembra ben più gravida di conseguenze di una maldestra operazione di restyling pedagogico-didattico?
Cosa ne è della scuola pubblica, della scuola come bene comune, fattore di emancipazione e di uguaglianza sociale secondo Costituzione? Ci troviamo di fronte a una scuola che porterebbe in sé il germe della separazione tra educazione e istruzione (entrambe scotomizzate, in quanto artificiosamente separate), tra emozione e conoscenza (come se fosse possibile separare l’una dall’altra nei processi reali di apprendimento…). Una scuola che venisse meno alla sua stessa natura istituzionale, lasciando ad altri soggetti il campo di una parte sostanziale del suo mandato, insieme ad una dimensione fondamentale del suo curricolo.
Il compito della scuola è “tenere insieme”: l’unitarietà del suo sistema, la coerenza della sua azione, le professionalità che vi si esplicano, ma soprattutto le vite e le storie di chi cresce.
Pensiamoci, facciamo vigilanza attiva, anche in tempi difficili. O forse proprio per questo.