Signora mia, non c’è più la scuola di una volta: la ragione astuta del sociologo illustre (…e famiglia)

di Franco De Anna

C’è una intuizione di fondo nelle argomentazioni utilizzate da Luca Ricolfi in una intervista rilasciata al Giornale sul libro da lui scritto insieme alla prof.ssa Paola Mastrocola (consorte).
Nella sua formulazione “la scuola progressista” (quella del “tutti a scuola” … quella “promozionale” donmilaniana) è generatrice e di disuguaglianza sociale e di deterioramento culturale generale.

Sollecitato dall’intervistatore enumera tutti di diversi tentativi di riforma scolastica, a partire dalla Media Unica con la scomparsa del Latino, come fonte del progressivo degrado
Si tratta di affermazioni, sgradevoli per alcuni, ma che contengono una base di verità.
Non scoperta da Ricolfi certamente, ma ben prima e da un molto autorevole protagonista.

Ricordo un episodio primi anni ’70 (cruciali nella analisi “scientifica” di Ricolfi)
Parlavo di scuola con un operaio siderurgico (allora facevo un altro mestiere), ed egli con anticipato acume rocolfmastrocoliano, battendo con forza il dorso di una mano sul palmo dell’altra, quasi a voler rappresentare fisicamente il concetto, mi diceva (mi scuso per il suo dialetto lombardo…) “pu sè slarga, pu sè sbasa” (più si allarga, più si abbassa).
Intendeva dire (aveva fatto la vecchia scuola) che secondo lui vi era il rischio, con la scuola di massa, che accadesse ciò che accade su una incudine battendo il martello su un pezzo di ferro incandescente.
Sotto le martellate si allarga certo il perimetro del pezzo. Ma se ne abbassa lo spessore.

Insomma, Ricolfi ha copiato il concetto.
Allora, per completare il ricordo di quella discussione di scuola con e tra operai metalmeccanici (i chimici, si sa, erano più “raffinati”), potrei ripetere a Ricolfi ciò che dissi a loro.
Che avevano assolutamente ragione: il problema era non pensare sempre allo stesso “pezzo” che per allargarlo bisogna abbassarlo…e non pensare sempre allo stesso mezzo (incudine e martello).

Una “vera riforma” avrebbe dovuto cambiare sia “mettendoci più materiale” sia cambiando gli attrezzi.
La parte che Ricolfi tace è invece proprio questa: gli effetti che lui descrive sono dovuti al fatto che si siano voluti dare compiti e significati di crescita, promozione, emancipazione sociale, mantenendo in sostanza la struttura e lo strumento e il contenitore, semplicemente “forzandone” l’ingresso, l’uso e il perimetro, non con “riforme strutturali” ma con “manutenzione” più o meno adeguata (responsabilità anche di parte della cultura progressista).
Naturalmente all’occhio “sociologico” ricolfmastrocoliano, è di scarsa rilevanza che il “compagno” siderurgico che affermava la sua stessa osservazione (…pu sè slarga….) abbia acquisito anche “la terza media” approfittando di una delle poche ipotesi di (potenziale) innovazione strutturale come le 150 ore.




Prove Invalsi nel secondo anno di pandemia: cosa ci dicono i risultati

di Franco De Anna

Premessa doverosa
Sono da sempre convinto della importanza delle rilevazioni annuali che INVALSI compie sui livelli di apprendimento nella nostra scuola, del valore essenziale di questo aspetto della Ricerca Educativa, delle modalità di restituzione all’intero sistema, e con articolazioni che nel tempo si sono andate via via approfondendo, dei risultati di tale ricerca in termini di strumenti preziosi di elaborazione diagnostica su diversi livelli.

In primo luogo, come strumenti utili a supportare la “razionalità decisoria” relativa al sistema stesso innanzitutto in termini strategie di politiche dell’istruzione e di conseguenza della congruenza e dei risultati delle scelte operative ad esse legate.
In secondo luogo, proprio per i caratteri delle articolazioni delle restituzioni di rilevazioni condotte sull’universo del sistema, come strumenti di possibile e analitico riscontro della stessa operatività molecolare a livello di scuola e di classe.

Per tali ragioni di fondo sono sempre stato convinto della necessità di sviluppare attorno a tali aspetti essenziali della Ricerca Educativa il massimo di consapevolezza dei significati specifici degli indicatori e dei protocolli utilizzati, del valore sostanziale di strumenti per l’impegno analitico diagnostico dei dati rilevati, della necessità di accompagnare tale impegno analitico diagnostico a tutti i livelli del sistema, dai decisori agli interpreti professionali.
Come sempre nella Ricerca e in particolare nella ricerca sociale: gli esiti non sono “certezze indiscutibili” ma strumenti per approfondire, verificare, ricombinare scelte operative. Tanto più se l’oggetto è un sistema sociale complesso e particolarmente articolato e pluridimensionale come la scuola.

In questi anni di costruzione del sistema di rilevazione, che hanno in parte accompagnato anche il mio precedente lavoro professionale nella scuola, ho sempre constatato la presenza di un elemento negativo, costituito da un equivoco (politico/professionale) fonte di un doppio movimento contrario a tale impegno.
Le rilevazioni dell’INVALSI sono spesso interpretate come “valutazione degli alunni”, intese come valutazione dei risultati dei singoli, che sono di norma impegno essenziale del lavoro specifico dei docenti. E non come rilevazioni “di sistema”.
Da tale equivoco, variamente interpretato nascono le reazioni negative diverse per orientamento ma come se avessero il medesimo “stampo”: chi (giustamente) ribadisce che la “valutazione degli apprendimenti degli studenti” non può essere ridotta alla rilevazione con i test, e per di più su parti (necessariamente) ristrette e limitate dei processi di apprendimento e formazione, finisce per testimoniare e dichiarare a gran voce la inutilità e, a volte, “la molestia” delle rilevazioni nazionali.

In tal modo indirettamente si supporta la considerazione della stessa inutilità della rilevazione sistemica come strumento di supporto alla razionalità decisoria delle politiche dell’istruzione. E contemporaneamente ci si defila dall’impegno analitico diagnostico sulla stessa operatività molecolare del fare scuola quotidiano e situato. Come se il lavoro della scuola non necessitasse invece di un continuo interrogarsi sui risultati e sulle alternative.
Si tratta in sostanza di una remissione di responsabilità sulle scelte e sulle alternative in relazione agli effetti sia a livello delle politiche dell’istruzione (cercare una relazione tra esiti delle rilevazioni e scelte politico-amministrative risulta impegno imbarazzante) sia a livello molecolare si scuola, di classe, di docenti, dove finisce per prevalere la riproduzione e ripetizione del “canone”. Gli effetti ed i risultati si misurano in relazione al loro adeguarsi al canone.

La distinzione strutturale, filosofica ed operativa tra la “valutazione degli apprendimenti” come parte fondamentale della responsabilità del lavoro docente (per altro uno dei punti deboli della cultura professionale) e le “rilevazioni sistemiche” che, per il carattere delle restituzioni effettuate, si offrono come strumenti di analisi diagnostica ai diversi livelli di articolazione sistemica fino a quello “molecolare” (fino a strumenti di interrogazione analitica sul lavoro in classe…) è l’elemento essenziale la cui consapevolezza dovrebbe guidare le lettura dei dati che INVALSI ci propone annualmente.
A maggior ragione in questo 2021.
E tuttavia non si può che constatare che la consapevolezza e la padronanza dei significati sopra richiamati sia l’elemento ancora debole e critico della esperienza ormai pluriennale di quella specifica ricerca valutativa affidata all’INVALSI.
Se un appunto critico mi sento di fare alla attività dell’Istituto è proprio quello della insufficiente promozione e diffusione di quella cultura della valutazione: la capacità di coinvolgere le scuole e i docenti e di “fidelizzare” l’organizzazione scolastica attraverso la consapevolezza del valore analitico-diagnostico dei dati della ricerca restituiti alla riflessione collettiva del sistema scolastico. Dai suoi interpreti diretti nel loro lavoro, ai decisori nei diversi livelli di decisionalità articolata di sistema.
Insomma, la capacità di coniugare l’impegno nella ricerca scientifica e il permanente miglioramento dei suoi protocolli e risultati, con il suo riflesso sulla “organizzazione della cultura” nel mondo della scuola.
Alcuni dei caratteri del dibattito che si è subito sviluppato il giorno stesso della presentazione complessiva degli esiti delle rilevazioni testimoniano tale elemento critico.

La ricerca contingente delle “responsabilità”

È una deriva inevitabile in questo anno segnato dagli effetti delle emergenze. Comprensibile.
Tuttavia, è evidente la distorsione del collegamento causale tra risultati delle rilevazioni e le diverse emergenze. (Lockdown e Didattica a Distanza…). Più si propongono collegamenti immediatamente causali (“è colpa della DAD”… ma anche “Se non ci fosse stata la DAD dove saremmo…), più si rinuncia a quel lavoro analitico che potrebbe far fruttare i dati delle rilevazioni come strumenti di conoscenza del sistema e delle sue problematiche.
Vorrei contribuire a tale lavoro analitico con approfondimenti specifici, ma per questo impegno rimando al momento in cui saremo in possesso delle restituzioni complete dei dati rilevati.

Mi limito qui a ricordare:
1. La considerazione che gli elementi di emergenza di questo biennio abbiano avuto un peso nel determinare il peggioramento dei dati sui livelli di apprendimento ha la forza dell’ovvio. Non così ovvie le correlazioni tra diverse fenomenologie di peggioramento, quantificazioni relative e i diversi elementi dell’emergenza (Vedi oltre qualche segnalazione)
2. Sono anni che le rilevazioni ci restituiscono dati “critici” (è un eufemismo per diversi aspetti) dei livelli di apprendimento promossi dal sistema scolastico italiano. Critici per i livelli medi, critici per la distribuzione diseguale dei risultati sia per ordini di scuola, per distribuzione geografica, per composizione degli indicatori di distribuzione del reddito e dello sviluppo sociale e culturale, critici per i livelli di dispersione sia esplicita che implicita, critici per la distribuzione dei livelli di apprendimento considerati essenziali.
3. L’effetto dei fattori di emergenza si iscrive perciò su un retroterra già segnato da elementi critici ed inadeguatezze di sistema. Il “popolo della scuola” protagonista delle rilevazioni del 2021 è già segnato da una storia formativa pregressa sviluppata in un sistema inadeguato. Come si distribuiscano perciò i diversi elementi di aggravamento prodotti della pandemia sui diversi fattori di criticità pregressa è elemento che richiede surplus analitico, non semplificazione causalistica.
4. Tali considerazioni valgono anche per alcuni (pochi) aspetti positivi. Per esempio, i miglior risultati relativi alla Scuola primaria certamente sono (anche) correlabili al fatto che in questo ordine di scuola si sono sofferte meno chiusure; ma non si può dimenticare che tale dato (i risultati della primaria italiana che reggono nella comparazione internazionale) è consolidato in tutte le rilevazioni precedenti. Quali sono dunque i reali punti di forza?

Per sintetizzare potremmo suggerire a chi si impegna nella analisi dei dati INVALSI, due costrutti “metodologici” (mi si passi l’ironia): “ricordare sempre che piove sul bagnato” e che perciò “non si può tornare alla normalità, perché è nella normalità che sta il difetto”.
O, se volete, non abbiamo “paradisi perduti” da riconquistare.

Suggerimenti analitici

Come già ricordato proverò a cimentarmi con una analisi dettagliata dei risultati delle rilevazioni quando saranno disponibili le restituzioni complete. Qui vorrei semplicemente suggerire alcuni spunti di riflessione su elementi che vedo trascurati nel confronto immediato che si è sviluppato in questi giorni, e che volentieri lascio sviluppare ai “volenterosi”

1. Credo sia interessante ed importante che nell’osservare il calo dei punteggi medi registrati per italiano e matematica nei diversi livelli di scuola (p.es. 4 punti in italiano, 7 punti in Matematica nella secondaria di primo grado, ma l’indicazione vale per tutti gli ordini di scuola e quali che siano i differenziali di punteggio tra il 2019 e il 2021) si tenga conto non solo degli scostamenti anche del confronto tra le gaussiane rappresentative delle rilevazioni precedenti e di quella del 2021. Lascio l’analisi agli interessati: per esempio osservo che nella primaria (risultati complessivi confortanti) la gaussiana dei dati di italiano del 2021 si restringe rispetto a quella del 2019 mentre quella di matematica si allarga sia per il grado 2 che per il 5. Provarsi ad interpretare nell’analisi.
2. Nell’esaminare i diversi risultati, in particolare nella secondaria superiore si tenga presente che aumenta lo scarto di copertura tra il campione e la popolazione. Mentre per la secondaria di primo grado il campione è al 97,2% e la popolazione al 93.4%, per tutta la superiore il campione è al 93%, la popolazione all’81%. Ma in alcune Regioni, come la Campania, la Puglia, la Sicilia, il differenziale è assai elevato (per il grado 13 in Puglia lo scarto va da circa 90% al 50%). Si tenga inoltre conto che si tratta di regioni che hanno normalmente risultati inferiori alla media nazionale.
3. La correlazione tra aumento degli studenti in difficoltà e indice ESCS di appartenenza, che dimostra che le maggiori difficoltà siano legate a contesti economico sociali e culturali più bassi conferma anch’essa il carico socialmente non uniforme degli elementi di emergenza, ma sarebbe opportuna una analisi più dettagliata. Il confronto di punteggi medi della popolazione suddivisa per quartili di ESCS di appartenenza dava anche in passato valori testimonianza di grandi diseguaglianze. E tuttavia occorre esplorare più attentamente di dati con maggiori disaggregazioni.
Per esempio, se si osserva il rapporto tra studenti in difficoltà e ESCS di appartenenza nei punteggi relativi a Matematica per il grado 8 (secondaria di primo grado) confrontando i dati 2021-2018 e 2021-2019 si riscontar un relativo appianamento degli andamenti, o comunque una correlazione più complessa della affermata causalità diretta.
4. Il costrutto di Learnig Loss mostra da un lato elementi di conferma della “verità” ovvia: si “perde di più” nelle situazioni locali caratterizzate da punteggio già inferiori alla media nazionale. E quindi l’emergenza approfondisce le differenze. Ma dall’altro lato si dimostra anche la ambiguità dell’indicatore “apprendimento perso”.
In alcune rilevazioni si registrano elevati gradi di “learnig loss” in regioni che presentano un più alto livello di punteggi medi: in Matematica grado 13 compaiono con “perdite” sopra la media nazionale regioni come Veneto, Friuli, Toscana, Liguria, Marche; in Italiano sempre grado 13 compaiono con perdite più elevate della media ancora Toscana, Veneto, Friuli….E si tratta di Regioni che hanno invece tradizionalmente e stabilmente punteggi più elevati della media nazionale. In questo caso si potrebbe dire paradossalmente che “perdono di più quelli che vanno meglio”.
Ciò si presterebbe a interpretazioni interessanti. Dove la scuola tradizionale (il canone) è più consolidata e “produttiva” l’emergenza che ti obbliga a cambiare modelli e organizzazione, incide più negativamente. Viceversa, dove l’organizzazione è “normalmente” più debole, la necessità di mutare il “canone” richiama una sorta di “capacità di arrangiarsi”. Processi che alimentano in modo assai differente il difettoso costrutto interpretativo di learning loss (incidentalmente ricordo che la necessità di ricerca e di misure di tale “variabile” (?) è stata significativamente (?) ribadita più volte dalla Fondazione Agnelli…)
5. Altro spunto interessante e necessario di analisi dei dati è quello relativo alla distribuzione delle differenze (tra comparti geografici, tra scuola, tra classi). Nelle restituzioni tradizionali dell’INVALSI tali differenze vengono correttamente interpretate come indicatori di equità del sistema.
Stando ai dati presentati complessivamente per il 2021 si segnala uno spostamento dalla variabilità tra le scuole alla variabilità tra le classi. La differenza tra scuole si attenua, la differenza tra classi si accentua. Anche in tale caso l’analisi dovrebbe essere diretta ad indentificare i fattori di tale spostamento.
Per esempio, si potrebbe ipotizzare con un certo fondamento (da dimostrare) che nella fase in cui la scuola è stata chiamata ad “inventarsi” modelli diversi di organizzazione degli spazi, dei tempi, e della strumentazione didattica (vedi DAD/DID) la variabile “caratteristiche del/dei docenti” abbia assunto un valore rilevante, e da qui la differenza tra le classi. Ovviamente una interpretazione “scomoda” da avallare. Ma che potrebbe segnalare i campi prioritari di intervento per migliorare i risultati.
6. Infine, la questione della dispersione scolastica. Sia quella esplicita (abbandoni ecc…) sia quella implicita legata al raggiungimento di livelli accettabili di apprendimento. Anche in tale caso le rilevazioni 2021 mostrano un peggioramento. Ma vorrei anche in tale caso ricordare che il relativo peggioramento ha per oggetto un inaccettabile valore consolidato oltre il 20% nella “normalità”. Non possiamo “scoprire” questo drammatico punto di caduta (fallimento?) del sistema di istruzione italiano legandolo alla pandemia. Appunto: non si può “tornare alla normalità” perché “il problema sta prima ancora proprio nella normalità”.




Giancarlo Cerini, ispettore “analitico”, sempre con appunti e scalette

di Franco De Anna

Caro Giancarlo,
Sto tentando disperatamente di uscire dal silenzio che da ieri sera mi blocca (la notizia me l’ha passata un comune amico poco dopo le 22.30), non solo per il dolore che sento, ma anche per la resistenza a cercare e trovare parole che lo descrivano sinceramente, capaci di disfarsi delle inevitabili funzioni “difensive” che la parola, come ogni altra “rappresentazione” finisce per assumere. Soprattutto nel lutto.
Ho sempre declinato un certo imbarazzo nei nostri rapporti.
Chi mi è più vicino sa che spesso quando mi descrivo in termini autoanalitici dico “io sono terroso”.
Ecco l’interazione con te, sempre dedicata al contesto professionale, sia pure con tutta l’umanità possibile, mi confermava tale giudizio su me stesso.
Ho sempre guardato, tra l’ammirazione e l’interrogazione stupita, alla tua capacità analitica, fino al particolare più dettagliato (qualcuno ha mai avuto l’occasione, seduto accanto al tavolo della medesima conferenza, di dare un’occhiata alle scalette dei suoi interventi, e ai suoi appunti?) mentre io ho sempre teso a “sgombrare il campo” e “potare”.


La tua dichiarata “mitezza” in realtà usava il bisturi. A me viene di scrollare l’accetta…
Di fronte alle difficoltà e alle contraddizioni andavi alla puntuale ricerca del nuovo possibile, indicando l’impegno, anche di orizzonte ridotto, ma comunque capace di cambiare la realtà… Io mi rotolo nella terrosa semplificazione dei “no”.

Contemporaneamente eri di una grande capacità di programmazione (senza la quale non avresti potuto fare le tantissime cose che ti impegnavano e che proponevi a tutti noi).
A ripercorrere i nostri rapporti professionali mi vien da dire che nulla era lasciato all’improvvisazione.
Avevamo formazione e interessi assai diversi: io nulla so di pedagogia, e tanto meno di istruzione primaria o dell’infanzia.
Ma avevamo anche opinioni a volte assai diverse sulle politiche dell’istruzione e sui caratteri dell’ordinamento da cambiare o sul funzionamento della Pubblica Amministrazione. Pure spesso mi hai sollecitato interventi e contributi sulle tue riviste proprio su quei temi. Scelte certamente generose, ma altrettanto certamente e comprovatamente “mirate” rispetto al comune orizzonte innovativo.
Non so (me lo sono sempre chiesto…), se nella mia sbrigativa “terrosità” sarei stato capace di altrettanto coinvolgimento.
Il dolore che da ieri sera mi zittisce e a cui sto stentatamente cercando di dare parole (e sempre nel dubbio che forse il silenzio sarebbe più opportuno) è dunque fortemente radicato: non solo con te scompare un protagonista essenziale del comune orizzonte operativo del mondo dell’istruzione, un segmento portante delle istanze di innovazione di quel mondo, ma anche una sorta di specchio che restituiva le deformazioni “terrose” del mio modo di viverci all’interno.
E dunque dava l’opportunità anche a me stesso di migliorarmi.
Non so come farò a non chiedermi, come mi accadeva spesso di fare, di fronte a tante questioni della scuola italiana, e a miei “terrosi” pensieri, “cosa ne penserà Giancarlo?”
Addio
Franco




Educazione civica, cittadinanza e Costituzione

bambini_scuola

di Franco De Anna

In via “normativa” (come succede spesso nel nostro sistema di istruzione) la complessa problematica de “cittadinanza e costituzione” è diventata oggetto di definizione di una “materia di studio” con tanto di durata (numero di ore complessive), distribuzione di compiti di insegnamento (da progettazione collettiva a “titolarità” specialistiche), valutazione finale.

Come ovvio, data la complessità dell’oggetto tradotto in dispositivo di legge (vale erga omnes e dunque la definizione formale deve comprendere tutto ciò che non può non esserci), nello stesso itinerario di produzione normativa, si sono aggiunti tutti i tratti “comprensivi”: dalla educazione stradale, alla lotta al cyberbullismo, alla educazione ambientale, l’agenda 2030, ecc…ecc….
Una sorta di “enciclopedia delle educazioni”. 
Nelle strettoie dei tempi di approvazione della Legge, di pubblicazione sulla G.U e sulla andata in vigore, si delinea il rinvio alla attuazione effettiva della norma al prossimo anno scolastico. Da più parti si è avanzata l’idea di utilizzare tale intervallo per “provare” sul campo le condizioni di applicazione e realizzazione di quanto indicato nel “dispositivo normativo”.


Confermando (se ve ne fosse bisogno…) la mia personale lontananza da approcci normativi alla problematica pedagogica (programmi, indicazioni, tecniche didattiche codificate, segmentazioni curricolari…) provo ad elaborare alcune suggestioni al problema, che non hanno certamente “traduzioni operative” (le lascio a tanti esperti) ma forse non sono inutili come “premesse”.

• Cittadinanza e noità
Se ci si pone dal punto di vista dello sviluppo del “soggetto in formazione” verso l’adultità e l’autonomia soggettiva (la “formazione transitoriamente compiuta”: compiuta, non “ultimata”), nella dimensione strutturale, psico antropologica, la cittadinanza ha a che fare con la dimensione del “noi” nella formazione del soggetto.
Sul piano “sovrastrutturale” si riferisce invece ovviamente a modelli culturali socializzati e dinamiche storiche connesse, modelli di comportamento e scale di valori condivisi, e strutture istituzionali codificate. 
L’esplorazione della dimensione “sovrastrutturale” (dai comportamenti sociali “ammessi” alla organizzazione istituzionale) avviene attraversando stratificazioni complesse entro le quali si rielabora collettivamente la “strutturale” dimensione del “noi”.
Vorrei che si tenesse sempre presente l’articolazione delle due dimensioni nella formazione, sia perché il confronto con le articolazioni codificate della cittadinanza è solo una tappa, più o meno “avanzata”, ma non è certo a fondamento precoce del percorso formativo del soggetto, sia perché il livello istituzionale è quello più specificamente e storicamente determinato, e storicamente “variabile”. 
I processi a livello di struttura psico antropologica, invece, una volta consolidati nella formazione sono assai meno plastici, ed anzi, spesso operando come latenze, influiscono “nascostamente” ma con grande efficacia sui comportamenti collettivi.
In tale senso si ricordi sempre, per esempio commentando e lamentando la diffusione di derive razziste, che “ogni etnocentrismo è alimentato da egocentrismo”. E in tal senso non vi sono “prediche efficaci” (anzi, spesso controproducenti) se quella fonte sotterranea non viene governata fin dalla sorgente.
Nei processi formativi occorre perciò affrontare il problema innanzi tutto a livello di “costruzione del soggetto” (bildung) in un itinerario complesso che fonda su tale processo la stessa (e attentamente collegata) esplorazione progressiva della dimensione istituzionale/educazionale (le sovrastrutture, più o meno codificate).
Ovviamente per fare “educazione civica” non basta “imparare la Costituzione”.
Come si potrebbe fare, altrimenti, “educazione alla cittadinanza” per esempio in Gran Bretagna, dove non esiste una Costituzione codificata? Pure si fa e forse con maggiore efficacia.


• La dimensione strutturale della “noità”


L’animale (zoon) homo ha due caratteristiche fondamentali che presiedono la sua dimensione sociale (gregaria): arti e organi di senso non specializzati e una marcata neotenia.

Gli arti dell’uomo non hanno artigli per ferire, cacciare, aggrappare: non hanno zoccoli o ammortizzatori per favorire la corsa; homo ha un odorato rudimentale rispetto a tanti mammiferi, una vista limitata sia per distanze che per spettro, un udito di portata assai ristretta.
Gli adattamenti evolutivi, per tutte le specie, sono sempre contrassegnati da “compromessi” (adattamenti, appunto) ma la specie umana sembra essere caratterizzata da una concentrazione particolare di tali compromessi.
Anche una sua “specialità” come la stazione eretta, che ha costituito un fattore di successo evolutivo, ci costringe però quotidianamente a misurare la portata di tali compromessi attraverso i nostri mal di schiena.
L’assenza o il basso livello di specializzazione sono funzionalmente legati alla plasticità e complessità del cervello e del sistema nervoso come condizioni di un permanente adattamento.
E quello specifico coordinamento, proprio per la “plasticità” che lo caratterizza, sortisce effetti e risultati fortemente “individuali” e diversificati. In tal senso confermando la “non specializzazione”.
Il carattere neotenico dell’animale uomo presiede, a sua volta, ad una particolare lunghezza del percorso verso il raggiungimento della piena adultità. 
Anche limitandosi alla biologia homo sapiens impiega diversi anni per diventare adulto. Se si guarda ai processi di adattamento complessivi, probabilmente tale processo non è mai concluso. 
La neotenia marcata implica una gestione più che prolungata dei cuccioli (senza altri confronti zoologici) che, superando nettamente le fasi di fertilità non può che essere affidata in gran parte al “gruppo”. Lo specifico prolungamento della fase di adultità è cioè una componete essenziale e strutturale della gregarietà.
Il fondamento dell’adattamento e del successo della specie homo sta nel coordinamento tra un arto poco specializzato e dunque adattabile, ed un cervello plastico e in permanente sviluppo.
Su tali basi il carattere della gregarietà, che l’animale homo condivide con altre specie, acquista, rispetto ad altri “animali sociali”, carattere specifico, per il fatto che non si fonda sulla necessità di “collaborare” nel potenziare la propria specializzazione. (significativamente per garantire sopravvivenza e alimentazione). Ma dal fare fronte al basso livello di specializzazione e dunque al “mettere insieme” le proprie debolezze.
Un branco di lupi mette insieme la specializzazione delle proprie zanne aumentandone la potenza per cacciare un grande bisonte. 
Un gruppo di cacciatori umani mette rimedio alla debolezza della assenza di zanne e unghie (di specializzazione) soprattutto dividendosi i compiti e “specializzando” i ruoli, gli strumenti ed il loro uso (dunque a partire dal diverso coordinamento mano-cervello, plastico e fortemente individualizzato).

• Noità e formazione del soggetto

La noità cui si è accennato nel punto precedente non ha dimensione pedagogica. È a-pedagogica ed anzi spesso elabora, in sé, una dimensione antipedagogica 
Non si richiamano qui riferimenti antropo-etnologici che certo non mancano, sia per il passato che per il presente. Ma, sintetizzando e generalizzando (e scontando qualche inevitabile superficialità) si potrebbero formulare le seguenti proposizioni.
1. Il “luogo originario” della acquisizione (mai lineare) della dimensione del noi è ovviamente la famiglia. La prima dialettica io-noi è esercitata nel dimensionare e mediare il rapporto con fratelli, o comunque con altri “cuccioli” presenti nella famiglia allargata (si pensi alle famiglie contadine ed agli insediamenti famigliari plurigenerazionali: certo nella tradizione, ma tuttora presenti nelle aree agricole).
La cura dei cuccioli è affidata alla collaborazione collettiva dei componenti della comunità famigliare più o meno allargata. E l’esercizio autonomo della noità è “regolato” entro tale “cura”, e ad essa ed alla sua “sapienza” è affidato il delicato (e spesso inconsapevole) compito di accompagnare un processo dialettico e conflittuale di adattamento e “compromesso” evolutivo (vedi note precedenti)
2. La famiglia urbana e mononucleare (pur con tutte le varianti comunque compresenti) prosciuga storicamente quest’ambito di esercizio formativo della noità: non ci sono più fratelli, cugini, cuccioli conviventi. 
Non ci sono cortili e strade “di gioco”. E non vi è più la cura collettiva dei cuccioli che si esercitano ad acquisire il “noi”. La dimensione individuale tende a diventare “ambiente esclusivo” della formazione del soggetto. Correzioni, anche esse tradizionali, di tale evoluzione storico-sociale, sono le dimensioni associative giovanili: dagli scout agli oratori, dalle associazioni sportive

3. L’ambiente di esercizio della componente “strutturale” della noità si sposta progressivamente verso la scuola, investendola di responsabilità e funzioni e problematiche complesse. Innanzi tutto come dare spazio ed elaborazione alla dinamica io-noi, senza ricondurla semplicemente alla “legge”, o se si vuole alla “etica pedagogica” e al suo “repertorio idealtipico”. Occorre una combinazione assennata tra la possibilità di esplorare compiutamente i caratteri della gregarietà strutturale psico antropologica di “homo”, rielaborare noità e ricondurla e ricombinarla con la dimensioni “sovrastrutturale” dei “comportamenti sociali” o della acquisizione delle dimensioni istituzionali. (Si veda oltre)


4. La scuola “istituzionale”, in particolare nel modello italiano, dimostra spesso di essere un “contenitore inadeguato” per quella complessa dia lettica, declinando in modo assolutamente prevalente la dimensione di una “istruzione” che rinvia alla “enciclopedia” delle discipline e a “modelli” comportamentali formalizzati. La difficoltà ad affrontare alcune tematiche con radici profonde nella struttura psico-antropologica del soggetto dimostra la prevalenza di tale impostazione. È sufficiente il richiamo a due di esse assolutamente “opposte” ma che hanno comunque che fare con gli assetti psico antropologici più che con i “contenuti” tradizionali dell’insegnamento: la questione “bullismo” (e ancor più quella del fenomeno connesso all’uso delle ICT) e la questione “competenze” che ha una dimensione che va oltre l’apprendimento disciplinare.

Il problema cruciale che abbiamo di fronte, anche per tracciare sperimentazioni e transizioni è quello di recuperare proprio la declinazione della dimensione “strutturale” (psico antropologica) della noità entro il processo educativo.

Costituzione, Diritto, Economia, Storia, Filosofia, sono “discipline” che possono anche agevolmente trovare proprie “risagomatuire” per contribuire a percorsi finalizzati di “Educazione Civica”.

Ma è quella dimensione fondamentale della noità che deve trovare un difficile spazio nei nostri approcci “curricolari” (!?)
Rinvio ad un mio lungo articolo nel mio sito (CITTADINANZA E COSTITUZIONE lo trovate qui)
Voglio solo riprendere alcune affermazioni precedenti: quella dimensione originaria della noità umana ha i caratteri della socialità dell’homo sapiens basata sulle “debolezze” e sulle “individualizzazioni” dell’adattamento (la debolezza dei cacciatori umani) non sulla “potenza” della specializzazione collettiva (le zanne e gli artigli del branco dei lupi).
Tanta pseudo psicologia si propoala invitando a “valorizzare la propria forza e la propria autostima”.

Ogni docente buon osservatore delle dinamiche della noità che si sviluppano nella sua classe riconosce che ciascuno dei gruppi che la animano (la classe NON È UN GRUPPO) è proprio composito da diverse “parzialità” che si combinano: c’è il “forte”, il “furbo”, il “comico”, il “debole”… e il “leader” non è il “più” ma quello che sa stare sui nodi e la intersezione della comunicazione degli altri…
La seconda affermazione è che senza la assennata esplorazione e elaborazione di tale dimensione si residuano “prediche” e invocazioni generiche che lasciano inalterate le strutture profonde del soggetto e i meccanismi della loro costituzione. Come quando facciamo “educazione alla pace” e poi i nostri alunni, stanchi di prediche, se le danno di santa ragione allo stadio. (Per tacere delle tante “unità formative” dedicate all’ambiente).

Per approfondire consulta e leggi altri interventi di Franca De Anna nel suo sito Per aspera ad astra




Le vestali senza tempio

vestalidi Franco De Anna

Nella stagione mitica del 68/69, usci un fondamentale saggio di Barbagli e Dei che riportava i dati di una ricerca sociologica sui docenti italiani. Il titolo era di una efficacia comunicativa che poteva risparmiare i commenti, “Le vestali della classe media” (1969)

Ricordo sempre che ancora più significativo, nel “dibattito progressista” sulla scuola, risultava un lapsus (neanche tanto freudiano) di molti interlocutori che citavano il saggio storpiando il titolo stesso “Le vestali della “scuola” media”.

Con le note che seguono si vorrebbe esplorare (più che sinteticamente…) il cinquantennio che ci separa da quella ricerca per tentare di ricostruire i cambiamenti (se vi sono), le permanenze, i caratteri, le contraddizioni, del “corpo docente” della scuola italiana e, se possibile, anche qualche tratto “dell’anima”.

Clicca qui per leggere la presentazione del “mitico” volume di cui parla Franco De Anna, contenuta nel “risvolto di copertina”

Clicca qui per leggere l’introduzione scritta a suo tempo dagli autori del volume

Vai nel blog di Franco De Anna per leggere tutto l’intervento




Test Invalsi: sulla differenza fra nord e sud

Ogni anno le prove Invalsi restituiscono dati che evidenziano significative differenze fra Nord e Sud. Sull’argomento riproponiamo un intervento di Franco De Anna pubblicato già nel nostro sito PavoneRisorse due anni fa.
Le considerazioni di De Anna sono ancora molto attuali.