Contro la didattica e la valutazione per “competenze”

rete_numeridi Alessandra Fantauzzi e Carlo Baiocco

Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una  formazione scolastica “per competenze” sono due:
(a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale;
(b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.

In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna, ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che sia possibile apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.

E’evidente che la tematica della didattica per “competenze” abbia ben altra natura e risponda ad altri scopi. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che, da tempo, si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento omettendo che tale teoria fu introdotta dallo psicologo statunitense David McClelland il quale, dopo una breve sperimentazione teorica, la introdusse nelle organizzazioni aziendali, in particolare attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963.
Il tentativo era volto alla misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e della sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test).
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti.
La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità, conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà. Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale “fa acqua” da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico e imposta ex lege come nel nostro caso.
Una legge dello Stato, il Decreto Legislativo numero 62 del 2017 e un coacervo di circolari e note ministeriali, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica, impongono agli insegnanti italiani una scelta didattica precisa: insegnare per competenze attraverso l’ introduzione di una certificazione delle Competenze.
Competenze che vanno misurate secondo i dettami di un ente esterno (Invalsi) attraverso sia la procedura di somministrazione censuaria di test, sia la compilazione di un Rapporto di Autovalutazione (RAV), al quale segue un Piano di Miglioramento (PDM), entrambi soggetti, poi, al controllo, al parere ed alla valutazione del (Nucleo esterno (!) di Valutazione (NEV), organo, che a sua volta, valuta poi gli stessi docenti!

Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che una competenza complessa, come ad esempio la comprensione linguistica, non è misurabile!

Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure, ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta, ma è intrisa di fattori soggettivi.

Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri, si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile a livello della valutazione di “competenze” minime, pur restando intriso di elementi soggettivi. È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici.
Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato. Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali nessuna stima quantitativa è possibile.

Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostini, con insano fanatismo e becera prepotenza, a parlare di misurabilità delle “competenze”, addirittura di “competenze della vita”e “competenze di cittadinanza” ed a cercare di imporla per legge. Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano addirittura un intralcio.

Le “competenze” chiave enunciate dal Parlamento europeo e recepite poi dal Parlamento italiano, corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente, cercando anche in parte di semplificare la complessità, indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative-esecutive.
Chi, come un insegnante, ha a cuore il futuro della scuola deve invece battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratichee di mercato del lavoro, senza nulla togliere a queste esigenze che nella Scuola, però, non dovrebbero entrare.
E’ singolare la leggerezza con cui le posizioni, pedagogiche e culturali, che fanno capo a una visione fondata sulla “paideia” socratica, costituita dal circolo luminoso e fecondo di “agalma” ovvero l’attrazione verso il sapere, come vuoto da non riempire, come vuoto da produrre, come vuoto da aprire, come luogo di una mancanza da preservare e come circolarità di e fra “eromenoi” (maestri che amano il sapere), “erastes” (amante del sapere) ed “eromenos” (ciò che è degno di essere amato) e su una tradizione umanistica che esalta l’epistemologia delle discipline e la scuola come percorso di costruzione culturale ed educazione all’esercizio del sapere critico e del libero pensiero, siano state “gettate alle ortiche”, in favore dell’adesione acritica a visioni aziendaliste ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale a esigenze di carattere produttivo, a quelle esigenze che concepiscono la scuola come un luogo di formazione di addetti per aziende e non di cittadini che sulla cultura fondano la loro libertà di essere, di conoscere e, perciò, di agire!

Il problema è che il “fatal, letal trittico” di abilità, conoscenze e competenze non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi, perché codifica una separazione a tre livelli: come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze, ma non sa farne uso, oppure sa farne uso, ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti, giustamente mai distinti, sempre complementari e paritari e sempre da valutare complessivamente.

Molti, infatti, confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali ed anche emotive, affettive e relazionali per risolvere problemi ed affrontare situazioni. Insomma, alla fine, la competenza è semplicemente un agire personale strettamente basato e legato armonicamente ed armoniosamente a conoscenze e abilità!

A cosa servono questi marchingegni e questa intricata ed assurda logomachia del “niente”? A battere il nozionismo, si dice! Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni.
Ed è proprio in coerenza con questo convincimento che si dà allora il benvenuto e si aprono tutte le porte delle aule al nozionismo più becero, “esclusivo”, invasivo e distruttivo: quello dell’Invalsi!
E siccome il mondo, finora, è stato popolato di idioti, la capacità di formare gente colta e capace è finalmente nata e disvelata e tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente, oggi non c’è più d’aver paura, poiché, da oltre oceano, dove ormai da diversi anni le stanno modificando ed eliminando a causa della comprovata dilagante ignoranza che alimentano e delle loro comprovate conseguenze nefaste e fallimentari sugli apprendimenti, è arrivata finalmente la panacea di ogni male della Scuola e sono arrivate finalmente la somministrazione coatta di ambigui, univoci e sibillini test, l’insulsa didattica per competenze, l’ancora più deleteria valutazione per “crocette” ed addirittura, udite udite, la più incongrua ed imbecille “strategia” didattica che le demenziali mode pseudo-psico-pedagogiche potessero inventarsi: ovvero la “flipped classroom”, la “classe rovesciata”, dove i discenti miracolosamente diventano tali, dal momento che la mattina l’insegnante non spiega mai e svolge esercizi e quiz e, ancora e di nuovo, quiz ed esercizi ed il pomeriggio, a casa, gli alunni “si app-licano” da soli oppure comodamente “connessi” in chat, mediante altrettanti miracolosi pc ed ipad, questi sì, davvero e per fortuna ritenuti “smart … in the high smart set”!

Noi crediamo fermamente che:

  • così come velocemente la Scuola ha attuato la DaD altrettanto ed ancor più velocemente debba rifuggire la DaD dell’“all connected” e dell’“always connected” prima di tutto e soprattutto perché esclude il “corpo” e la “presenza” del “corpo” e, escludendoli, accentua un’ulteriore dicotomia tra il “sapere” ed il “saper fare”, banalizzando l’apprendimento e riducendolo ad un percorso di mero addestramento;
  • una Scuola che, per risparmiare sul Sostegno, chiede agli insegnanti di diventare “fabbricatori” di PdP, di individuare a piè sospinto BES non certificati (che ormai in ogni classe potrebbero essere più della metà degli alunni) e poi gli impone di sottoporli alla “somministrazione” di test standardizzati “oggettivi” ed uguali per tutti, sia assolutamente schizofrenica, perfida ed esclusiva;
  • una scuola di qualità sia basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline;
  • le discipline, in tutte le loro declinazioni, siano la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro e che una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedano riferimenti che affondino le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia della conoscenza delle discipline;
  • separare i tre livelli, “conoscenze/abilità/competenze” conduca ad effetti disastrosi sui processi di apprendimento e sulla costruzione di un sapere simbolico e critico e riduca la conoscenza ad addestramento, ammaestramento ed imbonimento, banalizzandone contenuti e metodi;
  • aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano anche se ammantate del demagogico appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”;
  • la competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi e la cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non sia un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”;
  • non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo;
  • il sapere non si acquisisca mai definitivamente, in quanto esso è continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche;
  • accostare una valutazione autoreferenziale di “agenzie” esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
  • un’agenzia “terza”, l’INVALSI, (che a noi costa più dell’intera somma destinata a livello nazionale al “Fondo d’Istituto” e che ora, ahinoi, si appresta addirittura a voler valutare gli alunni nella e dopo la DaD con batterie di test “ad hoc”!!!) non possa svolgere affatto compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola;
  • la terzietà non sia, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità e differenziazione;
  • la presenza di agenzie esterne, “Fondazione Agnelli” e “3L”, nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa e raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità ed “umanità” di ogni insegnante che sole possono condurre alla valutazione vera ed autentica degli studenti.E inoltre
  • Noi riteniamo che sia diritto-dovere di ogni docente quello di esercitare la propria libertà di insegnamento “come autonomia didattica e come libera espressione culturale al fine di  promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.”;
  • noi riteniamo giusto promuovere e perseguire la saldatura del legame intergenerazionale attraverso la trasmissione coerente, anche a livello cronologico, di conoscenze, la costruzione di percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, l’apprendimento cooperativo fra pari, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle emotività, ai livelli di partenza, alle possibilità e finanche alle reazioni di sguardi e comportamenti;
  • noi insegneremo senza “competenze”, noi valuteremo senza “competenze”, noi faremo lezione senza competenze e saremo seminatori di “segni”, saremo guide di incontri fra persone in cammino in una comunità inclusiva;
  • faremo lezione “con i pari e tra pari”, anche senza gli aggettivi “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale”, “tutoriale”, “collaborativa”, aggettivi che sono mere rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può, infatti, e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti ed anche fra i disagi, i successi, gli insuccessi, i cambiamenti ed i miglioramenti di ciascuno, insegnante incluso, al fine di “educere” ovvero di tirar fuori e non di “tirar dentro”;
  • ci “commuoveremo” insieme agli studenti, in quanto ci “muoveremo” con loro e per loro;
  • ci “interesseremo di loro, nella loro totalità di “anima e mente” per “essere fra loro” e con loro;
  • saremo responsabili e garanti di quell’“incontro” che solo dà un senso ed un valore ai fatti culturali delle discipline insegnate in una relazione di pari dignità tra maestro e studente, nel microcosmo di un’autentica collettività di classe per quanto più possibile non giudicante e valutante. Soltanto quest’ultima relazione, infatti, permette agli allievi il “ben-essere” di frequentare sereni la Scuola e di imbattersi nel non conosciuto, di praticare il dubbio, il senso critico, la poliedricità del reale, l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità e di aprire un orizzonte culturale diverso magari anche da quello familiare o sociale;
  • valuteremo “percorsi lunghi ed “incorporati” (e, perciò, soggettivamente valutabili), senza “griglie” e senza “rubriche” e, soprattutto, prove “oggettive”, convinti che la valutazione degli studenti sia impegno non unico, qualificante e delicato dell’insegnante, soggettivo ed anche condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli dei cambiamenti che generano i processi di apprendimento e che la valutazione, a scuola, sia autovalutazione, sia un’osservazione “prossimale” e corresponsabile, modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto, del qui ed ora;
  • saremo aperti al confronto collegiale con gli altri colleghi in una dimensione aperta e narrativa che tenga insieme il progetto ed il percorso, e non privilegi unicamente il punto d’arrivo, l’ epistemologia delle discipline e la didattica, la specificità degli ordini di scuola e la continuità, la tradizione pedagogica e l’innovazione metodologica o tecnologica/digitale, considerata, però, come un’ulteriore opportunità di diversi possibili strumenti di ampliamento ed accesso a contenuti e conoscenze, convinti che l’impiego di tali “innovazioni” debba essere il frutto di una costante riflessione e di un’attenta, equilibrata valutazione, incondizionata e libera.

 

Noi, infine, siamo fermamente convinti del fatto che codificare pratiche e sclerotizzare metodi, presentandoli come la priorità della Scuola, sia una vergognosa operazione che annulla i percorsi cognitivi e metacognitivi dei ragazzi, una semplificazione banalissima, retorica arbitraria e demagogica, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che tenta di ridefinire finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio e sudditanza ad un’ideologia opprimente, in quanto univoca ed indiscussa, ossia quanto di più lontano dalla Scuola, che è stata, è e rimane “Organo Costituzionale” preposto a sanare le differenze socio-culturali così come mirabilmente la disegnava Piero Calamandrei.




Valutare ai tempi della DAD. Parla una maestra.

io_noidi Alessandra Fantauzzi

Nella nostra scuola, quello della disuguaglianza delle opportunità e delle condizioni di partenza degli alunni è un problema antico.
Quando io ero una bambina e accompagnavo mia madre, insegnante, alle riunioni dei neonati organi collegiali non si discuteva di altro. Ed io nella mia carriera di insegnante, prima di sostegno ed ora di cosiddetto ‘ruolo comune’ credo onestamente di essermi sempre battuta per questo: perché la scuola fosse di tutti e di ciascuno.
Spesso e sempre più spesso negli ultimi anni però, i miei avversari sono stati la burocrazia alimentata dalle riforme e i colleghi osservanti delle gerarchie delle funzioni e dei ruoli burocratici. Non è un mistero che sono anche una sindacalista e le mie perplessità in ordine alla Dad sono di due ordini: quello strettamente connesso alle condizioni di lavoro anche degli insegnanti e quelle sul diritto allo studio. 

Sarò concreta: ho una classe di 19 alunni, 10 sono stranieri , 5 di loro hanno genitori non parlanti la nostra lingua, 1 vive al campo rom.
A loro vanno aggiunti altri bambini i cui genitori hanno perso il lavoro e sono a reddito zero. Dei 10 bambini stranieri 3 sono irraggiungibili perché l’unico strumento informatico che possiedono è il telefono cellulare del papà il quale va a lavorare.
Abbiamo richiesto tablet, device e connessioni alla scuola ma il finanziamento di 9000 euro per un istituto comprensivo di 1300 alunni ha consentito che le concessioni ministeriali fossero, per la mia classe di 1 tablet.

Ora, a prescindere dalla valutazione pedagogica di una didattica che esclude il corpo e riduce la relazione umana ad una serie di “azioni indirette” con quale criterio io dovrei assegnare 10 a Paolino e 5 a Gianni solo perché ho raggiunto Paolino sì e Gianni no?
Nell’aula reale io mi assicuro di averli raggiunti tutti dando a ciascuno a seconda dei bisogni. Non mi sogno minimamente di assegnare gli stessi compiti a Sulemann e a Giulia, semplicemente perché il primo si sta confrontando con degli apprendimenti in una lingua che non è la sua lingua madre. Sai come si traduce alla fine il riconoscimento simbolico dei miei sforzi? La collega che adotta il metodo Clil riceve il bonus premiale perché la sua è innovazione didattica io no perché sono brutta, cattiva, rivoluzionaria, anarchica. Come Rsu non ho MAI firmato gli accordi extracontrattuali né contrattuali relativi al bonus premiale perché sono una che si concede ancora il privilegio della coerenza.




Questioni di cheating: il copiato e i compagni

bambini_maestradi Alessandra Fantauzzi

Il presidente uscì sulla porta con il foglio dell’ appello e cominciò a sgranare il rosario dei cognomi e nomi. Nel primo mattino di quel diciotto giugno, il profumo ostinato dei lillà , maledettamente in ritardo nella fioritura del giardino della casa di fronte sembrava fatto apposta per opprimerci. Il fiato era corto.
I nostri “presente” venivano sillabati, singhiozzati,sghignazzati, urlati, sibililati, sussurrati seguendo le partiture della nostra attesa. La versione di latino, seconda prova di quell’ esame di maturità, se ne stava piegata in una busta gialla, nel buio di chissà quale segreto cassetto: poche righe d’ inchiostro nero sulla carta bianca ,  nove o dieci solchi dai quali sarebbero germogliati i tralci che avremmo dovuto piegare alle nostre significazioni.
Eravamo ben consapevoli che non sempre le nostre operazioni di piegatura rispondevano al rigore filologico ed ermeneutico del testo e questa era la nostra angoscia di “agrimensori” della lingua di Plutarco e Virgilio.
– Fantauzzi Alessandra – chiamò la voce del presidente di commissione, biascicai il mio   “presente” e imboccai l’androne delle scale.
Nell’ Aula Magna il giovane sole estivo si rovesciava dai lucernari sui banchi disposti l’ uno dietro l’ altro. Faceva già un caldo bestiale.
Trovai posto in terz’ ultima fila, tirai fuori le penne e il mio stropicciato “Castiglioni Mariotti”. La Commissione entrò cercando di darsi l’aria solenne che l’ esame di Stato richiedeva, nonostante l’ effetto serra di quell’ aula esposta ad est.
Il presidente chiamò i tre in prima fila e la busta fu aperta :“Scripseram tibi verendum esse, ne ex tacitis suffragiis vitium aliquod exsisteret”, Plinio il Giovane esaminava gli inconvenienti della votazione segreta.


Tirammo un sospiro di sollievo: non avremmo dovuto inerpicarci nei “sottintesi” della costruzione di Tacito nè interpretare la brevitas della sua narrazione e   rischiare tra i calanchi della sua inconcinnitas col rischio di precipitare nell’ asimmetria del costrutto nè dipanare il filo del periodo  di Cicerone.
Plino il Giovane e il suo stile, “neutro e anodino”ci rassicuravano.
Il presidente accompagnando le parole con il leggero scuotimento della sua canizie folta, tagliata “alla mascagni”, ci  ammonì : “A chi venisse scoperto a copiare sarà ovviamente ritirato il compito e l’ episodio riportato a verbale, con le conseguenze sull’ intero corso dell’ esame che ben potrete immaginare”.
Tacque e ci lasciò a noi stessi, al nostro intuito, alle nostre conoscenze, alla nostra tempra ed alla nostra scaltrezza. Mi buttai a capofitto nella traduzione. La professoressa Mancini era un buon membro interno, anche se aveva il difetto d’ insegnare chimica ed essere umorale.
Ci conosceva e possedeva la necessaria autorevolezza e con quella autorevolezza, sollevando appena il sopracciglio destro, aveva cominciato a fare smorfie di disappunto in direzione della prima fila.
Sollevai il naso dalla versione e cercai di capire il perché di quelle “facce” quando incrociai lo sguardo terrorizzato ed implorante di Antonino, seduto proprio in prima fila.
Antonino non aveva mai avuto con la traduzione della prosa latina un rapporto sereno. Il suo straordinario estro di artista, la sua intelligenza vivida e sognante, la sua grazia di creatura che pareva attraversare la terra senza mai calpestarla, cozzavano con il rigore della prosa. Amava la poesia: Catullo,Albio Tibullo, Properzio; amava l’ eros, il tormento, l’ estasi, l’ elegia e sapeva anche tradurle ma di fonte al rigore logico, all’ argomentare incalzante dei prosatori, degli oratori e perfino degli storici era completamente disarmato.
Le sue risorse di intuizione, di insight che mirabilmente lo aiutavano a tradurre i tormenti di Catullo  risultavano tragicamente inservibili a fronteggiare Plinio Il Giovane. Lo sapevamo tutti.
Ben lo sapeva la professoressa Mancini e, infatti, le sue occhiatacce eloquenti da “vajassa de’ Pallunnette” erano un: “Maronna d’ o Carmene, aiutale tu! Stu babbasone ca’ s’ è zettat’ o primm’ banc’!”
Capii immediatamente e mi girai di lato, verso Sandro, che sedeva una fila davanti alla mia e che aveva partecipato con successo al “Certamen Ciceronianum Arpinas”.
Sandro si girò verso Antonio, Antonio verso Anna: dovevamo fare corpo, formare la “social catena”, dare fondo alle nostre abilità banditesche, alla nostra scaltrezza di pirati del compito in classe, al nostro coraggio di guerriglieri del “passaggio segreto”, senza esserci addestrati: come avremmo fatto senza la possibilità di fogli non vidimati, così sparpagliati, senza modo di alzarci per due ore, ad aiutare quell’ incauto cacciatore di farfalle?
Lanciavo verso Antonino segnali di rassicurazione e d’ intesa anche per tenere desta la sua attenzione a “ricevere il pallone” dal momento che la sua tempra di trasognato giocatore, rischiava di manifestarsi in modo clamoroso in quel periglioso frangente e, allo stesso tempo, cercavo la conferma della complicità con il centrocampo e le retrovie evitando di scoprirmi.
La mia controllata concitazione non sfuggì ad uno dei membri di commissione che mi ammonì: “Signorina, non si agiti e la smetta di disturbare i compagni!”.
Ero, come si dice, nell’ occhio del ciclone,   bruciata, da quel momento in poi inservibile all’ economia dell’ azione e dovevo battere in rititirata. Incrociai l’ ultimo supplichevole sguardo di Antonino e mi rificcai con il naso tra le pagine del Castiglioni Mariotti con la serenità di un boia alla sua prima esecuzione.
Dietro di me, allo scadere del tempo consentito per uscire una voce tremante: “Posso andare in bagno?” Era Eugenia. Chissà perchè pensai che si sentisse male e me ne preoccupai ma non feci ciò che avrei voluto fare, cioè accompagnarla. Eugenia mi passò davanti compita, seria, a timidi passi: teneva i fogli del compito svolto ,da consegnare prima di uscire, la regola era questa,   nella mano destra, come un breviario. Tentennò un brevissimo attimo all’ altezza della prima fila, poi con voce sommessa: “Signor presidente, professori della commissione, credo che nelle fotocopie della versione che ci sono state distribuite, vi sia un’ ombra che rende di difficle interpretazione la versione stessa.”
Il Presidente alzò gli occhi dalle scartoffie che stava leggendo con un “Perbacco! Vediamo..”
“Ecco qui.” Eugenia indicò un punto sulla carta. Il presidente si abbassò gli occhiali sul naso e annuì. Poi rivolto alla giovane professoressa con gli orecchini pendenti disse: “Mi dia l’ originale. Professori membri di commissione, ragazzi, darò lettura espressiva, ad alta voce, non solo del brano in ombra, ma dell’ intero testo. Vi prego di prestare attenzione ed apporre le chiarificazioni necessarie. Il tempo impiegato in questa operazione, diciamo , orientativamente 10 minuti, sarà aggiunto per tutti a procrastinare il termine di consegna.”
Poi rivolto ad Eugenia: “Signorina, torni a posto, uscirà fra un poco, così avrà modo di ricevere le chiarificazioni necessarie.”
Eugenia tornò a posto e il Presidente lesse ad alta voce la versione sbalordendoci tutti. La sua voce si appoggiava sulle pause, danzava sulle locuzioni, dipanava il filo di una lingua di duemila anni, chiarificava, insomma. Terminata la lettura chiosò: “Fine dell’ intervento chiarificatore. Professoressa Mantegna metta a verbale. Buon lavoro. La signorina che ha sollevato la questione può uscire.”
Eugenia si alzò, consegnò i fogli ed uscì.Non mi accorsi di quando rientrò: ero impegnata a districarmi tra un ablativo assoluto che sembrava indissolubile nonostante la lettura chiarificatrice e i grovigli del senso di colpa per aver abbandonato Antonino alla sua sorte.
Ogni tanto alzavo lo sguardo ma lo vedevo intento a scrivere: possibile che fosse così stizzito dalla mia “manovra avventata”, che aveva compromesso qualsiasi possibilità di fiancheggiamento,  da aver superato la disperazione con uno sdegnata rinuncia a cercare aiuto e a cimentarsi comunque nella traduzione?
O forse aveva avuto un insight?
Pensai molte altre cose e allo stesso tempo fronteggiai le lagnanze di Plinio contro chi aveva scritto, protetto dall’ anonimato, oscenità sulle schede durante votazione a scrutinio segreto. Mi dissi che Plinio non sarebbe sopravvissuto alla giornata di uno scrutatore in uno sperduto seggio dell’ Italia Repubblicana e mi riproponenevo di riderne con i compagni all’ uscita da quella seconda galleria, quando la voce di Antonino cinguettò : “Ho finito!”    “Maronna d’ O Carmene!”  esclamò la professoressa Mancini e non capii se la sua fosse un invocazione o un ringraziamento
“Venga giovanotto.” Invitò il presidente di Commissione.
Antonino con i suoi sandali alati e la sua leggerezza di aerea creatura, consegnò il compito, tornò al suo posto, prese il suo vocabolario ed uscì. Fui sollevata: rapidamente finii anch’ io e consegnai il compito. Scesi le scale con il cuore in gola pensando che avrei dovuto affrontare la sua stizza e forse anche quella degli altri compagni. Li trovai assiepati sul marciapiede di fronte al portone.
Si voltarono e scrosciò un applauso: pensai fosse sarcasmo ma vidi Antonino allargare le braccia e venirmi incontro : “Ecco a voi: Mata Hari!” esclamò ridendo. L’ ansia scemò e allargai le braccia a mia volta.
“Come è andata?” chiesi.
“Benissimo direi, ho copiato dalla migliore fonte della classe ma non dirò mai chi è perchè non ci crederesti.”
Aspettammo che uscisse anche il nostro membro interno, la professoressa Mancini. Uscì tardissimo, trafelata e accaldata. Ci salutò con un “Sia fatta la volontà del cielo! Voi ancora acca’ state? E’ andata di lusso, ma vui vagliu’ studiate! E nun me facite fa brutte figure sinno’ ve vatte! E stateve scetate quanne è o’ tiemp! Reattivi come l’ acido trifluoroacetico! O’ presidente è nu sant’ omme : sa tutto, vede tutto : è n‘ insegnante con la I maiuscola! Iatevenne a casa e ci vediamo il due luglio!”
Andò bene. I voti dati alla versione furono nella media della sufficienza. Fummo ammessi all ‘orale di quella formula di esame che per la prima volta in tanti anni, vedeva fra le materie sorteggiate “Storia dell’ arte”.
Antonino sostenne il suo esame con Filosofia e Storia dell’ Arte, il mio stesso giorno, il 2 luglio. Io fui la prima della giornata lui l’ ultimo, ed ebbi il privilegio d’ estasiarmi per il sua appassionata, appassionante, intelligente disquisizione, il suo parallelo fra la pittura di Hopper e la poetica di Pavese, così come oggi, a distanza di più di trent’ ann,i m’ estasiano le sue creazioni di moda, sculture sospese tra la terra e il cielo. A lui, agli altri compagni e al Presidente della Commissione di quell’ esame di Maturità Classica del 1984, ho ripensato la mattina del maggio di un paio d’ anni fa, quando nell’ esercizio del mio ruolo di sindacalista, mi sono imbattuta nella contestazione d’ addebito rivolta a tre colleghe.

L’ addebito contestato, fondamento giuridico dell’ avvio di una sanzione disciplinare era il cheating.
“Ma ch’ r’è stu cheating?” immaginavo la faccia della professoressa Mancini. Immaginavo di doverlo spiegare a lei austera e inflessibile vestale delle ossidoriduzioni.
“ Professoressa è accaduto questo: in una classe seconda della scuola primaria..”
“Fantau’, che grado di scuola è una scuola primaria?”
“In una classe seconda di una scuola elementare.”
“Ho capito: in una seconda elementare. Ma tu figlia mia devi parlare chiaro: che so’ tutti sti parole ca’ nun se capisce che vuo’ dicere?”
“ E allora professoressa deve sapere che dal 2000 la scuola elementare si chiama primaria e dal1999, anno della riforma che introduce l’autonomia scolastica il CEDE viene trasformato in INVALSI, Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione, con il compito di “vegliare” sull’efficienza e l’efficacia del sistema di istruzione. Nel 2004 l’Istituto viene riordinato dal ministro Letizia Moratti e ridenominato Istituto Nazionale per la Valutazione del sistema educativo dell’istruzione e della formazione con il compito di effettuare prove periodiche e sistematiche degli esiti di apprendimento. A partire dall’anno scolastico 2005/06 l’INVALSI predispone le prove nazionali e ne cura lo svolgimento….”

“O vire, mo me pare n’ enciclopedia. Ma iamme nanze, sinnò facimme notte!”

“Le prove, altro non sono che dei test standardizzati di profitto e vengono somministrate alla fine della seconda e della quinta elementare, in terza media e nelle classi che si apprestano a fare l’ esame di maturità..”

“Somministrate? E che so’? Pillole? E chi le somministra l’ infermiera? ”

“Professoressa ma se lei continua ad interrompermi non ne veniamo a capo! Sono quiz a risposta multipla, come quelli della patente se li ricorda? Uguali in tutte le scuole d’ Italia. In alcune classi vengono somministrate dagli stessi insegnanti della scuola che per l’ occasione vengono spostati nelle classi in cui non insegnano, in altre classi, dette “campione”, arrivano i somministratori esterni mandati dall’ Invalsi.”

“Azz! Dall’ Invalsi? Ma nun so’ insegnanti?”

“Certo che sono insegnanti!”

“E perchè li manna l’ Invalsi e no il Ministero ?”

“Sarebbe troppo lungo da spiegarle. L’ INVALSI, tiene particolarmente che non si verifichino episodi di cheating, non vuole che si copi insomma!”

“Ihii Fantau, manco noi durante i compiti in classe che facevate voi! Ma pecchè o chiammano ‘cheating’ e no copiatura se di una copiatura si tratta?”

“Perchè utilizzano l’ inglese che poi è la lingua internazionale degli statistici.”

“E questa scoperta dell’ acqua caura aveva bisogno di essere rinominata? Acca’ ce sta n’ mbruglie’!”

“ Dunque in questa seconda elementare viene somministrata la prova di matematica da due insegnanti che non sono le insegnanti della classe, una di loro è addirittura una supplente nominata per quel solo giorno. A salutare i bambini prima della prova va l’ insegnante di classe che li rassicura dicendo loro che la scuola non è una gara ma un percorso dove ognuno fa la sua parte, che si deve suonare tutti insieme. In quella classe ci sono bambini stranieri e al momento in cui vengono distribuite le prove, scritte in italiano, sono in difficoltà, qualcuno di loro comincia a piangere.”

“E se capisce, so’ piccirille!”

“Ognuno di loro usa la propria penna per rispondere, anche perchè nè l’ Invalsi, nè il Ministero, nè la scuola si curano di fornirle. Le maestre allora, si avvicinano ai bambini in difficoltà e li rassicurano, li incitano a rileggere.”

“Insomma fanno il loro dovere d’ insegnanti mi pare normale. Mi stupirei del contrario.”

“ Finisce la prova, i bambini vanno a casa. Uno di loro, racconta al papà che le maestre non solo li avrebbero invitati a copiare ma addirittura avrebbero dettato loro le risposte giuste, perchè la classe risultasse la migliore e loro le migliori maestre!”

“O’ piccerille rice chelle ca capite isse, comme fanne sempe i peccerelle. So’ peccerelle… E o’ pate? Comme faceva a nun capi’ ca chelle nun erano manco le insegnanti del figlio e non avevano interesse a fa’ risulta’ a classe migliore?”

“Il padre scrive al Dirigente.”

“O’ Dirigente? E che re’?”

“Al Preside, professoressa.”

“E o’ Preside nun straccia a’ lettera, o chiamm e le fa na’ lavate e’ cape? Nun le rice come si è permesso d’ infangare gli insegnanti stanne a sentere nu peccerille e’ sett’ anne? Sette anni! Gesù mio!”

“Il padre dice di aver scritto anche all’ Invalsi e il dirigente a quel punto avvia il procedimento disciplinare per le insegnanti. Nomina una commissione interna con il compito di verificare la legittimità delle prove, di verificare addirittura se i bambini hanno usato le penne cancellabili! Alle colleghe viene addirittura contestato di non aver vigilato sull’ uso delle penne!”

“O’ Maronna d’ o Carmene! E tu?”

“E io le ho rappresentate in patrocinio sindacale. Insomma sono stata una specie di difensore.”

“E comme è iuta a ferni’?”

“Assolte.”

“Brava: e fatte’ a parte tua! A parte e chi nsegna, di chi lascia il segno. Vire Fantau’ la scuola, e te lo può dire chi s’ è fatta vecchia a scuola, è sempre nu veliere. Int’ a na nave che va a vela ognuno adda’ fa’ o meglie, ma nun po’ esse na gara sinno’ se va a fonne, tutti. S’ adda’ fa assieme, s’ adda’ collabora’. E l’ insegnate, ogni insegnate è nu capitane: adda’ capi’ o mozzo e o’ timoniere, adda’ esse’ pront quanne arriva a’ burrasca e quanne o’ viente nun ce sta’, adda’ sape’ addo’ arriva’. Ma adda’ sape’ pure rischia’ e se perde. E se une se perde miezz o’ mare po’ pure trova’ na terra nuova, nu continente sconosciute, n’ isola ca nun era segnata ncopp a le carte geografiche: e chella è la cosa chiù bella che la scola fa: t’ aiuta a truva’ nu poste ca’ prima nun ce steva! T’ arricuorde il tuo esame e’ maturità, lo scritte e’ latine. E io o saccie: tu stive in ansia p’ Antonine e pure l’ ate cumpagne, e pur’ ie ce steva. E’ normale. Si t’ era venuta fatta, ca’ nun te facive scupri’ tu ci avarriste passat’ a versione. E o’ presidente o capitte. E quanne Eugenia ce farette vere’ chell’ ombra ncoppe e’ fotocopie, isse facette l’ Insegnante con la I maiuscola. Leggette a versione, a voce alta. Pecchè o’ facette? Pecchè aveva capito che dentro di voi, inta a te, int’ a Antonino, int’ a l’ ate cumpagne ce stevene e’ mappe pe’ scupri’ l’ America. Antonino a’ facette, isse stesse a’ versione: pijae nu sei, nu sei ca’ valeva ciente! E chelle era cheating? Fantau’ tu o ‘ sai qual’ è il significato della parola “compagni”? Cum panis, quelli che dividono il pane, o’ pane quotidiano, o’ pane che serve a campa’, o pane ca’ te fa a penza’, o pane ca te sierve a nun fa o’ schiave, a nun te sottomette manc a na burrasca, o’ pane ca’addora e’ pane. O’ presidente, chillu iorno la’, ve facette cumpagne, compagni, cum panis, pe’ sempre.Fantau’ a che serve st’ Invalsi m’ o rice a prossima vota.”

 

 




Nomen Omen: le rose e il pane

matita
di Alessandra Fantauzzi

Rosa: la rosa, rosae: della rosa, rosae: alla rosa- recitavo, lo sguardo fisso al putto alato che faceva da piantana al lume, tormentando di piccoli nodi la frangia della sciarpa. Mi chiedevo come facesse Don Giovanni ad ascoltarmi senza tremare, immobile, con gli occhi chiusi e le labbra appoggiate alle mani giunte sotto il mento.
Lo stanzone era gelido ma lui, fermo, senza che il candore delle sue mani fosse sfiorato dal benchè minimo rossore, conservava un’aristocratica eleganza di gesti misurati e solenni, nella leggerezza della sottana di Cady di seta. Era il 1978, il mio primo anno di scuola media. Una legge, l’ anno prima, aveva abolito definitivamente lo studio del latino in quest’ ordine di scuola ma mio padre, convinto sostenitore del valore formativo delle lingue classiche, sopperì al vuoto creato dalla legge, mandandomi a prendere lezioni da Don Giovanni, il parroco del paese.

– Rosae, rosarum, rosis, rosas, rosae, rosis.- terminavo la mia declinazione , Don Giovanni riapriva gli occhi e allontanava le mani dalle labbra lasciandole tuttavia intrecciate: – Bene! La rosa: nomen omen.- era il suo lapidario commento, pronunciato come se concludesse una disputa filosofica. “Nomen omen”: la citazione era per me una  chiave, quella che mi avrebbe aperto il passaggio segreto per un mondo che ancora non intedevo ma della cui conoscenza intuivo il valore fondante di architrave culturale e archetipo di humanitas.
Don Giovanni era un uomo colto, aduso  alla pratica della bellezza e a quella del rigore del pensiero: era perciò un raffinato esteta, un pensatore sorprendentemente laico ed educato al metodo.
Amante della poesia di Catullo e di Leopardi, era  lettore insaziabile di Erotodo, Plutarco e Svetonio. Mi sopresero sempre, quando ebbi la capacità di intenderle, le sue citazioni di Sartre e di Marx. Era però un aristocratico sostenitore della cultura per i pochi eletti, un tridentino nel metodo e nello spirito non certamente un parroco “conciliare”.
Nella sua pratica pastorale e didattica era un “selezionatore gentiliano”, così almeno lo definiva Don Savino, il parroco di Morrea che invece era stato partigiano con simpatie per la dottrina sociale o, come dicevano i maligni, socialista.
Don Giovanni era membro del Consiglio d’ Istituto che da quell’ anno e per un triennio, mia madre si trovò a presiedere . Il massimo Organo Collegiale della Scuola e i suoi membri dovettero dare, nel corso di quel triennio scolastico , applicazione  pratica alle norme “rivoluzionarie” introdotte dalla legge 517 nell’ anno precedente: una programmazione degli interventi educativi che rendesse flessibile la rigidità dei Programmi Nazionali e creasse percorsi di apprendimento individualizzati, nei quali si incontrassero  l’ epistemologia delle discipline e le strategie cognitive di ciascun ragazzo. Non era per stigmatizzare le diversità,   ma perchè la scuola potesse esercitare il suo ruolo di “organo costituzionale,   rimuovendo gli “ostacoli di ordine economico e sociale” che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona. In questa operazione di“rispetto della differenza per garantire l’ uguaglianza”, così recitava uno slogan di quegli anni , venivano aboliti i voti sostiuiti da giudizi descrittivi e sintetici e, soprattutto, si istituivano concrete misure di sostegno in favore degli alunni diversamente abili e di quelli socialmente svantaggiati.

In questa pacifica rivoluzione, il Consiglio d’ Istituto della Scuola Media Statale di San Vincenzo Valle Roveto, si trovò a gestire una partita di finanziamenti da utilizzare per i viaggi d’ istruzione di più giorni . Durante la riunione che avrebbe dovuto autorizzare il primo di   questi viaggi, quello ad Ercolanoe, Pompei e Paestum, fu sottolineata la discrasia tra il finanziamento assegnanto nominalmente, “sulla carta”, alla scuola e quello concreto.
Non c’ erano i soldi. C’ era soltanto il “pagherò” del Ministero. La preside Barbadoro, una donnona selvatica  cresciuta nelle faggete dell’ Appennino Emiliano, sapeva bene come gettare il cuore oltre l’ ostacolo. La sua proposta fu quella di autorizzare comunque il viaggio: tra i suoi ragazzi ce n’ erano di quelli che non avevano mai visto il mare e  non sapevano nemmeno immaginare il mondo oltre l’ orizzonte della Valle.
Per loro quel viaggio era necessario come il pane.  I soldi sarebbero concretamente arrivati di lì a poco, in caso contrario, lei, s’ esponeva in prima persona a sostenere i costi del viaggio. S’animò la discussione fra i consiglieri favorevoli alla proposta e quelli contrari.
Don Giovanni, nemmeno a dirlo, era fra i contrari. Per lui, uomo abituato alla ponderatezza della Curia e alla diffidenza verso il laicismo dei successori dello Stato Sabaudo, il comportamento del Ministero era sinonimo di insensatezza amministrativa e quello della preside pericolosamente ispirato a una sorta radicalismo dolcininano, di egulitarismo giacobino che minava l’ ordine del Creato.
Non riusciva a capacitarsi che i reperti di quella classicità di cui lui era geloso cultore, potessero essere mostrati e dispensati a tutti e a tutti i costi. Perchè regalare le rose a chi avrebbe dovuto avere soltanto il pane quotidiano? Montò perciò un fuoco di fila contro la proposta della Preside e della Presidenza, paventando responsabilità civili di inenarrabile gravità, scomodando perfino il codice Rocco. Alcuni consiglieri capitolarono e si giunse ad una situazione di sostanziale parità fra favorevoli e contrari, che impediva qualsiasi decisione. Era tardi e gli animi s’ erano accalorati anche per la presenza di pubblico tra il quale io e mio padre .
La preside rivolse il suo ultimo appello a Don Giovanni con un: “Ma perchè negare ai ragazzi questa possibilità ? Lei ha capito che” in ultima res”, sarei io a pagare qualsiasi conseguenza? “ e lui “Sì, ma rimango contrario anche e soprattutto per il suo bene e quello dei ragazzi!”
Fu allora che la Preside sbottò: “ Ma Lei è veramente una gran testa di c..o!”.
Tacquero tutti, improvvisamente, in attesa che castigo divino s’ abbattesse su quella blasfemia, ma niente: non s’ aprirono le cataratte del cielo , nessun fulmine a ciel sereno colpì la Preside, e lo stesso Don Giovanni che da allora finì nell’ anneddotica rovetana come mirabile esempio di calma olimpica pur nel fervore della dialettica politica, si limitò a un:  “ Bene. Metta a verbale la definizione della mia testa. Io rimango contrario!”
Si alzò e se ne andò, avvolto nel pastrano di vigogna.
Fu allora che il professor Tebaldi di Educazione Tecnica si convinse e spostò l’ ago della bilancia. Il viaggio si fece. Era l’ aprile del 1979. A Sorrento, dove eravamo a pensione, in un piccolo albergo sospeso sulla costa, nell’ azzurro tra cielo e mare, travammo una fioritura di zagare e rose. La sera saliva dai Lattari e noi, ispirati anche dalla nostra improvvisa libertà, capivamo gli alfabeti del mondo e sentivamo quanto pesa il profuma della rosa. Nomen Omen. Imparammo, per esempio,  che più sù, tra la Costa e la montagna correva un sentiero , sospeso sul magico golfo delle sirene e vi passeggiavano gli Dei.
Potevamo vedere all’ orizzonte le vele di Ulisse e sentire il suono delle tammorre della dea Astarte salire dal mosaico di Pompei, fino alla Cala delle Lampare, dove ballavano i turchi. Anche la Madonna Avvocata, a Maiori, cammina sui petali di rosa, ci disse lo stesso Don Giovanni, che fu, sorprendentemente, fra gli accompagnatori di quel viaggio.  Dei petali raccolti e conservati rigorosamente vicino al cuore , si fa dono agli ammalati che ne cospargono l’ acqua per i lavacri di sanificazione. La salute ritrovata passa attraverso l’ impalpabile profumo della rosa.
Nomen Omen. Da quel viaggio imparammo tutti qualcosa ma più ricchi tornarono quelli che non avevano mai visto il mare, quelli che ritrovarono il tempo perdendolo nella contemplazione del Golfo, quel tempo che mai avevano avuto perchè lo avevano impiegato   nel precoce utilitarismo del saper fare a tutti i costi, per bisogno o per buon esempio.
Nomen Omen.
Quel viaggio mi insegnò a capire, vent’ anni più tardi, quando da insegnante di sostegno tentennavo all’ indulgenza  del pietismo pedagogico, soltanto   perchè mi parevano invincibili   le sterotipie di Davide o la la rigidità muscolare di Diana, che volevo le rose e le volevo per tutti, che i percorsi di libertà e dignità passano per il “nome della rosa”, che intorno alla rosa si costruisce la semiotica dell’ humanitas, la vera mission della scuola.
Nomen omen. La rosa porta scritto nel nome il suo profumo, nè è possibile nominarla senza sentirlo come dice  Giulietta nel dialogo del balcone.” “Rosa fresca aulentissima”:  la rosa è il segno e il simbolo dell’ assoluta necessità del superfluo. La rosa è la resilenza e la resistenza del mondo,  Nomen Omen. La rosa è la bellezza che salva e la fragilità che  fortifica. “Un petalo, un sepalo, una spina.[ …] è tutto quello che serve per cambiare il mondo.
A Greta Thunberg




L’ esercito marciava

corsaro_di_rieti_956di Alessandra Fantauzzi

La vecchia casa era bruciata, perduta per sempre nell’ asfissia di un vicolo, una mattina del Novembre del 1968 e noi costretti ad abitare in un garage e a cercare una nuova casa.
A Settembre del 1969 mia madre ricevette, come insegnante a tempo indeterminato, l’ incarico di aprire la sezione unica della scuola materna statale di San Vincenzo Valle Roveto e le venne assegnata l’ abitazione al primo piano della scuola.
Quell’ autunno però, fino a Natale, avremmo dovuto viaggiare con il treno, tutti i giorni: c’ erano ancora molte cose da sistemare prima di occupare il nuovo alloggio. Avevo tre anni e cominciò la mia vita di pendolare.

I lunghi singulti della locomotiva prima della galleria di Capistrello, nella nebbia dell’ autunno marsicano, sembravano le voci delle nuove stanze   risuonanti d’ eco. La nuova casa, in quel nuovo paese, disteso fra gli ulivi, era straniera ed inquietava come un labirinto: un intrico di vuoti da riempire, di mattine in cui svegliarsi senza l’ odore di calce e colonia di mio nonno e il furtivo acciottolar di piatti di zia Chiarina.
Cercavo di consolarmi animando le stanze deserte  con i volti familiari e con le  voci dei maestri e delle maestre che in treno partivano e andavano a fare scuola nella Valle.
C’ era Magda alta e bella, con un malinconico accento istriano, scendeva elegante alla stazione di Morino e poi saliva a piedi a Civita D’ Antino; Egle bionda e minuta che scompariva silenziosa fra le porte a soffietto del vagone quando arrivavamo nei pressi della stazione di Castronovo: andava in bagno ad infilarsi i vecchi calzoni di suo padre per salire sul mulo che la portava a Rendinara; Marta, infine, che aveva lenti spesse da miope e indossava impeccabili soprabiti con le maniche alla raglan, era più fortunata: proseguiva, con i maestri  Ilio, piccolo e allegro, e   Armando, dinoccolato e timido , per Balsorano, dove saliva per un largo tratturo fino alla scuola di Ridotti.
Ce n’ erano tanti altri che non ricordo o di cui ho scordato il nome ma non i gesti. Su quella tradotta che partiva da Avezzano, alle sei del mattino, viaggiava l’ esercito dei maestri e delle maestre inviato nell’ entroterra abruzzese, ai confini con la Ciociaria, a sconfiggere l’ analfabetismo ancora esistente alla fine degli anni sessanta.
Le maestre e i maestri della Valle del Liri si muovevano coraggiosi e guardinghi, inerpicandosi per la costa a piedi, risalendo i ciottoli dei sentieri a dorso di mulo o scivolando sulle pietre muscose e il fango, lungo il fiume.
Non erano “scuole di frontiera” le loro, ma piuttosto era quello, tra gli Ernici e i Cantari, il “fronte della scuola”, la linea Gustav abruzzese dell’ istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, contro la deprivazione culturale e la miseria economica che riempivano il cartone delle valige di stracci e costringevano uomini e donne alla partenza forzata per i bacini minerari del Nord Europa, le fabbriche di orologi in Svizzera, le acciaierie Tyssen in Germania.
I maestri e le maestre della Valle Roveto combattevano ogni giorno, miti e pazienti operatori di pace, affinché gli usci non si chiudessero, non ci fossero “orfani bianchi” in attesa del ritorno dei genitori e gli abiti delle donne non si tingessero del nero di Marcinelle o Villerupt.
Erano loro, partigiani della scuola di tutti e di ciascuno, a tessere gli agguati della sperimentazione pedagogica, a punzecchiare, con azioni di disturbo, l’ inerzia dei comuni, ad organizzare i doposcuola e tenere accese le stufe con legna di cipresso, ad andare a prendere i ragazzi fra le greggi per portarli a scuola.
Erano loro ad aver capito che un’ altra Resistenza era cominciata dopo il 25 Aprile e che il nemico degli umili è quello che   sottrae loro le parole e con esse la volontà di leggi migliori, uniche armi dei deboli contro i soprusi dei forti.
La nuova casa non era la sola novità della mia vita: a Maggio sarebbe arrivato un fratellino o una sorellina, precisamente il 24 Maggio aveva detto il dottore a mia madre o così almeno, avevo capito io.
Sicchè quando durante il viaggio in treno, Marta che era burlona mi chiedeva: “Quando arriva il fratellino ?”
Io rispondevo con la buffa sicumera dei bambini piccoli quando s’ aggrappano alle date  “Il 24 Maggio!”
Allora l’ intero vagone all’ unisono attaccava: “L’ esercito marciava per raggiunger la frontiera..” ed io ridevo anche se la frontiera mi sembrava lontana.




La guerra degli ormoni

bambini_scuoladi Alessandra Fantauzzi

Luciano è alto per la sua età – quasi un ragazzo -e   le sue spalle cominciano a delineare l’ armonica proporzione della vita. Ad Andrea, più piccolo, magro e nervoso, si sono improvvisamente allungate scarpe: non sa più dove mettere i piedi.
In classe ripassiamo la funzione dei nomi propri ma loro confabulano di chissà quale gioco o quali figurine, navigando le quiete delle morbide insenature dell’ infanzia.
Marta arriva in ritardo, si ferma sulla porta: lo zaino in spalla ma l’ astuccio appoggiato all ‘ incavo del braccio sinistro.

Sotto il grembiule bianco, sbottonato, ostenta la grazia acerba della sua incipiente primavera. Prima di sedersi al suo posto scioglie con un gesto antico e sapiente, il laccio che le ferma i capelli lunghissimi. Scuote la testa: la sua superba chioma color castagna ondeggia nel mattino. E’ il segnale: l’ antico rituale della danza  della femmina e del maschio che comincia così, un mattino d’ autunno, a scuola, con un’onda profumata di capelli che trascina i ragazzi al largo,   verso le burrasche   e le inquiete promesse delle isole della pubertà dove li attendono  turgori e batticuori, un  balenar di grazia e di paura nell’eco di grotte marine   inesplorate, popolate di sirene, tritoni, ombre e inciampi di stalattiti inaspettate.
Andrea e Luciano vengono risucchiati in quel vortice che fa cambiar loro, improvvisamente, il tono della voce e li rende teneramente impavidi come gli eroi dell’ Iliade, li perde nei labiriti di un poema cavalleresco, in una giostra di inseguimenti, nascondimenti, ritrovamenti che portano scompiglio anche nelle parole: ciascuna significa sè stessa, il suo contrario e qualcos’ altro che fa ridere e rende molli le gambe.
La classe diventa così il campo di battaglia nella “guerra degli ormoni”. Ma noi maestre, non faremo in tempo ad assistervi: tra scaramucce e provocazioni s’ arriverà a Giugno, e loro, i ragazzi, andranno via a combattere le loro battaglie sotto gli occhi dei nostri colleghi di scuola media.
Ai nostri colleghi professori, sarà dato l’ ingrato compito e l’ immane fatica  di sistematizzare i primi nodi dei saperi disciplinari e presiedere alla ridefinizione degli equilibri ormonali dei loro alunni adolescenti.  Figli di Ermes e Afrodite, gli adolescenti non hanno altra corazza se non le ali dei propri sandali, vivono come se derubassero giorni al futuro e inseguono segrete e sconosciute armonie.
In questo sono creature lunari che sfuggono  ai nitidi contorni del giorno, sono banditi di frontiera che spostano il confine e forse per questo, nella scuola media del mio Paese, la Preside Barbadoro, quarant’ anni fa ci confinava nella corazza di un grembiule nero: lungo per le femmine,” alla cosacca” per i maschi. L’ unico luogo nel quale, a scuola, potevamo sperimentare lo spostamento   dei confini dei nostri reciproci campi di battaglia, nella nostra “guerra degli ormoni” (mantenuta segreta, nonostante fosse la fine degli anni settanta e due ondate di contestazione giovanile avessero travolto i dettami dell’ antica educazione sentimentale) era la palestra.
Sebbene continuassimo ad essere distinte classi, femminili e maschili , affidate ad insegnanti diversi,maschio e femmina, la palestra era il luogo ed il tempo dove i nostri corpi potevano essere immaginati, confrontati, liberati in un tripudio di forme , di odori, di inconfessabili desideri di essere spiati e desiderati.
La palestra era il pascolo del nostro Cantico dei Cantici e noi eravamo come “gigli tra le spine”, “meli tra gli alberi del bosco”, “giardini profumati di mirra e incenso”.
Impiegavamo interminabili mezz’ ore a prepararci per la lezione sfoggiando pantaloncini attillati e tute da ginnastica d’ improbabili colori. I maschi, con il tempo bello , venivano trascinati dall’ imperio del professor Vicini, un ragazzone di un metro e novanta, al campetto, dove tra l’erba e la ghiaia, sperimentavano le azzuffaglie del rugby, noi femmine restavamo, con la professoressa Taricone, in palestra a sperimentare gli esercizi di   corpo libero e i salti della pallavolo. Tornavamo negli spogliatoi portandoci dietro scie odorose: i maschi ostentavano le loro sbucciature di ginocchia e di gomiti con la spavalderia degli eroi e gli occhi piena  di segreta voglia di piangere dei bambini. Noi scioglievamo i nostri capelli sudati e scuotevamo la testa: in quel momento credevamo d’ essere venute alla terra perchè si compisse l’ eterno ed antico miracolo del naufragio degli occhi di maschio nell’ acqua infinita dei nostri occhi di femmine.




Una scuola coi fiocchi

abcCosi perduta dentro i miei scarponcini marroni,con il grembiule nero e il cuore in gola, cominciai la mia prima elementare.
Il mio “ottobre rosso”: rosso come la cartella che mi aveva regalato mio nonno, rosso come gli aceri che puntinavano qua e là Pizzodeta, rosso come il fiocco  di nylon che troneggiava sotto il mio mento a chiusura del colletto bianco.
Il Regolamento Scolastico  del Circolo di Balsorano prevedeva per la scuola elementare,   nel 1972: grembiule nero, colletto bianco, fiocco rosso in prima, verde in seconda, rosa in terza, azzurro in quarta, tricolore in quinta.
Era l’arcobaleno del “decoro scolastico”. I fiocchi ed il loro colore  stabilivano a prima vista,  e senza possibilità di equivoci , l’ appartenenza ad un gruppo classe, ed erano probabilmente una delle  eredità del ventennio.
Ma noi, Balilla  senza saperlo, li indossavamo con  quel misto d’ orgoglio ed insofferenza che si riserva alle responsabilità infantili. Quel primo giorno mi accolse una giovane maestra senza orpelli e con gli occhiali spessi.
Mi pare si chiamasse Elvira. Sperimentai quanto nero e pesante  fosse il tratto della mia matita che lasciava sbilenche scie sui quadretti che nessuna gomma riusciva a cancellare.
Rimediai un “malissimo” e  conobbi  quanto inutili possano essere le lacrime e il moccio sulla prima pagina di un quaderno. Due giorni dopo arrivò il maestro Pasquale, giovane e scarruffato, con un pullover beige e i jeans a vita bassa.
Fu lui, contestatore e capellone dall’ attaccatura alta, ad accogliere il disordine delle mie esse  al contrario e trasformarlo nella meravigliosa armonia che schiude ai bambini l’universo della scrittura.
La mia cartella rossa diventò un oggetto magico dal quale usciva l’incantesimo  del mio quaderno e la porta sul mondo del mio libro di lettura. Il maestro Pasquale  ci portava, ogni fine mese, tra i sentieri e le mulattiere, a scoprire le nervature delle foglie e i  pistilli dei fiori. Salivamo tra gli ulivi e i ginepri  graffiandoci  i polpacci con i rovi di more e biancospino, fino ai boschi di quercioli e rovette. Davamo un nome al mondo e i luoghi si popolavano di creature fatate o mitologiche. Costruimmo un pallottoliere con le ‘ pallucche’, le castagne americane che raccoglievamo a sacchi  sotto gli ippocastani della piazza ed era così bello che perfino la storica  maestra Ilde ce lo chiese in prestito.
I nostri fiocchi rossi erano sempre sciolti ma Pasquale ci insegnò  perfino  a riannodarceli tenendo gli occhi chiusi, soprattutto prima di giocare ad “acchiapparella”, per non dare una presa all’ avversario.
Il maestro Pasquale andò via a Giugno e l’ anno successivo andò ad insegnare in una scuola più vicina al suo paese, risparmiandosi  lo strazio di un viaggio quotidiano di quaranta chilometri di strade di montagna. Io l’ho rivisto trent’anni dopo,  quando era un collega di mia sorella che insegna nella nostra scuola,  oggi Istituto Comprensivo di Balsorano.
All’ Istituto Comprensivo di Balsorano il regolamento prevede ancora  gli stessi  fiocchi  degli stessi colori. L’ anno prossimo Lorenzo il mio pronipotino ne avrà uno: rosso come la nostalgia.