Breve storia dell’Italia, a partire dal ’68

di Franco De Anna
(per gentile concessione dell’autore e del sito www.ceredaclaudio.it )

Il ’68 di Scienze.
Quale registro di comunicazione?

Ho accolto con trepidazione l’invito ad aprire questa riunione del nostro ritrovarsi a quarant’anni di distanza.
Quale registro dare alla comunicazione? Come sfuggire al doppio rischio comunicativo del registro del “reduce” oppure del “tutto politica”?
Ma anche del solo ricordo personale (nulla è meno oggettivo della memoria…) o della lettura analitica politico-economico-sociologica, entrambi falsificabili ampiamente da chiunque ascolti, ma anche dallo stesso autore se appena si scosti dal “punto di vista” nel quale si ponga  contingentemente.

Bisognerebbe dichiarare preliminarmente il proprio “posizionamento” per non fare di un intervento di apertura il bersaglio di ogni possibile successiva precisazione o polemica.
Se, come hanno dichiarato i compagni che si sono impegnati nell’organizzazione di questo ritrovarsi, questa occasione potrebbe anche essere l’avvio per un lavoro successivo che mantenga aperto, se non altro, un canale di comunicazione, allora, nell’impostare questo intervento di apertura si può anche andare “sul leggero”, e lasciare a quel possibile ulteriore sviluppo il compito di approfondire ed esplorare tutte le pieghe di una storia che è anche l’intreccio di tante “storie”.
Chiedo preventivamente scusa di tale “leggerezza” che mescola insieme registri diversi, e necessariamente non approfondisce nulla, lasciando solo delle tracce eventualmente da seguire.

Le passioni “tristi”

Riflettevo su tali dilemmi, quando, per via di un piccolo dibattito in corso su uno dei tanti siti che si occupano di scuola, ci siamo ritrovati, io ed un autorevole interlocutore, a parlare di epoca delle “passioni tristi”.
Le “passioni tristi” sono una citazione di Spinosa, ripresa da due psicologi francesi che ne hanno fatto il titolo di un bel libretto nel quale affrontano i malesseri dell’adolescenza e della giovinezza di questa epoca.

Ha fatto eco, dopo, Galimberti con il suo libro sul nichilismo.
In sintesi: la cultura oggi rielaborata nelle diverse forme e strumenti, dal discettare di tanti maitre a pensee, o supposti tali, fino al senso comune disseminato dai mass media è impregnata dalla incapacità di prospettare, e dunque tanto meno di mantenere, la promessa del futuro.

La promessa del futuro è invece l’alimento di quella religione laica (dico religione laica e non religione civile, e spero apprezzerete la differenza sulla quale non vi è tempo di ulteriori spiegazioni…) capace di costruire e ricostruire i significati e il senso alla vita singola e collettiva.
Più si approssimano le condizioni “oggettive”, potenziali, della liberazione dal bisogno, e dunque per l’espansione della libertà singola e collettiva, più le categorie della emancipazione collettiva dal bisogno, il sogno di eguaglianza e di autodeterminazione che hanno nutrito l’idea del “progresso” per una intera e lunga fase storica, si rivelano inadeguate al presente e a mantenere quel ruolo di “religione laica” al quale si affida il sogno di una felicità terrena possibile per tutti, e il compito di disegnare, contemporaneamente e correlatamene il senso e il significato alla vita di tutti.
Se viene meno quella capacità di costruire e ricostruire quella “cornice di senso”, le potenzialità della tecnica, della scienza, della cultura moderna degradano a dominio.

La socialità scompare nella bulimia dell’appropriazione individuale, i diritti diventano contrassegno dell’egoismo individuale elevato a “ragione” dell’esistere, il giusto diventa l’utile, e quest’ultimo trascorre nel superfluo.
Manca l’essenziale, ma si incorpora avidamente il superfluo.
La libertà diventa sopraffazione, e dunque paura del confronto e del dialogo.

Paura, straniamento, autodifesa, rabbia, a volte tanto urlata quanto incapace di far muovere le cose, tengono il posto dello sguardo, che si vorrebbe carico di speranza per chi sta nel viaggio verso l’adultità.
Queste, appunto, sarebbero le “passioni tristi” dell’oggi, che sono prodotte dalla incapacità di mantenere la promessa del futuro.
Sono queste le “passioni tristi”.

…. E le passioni generose

Ma perché ricordarle?
Per contrasto.
Più riflettevo a quella discussione più mi si confermava l’idea di caratterizzare la mia e nostra esperienza del ’68 come l’epoca delle “passioni generose”.

La scelta politica in senso stretto, lo schieramento, lo scontro tra linee e scelte politiche che fu, soprattutto negli anni immediatamente successivi al 68, quasi “maniacale”, nasceva comunque da una opzione di fondo , pre – politica, quella dello schierarsi “dalla parte di…”.
“Degli oppressi” si sarebbe detto con il linguaggio di una volta.

Una generazione si ritrovò a condividere, prima di ogni altra discriminazione “politicante” quella religione laica che interpretava il futuro come processo generale di liberazione, di autodeterminazione, di possibile felicità di eguaglianza.
E per questo voleva battersi ed impegnarsi.
Una scelta pre politica che dava senso a quella politica, ma anche alla vita di ciascuno e di tutti e all’impegno per il futuro.

Una “passione generosa”, così mi pare di poter caratterizzare il nostro essere di quegli anni.

E mi pare questa la prima risposta, essenziale, che dovremmo dare a chi oggi, nell’epoca delle “passioni tristi”, rinfaccia a quella delle “passioni generose” l’essere causa dei “guai” dell’oggi.

In piena epoca della restaurazione, vi era un modo di dire diffuso da “senso comune” popolare, per accennare all’epoca immediatamente precedente, della rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica: “è tutta colpa di Voltaire” si diceva… Così oggi “è tutta colpa del ’68…”
E chi lo dice, o non sa, o è mosso dagli opportunismi, più o meno motivati dalle convenienze e dalle compromissioni personali dell’oggi…
Ma anche da una invidia rancorosa profonda di chi vive le “passioni tristi”, rispetto a alle “passioni generose” dell’epoca.
Ma non voglio correre il rischio apologetico. Perciò aggiungo anche qualche considerazione critica sul come eravamo

Fu merito di chi?

Fu merito nostro, quello delle passioni generose?
Più modestamente direi che “ci ritrovammo” ad uno snodo della storia.
Non posso qui sviluppare analisi complesse. Solo qualche flash.

  1. Eravamo figli del baby boom post bellico: nella piramide della popolazione, le nuove generazioni rappresentavano una parte consistente e in crescita.
    Una condizione oggettiva di potenziale protagonismo sociale, dunque, ed una base di potenziale “eguaglianza”: la condivisione di una condizione giovanile che, anche quantitativamente, risultava rilevante rispetto alla composizione della popolazione del paese.
    Quindici anni dopo, a tassi demografici calanti, i giovani cominciarono a diventare “mercato” ridotto e perciò selezionato e curato con attenzione “mirata”, isolandosi quasi dalla piramide della popolazione.
    Guardate ai caratteri dell’omologazione della condizione giovanile di allora: la musica era chitarra e parole, la moda era di basso prezzo e di qualità “eguale” (dove sono gli eskimo e le false clarck che portavamo?).
    L’investimento psicologico e materiale in “appartenenza giovanile” era ridotto e convergente, su prodotti poveri e consumi di massa.
    Non che non ci fosse (c’è sempre stata ..) l’istanza di omologazione distintiva dei giovani, ma occupava una parte ridotta della nostra testa, della nostra fantasia e del nostro cuore; occupava meno energie che erano disponibili per altri sogni.
    Poi fu la disco music, la moda griffata e differenziata… fino alle tristi sciocchezze dell’oggi (grembiuli come simbolo di sobrietà e eguaglianza? Guardare nei grandi magazzini la pressione selettiva di una offerta selezionata e differenziata: sono griffati anche i grembiuli, con buona pace di governa la scuola…).
    Oggi, per i giovani, un investimento psicologico ed economico rilevante che “sequestra lo spazio” delle speranze e di quella religione laica di allora.
  2. Tra il ‘48 (Costituzione), il ’58 (Mercato Comune Europeo) e il ’68 (vent’anni) il reddito nazionale fu quasi triplicato.
    Un processo di crescita segnato dalle contraddizioni e dai limiti storici ed economici che vennero al pettine negli anni seguenti.
    Ma fu sviluppo, crescita, prospettiva affluente del futuro.
    Da quella stagione arrivavamo.
    Non era questione di consapevolezza costruita attraverso l’analisi economica: era cosa che si respirava con l’aria.
    Il futuro personale di ciascuno si connetteva, nel processo di crescita generale, con il futuro della “città”.
    E ciò rendeva tanto più intollerabili le disuguaglianze, le ingiustizie, le contraddizioni stesse tra le potenzialità che si intravvedevano e la persistenza delle infelicità e delle ingiustizie nella vita di molti
  3. Gli anni di sviluppo di cui eravamo il prodotto avevano anche segnato il paese con la intollerabilità sociale delle sue contraddizioni: lo sradicamento della popolazione delle campagne e l’urbanizzazione accelerata, il Sud spopolato ed abbandonato, uno stato sociale incompleto.
    Pensate che nel 1950 la quota di popolazione impegnata in agricoltura era il 50% oggi siamo al 4-5%. E noi abbiamo attraversato il momento culminate di quel processo storico.
    Ricordo una vacanza in Calabria (in Cinquecento), a Isola di Capo Rizzuto: un deserto con la porta del Municipio che portava i segni dell’incendio dopo l’ultima manifestazione di braccianti….
    E come non ricordare Avola, Battipaglia, con i braccianti morti sotto il fuoco della polizia?
    Ma noi eravamo figli fortunati di quello sviluppo: in quegli anni il passaggio dall’istruzione media inferiore a quella superiore riguardava solo meno della metà dei giovani.
    All’università arrivava non più del 12% delle nuove generazioni.
    Eravamo cioè frutto di una selezione sociale ancora durissima, che era in sé contraddizione evidente con le potenzialità che ci mostrava lo sviluppo precedente, di cui eravamo figli.
    E la pressione selettiva, come sempre, o conduce alla scomparsa di una specie, o è lo strumento per produrre novità più forti e adeguate.
    La “generosità” delle passioni era dunque sia una scelta soggettiva, sia una risposta “fisiologica” a tale pressione.
    Noi ci siamo trovati al vertice di quella parabola che cominciò infatti a declinare negli anni seguenti
    Ci siamo “trovati”, e uso tale parola nel doppio significato: di chi vive una condizione storico sociale che non ha contribuito a determinare, e di chi, in quella situazione si “ritrova” collettivamente, confrontando le medesime passioni e le speranze del futuro.
  4. Infine lo spunto maggiormente critico rispetto al “come eravamo”: la cultura politica, ma se volete la cultura tout court, disponibile per interpretare quel momento non era adeguata né a comprenderne a fondo i problemi, e neppure all’altezza di quelle “passioni generose”.
    Queste ultime, non per caso, investirono proprio i luoghi dell’elaborazione culturale, l’università prima di tutto e poi la scuola, sia perchè in essi ci ritrovammo a vivere accomunati nelle nostre passioni, sia perché se ne rivelava immediatamente la inadeguatezza di elaborazione culturale e scientifica.
    Furono i “baroni”, gli insegnamenti, la didattica, l’ordinamento stesso dell’Università i primi bersagli del movimento.
    In definitiva, declinavamo un background culturale tardo ottocentesco.
    E, se volete, proprio nelle facoltà scientifiche la contraddizione si rivelava in tutta la sua pienezza.
    Se devo esprimerlo ultra sinteticamente: la “critica della scienza e della tecnologia” e la “critica della democrazia” furono i due filoni “culturali” di quell’impegno appassionato, dovendosi inventare per strada gli strumenti interpretativi, o reperendoli nel repertorio del “pensiero disponibile” ma poco praticato nella nostra università, o anch’esso detenuto da elite culturali emarginate.
  5. In particolare appartiene al primissimo ’68 quell’esplorare, anche affannoso, la elaborazione scientifica e culturale che viveva “fuori” delle nostre università..
    Marcuse, la scuola di Francoforte, il pensiero della “crisi”, la psicanalisi, l’analisi sociologica di scuola anglosassone, ma anche le riviste: da “Quaderni Rossi”, al “Quindici”, ai “Quaderni Piacentini”, a “Problemi del socialismo” (e ne dimentico certo qualcuna) fino alle riviste della New Left americana.
    Ma fu un periodo breve: fu una prima ventata, subito tramontata all’orizzonte, o che continuò ad alimentare le consapevolezze singole ma non le rappresentazioni collettive.
    Queste ultime furono invece di fatto “catturate” dalla cultura tradizionale del Movimento Operaio.
    Marx, Lenin, e tutte le “varianti” da Trozky (sto parlando nel luogo che fu “insediamento iniziale” di Avanguardia Operaia…), per tacere (per carità verso di noi tutti) di Stalin, di Mao, del libretto rosso e della rivoluzione culturale.
    Gli autori classici della cultura del Movimento Operaio furono compulsati, interrogati per rintracciare senso e strumenti per interpretare la realtà.
    E significativamente se ne interrogarono (al meglio…) gli aspetti problematici e critici (che dire delle faticose citazioni dei Grundrisse che vennero di moda allora?).
    Solo più tardi quel cortocircuito sulla cultura tradizionale del Movimento Operaio si allentò: per esempio per ritrovare la psicanalisi si dovette aspettare il movimento femminile. ( e tanto, ma proprio tanto, dobbiamo a quel movimento, sotto il profilo dell’adeguamento culturale)
  6. L’egemonia culturale del Movimento Operaio si affermò presto dando senso e sbocco “politico” al movimento, ma residuando anche le sue insufficienze nel fornire strumenti di comprensione della realtà.
    Da un lato fu il grande merito della Sinistra italiana che consentì la saldatura tra il ’68 studentesco e il ’69 operaio (non accadde così del ’68 di altri paesi. Pensate alla Germania, o allo stesso maggio francese..).
    Non ci fu mai identificazione, ma certo uno spazio dialettico, anche aspro, che fu preservato e presidiato.
    Ma fu, sull’altro lato, anche il limite di quella cultura nel delineare lo sviluppo successivo misurandosi con le contraddizioni che erano alle porte e fecero rapidamente declinare la fase di sviluppo precedente.
    Meriti politici e limiti intrinseci di cultura politica della sinistra dunque e di questo portammo/portiamo il segno.

Cosa accadde dopo

Di nuovo solo flash per tentare un approfondimento.

  1. Se devo indicare un evento che secondo me segna il punto culminante della parabola di quella stagione, indico le elezioni amministrative del 1975.
    Ricordo la nettezza e la semplicità di quel risultato: la sinistra conquistava i Comuni e le Province, il terreno del rapporto più immediato e diretto con la gente ed i suoi problemi quotidiani.
    Ma contemporaneamente la sua cultura economica ed istituzionale si confermava inadeguata ad affrontare la svolta dello sviluppo segnata dalla fine di Bretton Woods, dalle primi crisi finanziarie internazionali, dai ripetuti shock e controshock petroliferi, e dalla rigidità, ma in via di sgretolamento, del bipolarismo mondiale..
    E d’altra parte non poteva essere ciò che emergeva da quei due filoni indicati del pensiero del movimento – la critica della scienza e la critica della democrazia – a rinnovare la cultura del Movimento Operaio, in un paese le cui contraddizioni erano interpretate, in buona sostanza, secondo paradigmi precedenti al neocapitalismo, nel quale era ancora da costruire un modello assennato di welfare, e la cui dialettica politica era mortificata duramente dallo schieramento internazionale.
    Tutti se e ma che non attenuano le responsabilità della cultura della sinistra e le nostre con essa.
  2. In particolare quell’insufficienza di cultura politica segnava uno dei due filoni che ho in precedenza indicato come caratteristici del pensiero critico del ’68: “la critica della democrazia”.
    L’inadeguatezza riguardava in particolare il ruolo dello Stato nello sviluppo economico, le forme e i criteri dell’intervento regolatore tanto dell’economia, quanto della società, nella stagione storica che già segnava l’inizio del tramonto dell’esperienza keynesiana del dopoguerra.
    A partire dal ’68 fu bensì estesa la rete di protezione sociale (dalla sanità alla previdenza, all’istruzione) e si dilatò l’intervento pubblico nell’economia.
    Furono dunque anni nei quali la linea di confine del “compromesso sociale” si spostava in avanti, e con essa il rapporto tra conservazione e progresso, tra interessi individuali e collettivi, tra diritti e bisogni.
    Fu costruito, in quegli anni e anche grazie a quel protagonismo politico, lo Stato sociale italiano.
    Ma quella stessa insufficienza di strumentazione di cultura politica, caratterizzò quel sistema con tutte le sue contraddizioni e inefficienze cvhe conosciamo.
    Con un effetto netto che potrei così sintetizzare: l’integrazione di cittadinanza, la speranza del futuro di eguaglianza, si realizzò esclusivamente con lo strumento della spesa pubblica e del deficit.
    ”Spesa e debito pubblico” come strumenti di integrazione di cittadinanza, non la “produzione di valore”.
    E ciò segna ancora oggi gran parte della nostra cultura politica.
  3. Fino alla fine degli anni ’70 si disegnarono, per ironia della storia, condizioni di bipolarismo reale nello schieramento politico (quello che si pretenderebbe oggi per “semplificare” la politica stessa). Tra DC e PCI stava oltre il 75% dell’elettorato.
    E la sinistra si ritrovò potenzialmente maggioritaria: tra PCI, PSI, eredità dirette del movimento, ed eredi del terzoforzismo azionista vi erano le condizioni per un potenziale schieramento maggioritario; ma non si poteva unire, per moltissime ragioni, tra le quali quella del peso dello schieramento internazionale, ma anche per l’effetto di culture politiche incapaci di definire una comune visione di ciò che era necessario per assicurare un futuro al paese.
    Dunque senza possibilità reali di governo, per la rigidità dello schieramento internazionale, ma anche per l’assenza di una cultura adeguata di governo.
    Da lì partì una stagione politica di progressivo corrompimento dovuto essenzialmente alla impraticabilità di sbocchi positiviLa dialettica politica si fece “complicata”, contraddittoria, senza connessione con la materialità dei processi in corso.
    E infatti si trovò ad armi spuntate di fronte al processo che si aprì con la crisi monetaria internazionale (fine di Bretton Woods e successive crisi petrolifere), e con la lunghissima fase di ristrutturazione dell’economia reale che produsse lentamente la “riconquista” del saggio medio di profitto, rispetto alla dinamica delle retribuzioni e dell’occupazione, che fino ad almeno la metà degli anni ’70 lo avevano conteso e corroso.
  4. Per la “compensazione sociale” in chiave stabilizzatrice si utilizzò scientemente ma sconsideratamente, senza disegno per il futuro, lo strumento della spesa e del deficit pubblico, con un modello del rapporto tra Stato e Economia completamente disadeguato.
    Alla fine degli anni ’70 il rapporto debito-PIL, che oggi strangola il Paese, era allineato al 70%.
    In pochi anni, tra spesa pubblica utilizzata in compensazione sociale, massicci trasferimenti all’economia, libertà di fluttuazione della moneta, svalutazioni competitive, scelte di politica monetaria di corto respiro e al servizio della “riconquista sociale” degli interessi tradizionali del capitalismo italiano, il debito pubblico triplicò.
    E la crescita dell’intervento statale in economia non fu destinata a selezionare ed ammodernare lo stesso capitalismo italiano; altro che critica della scienza e della tecnologia. Si destrutturò l’intero apparato industriale a partire proprio dai settori più avanzati e di maggiore prospettiva futura: dall’elettronica, alla chimica secondaria, all’impiantistica, alla siderurgia di qualità.
    Il segno di quella parabola discendente fu la sconfitta operaia ai cancelli della FIAT.
    Il segno di quell’insufficienza di cultura di governo della sinistra fu la contraddizione tra la grande dignità morale e politica di Enrico Berlinguer e il progressivo isolamento dello stesso Partito Comunista.
  5. Nodi che vengono al pettine oggi, caricati di paradossi
    Ironia della storia (tra tragedia e farsa, come è noto).
    Una sinistra-sinistra che aveva proclamato che “lo Stato si abbatte e non si cambia” finì per consegnare  tale “missione di abbattimento” alla destra che ci si è provata in questi ultimi dieci anni, per ritrovarsi ora a reclamarne il ruolo a protezione degli interessi forti e riproponendo “coperture” ideologiche da “passioni tristi” e segnate dalla paura sociale come “Dio, patria e famiglia”
    (Vedi la “conversione” di un Ministro dell’economia che interpretò pochi anni or sono la finanza creativa con le cartolarizzazioni del patrimonio pubblico e che oggi sembra avere riscoperto, insieme ai problemi dell’economia reale, anche Marx e le funzioni “economiche” dello Stato, ma, appunto, all’insegna di quelle “passioni tristi” e difensive).
    Non abbiamo saputo individuare una strategia più sensata per darci l’obiettivo che “lo Stato si cambia e non si abbatte”.
    E il problema ce lo ritroviamo intatto, ma a condizioni radicalmente mutate, oggi
    .
  6. Da lì è cominciata l’epoca delle “passioni tristi”: le difficoltà dello sviluppo non più affluente, l’inizio della contro offensiva dei “poteri forti” e occulti.
    E non voglio parlare del terrorismo “di sinistra”.
    Ricordo solo il trauma del riconoscimento aperto della esistenza di un terrorismo “di sinistra”.
    Feltrinelli che salta su un traliccio, Lama fischiato e minacciato all’Università di Roma…. Ma ci volle l’assassinio di Guido Rossa per smettere di parlare di “provocatori” o di “compagni che sbagliano”.
    E quello che restava figlio del movimento, ma con altri interpreti, altri linguaggi, altri maestri, “chiedeva” rabbiosamente, ma non “dava” più in passioni capaci di costruire alternative e sviluppo.
    Cominciava l’epoca delle “passioni tristi”.
    E maturò la separazione con il Movimento Operaio.
    Il processo iniziato con il ’68 e che aveva promosso l’esperienza tutta italiana del ricongiungimento tra il ’68 studentesco e la lotta operaia era definitivamente finito.

In sintesi…

Non volevo proporvi una analisi completa ed esauriente.
Si tratta solo alcuni spunti per motivare una caratterizzazione critica del come eravamo.
Le “passioni generose” a confronto con una cultura ed una cultura politica inadeguate a metterle a frutto come “forze produttive” per la trasformazione reale del paese, della sua economia, della sua “formazione sociale”, questo fu il limite della nostra storia e delle nostre storie.

Solo sconfitte?

Si trasformò, è vero, il costume e la cultura di massa.
Sotto questo profilo il Paese non fu più lo stesso, neppure sotto le oscillazioni del pendolo della storia.
Cambiarono i rapporti interpersonali, famigliari, i rapporti tra i sessi, la capacità di coltivare passioni senza appropriazione…
Sul piano della elaborazione di costume la “cultura” del ’68 veniva del resto da più lontano.
C’era stata la stagione della “generosità sociale” giovanile dei soccorsi all’alluvione di Firenze, la dialettica aperta nel mondo cattolico dal Concilio, la battaglia per i diritti civili negli USA, l’Ottobre cubano, il movimento dei non allineati, i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, gli stessi fermenti nel campo sovietico.
E in proposito non si può tacere di una componente importante di quella stagione delle “passioni generose”: quella costituita dal mondo cattolico che, dalla conclusione del Concilio Vaticano II si provò a immettere nella cultura cattolica e nella stessa Chiesa il riflesso di quelle passioni generose.
Del resto Don Milani fu, all’inizio del ’68, altrettanto e forse più importante del richiamo alla cultura del Movimento Operaio…
Chi di voi venne nella tarda estate del ’68 al seminario che organizzammo come movimento di scienze da Davide Turoldo a Sotto Il Monte dovrebbe ricordare la sua attenzione al movimento, ma anche le sue sfuriate di fronte al nostro argomentare “politichese”…. Me lo ricordo gridare, con il suo vocione… “se queste cose me le dicessero i miei minatori del Sud Africa le accetterei, ma non da voi…”.
Dunque cambiò anche il modo di pensare a dio, per chi ci credeva e ci crede.
Di quel melting pot culturale che alimentava le passioni generose ho un ricordo personale che è quasi esemplare, sotto questo profilo
Le conversazioni più usuali prima del ’68, per esempio nell’unico “ritrovo” di Città Studi che era il bar di Fisica, erano su gite, iniziative dei residui goliardici …e così via… pochissima politica se non quella dei rituali delle rappresentanze universitarie come l’UGI, l’Intesa, e solo tra pochi e a disagio, quasi da clandestini .
Ricordo una conversazione con un compagno, un poco più vecchio di noi e arrivato più tardi all’università, allora già iscritto al PCI (mosca rara) che ci ha lasciati qualche anno fa – il compagno Davide Calamari.
Era appena morto Martin Luther King, e gli chiesi cosa ne pensasse. Mi rispose tranchant… “Hanno ammazzato lo zio Tom”…
Ma intanto c’era chi leggeva “Lettera ad una professoressa” e, pochi per la verità, avevano già letto “Lettere pastorali” o la polemica di Don Lorenzo verso i cappellani militari..
Pochi mesi e il crogiuolo del movimento fuse insieme questi filoni, per produrre spirito nuovo, apertura, disponibilità, passione… le “passioni generose”, appunto.

Per concludere: Que reste-t-il de nos amours?

Devo concludere.
Cosa ho imparato e cosa mi è rimasto di quella stagione?
Solo due cose voglio dire in proposito.
La prima è piuttosto personale.
Ho imparato che la cosa più frequente che facciamo nella vita è sbagliare. E anche per questo sono convinto di avere avuto più di quanto ho dato.
Può essere fastidioso vivere pensando di essere in debito.
Ma ritengo sia assolutamente disperante il modo di essere di coloro che pensano costantemente di essere in credito e che la storia debba loro qualche cosa.
La seconda cosa ha un carattere meno personale.
Credo che la “passione generosa” appresa in quegli anni non mi abbia mai lasciato, e credo che ciò valga per tantissimi di noi.
Non abbiamo avuto successo (appunto sbagliare è la cosa più comune…) ma l’abbiamo trasferita nel nostro lavoro, nella vita quotidiana, nell’impegno sia politico che professionale, per il quale non abbiamo mai messo il “cartellino del prezzo”, (e qualche volta forse abbiamo dovuto recriminare sulla nostra stessa disponibilità generosa….)
Sono assolutamente convinto che uno dei costrutti portanti delle “passioni tristi” sia la convinzione che solo ciò che ha un prezzo abbia valore.
Ho, abbiamo, una storia che smentisce questa triste passione del prezzo, e non si tratta di nostalgia.
Sono convinto che per uscire dalla palude nella quale ci stiamo ritrovando, sarà necessaria certo una nuova politica, ma soprattutto una iniezione di “generosità sociale” che vivifichi la politica, la cultura, le nuove passioni.

E la speranza è che questa volta, se insieme alle passioni generose dell’anima, del cuore, della testa, sapremo mettere in campo anche una “buona scienza” potremmo anche riprendere il filo di una storia e delle nostre storie.

 




Dice Valditara: promuovere i talenti per rilanciare l’economia. Ma funziona davvero così?

di Franco De Anna

Le affermazioni del Ministro che tentano di connettere funzionalmente la “promozione dei talenti” nella formazione e nella scuola, con l’eguaglianza delle opportunità offerte ai soggetti in formazione e lo sviluppo economico territoriale (facciamo il “made in Italy”?), appaiono assai impegnative.
Ma soprattutto legate da una più che discutibile “funzionalità” soprattutto se intesa in automatico. Al contrario suscitano necessità di “analisi differenziata”.
Un impegno che non ha grande successo nella dinamica politica attuale.
Provo a offrire qualche spunto proprio sul piano della “analisi differenziata”

I talenti nella formazione

Promuovere le capacità, attitudini, abilità, impegni dei soggetti in fase di formazione ed istruzione non può che richiedere un approccio di “valorizzazione soggettiva”.
Fondato dunque sulla “diversità” dei soggetti stessi.

 La “diversità” come valore

L’impresa più difficile come sa chiunque si misuri (soprattutto ma non solo da docente professionista: vale anche per le famiglie) con l’azione e la ricerca formativa.
Il rapporto e l’uso degli strumenti innovativi.
Le scuole, gli insegnanti, le famiglie sono investiti oggi dalle sollecitazioni all’uso degli strumenti collegati alle nuove Tecnologie della Informazione e Comunicazione (le TIC), e alle applicazioni della AI.
L’argomentazione in proposito non può che essere assai complessa e stratificata

L’articolazione di tali argomenti è sviluppata in diversi punti.

Le scuole e i loro riferimenti e protagonisti essenziali (docenti, studenti, organizzazione) sono oggi coinvolti in modo a volte pressante ed essenziale dalle problematiche della Intelligenza Artificiale.
Basti pensare al ruolo che può giocare ChatGPT nella stessa stesura delle relazioni e dei “compiti” assegnati agli Alunni (relazioni, temi, composizioni, autovalutazioni, copiature)

  1. Gli “strumenti materiali” attraverso i quali si afferma tale ruolo sono di “detenzione personale” dei singoli.
    Attraverso gli Smartphone, i Tablet e più raramente i PC portatili, tali processi di coinvolgimento raggiungono il singolo, la sua partecipazione e sensibilità.
    Non possono ovviamente che sollecitare la sua responsabilità.
    Congiuntamente propongono una responsabilità collettiva/collegiale, agli altri protagonisti della scuola.

    Dai docenti (singoli e collegialmente coinvolti) alla stessa organizzazione (ambienti fisici e relazioni sviluppate nei diversi ambienti di apprendimento e formazione) si tratta di definire ruoli e responsabilità operative coerenti capaci di declinare l’intero impulso innovativo che proviene dall’esterno: dalla Ricerca alla dinamica dei Social Media.
  2. Occorre focalizzare la propria attenzione su ciò che costituisce “oggetto specifico” di tale ricerca educativa: “il soggetto in sviluppo e formazione”. O se si vuole “il percorso specifico e soggettivo (che ovviamente valorizza “la diversità”  verso l’adultità”).
  3. Si rimanda, in proposito, ad un interessante e fondamentale contributo della Commissione Europea destinato ad orientare le decisioni in proposito del Consiglio stesso.
    Se ne può trovare analisi dettagliata nel mio Sito personale.
  4. Di seguito riporto Il “libro Bianco Europeo” citato
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/libro-bianco.pdf
    e un mio commento e approfondimento
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/Il-digitale-nei-processi-di-apprendimento.pdf
  5. Si noti che tale “libro Bianco” è stato fatto proprio, con pieno e deliberato consenso da parte del Nostro CNEL.
    Ma si noti anche che di tale assunzione si tace e non ne sono state investite le scuole.
    Come vi fosse una “riserva di merito”.
  6. Richiamo, di tale analisi, un costrutto fondamentale per la “integrazione sensata” del Digitale nei processi di insegnamento ed apprendimento: il ruolo dei “realia”.
    Cioè dei dispositivi che ricostruiscono il rapporto antropologico “mano cervello” come fondamento essenziale e specifico dello sviluppo umano.
    Nell’uso “personale” della strumentazione Digitale, la mano non stringe, non plasma, le dita si limitano a sfiorare e strisciare su superfici lisce.
    Non c’è un martello, uno scalpello, una pasta di creta da plasmare.
    Dunque si rischia uno sviluppo limitato non solo della manualità, ma anche della creatività e della identità personale ad essa connessa. E dunque anche della affettività e delle relazioni con altri.
    Insomma: gli elementi essenziali della crescita e dello sviluppo soggettivo che spesso costituiscono e si inseguono nella scuola con “attività specifiche mirate”, piuttosto che con una “pedagogia integrata” 

    Ultima e più che complessa articolazione.

    Tali considerazioni devono essere articolate in ogni “ambiente di apprendimento”: dall’aula scolastica, alla casa/famiglia, al giardino della scuola, alla gita scolastica, All’associazionismo (sportivo e non).
    Ciò segnala una “debolezza organica del nostro sistema scolastico”.
    Si pensi che l’Istituzione e struttura degli Organi Collegiali cui è affidata la decisionalità collettiva sono stati costituiti nel 1974 e strutturalmente rimasti tali.
    Ma anche che la ristrutturazione degli assetti del Ministero (si pensi al rapporto con le competenze regionali) risale agli anni 2000, e soprattutto non ha sviluppato adeguatamente le articolazioni territoriali, se non in una primissima e isolata fase storica (Bassanini).Il nostro sistema di istruzione e formazione soffre di una debolezza intrinseca di “Governance”. (Uso il termine con il significato originario di “Governo Misto”)
    Quanto a dire alla capacità, suddivisa tra i diversi e competenti “decisori”, di stringere adeguati accordi operativi cui delegare le proprie decisionalità e soprattutto i vincoli, criteri e misure di qualità assunte in comune responsabilità delle decisioni condivise.

    Purtroppo, una “Questione Nazionale” che interroga direttamente un “Nodo Costituzionale” di fondo. E di non semplice scioglimento.

Verrebbe da sfidare il “Ministro dichiarante” a rielaborare una strategia per l’Istruzione e la Cultura capace di esplorare, se non di rispondere a tali stratificazioni.
Ma mi parrebbe una sfida crudele per gli assetti politici attuali.




Autonomia differenziata e equivoci culturali, politici, istituzionali

disegno di Matilde Gallo, anni 10


di Franco De Anna

La questione della “autonomia differenziata” è oggi alla attenzione del dibattito politico, culturale,
istituzionale, perché ha assunto il significato di una rivendicazione esplicita da parte di alcune
Regioni italiane tra le più rilevanti sotto il profilo economico e sociale, che chiedono, sia pure con
differenze significative, un ampliamento della devoluzione e una estensione delle loro titolarità rispetto alla ripartizione con lo Stato
Una parte significativa della alleanza politica che supporta il Governo generato dall’ultima
consultazione elettorale dei cittadini italiani, si batte, e da tempo, per la costruzione di prospettive e strumenti di autonomia differenziata da riconoscere alle Regioni italiane.
La “rivendicazione” politica, è storica per il movimento della Lega e la sua ispirazione federalista
(almeno nella versione “originale”), ma acquista oggi significati e valori che occorre reinterpretare e ricollocare nella attualità politico culturale, sociale, economica, profondamente diversa dal contesto nel quale fu inizialmente formulata.
Basti ricordare che quella rivendicazione originale si inseriva nella “novità” costituita dall’intreccio tra Riforma Costituzionale (il Titolo V e in particolare art.117, il “nuovo” ruolo delle Regioni) e il processo della riforma della Pubblica Amministrazione rielaborata attraverso la cosiddetta “Legge Bassanini” (la Legge 59/97, con le sue successive “interpretazioni”, fino al 1999). (1)
Il contesto politico, culturale, istituzionale dei primi anni “interpretativi” di quell’intreccio tra
riforma PA e Riforma Costituzionale è oggi “strutturalmente” diverso, e dunque è necessario
rielaborare diversi significati che acquista l’attuale confronto.
O meglio “rileggere” i significati culturali, politici e istituzionali entro i processi “strutturali” che
hanno modificato la “materialità” delle condizioni sociali, economiche, produttive, che stiamo
attraversando.

Autonomia Differenziata e Livelli Essenziali di Prestazione (LEP)

Come indicato in precedenza, vi sono processi di radicale mutamento delle questioni connesse con le proposte di autonomia differenziata oggi esse in campo.
E che si riflettono strutturalmente con la questione fondamentale della definizione dei LEP
Ne cito solo alcuni per il loro rilievo e perché spesso “sottaciuti” nel confronto politico e culturale corrente.

1. Vi sono alcune situazioni e condizioni regionali (alcune Regioni) nelle quali il richiamo ai
dispositivi previsti della “titolarità concorrente” o della “devoluzione” è in realtà un “costrutto”
di significato parziale e secondario.
Per esempio si pensi alla Lombardia (ma addirittura alla “Città metropolitana” della sua
capitale) e al suo sviluppo con intensi e significativi “rapporti internazionali” (per esempio con
la Cina) che “strabordano” il ruolo della politica statuale.
Ma alcune considerazioni simili (rapporti economici internazionali) sono applicabili anche ad
altre regioni del Nord con marcate “vocazioni manifatturiere”. Le “titolarità concorrenti”
definite nella riforma costituzionale dell’inizio del secolo si sono arricchite di una potenziale
dimensione “internazionale”.

2. Vi è un mutamento radicale dell’assetto baricentrico del Welfare. Il welfare pubblico è storicamente fondato sui servizi (Sanità, Istruzione, Assistenza,
Previdenza) prodotti e dedicati ai cittadini, e costruiti sul “baricentro” (economico, culturale, sociale) del “lavoro dipendente”, e del Sistema Fiscale che su di esso è fondato, nelle sue
“certezze” e disponibilità reali.
Un assetto “baricentrico” messo in crisi nella sua struttura e condivisione sociale, sia dai
mutamenti relativi alla composizione del lavoro e delle sue caratteristiche (lavoro dipendente e
autonomo, precarietà, salari “immobili” da anni) e dalla “domanda” che generano; sia dal
rapporto tra la “funzionalità relativa” del Sistema Fiscale, l’incremento progressivo del debito
pubblico e i vincoli reali che esso pone alla spesa che alimenta il welfare.
In parallelo vi è una accentuata moltiplicazione/stratificazione dei soggetti “produttori di
welfare” e dunque una diversificazione dell’offerta che tende a rispondere a tale modificazione
della domanda. (Dalla “proliferazione” di Enti Pubblici, alla affermazione del ruolo del Terzo
Settore)

3. Il rapporto tra cittadino e sistema welfare si modifica anche nei comportamenti “privati” e nei
riferimenti culturali relativi. L’identificazione tra primato del “Servizio Pubblico” rispetto al
“consumo privato”, un tempo fondata proprio sul reddito da lavoro dipendente, oggi si diversifica in rapporto al welfare ed alla sua funzionalità.
Spesso la combinazione tra la “convenienza pubblica” e “il vantaggio privato” investe anche i
servizi essenziali del welfare: dalla Previdenza (vedi sviluppo di sistemi pensionistici “integrativi”), alla Sanità, alla Assistenza, ma anche, sia pure con quantificazioni più ridotte (ma
si pensi allo sviluppo più recente delle Università on line) alla Istruzione.
I punti precedenti sono poco più che “citazioni”; ma invitano a riflettere ed approfondire l’analisi di processi e dislocazioni che tendono a mutare profondamente sia la struttura socio economica del Paese, sia le consapevolezze di essa diffuse tra i cittadini.
Come sempre nelle fasi di transizione occorre misurarsi sulla non corrispondenza
(contraddizione?) tra l’effetto innovativo di processi materiali ristrutturanti e le categorie
socioculturali, la costruzione e diffusione di significati condivisi capaci di interpretare quei
processi e di promuoverne “padronanza”.

NOTA

[1] Esempi di tale diversità e specificità del dibattito politico culturale degli anni indicati sono rintracciabili in elaborazioni dedicate in particolare alle questioni del rapporto tra quelle riforme e l’autonomia scolastica. Si possono rintracciare liberamente qui: Franco De Anna “A proposito di federalismo scolastico” in https://www.asperaadastra.com/politiche-dellistruzione/ancora-a-proposito-di-federalismo-scolastico/ e, Franco De Anna “Livelli
Essenziali di Prestazione per il sistema di istruzione” qui https://www.aspera-adastra.com/politichedellistruzione/livelli-essenziali-di-prestazione-per-il-sistema-di-istruzione-nazionale-una-questione-aperta/.
Entrambi i contributi presentano un intreccio di “questioni generali” e di “specifiche interpretative”.

Leggere l’intero contributo clicca qui




MERITO, RESPONSABILITA’ DEI FALLIMENTI E POVERTA’ EDUCATIVA

di Franco De Anna

Il dibattito/confronto che si è sviluppato sulla questione del “merito” (e della possibile temuta deriva “meritocratica”: non hanno medesima semantica …) in seguito al cambiamento del nome” del Ministero dell’Istruzione, mi pare carico di potenziali equivoci che, a mio parere occorre disciogliere.

Sia per questioni di principio iscritte nel pensiero pedagogico, sia per ragioni immediatamente politiche. Equivoci che rischiano di sottrarre al confronto politico serrato la questione nodale: quali “programmi di politica scolastica” verranno messi all’ordine del giorno e posti in realizzazione oltre la suggestione della terminologia? E quali possibili alternative per opporvisi?

Vorrei che, in merito alle responsabilità relative ai cattivi e diseguali risultati della scuola italiana, si assumesse un rigore ed una correttezza analitica capaci di togliere alimento ad ogni equivoco. (Troppo semplice, altrimenti, “dare la colpa” a questo Governo…)
Il Sistema di Istruzione italiano ha una normativa relativa a problematiche di accoglienza ed integrazione tra le più avanzate a livello internazionale ed essa è parte costitutiva delle stesse Istituzioni.
La ispirazione costituzionale dell’art. 34 nella essenzialità delle sue affermazioni è senza dubbio altrettanto chiara circa gli impegni fondamentali delle istituzioni pubbliche.

Ciò che si opera concretamene a livello di “Sistema” per dare realizzazioni a tali ispirazioni conosce invece non solo fallimenti (gli errori accompagnano sempre la operatività concreta) ma spesso delle contraddizioni strutturali, culturali e istituzionali che rappresentano un vero e proprio “tradimento” di tali ispirazioni e impegni.

Specialmente nella scuola superiore e nei suoi diversi indirizzi (e spesso proprio a partire da quello che vene ancora considerato il “più qualificato” come i Licei), tale “tradimento” appare strutturalmente sedimentato nella “cultura sociale” e spesso purtroppo anche in quella “professionale” della scuola stessa.A partire da tale considerazione, il costrutto “povertà educativa” si sta diffondendo con interesse e preoccupazione in molte analisi che guardano sia alle problematiche culturali (e non solo) delle nuove generazioni, sia al funzionamento del nostro sistema di istruzione.Lo stesso uso del termine “povertà” sottolinea che si indichino come necessari impegno e iniziative per colmare assenze, ritardi, insufficienze, disparità e differenze inaccettabili.

Il costrutto ha il pregio di indicare sinteticamente un intreccio di oggetti e significati diversi, ciascuno con specificità che richiedono(erebbero) approcci analitici distinti, ma che nella loro combinazione, mescolanza, interrelazione e sovrapposizione delle aree di “confine” dei significati stessi, consentono una rappresentazione di grande efficacia comunicativa.
Come non essere infatti d’accordo sulla necessità di combattere, superare, colmare “la/le povertà educative”, in particolare (ma non solo…) se riferite alle nuove generazioni?

Come spesso accade la efficacia comunicativa di proposizioni che, come aforismi, vorrebbero proporsi come sentenze conclusive di analisi e riflessioni approfondite “precedenti”, cela in realtà molte approssimazioni delle analisi stesse sacrificandone l’approfondimento rispetto al successo comunicativo.
Temo che anche nel caso del costrutto in questione vi sia questo rischio.
Tanto più grave quanto proprio la metafora della “povertà educativa” vorrebbe avere valore di richiamo ad impostare interventi operativi mirati ed efficaci per porvi rimedio. (Dunque, a partire da una definizione rigorosa di obiettivi, strumenti, risultati attesi, valutazioni)
Vi è comunque da notare immediatamente che tali approcci paiono essere sagomati “sui minori”, sui “bambini”, al massimo sugli adolescenti.

È priorità comprensibile se da essa si generano “priorità operative” sul “da dove cominciare…”. Ma occorre non trascurare il fatto che vi sia una dimensione della “povertà educativa” che va ben oltre e che investe il mondo degli adulti, e che ne condiziona la vita nelle loro diverse interpretazioni con riflessi su ciascuna di esse: come lavoratori, come cittadini, come genitori.
Un rilievo che ha un significato particolare in un Sistema di Istruzione come il nostro, nel quale la formazione continua e la formazione per gli adulti hanno, sia pure con esperienze significative, uno sviluppo residuale e un interesse sociale che non ha grande udienza nella comunicazione e nelle scelte di politica dell’istruzione.
Inoltre, occorre ricordare che comunque la “povertà educativa” osservata nella popolazione adulta (e dunque possibile oggetto di iniziative ad essa dedicate) ha ricadute e riflessi complessi e spesso peggiorativi sulle fasce giovanili, sia attraverso la riproduzione famigliare, sia nelle interazioni ambientali e contestuali.

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Il digitale nell’apprendimento

di Franco De Anna

Una considerazione generale

Se guardiamo alla Storia con lo sguardo della “lunga durata”, e dunque per transizioni e fasi di secoli, non possiamo non riscontrare una permanenza critica ad ogni passaggio che investa le forme della comunicazione, ed in particolare di quella destinata all’apprendimento e alle nuove generazioni.
Si ricorda la critica e la diffidenza di Platone verso la “parola scritta” rispetto alla interazione dialogica diretta.

Ma quanti secoli dovettero passare per misurarsi con la disponibilità diffusa della parola scritta attraverso il libro come strumento essenziale nella riproduzione della cultura, la cui diffusione di massa è legata alla invenzione della stampa? Anzi della tecnologia della stampa a caratteri mobili. Potremmo continuare gli esempi: ma ciò che conta è la consapevolezza che lo sviluppo delle ICT corrisponde ad un passaggio storico che ha portata simile a quelle transizioni citate, e dunque sfida radicalmente la nostra capacità di interpretare, decostruire, ricostruire significati connessi alla comunicazione sociale.

D’altra parte, non mancano certo sensate elaborazioni e pensieri sui problemi che nascono dalla intersezione tra sviluppo delle ICT, formazione ed apprendimento. Non solo, anche se specialmente, per le nuove generazioni. Un pensiero preoccupato per tanti adulti e finanche pensionati hikikomori maturi. In questa elaborazione cercherò di esaminare tali processi per i riflessi che essi hanno sulla organizzazione della scuola, tenendo conto ovviamente delle diverse elaborazioni ed esperienze sviluppate in proposito in questi anni. (Mi preme sottolineare il riferimento al rapporto con l’“organizzazione” della scuola . I cambiamenti indotti dal digitale nei processi di apprendimento vanno proiettati sulla dimensione di “sistema organizzato della istruzione e dell’apprendimento”.)

Non si tratta (solo) di rapporti precettore-allievo

Non ostante la sempre in agguato pericolosa dislocazione di “apocalittici e integrati” di Eco, che, come tale, è assolutamente paralizzante su entrambi i fronti, il dibattito è ampio. Rimane il fatto che la questione si accompagna ad interrogativi radicali, in particolare rispetto alle competenze dei docenti; non “tecniche” ma in campo psico socio pedagogico. Anzi direi: filosofico e antropologico.

Voglio fare solo un esempio

(Che credo sintetizzi molti significati di ciò che dirò in seguito)

Siete un docente “creativo” che usa le tecnologie e i loro dispositivi per sfruttarne le potenzialità (ah! se li aveste avuti a disposizione quando eravate studenti!!!). Dopo opportuno inquadramento storico-culturale avete dato un compito operativo ai vostri ragazzi. Per esempio: dopo spiegato (e capito…) cosa intendesse Duchamp disegnando i baffi alla Gioconda, proponete loro di fare altrettanto con altre opere “rinascimentali”

Che so? Mettere neri ricci ad una Venere che sorge … dei cerotti ad un San Sebastiano… degli occhiali ad una Santa Lucia… Gli strumenti che hanno a disposizione tra le loro mani rendono possibile realizzare il compito senza grande sforzo … Si selezionano le immagini in rete… ci si misura con semplici taglia-incolla e correttore di immagini… si ricava rapidamente ciò che altrimenti avrebbe reso il lavoro su carta proibitivo …

(Certo altra cosa è comprendere a fondo il senso della provocazione Duchamp, ma credo che tale operatività aiuti anche ciò). Osservateli al lavoro, e provate a pensare alla tipologia di problemi che avete di fronte, se appena riuscite a prender distanze dalla soddisfazione dei risultati. La cosa che immediatamente balza agli occhi è l’accorciamento drastico del circuito stimolorisposta…

Trovano una immagine, tagliano, adattano… buttano… ricominciano. Più volte e fino a quando non siano soddisfatti del “prodotto”. A volte, in realtà, avete l’impressione che si interrompano solo per un impulso esterno (la campanella, l’intervallo…) come se il “risultato mai” e invece “iterazione perpetua”.

CLICCA QUI PER LEGGERE L’INTERVENTO COMPLETO




Risorse per l’istruzione e lo sviluppo digitale: il quadro generale e il piano scuola 4.0

di  Franco De Anna

Alle scuole stanno arrivando quantità significative di risorse economiche. La fonte principale (anche se non l’unica) è il processo/programma di digitalizzazione sostenuto dal PNRR. Si veda in proposito il “Piano Scuola 4.0”.
Esso giunge a compimento e completamento di processi innovativi relativi alla digitalizzazione nella scuola che hanno comunque interessato il sistema a partire dal 2014 e con impulso significativo nel complesso attraversamento della emergenza COVID con la sviluppo della “Didattica a Distanza” e poi “Didattica Mista” (1)

Il “Piano Scuola 4.0” legato espressamente e direttamente al PNRR, Missione 4 (Istruzione e ricerca) componente 1 ” Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università”, relativamente a processi di digitalizzazione dell’istruzione, prevede complessivamente 5 linee di intervento:

  1. L’investimento 2.1 “Didattica digitale integrata e formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” stanzia 800 milioni di euro per la realizzazione di un’offerta formativa di oltre 20.000 corsi per la formazione di 650.000 fra dirigenti scolastici, docenti, personale scolastico, tecnico e amministrativo, e l’adozione di un quadro di riferimento nazionale per l’insegnamento digitale integrato, per promuovere l’adozione di curricoli sulle competenze digitali in tutte le scuole
  2. L’investimento 3.1 “Nuove competenze e nuovi linguaggi” (1,1 miliardi di euro) si concentra sullo sviluppo delle competenze informatiche necessarie al sistema scolastico per svolgere un ruolo attivo nella transizione verso i lavori del futuro e di percorsi didattici e di orientamento alle discipline scientifiche (STEM – scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), anche per superare i divari di genere.
  3. L’investimento 3.2 “Scuola 4.0 – Scuole innovative, nuove aule didattiche e laboratori” prevede un finanziamento di 2,1 milioni di euro per la trasformazione di 100.000 classi in ambienti di apprendimento innovativi e la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro
  4. L’investimento 1.4 “Sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS)”, con un finanziamento di 1,5 miliardi, è finalizzato alla valorizzazione della filiera formativa specialistica legata all’ Impresa 4.0, Energia 4.0 e Ambiente 4.0 e al potenziamento dei laboratori con tecnologie digitali.
  5. Misure relative all’edilizia scolastica Missione 2, Componente 3, linea di investimento 1.1 “Piano di sostituzione di edifici scolastici e di riqualificazione energetica”, che interviene su oltre 200 edifici scolastici innovativi I fondi precedenti si integrano con altre iniziative relative al digitale, nelle quali il Ministero dell’Istruzione è in collaborazione con altri ministeri e/o con riferimento ad altre fonti di finanziamento 2 L’utilizzo delle tecnologie in chiave di inclusione e abilitazione di competenze è oggetto anche della linea di investimento 1.4 “Intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nel primo e nel secondo ciclo”, che prevede anche il finanziamento di strumenti tecnologici avanzati per gli studenti con disabilità attraverso le reti di scuole operative nei Centri Territoriali di Supporto

Clicca qui per leggere l’intervento completo

(1)  Ricordare che le spese per digitale 2014-2021 ammontano a 1,9 miliardi e comprendono obiettivi come

  • un dispositivo ogni quattro alunni (uno ogni 8,9 nel 2014)
    • uno schermo digitale per ogni classe (uno ogni due nel 2014)
    • realizzati oltre 40.000 ambienti didattici innovativi e digitali tecnologie digitali usate per la didattica dall’84,4% dai docenti (44,5% nel 2017)
    • 620.000 docenti formati alla didattica digitale durante la pandemia
    • registro elettronico usato dal 99% delle scuole (69% nel 2014)
    • sistemi di gestione informatizzati usati dal 97% delle segreterie (68% nel 2014)
    • in corso Piano per dotare tutte le scuole di connessione in fibra ottica e azioni per il cablaggio interno degli edifici
    • équipe territoriali formative (docenti esperti di didattica digitale) e Future Labs per la formazione sul campo animatore digitale e team per l’innovazione presenti in tutte le scuole (circa 32.000 figure)
    • progetti per le competenze digitali degli studenti attivati nell’84% delle scuole (71% nel 2018) (vedi: “Piano Scuola 4.0”)

(2) Si vedano per esempio i progetti
• “Piano scuole connesse”, attuato dal Ministero per lo sviluppo economico, in collaborazione con il Ministero dell’istruzione, e finanziato con oltre 400 milioni di euro,
• la linea di investimento 3.1.3 “Scuola connessa” della Missione 1, componente 2, attuata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale e finanziata con 261 milioni di euro,
• l’azione “Reti locali, cablate e wireless, nelle istituzioni scolastiche”, realizzata dal Ministero dell’istruzione e finanziata per oltre 400 milioni di euro con i fondi dell’iniziativa React-Eu, che hanno incrementato i fondi strutturali europei della programmazione del PON “Per la scuola” 2014-2020




Lo specchio e la fotografia: a proposito di autovalutazione

di Franco De Anna

La cultura sociale del nostro Paese è singolarmente percorsa da un costrutto di lutto e mancanza. Il Risorgimento è una “rivoluzione mancata”; la Vittoria è “mutilata”, la Resistenza è “tradita”; la Costituzione è “irrealizzata”…
E’ un costrutto che in parte proviene da una (datata) riflessione storica, ma viene rielaborato nel senso comune dalla vulgata della riproduzione politica e dell’informazione. Non è questa la sede per approfondire, ma certo questo costrutto sembra proiettare l’intera collettività in una dimensione di irrealizzato che, scontando il riflesso del lutto e dell’abbandono della memoria dolorosa, consente alla cultura politica un paio (almeno) di abusati strumenti di comunicazione di massa.
Il primo è il lusso di predicare come sempre nuove (di moda il termine “epocale”) ipotesi riformatrici in realtà già esplorate e di cui si tralascia sia la memoria, sia la necessità di valutarne rigorosamente i fallimenti e le loro ragioni. Ne viene favorito un opportunismo implicito, variamente interpretato, nei caratteri del “nuovismo”.
Il secondo vantaggio politico di tale opportunistica elaborazione è che “tutti sono riformatori”; anzi, quale che sia il colore politico ciascuno proclama la propria autenticità e radicalità riformistica. In questo paese, sostanzialmente e prevalentemente conservatore, nessuno (pochissimi) dichiara di esserlo.

Potremmo offrire a qualche lacaniano, che pare interessato alla scuola, il destro per una riflessione psicanalitica sul rapporto tra tale paradigma della mancanza e dell’irrealizzato, e il fatto che la psicologia collettiva del nostro Paese non abbia mai rielaborato la “patria” (il padre) ma la sua consistenza collettiva sia da “matria”. Il “collettivo nazionale” è in realtà “mai nato”. Un cordone ombelicale mai reciso.

Una dannazione ed una salvezza congiuntamente, operanti nelle fasi più critiche della storia nazionale: ci aiutò ad uscire dalla “morte della patria” nel 1943; ci impedisce di costruire un assennato sistema di welfare di cittadinanza, “paterno e non materno” …
Al precedente elenco dei lutti storici potremmo aggiungere (si parva licet…) l’Autonomia delle Istituzioni scolastiche che è congiuntamente normata da strumenti di legge (dalla 59/97 al Regolamento) e richiamata della Costituzione (titolo V, art. 117).


Autonomia, buona scuola e autovalutazione Il pensiero si innesca inevitabilmente nella lettura comparata de “La buona scuola” laddove parla di autonomia e valutazione, come coppia concettuale fondante della filosofia valutativa proposta, e della Direttiva Ministeriale sulla valutazione, la circolare applicativa corrispondente, i caratteri del protocollo autovalutativo che si preannunciano e in parte sono stati sperimentati. La filosofia enunciata ne “La buona scuola” richiama esplicitamente l’autonomia come valore fondante del “sistema di istruzione”.
A tale valore connette organicamente (e correttamente) le problematiche della responsabilità e della valutazione e quella del sistema di governance (sia pure con il limite del considerare la governance interna: organi collegiali, Dirigenza, partecipazione ecc… ma non la governance esterna. Si tenga conto del “sintomo”, costituito da tale assenza..).
Sembrerebbe cioè riprendere gli elementi di un disegno radicalmente innovativo di destrutturazione e ricostruzione del sistema di istruzione, tentato all’inizio del secolo: il passaggio da un modello piramidale assimilato alla pubblica amministrazione e governato dal diritto amministrativo (produzione di atti…) e percorso da un flusso di comando algoritmico dal centro alla periferia, ad un modello decentrato, ma soprattutto caratterizzato dalla pluralità di “produttori del servizio” operanti in rapporto con gli “utenti” (i cittadini, le comunità locali..), con autonomia operativa e dunque con una duplice responsabilità.
In primo luogo, verso i cittadini portatori non solo di “interessi” ma (soprattutto) di diritti (istruzione come diritto di cittadinanza). E in secondo luogo verso lo Stato come garante sia della fruizione di quel diritto, sia della “uguaglianza” dei cittadini rispetto ad essa. Quel “progetto” aveva riferimenti sia nazionali che internazionali di grande portata: dal decadere dei tradizionali modelli di stato sociale (la crisi fiscale dello Stato che investiva tutto l’Occidente), al nodo specifico costituito dalla necessità della riforma della Pubblica Amministrazione nazionale.

Elementi portanti di quella ipotesi riformatrice sono (sarebbero) i seguenti.

– Il passaggio dallo Stato “produttore” diretto di servizi, a soggetto “regolatore” e “finanziatore” del servizio affidato a una pluralità di “produttori” (le scuole autonome). Da producer a provider. (visto che qualcuno ama il lessico anglosassone). Nella versione “di destra” e “privatistica” da producer a customer ..(vedi ispirazioni politiche Regione Lombardia. Il soggetto pubblico come “committente” di servizi offerti alla popolazione-cliente).

– Compito dello Stato (garante dei diritti di cittadinanza) diviene (diverrebbe) dunque quello di definire le “prestazioni essenziali” dovute a tutti i cittadini. Tale repertorio è di natura “politica e istituzionale” (i diritti) ma anche tecnico e scientifica (il contenuto delle prestazioni e i relativi protocolli validati tecnicamente e scientificamente: i Livelli Essenziali di Prestazione). Vi sono in proposito sentenze della Corte Costituzionale (riferite al Servizio Sanitario Nazionale, ma con buon isomorfismo rispetto alla produzione di servizi alla persona. Non tocca esclusivamente alla politica definire il repertorio ma occorre il contributo della ricerca tecnico scientifica ed il costante adeguamento ad essa.

– Il repertorio delle prestazioni essenziali ha un riflesso anche sul profilo dei costi e dei finanziamenti. I “costi standard” sono infatti il corrispettivo economico delle prestazioni essenziali (la cui determinazione richiede qualche cosa di più che individuare la media dei costi). I costi standard rappresentano il riferimento, l’ancoraggio del meccanismo di finanziamento pubblico, dallo Stato alla pluralità dei produttori autonomi del servizio. Non “l’unico” criterio di finanziamento (si pensi al valore della solidarietà, della compensazione delle differenze e delle diseguaglianze…) ma la “base” del meccanismo di finanziamento pubblico. La combinazione tra finanziamento a costi standard, autonomia organizzativa e produttiva dei servizi, padronanza delle risorse economiche, umane e organizzative, verificata dalla garanzia della qualità del prodotto, rappresenta (rappresenterebbe) la garanzia di una ricerca costante della “migliore efficacia” (ottimizzazione costi/risultati), supportata, oltre che dall’etica pubblica, proprio dalla convenienza della padronanza delle risorse. (se la produzione di un servizio pubblico, a parità di qualità erogata, avviene costi inferiori a quelli standard, si recuperano all’autonomia risorse per lo sviluppo innovativo o per la incentivazione del personale…)

– La decostruzione del modello amministrativo tradizionale mette capo ad un sistema di governance (governo misto) che coinvolge nella determinazione della strategia pubblica e nella sua realizzazione una pluralità di soggetti e responsabilità (nel sistema di istruzione lo Stato e le Regioni, titolari di podestà legislativa e le istituzioni scolastiche autonome titolari di responsabilità “produttiva”, il sistema delle autonomie locali, legato a quello regionale con responsabilità gestionali strutturali, dall’edilizia ai servizi). I vincoli delle prestazioni essenziali, dei costi standard, dei livelli di qualità (valutazione) sono (dovrebbero) comuni e condivisi da tutti i titolari della governance (Che dire, però, dei lavori della Conferenza Unificata sui temi scolastici?!)

– Un corollario di quel modello è rappresentato dal fatto che la preoccupazione della “tenuta sistemica” (appropriata ai compiti dello Stato) deve esprimersi nella capacità di definire con accuratezza i “vincoli essenziali” cui sono tenuti i produttori, in termini di risultati e di rendicontazione, e non (come da modello tradizionale) le specifiche dei processi di produzione. Ai “produttori” vanno indicati i 5 o 6 elementi che “non possono non essere” nelle prestazioni e nei prodotti realizzati, a garanzia della comparabilità di sistema. Sui processi concreti va invece lasciata, ma anche promossa, incentivata, la padronanza e la responsabilità produttiva della scuola autonoma.

– Il carattere dell’operare dello Stato e della Pubblica Amministrazione, si sposta (si sarebbe spostato) dunque, dalla veicolazione del comando amministrativo alla predisposizione di “servizi” (ricerca, documentazione, elaborazione dei repertori di prestazioni essenziali, meccanismi di finanziamento coerenti e promotori di eguaglianza) e, conseguentemente, del servizio di valutazione a garanzia della qualità del “prodotto pubblico”.
Dal comando amministrativo alla produzione di services. Una “rivoluzione” del paradigma amministrativo classico, e del modo di organizzare i servizi del welfare.

Una transizione incompiuta

In questo senso, l’affermazione ne “La buona scuola” della connessione del trinomio autonomia, responsabilità, valutazione, sarebbe assolutamente coerente a quel modello. Ma se ci si provasse a capire che cosa da oltre un quindicennio si è opposto alla sua realizzazione, quali interessi, quali culture, quali meccanismi auto riproduttivi, forse si potrebbero individuare strategie di realizzazione finalizzate e indirizzate su bersagli specifici. Come sono stati governati i meccanismi di finanziamento delle scuole, per assicurare effettiva padronanza delle risorse? Quali regole nella classificazione, gestione, destinazione del personale per dare effettiva padronanza organizzativa alle scuole autonome? Quali interventi sul sistema della Ricerca Educativa e dei suoi Istituti (quelli regionali, chiusi, e i due nazionali INDIRE e INVALSI, per 10 anni in ristrutturazione/transizione..); come si sono riconfigurati i presidi territoriali del MIUR, e il MIUR stesso, (Dipartimenti, direzioni, USR, Uffici territoriali…), per costruire un effettivo sistema di services all’autonomia? Per ciascuna domanda (e sono solo alcune..) vi sarebbe un giudizio valutativo da esplicitare: e non si stratta di un giudizio politico (non solo), ma di una elaborazione tecnico-politica di quanto realizzato in funzione delle strategie dichiarate.

Se l’attività di valutazione non investe prima di tutto la “politica pubblica” e le sue realizzazioni (e, insisto, non si tratta di un mero giudizio politico, ma di corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati ed i risultati) sarà difficile abilitare il principio del nesso responsabilità/valutazione sugli altri livelli e contesti (le organizzazioni, il personale, i dirigenti). In merito basterebbe considerare la coerenza con la quale si applica, nella nostra amministrazione, il criterio dello spoil system (ideologicamente rivendicato) alla alta dirigenza amministrativa: funziona in entrata, non in uscita. L’incompiuta sembra un destino nazionale. Ma ha una griglia più o meno complessa di responsabilità sia politiche che tecnico-politiche, e, questione cruciale, culturali. Il vero imputato dell’incompiutezza è la cultura della cosa pubblica. E nel caso dell’autonomia scolastica la sostanziale estraneità e sotterranea opposizione manifestata della Pubblica Amministrazione del MIUR.
Si tratta, come si vede, di un nodo possente e di difficile scioglimento: emerge in evidenza proprio sulla topica della valutazione delle scuole e della sua “premessa e allegato” (così vorrebbe il modello del Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione) costituito dalla autovalutazione.

Lo specchio e la fotografia: il significato dell’autovalutazione

“Evidentemente entrambi avevamo una fame terribile. Il guscio dell’aragosta era già vuoto e il cameriere venne sollecito. Ordinammo altre cose, a sua scelta. Cose leggere, specificammo, e lui annuì con competenza. “Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie”, disse Christine.” Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri”. Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.
“Ebbene ?” chiesi io, ”dov’è il mistero?” “La seconda fotografia”, disse lei.
”Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso. Gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto”. Non disse altro e continuò a mangiare.”
(Da “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi)

Un autorevolissimo interlocutore con ruolo fondamentale nella direzione del MIUR presentando l’autovalutazione delle scuole ad una platea di Dirigenti Scolastici della mia Regione (Marche), all’inizio della “avventura del RAV; con grande, ma forse inconsapevole, efficacia comunicativa disse “Noi vi daremo una fotografia… voi deciderete cosa migliorare… poi nel triennio…”. Si riferiva al fatto che alle scuole vengono resi disponibili dati rielaborati dal “superiore” ministero (da INVALSI…) e che costituiranno il punto di riferimento per l’analisi autovalutativa (le scuole potranno aggiungere proprie informazioni e propri indicatori, ma, nella filosofia del dettato della norma, in chiave “residuale” e aggiuntiva”). I report di informazione su se stesse (la fotografia) verranno da “altri” (il Ministero, l’INVALSI…).
Non desidero discutere sulla pertinenza tecnico scientifica di tali “raccolte di dati” (le contraddizioni anche tecniche sono numerose: basterebbe valutare la chiarezza e trasparenza dei dati di “Scuole in Chiaro” riferiti alle risorse economiche delle scuole e la loro capacità di rendere leggibile un bilancio ad un comune cittadino, che per altro dovrebbe poterlo consultare a livello di singola scuola e probabilmente con maggiori chiavi di lettura e possibilità interpretative). Mi interessa invece il significato profondo, politico e culturale, di tale approccio, esemplare delle diverse concezioni e pratiche dell’autonomia.
Su questo piano maturano le contraddizioni più significative tra le affermazioni ripetute nel confronto politico corrente, relative al nesso autonomia e valutazione, e le proposte fin qui delineate nello specifico del Sistema Nazionale di Valutazione.
Segnalo quali siano, a mio parere, gli elementi più significativi di tale “stratificato” di contraddizioni, ribadendo che la loro origine sta proprio nella criticità di quel nesso autonomia/valutazione che viene a parole enfatizzato.

  1. Viene delineata una concezione (e ovviamente una pratica..) dell’autovalutazione che sposta e attenua significativamente il peso specifico dell’autoanalisi (organizzativa, gestionale, delle strategie e dei risultati) della singola organizzazione.
    Il valore aggiunto dell’impegno alla raccolta sistematica ed analisi dei propri dati, nella scelta degli indicatori, nelle aree da sottoporre a verifica consiste nel fatto che su tale comune impegno di una organizzazione si misura la sua “propensione” al miglioramento.

E’ questo il terreno fondamentale del nesso tra autonomia, responsabilità, valutazione. Nel modello proposto invece, la scuola in autovalutazione dovrà esaminare dati (per altro da essa stessa provenienti) rielaborati dal MIUR stesso (Scuole in Chiaro), risultanti da questionari (rielaborati da INVALSI) che coinvolgono il personale, i genitori e gli studenti, oltre cha i dati relativi alle rilevazioni nazionali sui livelli di apprendimento.
La scuola viene invitata a fare autoanalisi su dati offerti da “fuori”. Apparentemente una comodità: si esenta la scuola da un impegno ed una fatica; si uniformizza il protocollo. In realtà una sostanziale mortificazione della stessa autonomia. Alla scuola non si propone di “guardarsi allo specchio”, e di provarsi a fare i conti con se stessa, opportunamente giovandosi di un “amico critico” capace di valorizzare lo specchio e impedendo il “narciso”. Si propone invece di guardare una sua fotografia, scattata da altri (vedi brano di Tabucchi…)

La preoccupazione “sistemica” di tenuta unitaria e di comparabilità, in un contesto di autonomia valorizzata, richiederebbe esattamente di invertire l’approccio: il “cuore” del processo è l’autoanalisi della singola organizzazione; il ruolo indispensabile della dimensione sistemica si esercita indicando un plafond ristretto e essenziale di rilevazione di dati che “non possono non esserci” a garanzia della comparabilità. L’esame dei modelli di autovalutazione implementati dalle scuole sarebbe allora davvero una misura delle loro “propensione” al miglioramento, e la valutazione esterna avrebbe un campo significativo (certo non esclusivo) sul quale esercitarsi. Io comprendo le esigenze di “unità” sistemica; ma così la garanzia di unità del sistema è fondata sul fatto che tutti si “si mettano in divisa”.. Non è un “inedito”: si pensi al processo con cui si è provveduto ad affrontare e risolvere il problema della trasparenza nei servizi on line delle scuole. Anche in tal caso invece di indicare in modo vincolante le informazioni essenziali da assicurare nei rispettivi siti, si è provveduto a trasformarli in “fotocopie”. L’unità si interpreta come “uniformità”. L’identità si interpreta come “identicità”. Il doppio slittamento semantico è proprio della Pubblica Amministrazione e segnala il modo proprio di declinare l’autonomia.
La realtà però si vendica di questo riduzionismo; e in due modi possibili: vi saranno scuole (quelle che hanno sperimentato modelli e protocolli propri) che si batteranno per ampliare e complessificare, falsificare, la “fotografia” ricevuta. Ve ne saranno altre e probabilmente la maggioranza, che, dopo il primo impatto e fatica, assolveranno all’adempimento, compileranno le schede, rispondendo alle domande, assemblando il report… e lasciando sullo sfondo le dinamiche reali della propria identità di organizzazione, i caratteri della propria cultura organizzativa. E così, fuori bersaglio, andrà proprio l’obiettivo di raggiungere una “valutazione autentica”. Non credo sia questo il senso del lavoro di tanti ricercatori che operano all’INVALSI. Né che ciò sia utile allo stesso decisore amministrativo e politico la cui razionalità decisoria dovrebbe essere alimentata proprio dalla “valutazione autentica”

 

  1. Entro tale schema interpretativo, il significato della rendicontazione sociale slitta. Il suo valore sostanziale è quello di essere una “filosofia” della produzione dei servizi in rapporto alla domanda dei cittadini, della comunità locale di riferimento, e del diritto di cittadinanza concretamente esercitato. Una “filosofia” che si materializza in un documento (Il Bilancio Sociale) che diventa oggetto di tale confronto. La rendicontazione sociale non può limitarsi a coincidere con la mera “pubblicità” degli atti. Nulla da eccepire ovviamente (mancherebbe: le scuole sono Enti Pubblici…e che pubblichino loro bilanci è obbligatorio: magari in modo che siano effettivamente leggibili dai cittadini. Che dite dall’aggregato Z01 per esempio?…Lo spiegherà ai cittadini “Scuole in Chiaro”?). Ma la rendicontazione sociale è altro: l’interfaccia dell’autonomia e della sussidiarietà, nel rapporto con la comunità locale, della verificata congruenza tra l’offerta formativa e la domanda… Anche in tal caso il medesimo “scarto” nella filosofia amministrativa. La tenuta sistemica e le preoccupazioni di comparabilità, in un sistema che vede operare una pluralità di produttori autonomi, richiede che siano rigorosamente definite le informazioni essenziali che non possono non esserci; valorizzando, e rendendo semmai oggetto di valutazione “esterna”, proprio le espressioni autonome che, rispettando ciò che non può non essere detto, sviluppino invece fino in fondo la specificità della propria identità.