A trent’anni dalla legge 104. Il contributo della mia generazione

di Paolo Fasce

La legge 104 del 5 febbraio 1992 è una pietra miliare nell’ambito della tutela dei diritti delle persone con disabilità e il giorno in cui scrivo questo contributo intellettuale, sociale e civile della generazione che ha preceduto la mia nelle responsabilità operative del paese compie trent’anni.
Quando è stata emanata, Giulio Andreotti era presidente del Consiglio dei Ministri, la maggioranza parlamentare era quella del quadripartito (DC-PSI-PSDI-PLI) e il presidente della Repubblica era, nel suo declinare, Francesco Cossiga.
Il 17 febbraio di quell’anno, Antonio Di Pietro chiedeva l’arresto di Mario Chiesa e quello che si era appena avviato quale anno del centenario della fondazione del Partito Socialista Italiano, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere l’ultimo di quella gloriosa esperienza.

Il 5 febbraio 1992 lo scrivente non aveva ancora compiuto 25 anni, non immaginava che sarebbe diventato insegnante e poi dirigente scolastico, progettava il proprio Programma Erasmus e assisteva alla trasformazione della propria città in polo turistico grazie all’esposizione universale delle colombiadi che regalavano il Porto Antico al mondo attraverso le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell’America.
Scoperta da parte del mondo occidentale, beninteso.
Questa lunga premessa al semplice fine di inquadrare il contesto storico che mostra chiaramente come questo paese abbia viaggiato su due binari.

Quello del malaffare emerso con Tangentopoli, e dal quale stimo non siamo mai usciti, e quello delle questioni alte, affrontate alla luce del dettato costituzionale e sulla spinta della società civile e che ha sostenuto le evoluzioni emerse in seno al pensiero scientifico, in particolare quello pedagogico, accolto e sviluppato dal mondo politico nelle commissioni parlamentari. Un paese di contraddizioni quotidiane, quindi.
Da allora sono passati trent’anni. Il panorama politico della mia gioventù è stato travolto e sostituito da altri pensieri politici e altre modalità di aggregazione che sono intervenute in tutto il mondo non solo a causa dell’avvento della tecnologia, ma anche per evoluzioni socio culturali che la realtà ci costringe ad affrontare. Spesso, lo stile è di tipo oppositivo, accondisceso e accolto da forze politiche ciniche a caccia di facile consenso, e l’uscita da logiche reattive non è facile sia per limiti personali che per l’insieme di relazioni entro le quali ciascuno di noi è inserito.
Trent’anni non sono passati invano, almeno nel mondo scolastico, e la lettura della Legge 104 effettuata oggi è significativa e istruttiva. Se da un lato è un approdo alto della “prima Repubblica”, figlio di evoluzioni che partono con la Costituzione, attraversano la scuola media unica (1962) e la chiusura delle classi differenziali (1971-1977), d’altro canto il suo lessico è oggi irritante perché quanto oggi conosciamo grazie all’ICF sembra tanto distante da quel vocabolo tante volte utilizzato: handicappati. Oggi parliamo di persone con disabilità che apprezziamo in molti campi, come ad esempio quello delle paralimpiadi, ma che continuiamo a celare per difficoltà che spesso non riusciamo a superare nel campo della disabilità mentale e comportamentale.
Nel contesto dei contributi che le generazioni successive a quelle della “prima Repubblica”, non possiamo tralasciare le linee guida sull’inclusione scolastica del 2009, né la Legge 170 sui DSA e le circolari successive che hanno introdotto il tema dei bisogni educativi speciali e non possiamo che essere orgogliosi del comma 961 della Legge 178/2020 che istituisce la formazione finalmente obbligatoria, per davvero, per tutti gli/le insegnanti con studenti o studentesse disabili, in questo caso orientata all’inclusione scolastica: “Il fondo …, è incrementato di 10 milioni di euro per l’anno 2021 destinati alla realizzazione di interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Tale formazione è finalizzata all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso”.
Dico “finalmente obbligatoria” giacché il comma 124 della Legge 107 che istituiva la formazione “obbligatoria, permanente e strutturale” è svuotato di senso per il fatto che la delibera in merito alla sua attuazione è demandata al generalmente riottoso Collegio dei Docenti che, con grave danno per il credito sociale dei docenti e per la crescita professionale possibile in trenta/quarant’anni di carriera sui temi didattici e pedagogici alla portata di qualunque “ingenuo volenteroso”, si pensa più come Assemblea Sindacale che come consesso di professionisti.
Vediamo quindi quali sono i contributi che la mia generazione è chiamata a dare per restare nella tradizione alta della “pedagogia ministeriale e normativa” incarnata dalla legislazione oggi vigente, con un occhio sulla scuola e uno sulla 104.
Per quel che riguarda la prima, stante l’evidente indisponibilità sindacale a convergere verso una scuola pedagogica, giacché i contratti che questi sono disponibili a firmare sono mediazioni al ribasso centrate sulle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, a detrimento delle necessità dell’utenza, scaricando le contraddizioni evidenti, sui poveri dirigenti scolastici che dovrebbero essere selezionati unicamente sulle loro capacità di moral suasion, giacché raramente hanno a disposizione altri strumenti.
La soluzione di questo grave problema è chiara ed è tutta politica: occorre riscrivere il testo unico figlio dei “decreti delegati” e che nella versione vigente compirà 30 anni a breve (ma ne ha di fatto cinquanta). Tale soluzione ci è indicata proprio dalla Legge 178 che ha reso diffusamente possibile quella formazione necessaria ed elusa per molti lustri da chi non volesse esserne coinvolto.
Per quel che riguarda gli aggiornamenti della Legge 104, mi sento di indicare solo alcuni ritocchi estetici (una riscrittura in linguaggio moderno e non lesivo delle persone) e pochi sostanziali. In particolare quelli che affrontino il grave problemi degli abusi in merito ai permessi che sono tanto doverosi nei casi realmente aventi diritto, quanto osceni negli abusi che è troppo difficile fare emergere.
Fatto questo, la mia generazione potrà passare serenamente il testimone alle donne e agli uomini del nuovo millennio.




Defascistizzare la valutazione, almeno per le “pratiche estive”

di Paolo Fasce

Ho sempre riflettuto sul tema della valutazione. A volte l’ho fatto con tono scherzoso, mettendone alla berlina gli eccessi pseudo docimologici (lo feci proprio sul sito di Pavone Risorse), altre l’ho fatto più seriamente dedicando un capitolo della mia tesi di dottorato (anche questo pubblicato sul sito di Pavone Risorse). Recentemente ho scritto un Regolamento della Valutazione che nei prossimi giorni, dopo un passaggio in Commissione PTOF e discussioni diffuse nei dipartimenti disciplinari e nei consigli di classe, affiorerà in Collegio dei Docenti per una discussione collettiva e meditata. Lo rendo disponibile in questa sede perché potrebbe ispirare qualcuno e contribuire a salvare delle vite.
In questo regolamento ho provato a defascistizzare la valutazione.
Uso tecnicamente questa parola, giacché ho appreso che la locuzione “congruo numero di valutazioni scritte, orali e pratiche” deriva da un articolo di un regio decreto della riforma Gentile.
La normativa vigente, quella che è emersa col DPR 122/2009 e con D.Lgs. 62/2017 sembrano però lettera morta nei regolamenti sulla valutazione innestati nei PTOF che continuano a parlare di “congruo numero di voti”. Il mio contributo vuole accogliere ciò che è scritto nelle norme vigenti, ma non letto, meno che mai praticato.
Non è il regolamento che scriverei se fossi imperatore del mondo (dico “imperatore del mondo” perché il regolamento che scriverei non avrei il potere di deliberarlo neppure se fossi Ministro), ma è un contributo di cosa si può fare entro la legislazione vigente (quella davvero vigente, non quella che molti immaginano che ancora viga).
Pare assurdo, ma nessuno l’ha letta, la legislazione vigente. Nessuno si attiene. Tutto continua come se nulla fosse. E, infatti, spesso la scuola soccombe ai ricorsi. Per forza. Andiamo avanti per prassi obsolete.
Giacché non sono più giovane, ho fatto qualche esperienza e penso che dovremmo tutti adottare a scuola quella che in medicina è un cardine sul quale si basa da millenni questa disciplina: “primum non nocere”.
Ed è innegabile il fatto che i voti nuocciano. Creano disagio. Paura. Distaccano dal piacere dell’apprendimento. A volte, nelle psicologie condizionate di studenti che poi diventeranno disadattati nella vita, sono lo scopo del gioco. “Ho preso otto!” dice la mia stessa prole. Sono io che le chiedo: cosa hai imparato?
Alla luce di queste considerazioni, che mi fanno dire che la scuola avanzerebbe di un secolo semplicemente abolendo i voti (ma per fortuna mia e vostra, non sono l’imperatore del mondo), potete immaginare quanto stucchevoli appaiano alla mia modesta persona le notizie che sostengono che per le attività estive legate ai progetti che verranno finanziati col PON collegato al “Piano scuola estate 2021. Un ponte per il nuovo inizio” e con altri finanziamenti all’uopo dedicati, dovrebbero essere valutate. Nulla osta alla valutazione (peraltro, del tutto immaginata, temo da menti perverse), ma i voti no. No grazie.




Il voto numerico? E’ insensato

di Paolo Fasce

La valutazione nella scuola italiana è, di fatto, “pervasiva”. Lo è soprattutto nei tempi, giacché la normativa vigente, ripresa in ogni delibera del Collegio dei Docenti, al fine di rendere valido l’anno scolastico, impone un “congruo numero di valutazioni”. Nella didassi, questo si traduce in molte ore spese per soddisfare questo criterio, attraverso elaborati scritti (poi corretti dai docenti con ore e ore di lavoro poco riconosciuto) o attraverso interrogazioni orali (che hanno il “vantaggio” di non dilatare i tempi di lavoro del docente, ma l’enorme svantaggio di comprimere quelli di lavoro effettivo in classe). Anche le alternative possibili (valutazione di lavori di gruppo, elaborati informatici e di laboratorio in genere) sono “time consuming”. Una possibile trasformazione ideale del momento valutativo in momento didattico, quello che immagina di trasformare le interrogazioni in momenti di ripasso generale, problematizzazione, dialogo maieutico, approfondimento, è spesso un’aspettativa ampiamente disattesa dalla prassi concreta che vede dinamiche di gruppo involute e il coinvolgimento del solo interrogando. Durante un’interrogazione partecipata, invero, si re-instaurerebbe la “lezione dialettica” (2) di stampo medioevale dove si forniscono quei feedback capaci di evolvere significativamente le conoscenze degli studenti, ma tali opzioni sono colte solo da gruppi ristretti e motivati di studenti (numero fortemente dipendente dal tipo di scuola e dalla classe sociale delle famiglie degli studenti). Le tecnologie, come spiegheremo nel prosieguo, possono dare un significativo contributo nella costruzione di un “congruo numero di voti” senza che questo sia “time consuming” né per il docente, né per il lavoro in classe (che può quindi maggiormente volgersi ai lavori di gruppo e ai laboratori).

L’intervento completo nel sito PavoneRisorse

 




Come si diventa insegnanti

di Paolo Fasce, docente di scuola secondaria di secondo grado

Come si diventa insegnanti?
Ce lo ha spiegato Marco Bollettino in un articolo riportato su GessettiColorati e che mi permetto di integrare con considerazioni autonome. Dico subito che condivido ogni virgola del contributo di Marco.
Segnalo un paio di articoli che contengono miei contributi sul tema del precariato scolastico di quasi dieci anni fa.
Uno su NazioneIndiana del 3 settembre 2010 e l’altro su CarmillaOnLine del 27 settembre 2010).
Quando ero insegnante precario mi attivai subito per incalzare il Governo sul fronte delle assunzioni. Forse Bollettino potrebbe etichettare il mio lavoro di allora come quello delle lobby che denunciava nel suo articolo e, naturalmente, può essere così perché quando uno è nel bisogno si dà da fare.
Invero, devo dire, “darsi da fare” è cosa che ho fatto, non sempre circondato dalle folle, ma spero di poter affermare che, al netto di qualche iperbole che oggi leggo con affetto, ho sempre cercato di essere intellettualmente onesto. In buona sostanza, quando le frange più “estremiste” chiedevano l’assunzione di tutti gli insegnanti delle GaE, io lo ritenevo impossibile ed elaboravo la “proposta scientifica per un veloce assorbimento delle graduatorie ad esaurimento” che prendeva a prestito dalla teoria dei giochi l’algoritmo del matrimonio per sposare domanda e offerta territoriale. Un’ottimizzazione, non una soluzione che è poi stata data dalla Legge 107/2015 che, paradossalmente, ha aderito alle richieste più estreme di un tempo: svuotare le Graduatorie ad Esaurimento! Degli errori di implementazione dell’algoritmo, e delle conseguenti proteste non del tutto edificanti (ricordo la parola chiave “deportazioni”) ne ho già parlato da queste parti .
Orbene, gran parte delle mie critiche, allora si concentravano sull’anello di congiunzione, mancante, tra formazione iniziale e reclutamento. L’istituzione delle SSIS (attive per 9 cicli fino al 2009) e i tre seguenti TFA (banditi dopo una pausa di qualche anno che voleva evitare la creazione di nuovo precariato tra gli abilitati) forniva personale profilato e preparato con un biennio (SSIS) o un anno (TFA) orientato all’approfondimento pedagogico e didattico (molto più di questo, ma voglio essere sintetico), ma latitavano i concorsi, quindi l’unico canale era la graduatoria.
Orbene, sempre la 107/2015 risolse questo problema. Non già direttamente, ma tramite l’emanazione del D.Lgs. 59/2017 che innestava un percorso a numero chiuso di specializzazione (pagata, come succede a Medicina, con un “assegno di studio”), già dopo la laurea triennale. Dopo quel segmento era quindi previsto di accedere alla formazione iniziale che dopo un biennio (tipo SSIS) procedeva con un tirocinio (tipo TFA) e, infine, con l’assunzione. Finalmente tutto tornava entro un orizzonte di senso.
E invece no. Subito si sono levate le legittime lagnanze di precari che, entrando tramite questo percorso (chiamato FIT) perdevano le supplenze remunerate con stipendio iniziale, ma pieno (mentre l’assegno di specializzazione era più basso) e invece di correggere la stortura, ciò che è avvenuto è molto semplice e disastroso: il D.Lgs. 59 è stato riscritto e quanto di buono conteneva, cancellato.
Bisogna rilevare le differenze sostanziali tra 10 anni fa e oggi. Oggi non ci sono in giro molti abilitati. I percorsi SSIS+TFA hanno trovato il canale concorsuale riservato (o giù di lì) e l’abilitazione non esiste di fatto più, in quanto è acquisita automaticamente dai vincitori di concorso (ma non necessariamente dagli “idonei”). Il combinato disposto di questa abrogazione con quota 100 ha prodotto una scuola che, in questi anni, abolita la formazione iniziale e il canale FIT, si modella sull’improvvisazione. Centinaia di migliaia di precari vengono nuovamente assunti ogni anno senza che questi siano neppure abilitati. Semplici laureati.
Lo Stato ha inventato un pannicello caldo. Per insegnare (o meglio: per partecipare ai concorsi) occorrono 24 CFU di area psicopedagogica. Vengono elargiti da tutte le università del Regno, anche quelle telematiche, e si risolve tutto con un esame a crocette che non nega a nessuno, pagando s’intende, questi titoli necessari.
Da genitore mi permetto di concludere con: arridatece le SSIS.