Dice Valditara: promuovere i talenti per rilanciare l’economia. Ma funziona davvero così?

di Franco De Anna

Le affermazioni del Ministro che tentano di connettere funzionalmente la “promozione dei talenti” nella formazione e nella scuola, con l’eguaglianza delle opportunità offerte ai soggetti in formazione e lo sviluppo economico territoriale (facciamo il “made in Italy”?), appaiono assai impegnative.
Ma soprattutto legate da una più che discutibile “funzionalità” soprattutto se intesa in automatico. Al contrario suscitano necessità di “analisi differenziata”.
Un impegno che non ha grande successo nella dinamica politica attuale.
Provo a offrire qualche spunto proprio sul piano della “analisi differenziata”

I talenti nella formazione

Promuovere le capacità, attitudini, abilità, impegni dei soggetti in fase di formazione ed istruzione non può che richiedere un approccio di “valorizzazione soggettiva”.
Fondato dunque sulla “diversità” dei soggetti stessi.

 La “diversità” come valore

L’impresa più difficile come sa chiunque si misuri (soprattutto ma non solo da docente professionista: vale anche per le famiglie) con l’azione e la ricerca formativa.
Il rapporto e l’uso degli strumenti innovativi.
Le scuole, gli insegnanti, le famiglie sono investiti oggi dalle sollecitazioni all’uso degli strumenti collegati alle nuove Tecnologie della Informazione e Comunicazione (le TIC), e alle applicazioni della AI.
L’argomentazione in proposito non può che essere assai complessa e stratificata

L’articolazione di tali argomenti è sviluppata in diversi punti.

Le scuole e i loro riferimenti e protagonisti essenziali (docenti, studenti, organizzazione) sono oggi coinvolti in modo a volte pressante ed essenziale dalle problematiche della Intelligenza Artificiale.
Basti pensare al ruolo che può giocare ChatGPT nella stessa stesura delle relazioni e dei “compiti” assegnati agli Alunni (relazioni, temi, composizioni, autovalutazioni, copiature)

  1. Gli “strumenti materiali” attraverso i quali si afferma tale ruolo sono di “detenzione personale” dei singoli.
    Attraverso gli Smartphone, i Tablet e più raramente i PC portatili, tali processi di coinvolgimento raggiungono il singolo, la sua partecipazione e sensibilità.
    Non possono ovviamente che sollecitare la sua responsabilità.
    Congiuntamente propongono una responsabilità collettiva/collegiale, agli altri protagonisti della scuola.

    Dai docenti (singoli e collegialmente coinvolti) alla stessa organizzazione (ambienti fisici e relazioni sviluppate nei diversi ambienti di apprendimento e formazione) si tratta di definire ruoli e responsabilità operative coerenti capaci di declinare l’intero impulso innovativo che proviene dall’esterno: dalla Ricerca alla dinamica dei Social Media.
  2. Occorre focalizzare la propria attenzione su ciò che costituisce “oggetto specifico” di tale ricerca educativa: “il soggetto in sviluppo e formazione”. O se si vuole “il percorso specifico e soggettivo (che ovviamente valorizza “la diversità”  verso l’adultità”).
  3. Si rimanda, in proposito, ad un interessante e fondamentale contributo della Commissione Europea destinato ad orientare le decisioni in proposito del Consiglio stesso.
    Se ne può trovare analisi dettagliata nel mio Sito personale.
  4. Di seguito riporto Il “libro Bianco Europeo” citato
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/libro-bianco.pdf
    e un mio commento e approfondimento
    https://www.aspera-adastra.com/wp-content/uploads/Il-digitale-nei-processi-di-apprendimento.pdf
  5. Si noti che tale “libro Bianco” è stato fatto proprio, con pieno e deliberato consenso da parte del Nostro CNEL.
    Ma si noti anche che di tale assunzione si tace e non ne sono state investite le scuole.
    Come vi fosse una “riserva di merito”.
  6. Richiamo, di tale analisi, un costrutto fondamentale per la “integrazione sensata” del Digitale nei processi di insegnamento ed apprendimento: il ruolo dei “realia”.
    Cioè dei dispositivi che ricostruiscono il rapporto antropologico “mano cervello” come fondamento essenziale e specifico dello sviluppo umano.
    Nell’uso “personale” della strumentazione Digitale, la mano non stringe, non plasma, le dita si limitano a sfiorare e strisciare su superfici lisce.
    Non c’è un martello, uno scalpello, una pasta di creta da plasmare.
    Dunque si rischia uno sviluppo limitato non solo della manualità, ma anche della creatività e della identità personale ad essa connessa. E dunque anche della affettività e delle relazioni con altri.
    Insomma: gli elementi essenziali della crescita e dello sviluppo soggettivo che spesso costituiscono e si inseguono nella scuola con “attività specifiche mirate”, piuttosto che con una “pedagogia integrata” 

    Ultima e più che complessa articolazione.

    Tali considerazioni devono essere articolate in ogni “ambiente di apprendimento”: dall’aula scolastica, alla casa/famiglia, al giardino della scuola, alla gita scolastica, All’associazionismo (sportivo e non).
    Ciò segnala una “debolezza organica del nostro sistema scolastico”.
    Si pensi che l’Istituzione e struttura degli Organi Collegiali cui è affidata la decisionalità collettiva sono stati costituiti nel 1974 e strutturalmente rimasti tali.
    Ma anche che la ristrutturazione degli assetti del Ministero (si pensi al rapporto con le competenze regionali) risale agli anni 2000, e soprattutto non ha sviluppato adeguatamente le articolazioni territoriali, se non in una primissima e isolata fase storica (Bassanini).Il nostro sistema di istruzione e formazione soffre di una debolezza intrinseca di “Governance”. (Uso il termine con il significato originario di “Governo Misto”)
    Quanto a dire alla capacità, suddivisa tra i diversi e competenti “decisori”, di stringere adeguati accordi operativi cui delegare le proprie decisionalità e soprattutto i vincoli, criteri e misure di qualità assunte in comune responsabilità delle decisioni condivise.

    Purtroppo, una “Questione Nazionale” che interroga direttamente un “Nodo Costituzionale” di fondo. E di non semplice scioglimento.

Verrebbe da sfidare il “Ministro dichiarante” a rielaborare una strategia per l’Istruzione e la Cultura capace di esplorare, se non di rispondere a tali stratificazioni.
Ma mi parrebbe una sfida crudele per gli assetti politici attuali.




Autonomia differenziata e equivoci culturali, politici, istituzionali

disegno di Matilde Gallo, anni 10


di Franco De Anna

La questione della “autonomia differenziata” è oggi alla attenzione del dibattito politico, culturale,
istituzionale, perché ha assunto il significato di una rivendicazione esplicita da parte di alcune
Regioni italiane tra le più rilevanti sotto il profilo economico e sociale, che chiedono, sia pure con
differenze significative, un ampliamento della devoluzione e una estensione delle loro titolarità rispetto alla ripartizione con lo Stato
Una parte significativa della alleanza politica che supporta il Governo generato dall’ultima
consultazione elettorale dei cittadini italiani, si batte, e da tempo, per la costruzione di prospettive e strumenti di autonomia differenziata da riconoscere alle Regioni italiane.
La “rivendicazione” politica, è storica per il movimento della Lega e la sua ispirazione federalista
(almeno nella versione “originale”), ma acquista oggi significati e valori che occorre reinterpretare e ricollocare nella attualità politico culturale, sociale, economica, profondamente diversa dal contesto nel quale fu inizialmente formulata.
Basti ricordare che quella rivendicazione originale si inseriva nella “novità” costituita dall’intreccio tra Riforma Costituzionale (il Titolo V e in particolare art.117, il “nuovo” ruolo delle Regioni) e il processo della riforma della Pubblica Amministrazione rielaborata attraverso la cosiddetta “Legge Bassanini” (la Legge 59/97, con le sue successive “interpretazioni”, fino al 1999). (1)
Il contesto politico, culturale, istituzionale dei primi anni “interpretativi” di quell’intreccio tra
riforma PA e Riforma Costituzionale è oggi “strutturalmente” diverso, e dunque è necessario
rielaborare diversi significati che acquista l’attuale confronto.
O meglio “rileggere” i significati culturali, politici e istituzionali entro i processi “strutturali” che
hanno modificato la “materialità” delle condizioni sociali, economiche, produttive, che stiamo
attraversando.

Autonomia Differenziata e Livelli Essenziali di Prestazione (LEP)

Come indicato in precedenza, vi sono processi di radicale mutamento delle questioni connesse con le proposte di autonomia differenziata oggi esse in campo.
E che si riflettono strutturalmente con la questione fondamentale della definizione dei LEP
Ne cito solo alcuni per il loro rilievo e perché spesso “sottaciuti” nel confronto politico e culturale corrente.

1. Vi sono alcune situazioni e condizioni regionali (alcune Regioni) nelle quali il richiamo ai
dispositivi previsti della “titolarità concorrente” o della “devoluzione” è in realtà un “costrutto”
di significato parziale e secondario.
Per esempio si pensi alla Lombardia (ma addirittura alla “Città metropolitana” della sua
capitale) e al suo sviluppo con intensi e significativi “rapporti internazionali” (per esempio con
la Cina) che “strabordano” il ruolo della politica statuale.
Ma alcune considerazioni simili (rapporti economici internazionali) sono applicabili anche ad
altre regioni del Nord con marcate “vocazioni manifatturiere”. Le “titolarità concorrenti”
definite nella riforma costituzionale dell’inizio del secolo si sono arricchite di una potenziale
dimensione “internazionale”.

2. Vi è un mutamento radicale dell’assetto baricentrico del Welfare. Il welfare pubblico è storicamente fondato sui servizi (Sanità, Istruzione, Assistenza,
Previdenza) prodotti e dedicati ai cittadini, e costruiti sul “baricentro” (economico, culturale, sociale) del “lavoro dipendente”, e del Sistema Fiscale che su di esso è fondato, nelle sue
“certezze” e disponibilità reali.
Un assetto “baricentrico” messo in crisi nella sua struttura e condivisione sociale, sia dai
mutamenti relativi alla composizione del lavoro e delle sue caratteristiche (lavoro dipendente e
autonomo, precarietà, salari “immobili” da anni) e dalla “domanda” che generano; sia dal
rapporto tra la “funzionalità relativa” del Sistema Fiscale, l’incremento progressivo del debito
pubblico e i vincoli reali che esso pone alla spesa che alimenta il welfare.
In parallelo vi è una accentuata moltiplicazione/stratificazione dei soggetti “produttori di
welfare” e dunque una diversificazione dell’offerta che tende a rispondere a tale modificazione
della domanda. (Dalla “proliferazione” di Enti Pubblici, alla affermazione del ruolo del Terzo
Settore)

3. Il rapporto tra cittadino e sistema welfare si modifica anche nei comportamenti “privati” e nei
riferimenti culturali relativi. L’identificazione tra primato del “Servizio Pubblico” rispetto al
“consumo privato”, un tempo fondata proprio sul reddito da lavoro dipendente, oggi si diversifica in rapporto al welfare ed alla sua funzionalità.
Spesso la combinazione tra la “convenienza pubblica” e “il vantaggio privato” investe anche i
servizi essenziali del welfare: dalla Previdenza (vedi sviluppo di sistemi pensionistici “integrativi”), alla Sanità, alla Assistenza, ma anche, sia pure con quantificazioni più ridotte (ma
si pensi allo sviluppo più recente delle Università on line) alla Istruzione.
I punti precedenti sono poco più che “citazioni”; ma invitano a riflettere ed approfondire l’analisi di processi e dislocazioni che tendono a mutare profondamente sia la struttura socio economica del Paese, sia le consapevolezze di essa diffuse tra i cittadini.
Come sempre nelle fasi di transizione occorre misurarsi sulla non corrispondenza
(contraddizione?) tra l’effetto innovativo di processi materiali ristrutturanti e le categorie
socioculturali, la costruzione e diffusione di significati condivisi capaci di interpretare quei
processi e di promuoverne “padronanza”.

NOTA

[1] Esempi di tale diversità e specificità del dibattito politico culturale degli anni indicati sono rintracciabili in elaborazioni dedicate in particolare alle questioni del rapporto tra quelle riforme e l’autonomia scolastica. Si possono rintracciare liberamente qui: Franco De Anna “A proposito di federalismo scolastico” in https://www.asperaadastra.com/politiche-dellistruzione/ancora-a-proposito-di-federalismo-scolastico/ e, Franco De Anna “Livelli
Essenziali di Prestazione per il sistema di istruzione” qui https://www.aspera-adastra.com/politichedellistruzione/livelli-essenziali-di-prestazione-per-il-sistema-di-istruzione-nazionale-una-questione-aperta/.
Entrambi i contributi presentano un intreccio di “questioni generali” e di “specifiche interpretative”.

Leggere l’intero contributo clicca qui




MERITO, RESPONSABILITA’ DEI FALLIMENTI E POVERTA’ EDUCATIVA

di Franco De Anna

Il dibattito/confronto che si è sviluppato sulla questione del “merito” (e della possibile temuta deriva “meritocratica”: non hanno medesima semantica …) in seguito al cambiamento del nome” del Ministero dell’Istruzione, mi pare carico di potenziali equivoci che, a mio parere occorre disciogliere.

Sia per questioni di principio iscritte nel pensiero pedagogico, sia per ragioni immediatamente politiche. Equivoci che rischiano di sottrarre al confronto politico serrato la questione nodale: quali “programmi di politica scolastica” verranno messi all’ordine del giorno e posti in realizzazione oltre la suggestione della terminologia? E quali possibili alternative per opporvisi?

Vorrei che, in merito alle responsabilità relative ai cattivi e diseguali risultati della scuola italiana, si assumesse un rigore ed una correttezza analitica capaci di togliere alimento ad ogni equivoco. (Troppo semplice, altrimenti, “dare la colpa” a questo Governo…)
Il Sistema di Istruzione italiano ha una normativa relativa a problematiche di accoglienza ed integrazione tra le più avanzate a livello internazionale ed essa è parte costitutiva delle stesse Istituzioni.
La ispirazione costituzionale dell’art. 34 nella essenzialità delle sue affermazioni è senza dubbio altrettanto chiara circa gli impegni fondamentali delle istituzioni pubbliche.

Ciò che si opera concretamene a livello di “Sistema” per dare realizzazioni a tali ispirazioni conosce invece non solo fallimenti (gli errori accompagnano sempre la operatività concreta) ma spesso delle contraddizioni strutturali, culturali e istituzionali che rappresentano un vero e proprio “tradimento” di tali ispirazioni e impegni.

Specialmente nella scuola superiore e nei suoi diversi indirizzi (e spesso proprio a partire da quello che vene ancora considerato il “più qualificato” come i Licei), tale “tradimento” appare strutturalmente sedimentato nella “cultura sociale” e spesso purtroppo anche in quella “professionale” della scuola stessa.A partire da tale considerazione, il costrutto “povertà educativa” si sta diffondendo con interesse e preoccupazione in molte analisi che guardano sia alle problematiche culturali (e non solo) delle nuove generazioni, sia al funzionamento del nostro sistema di istruzione.Lo stesso uso del termine “povertà” sottolinea che si indichino come necessari impegno e iniziative per colmare assenze, ritardi, insufficienze, disparità e differenze inaccettabili.

Il costrutto ha il pregio di indicare sinteticamente un intreccio di oggetti e significati diversi, ciascuno con specificità che richiedono(erebbero) approcci analitici distinti, ma che nella loro combinazione, mescolanza, interrelazione e sovrapposizione delle aree di “confine” dei significati stessi, consentono una rappresentazione di grande efficacia comunicativa.
Come non essere infatti d’accordo sulla necessità di combattere, superare, colmare “la/le povertà educative”, in particolare (ma non solo…) se riferite alle nuove generazioni?

Come spesso accade la efficacia comunicativa di proposizioni che, come aforismi, vorrebbero proporsi come sentenze conclusive di analisi e riflessioni approfondite “precedenti”, cela in realtà molte approssimazioni delle analisi stesse sacrificandone l’approfondimento rispetto al successo comunicativo.
Temo che anche nel caso del costrutto in questione vi sia questo rischio.
Tanto più grave quanto proprio la metafora della “povertà educativa” vorrebbe avere valore di richiamo ad impostare interventi operativi mirati ed efficaci per porvi rimedio. (Dunque, a partire da una definizione rigorosa di obiettivi, strumenti, risultati attesi, valutazioni)
Vi è comunque da notare immediatamente che tali approcci paiono essere sagomati “sui minori”, sui “bambini”, al massimo sugli adolescenti.

È priorità comprensibile se da essa si generano “priorità operative” sul “da dove cominciare…”. Ma occorre non trascurare il fatto che vi sia una dimensione della “povertà educativa” che va ben oltre e che investe il mondo degli adulti, e che ne condiziona la vita nelle loro diverse interpretazioni con riflessi su ciascuna di esse: come lavoratori, come cittadini, come genitori.
Un rilievo che ha un significato particolare in un Sistema di Istruzione come il nostro, nel quale la formazione continua e la formazione per gli adulti hanno, sia pure con esperienze significative, uno sviluppo residuale e un interesse sociale che non ha grande udienza nella comunicazione e nelle scelte di politica dell’istruzione.
Inoltre, occorre ricordare che comunque la “povertà educativa” osservata nella popolazione adulta (e dunque possibile oggetto di iniziative ad essa dedicate) ha ricadute e riflessi complessi e spesso peggiorativi sulle fasce giovanili, sia attraverso la riproduzione famigliare, sia nelle interazioni ambientali e contestuali.

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Il digitale nell’apprendimento

di Franco De Anna

Una considerazione generale

Se guardiamo alla Storia con lo sguardo della “lunga durata”, e dunque per transizioni e fasi di secoli, non possiamo non riscontrare una permanenza critica ad ogni passaggio che investa le forme della comunicazione, ed in particolare di quella destinata all’apprendimento e alle nuove generazioni.
Si ricorda la critica e la diffidenza di Platone verso la “parola scritta” rispetto alla interazione dialogica diretta.

Ma quanti secoli dovettero passare per misurarsi con la disponibilità diffusa della parola scritta attraverso il libro come strumento essenziale nella riproduzione della cultura, la cui diffusione di massa è legata alla invenzione della stampa? Anzi della tecnologia della stampa a caratteri mobili. Potremmo continuare gli esempi: ma ciò che conta è la consapevolezza che lo sviluppo delle ICT corrisponde ad un passaggio storico che ha portata simile a quelle transizioni citate, e dunque sfida radicalmente la nostra capacità di interpretare, decostruire, ricostruire significati connessi alla comunicazione sociale.

D’altra parte, non mancano certo sensate elaborazioni e pensieri sui problemi che nascono dalla intersezione tra sviluppo delle ICT, formazione ed apprendimento. Non solo, anche se specialmente, per le nuove generazioni. Un pensiero preoccupato per tanti adulti e finanche pensionati hikikomori maturi. In questa elaborazione cercherò di esaminare tali processi per i riflessi che essi hanno sulla organizzazione della scuola, tenendo conto ovviamente delle diverse elaborazioni ed esperienze sviluppate in proposito in questi anni. (Mi preme sottolineare il riferimento al rapporto con l’“organizzazione” della scuola . I cambiamenti indotti dal digitale nei processi di apprendimento vanno proiettati sulla dimensione di “sistema organizzato della istruzione e dell’apprendimento”.)

Non si tratta (solo) di rapporti precettore-allievo

Non ostante la sempre in agguato pericolosa dislocazione di “apocalittici e integrati” di Eco, che, come tale, è assolutamente paralizzante su entrambi i fronti, il dibattito è ampio. Rimane il fatto che la questione si accompagna ad interrogativi radicali, in particolare rispetto alle competenze dei docenti; non “tecniche” ma in campo psico socio pedagogico. Anzi direi: filosofico e antropologico.

Voglio fare solo un esempio

(Che credo sintetizzi molti significati di ciò che dirò in seguito)

Siete un docente “creativo” che usa le tecnologie e i loro dispositivi per sfruttarne le potenzialità (ah! se li aveste avuti a disposizione quando eravate studenti!!!). Dopo opportuno inquadramento storico-culturale avete dato un compito operativo ai vostri ragazzi. Per esempio: dopo spiegato (e capito…) cosa intendesse Duchamp disegnando i baffi alla Gioconda, proponete loro di fare altrettanto con altre opere “rinascimentali”

Che so? Mettere neri ricci ad una Venere che sorge … dei cerotti ad un San Sebastiano… degli occhiali ad una Santa Lucia… Gli strumenti che hanno a disposizione tra le loro mani rendono possibile realizzare il compito senza grande sforzo … Si selezionano le immagini in rete… ci si misura con semplici taglia-incolla e correttore di immagini… si ricava rapidamente ciò che altrimenti avrebbe reso il lavoro su carta proibitivo …

(Certo altra cosa è comprendere a fondo il senso della provocazione Duchamp, ma credo che tale operatività aiuti anche ciò). Osservateli al lavoro, e provate a pensare alla tipologia di problemi che avete di fronte, se appena riuscite a prender distanze dalla soddisfazione dei risultati. La cosa che immediatamente balza agli occhi è l’accorciamento drastico del circuito stimolorisposta…

Trovano una immagine, tagliano, adattano… buttano… ricominciano. Più volte e fino a quando non siano soddisfatti del “prodotto”. A volte, in realtà, avete l’impressione che si interrompano solo per un impulso esterno (la campanella, l’intervallo…) come se il “risultato mai” e invece “iterazione perpetua”.

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Risorse per l’istruzione e lo sviluppo digitale: il quadro generale e il piano scuola 4.0

di  Franco De Anna

Alle scuole stanno arrivando quantità significative di risorse economiche. La fonte principale (anche se non l’unica) è il processo/programma di digitalizzazione sostenuto dal PNRR. Si veda in proposito il “Piano Scuola 4.0”.
Esso giunge a compimento e completamento di processi innovativi relativi alla digitalizzazione nella scuola che hanno comunque interessato il sistema a partire dal 2014 e con impulso significativo nel complesso attraversamento della emergenza COVID con la sviluppo della “Didattica a Distanza” e poi “Didattica Mista” (1)

Il “Piano Scuola 4.0” legato espressamente e direttamente al PNRR, Missione 4 (Istruzione e ricerca) componente 1 ” Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università”, relativamente a processi di digitalizzazione dell’istruzione, prevede complessivamente 5 linee di intervento:

  1. L’investimento 2.1 “Didattica digitale integrata e formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” stanzia 800 milioni di euro per la realizzazione di un’offerta formativa di oltre 20.000 corsi per la formazione di 650.000 fra dirigenti scolastici, docenti, personale scolastico, tecnico e amministrativo, e l’adozione di un quadro di riferimento nazionale per l’insegnamento digitale integrato, per promuovere l’adozione di curricoli sulle competenze digitali in tutte le scuole
  2. L’investimento 3.1 “Nuove competenze e nuovi linguaggi” (1,1 miliardi di euro) si concentra sullo sviluppo delle competenze informatiche necessarie al sistema scolastico per svolgere un ruolo attivo nella transizione verso i lavori del futuro e di percorsi didattici e di orientamento alle discipline scientifiche (STEM – scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), anche per superare i divari di genere.
  3. L’investimento 3.2 “Scuola 4.0 – Scuole innovative, nuove aule didattiche e laboratori” prevede un finanziamento di 2,1 milioni di euro per la trasformazione di 100.000 classi in ambienti di apprendimento innovativi e la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro
  4. L’investimento 1.4 “Sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS)”, con un finanziamento di 1,5 miliardi, è finalizzato alla valorizzazione della filiera formativa specialistica legata all’ Impresa 4.0, Energia 4.0 e Ambiente 4.0 e al potenziamento dei laboratori con tecnologie digitali.
  5. Misure relative all’edilizia scolastica Missione 2, Componente 3, linea di investimento 1.1 “Piano di sostituzione di edifici scolastici e di riqualificazione energetica”, che interviene su oltre 200 edifici scolastici innovativi I fondi precedenti si integrano con altre iniziative relative al digitale, nelle quali il Ministero dell’Istruzione è in collaborazione con altri ministeri e/o con riferimento ad altre fonti di finanziamento 2 L’utilizzo delle tecnologie in chiave di inclusione e abilitazione di competenze è oggetto anche della linea di investimento 1.4 “Intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nel primo e nel secondo ciclo”, che prevede anche il finanziamento di strumenti tecnologici avanzati per gli studenti con disabilità attraverso le reti di scuole operative nei Centri Territoriali di Supporto

Clicca qui per leggere l’intervento completo

(1)  Ricordare che le spese per digitale 2014-2021 ammontano a 1,9 miliardi e comprendono obiettivi come

  • un dispositivo ogni quattro alunni (uno ogni 8,9 nel 2014)
    • uno schermo digitale per ogni classe (uno ogni due nel 2014)
    • realizzati oltre 40.000 ambienti didattici innovativi e digitali tecnologie digitali usate per la didattica dall’84,4% dai docenti (44,5% nel 2017)
    • 620.000 docenti formati alla didattica digitale durante la pandemia
    • registro elettronico usato dal 99% delle scuole (69% nel 2014)
    • sistemi di gestione informatizzati usati dal 97% delle segreterie (68% nel 2014)
    • in corso Piano per dotare tutte le scuole di connessione in fibra ottica e azioni per il cablaggio interno degli edifici
    • équipe territoriali formative (docenti esperti di didattica digitale) e Future Labs per la formazione sul campo animatore digitale e team per l’innovazione presenti in tutte le scuole (circa 32.000 figure)
    • progetti per le competenze digitali degli studenti attivati nell’84% delle scuole (71% nel 2018) (vedi: “Piano Scuola 4.0”)

(2) Si vedano per esempio i progetti
• “Piano scuole connesse”, attuato dal Ministero per lo sviluppo economico, in collaborazione con il Ministero dell’istruzione, e finanziato con oltre 400 milioni di euro,
• la linea di investimento 3.1.3 “Scuola connessa” della Missione 1, componente 2, attuata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale e finanziata con 261 milioni di euro,
• l’azione “Reti locali, cablate e wireless, nelle istituzioni scolastiche”, realizzata dal Ministero dell’istruzione e finanziata per oltre 400 milioni di euro con i fondi dell’iniziativa React-Eu, che hanno incrementato i fondi strutturali europei della programmazione del PON “Per la scuola” 2014-2020




Lo specchio e la fotografia: a proposito di autovalutazione

di Franco De Anna

La cultura sociale del nostro Paese è singolarmente percorsa da un costrutto di lutto e mancanza. Il Risorgimento è una “rivoluzione mancata”; la Vittoria è “mutilata”, la Resistenza è “tradita”; la Costituzione è “irrealizzata”…
E’ un costrutto che in parte proviene da una (datata) riflessione storica, ma viene rielaborato nel senso comune dalla vulgata della riproduzione politica e dell’informazione. Non è questa la sede per approfondire, ma certo questo costrutto sembra proiettare l’intera collettività in una dimensione di irrealizzato che, scontando il riflesso del lutto e dell’abbandono della memoria dolorosa, consente alla cultura politica un paio (almeno) di abusati strumenti di comunicazione di massa.
Il primo è il lusso di predicare come sempre nuove (di moda il termine “epocale”) ipotesi riformatrici in realtà già esplorate e di cui si tralascia sia la memoria, sia la necessità di valutarne rigorosamente i fallimenti e le loro ragioni. Ne viene favorito un opportunismo implicito, variamente interpretato, nei caratteri del “nuovismo”.
Il secondo vantaggio politico di tale opportunistica elaborazione è che “tutti sono riformatori”; anzi, quale che sia il colore politico ciascuno proclama la propria autenticità e radicalità riformistica. In questo paese, sostanzialmente e prevalentemente conservatore, nessuno (pochissimi) dichiara di esserlo.

Potremmo offrire a qualche lacaniano, che pare interessato alla scuola, il destro per una riflessione psicanalitica sul rapporto tra tale paradigma della mancanza e dell’irrealizzato, e il fatto che la psicologia collettiva del nostro Paese non abbia mai rielaborato la “patria” (il padre) ma la sua consistenza collettiva sia da “matria”. Il “collettivo nazionale” è in realtà “mai nato”. Un cordone ombelicale mai reciso.

Una dannazione ed una salvezza congiuntamente, operanti nelle fasi più critiche della storia nazionale: ci aiutò ad uscire dalla “morte della patria” nel 1943; ci impedisce di costruire un assennato sistema di welfare di cittadinanza, “paterno e non materno” …
Al precedente elenco dei lutti storici potremmo aggiungere (si parva licet…) l’Autonomia delle Istituzioni scolastiche che è congiuntamente normata da strumenti di legge (dalla 59/97 al Regolamento) e richiamata della Costituzione (titolo V, art. 117).


Autonomia, buona scuola e autovalutazione Il pensiero si innesca inevitabilmente nella lettura comparata de “La buona scuola” laddove parla di autonomia e valutazione, come coppia concettuale fondante della filosofia valutativa proposta, e della Direttiva Ministeriale sulla valutazione, la circolare applicativa corrispondente, i caratteri del protocollo autovalutativo che si preannunciano e in parte sono stati sperimentati. La filosofia enunciata ne “La buona scuola” richiama esplicitamente l’autonomia come valore fondante del “sistema di istruzione”.
A tale valore connette organicamente (e correttamente) le problematiche della responsabilità e della valutazione e quella del sistema di governance (sia pure con il limite del considerare la governance interna: organi collegiali, Dirigenza, partecipazione ecc… ma non la governance esterna. Si tenga conto del “sintomo”, costituito da tale assenza..).
Sembrerebbe cioè riprendere gli elementi di un disegno radicalmente innovativo di destrutturazione e ricostruzione del sistema di istruzione, tentato all’inizio del secolo: il passaggio da un modello piramidale assimilato alla pubblica amministrazione e governato dal diritto amministrativo (produzione di atti…) e percorso da un flusso di comando algoritmico dal centro alla periferia, ad un modello decentrato, ma soprattutto caratterizzato dalla pluralità di “produttori del servizio” operanti in rapporto con gli “utenti” (i cittadini, le comunità locali..), con autonomia operativa e dunque con una duplice responsabilità.
In primo luogo, verso i cittadini portatori non solo di “interessi” ma (soprattutto) di diritti (istruzione come diritto di cittadinanza). E in secondo luogo verso lo Stato come garante sia della fruizione di quel diritto, sia della “uguaglianza” dei cittadini rispetto ad essa. Quel “progetto” aveva riferimenti sia nazionali che internazionali di grande portata: dal decadere dei tradizionali modelli di stato sociale (la crisi fiscale dello Stato che investiva tutto l’Occidente), al nodo specifico costituito dalla necessità della riforma della Pubblica Amministrazione nazionale.

Elementi portanti di quella ipotesi riformatrice sono (sarebbero) i seguenti.

– Il passaggio dallo Stato “produttore” diretto di servizi, a soggetto “regolatore” e “finanziatore” del servizio affidato a una pluralità di “produttori” (le scuole autonome). Da producer a provider. (visto che qualcuno ama il lessico anglosassone). Nella versione “di destra” e “privatistica” da producer a customer ..(vedi ispirazioni politiche Regione Lombardia. Il soggetto pubblico come “committente” di servizi offerti alla popolazione-cliente).

– Compito dello Stato (garante dei diritti di cittadinanza) diviene (diverrebbe) dunque quello di definire le “prestazioni essenziali” dovute a tutti i cittadini. Tale repertorio è di natura “politica e istituzionale” (i diritti) ma anche tecnico e scientifica (il contenuto delle prestazioni e i relativi protocolli validati tecnicamente e scientificamente: i Livelli Essenziali di Prestazione). Vi sono in proposito sentenze della Corte Costituzionale (riferite al Servizio Sanitario Nazionale, ma con buon isomorfismo rispetto alla produzione di servizi alla persona. Non tocca esclusivamente alla politica definire il repertorio ma occorre il contributo della ricerca tecnico scientifica ed il costante adeguamento ad essa.

– Il repertorio delle prestazioni essenziali ha un riflesso anche sul profilo dei costi e dei finanziamenti. I “costi standard” sono infatti il corrispettivo economico delle prestazioni essenziali (la cui determinazione richiede qualche cosa di più che individuare la media dei costi). I costi standard rappresentano il riferimento, l’ancoraggio del meccanismo di finanziamento pubblico, dallo Stato alla pluralità dei produttori autonomi del servizio. Non “l’unico” criterio di finanziamento (si pensi al valore della solidarietà, della compensazione delle differenze e delle diseguaglianze…) ma la “base” del meccanismo di finanziamento pubblico. La combinazione tra finanziamento a costi standard, autonomia organizzativa e produttiva dei servizi, padronanza delle risorse economiche, umane e organizzative, verificata dalla garanzia della qualità del prodotto, rappresenta (rappresenterebbe) la garanzia di una ricerca costante della “migliore efficacia” (ottimizzazione costi/risultati), supportata, oltre che dall’etica pubblica, proprio dalla convenienza della padronanza delle risorse. (se la produzione di un servizio pubblico, a parità di qualità erogata, avviene costi inferiori a quelli standard, si recuperano all’autonomia risorse per lo sviluppo innovativo o per la incentivazione del personale…)

– La decostruzione del modello amministrativo tradizionale mette capo ad un sistema di governance (governo misto) che coinvolge nella determinazione della strategia pubblica e nella sua realizzazione una pluralità di soggetti e responsabilità (nel sistema di istruzione lo Stato e le Regioni, titolari di podestà legislativa e le istituzioni scolastiche autonome titolari di responsabilità “produttiva”, il sistema delle autonomie locali, legato a quello regionale con responsabilità gestionali strutturali, dall’edilizia ai servizi). I vincoli delle prestazioni essenziali, dei costi standard, dei livelli di qualità (valutazione) sono (dovrebbero) comuni e condivisi da tutti i titolari della governance (Che dire, però, dei lavori della Conferenza Unificata sui temi scolastici?!)

– Un corollario di quel modello è rappresentato dal fatto che la preoccupazione della “tenuta sistemica” (appropriata ai compiti dello Stato) deve esprimersi nella capacità di definire con accuratezza i “vincoli essenziali” cui sono tenuti i produttori, in termini di risultati e di rendicontazione, e non (come da modello tradizionale) le specifiche dei processi di produzione. Ai “produttori” vanno indicati i 5 o 6 elementi che “non possono non essere” nelle prestazioni e nei prodotti realizzati, a garanzia della comparabilità di sistema. Sui processi concreti va invece lasciata, ma anche promossa, incentivata, la padronanza e la responsabilità produttiva della scuola autonoma.

– Il carattere dell’operare dello Stato e della Pubblica Amministrazione, si sposta (si sarebbe spostato) dunque, dalla veicolazione del comando amministrativo alla predisposizione di “servizi” (ricerca, documentazione, elaborazione dei repertori di prestazioni essenziali, meccanismi di finanziamento coerenti e promotori di eguaglianza) e, conseguentemente, del servizio di valutazione a garanzia della qualità del “prodotto pubblico”.
Dal comando amministrativo alla produzione di services. Una “rivoluzione” del paradigma amministrativo classico, e del modo di organizzare i servizi del welfare.

Una transizione incompiuta

In questo senso, l’affermazione ne “La buona scuola” della connessione del trinomio autonomia, responsabilità, valutazione, sarebbe assolutamente coerente a quel modello. Ma se ci si provasse a capire che cosa da oltre un quindicennio si è opposto alla sua realizzazione, quali interessi, quali culture, quali meccanismi auto riproduttivi, forse si potrebbero individuare strategie di realizzazione finalizzate e indirizzate su bersagli specifici. Come sono stati governati i meccanismi di finanziamento delle scuole, per assicurare effettiva padronanza delle risorse? Quali regole nella classificazione, gestione, destinazione del personale per dare effettiva padronanza organizzativa alle scuole autonome? Quali interventi sul sistema della Ricerca Educativa e dei suoi Istituti (quelli regionali, chiusi, e i due nazionali INDIRE e INVALSI, per 10 anni in ristrutturazione/transizione..); come si sono riconfigurati i presidi territoriali del MIUR, e il MIUR stesso, (Dipartimenti, direzioni, USR, Uffici territoriali…), per costruire un effettivo sistema di services all’autonomia? Per ciascuna domanda (e sono solo alcune..) vi sarebbe un giudizio valutativo da esplicitare: e non si stratta di un giudizio politico (non solo), ma di una elaborazione tecnico-politica di quanto realizzato in funzione delle strategie dichiarate.

Se l’attività di valutazione non investe prima di tutto la “politica pubblica” e le sue realizzazioni (e, insisto, non si tratta di un mero giudizio politico, ma di corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati ed i risultati) sarà difficile abilitare il principio del nesso responsabilità/valutazione sugli altri livelli e contesti (le organizzazioni, il personale, i dirigenti). In merito basterebbe considerare la coerenza con la quale si applica, nella nostra amministrazione, il criterio dello spoil system (ideologicamente rivendicato) alla alta dirigenza amministrativa: funziona in entrata, non in uscita. L’incompiuta sembra un destino nazionale. Ma ha una griglia più o meno complessa di responsabilità sia politiche che tecnico-politiche, e, questione cruciale, culturali. Il vero imputato dell’incompiutezza è la cultura della cosa pubblica. E nel caso dell’autonomia scolastica la sostanziale estraneità e sotterranea opposizione manifestata della Pubblica Amministrazione del MIUR.
Si tratta, come si vede, di un nodo possente e di difficile scioglimento: emerge in evidenza proprio sulla topica della valutazione delle scuole e della sua “premessa e allegato” (così vorrebbe il modello del Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione) costituito dalla autovalutazione.

Lo specchio e la fotografia: il significato dell’autovalutazione

“Evidentemente entrambi avevamo una fame terribile. Il guscio dell’aragosta era già vuoto e il cameriere venne sollecito. Ordinammo altre cose, a sua scelta. Cose leggere, specificammo, e lui annuì con competenza. “Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie”, disse Christine.” Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri”. Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.
“Ebbene ?” chiesi io, ”dov’è il mistero?” “La seconda fotografia”, disse lei.
”Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso. Gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto”. Non disse altro e continuò a mangiare.”
(Da “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi)

Un autorevolissimo interlocutore con ruolo fondamentale nella direzione del MIUR presentando l’autovalutazione delle scuole ad una platea di Dirigenti Scolastici della mia Regione (Marche), all’inizio della “avventura del RAV; con grande, ma forse inconsapevole, efficacia comunicativa disse “Noi vi daremo una fotografia… voi deciderete cosa migliorare… poi nel triennio…”. Si riferiva al fatto che alle scuole vengono resi disponibili dati rielaborati dal “superiore” ministero (da INVALSI…) e che costituiranno il punto di riferimento per l’analisi autovalutativa (le scuole potranno aggiungere proprie informazioni e propri indicatori, ma, nella filosofia del dettato della norma, in chiave “residuale” e aggiuntiva”). I report di informazione su se stesse (la fotografia) verranno da “altri” (il Ministero, l’INVALSI…).
Non desidero discutere sulla pertinenza tecnico scientifica di tali “raccolte di dati” (le contraddizioni anche tecniche sono numerose: basterebbe valutare la chiarezza e trasparenza dei dati di “Scuole in Chiaro” riferiti alle risorse economiche delle scuole e la loro capacità di rendere leggibile un bilancio ad un comune cittadino, che per altro dovrebbe poterlo consultare a livello di singola scuola e probabilmente con maggiori chiavi di lettura e possibilità interpretative). Mi interessa invece il significato profondo, politico e culturale, di tale approccio, esemplare delle diverse concezioni e pratiche dell’autonomia.
Su questo piano maturano le contraddizioni più significative tra le affermazioni ripetute nel confronto politico corrente, relative al nesso autonomia e valutazione, e le proposte fin qui delineate nello specifico del Sistema Nazionale di Valutazione.
Segnalo quali siano, a mio parere, gli elementi più significativi di tale “stratificato” di contraddizioni, ribadendo che la loro origine sta proprio nella criticità di quel nesso autonomia/valutazione che viene a parole enfatizzato.

  1. Viene delineata una concezione (e ovviamente una pratica..) dell’autovalutazione che sposta e attenua significativamente il peso specifico dell’autoanalisi (organizzativa, gestionale, delle strategie e dei risultati) della singola organizzazione.
    Il valore aggiunto dell’impegno alla raccolta sistematica ed analisi dei propri dati, nella scelta degli indicatori, nelle aree da sottoporre a verifica consiste nel fatto che su tale comune impegno di una organizzazione si misura la sua “propensione” al miglioramento.

E’ questo il terreno fondamentale del nesso tra autonomia, responsabilità, valutazione. Nel modello proposto invece, la scuola in autovalutazione dovrà esaminare dati (per altro da essa stessa provenienti) rielaborati dal MIUR stesso (Scuole in Chiaro), risultanti da questionari (rielaborati da INVALSI) che coinvolgono il personale, i genitori e gli studenti, oltre cha i dati relativi alle rilevazioni nazionali sui livelli di apprendimento.
La scuola viene invitata a fare autoanalisi su dati offerti da “fuori”. Apparentemente una comodità: si esenta la scuola da un impegno ed una fatica; si uniformizza il protocollo. In realtà una sostanziale mortificazione della stessa autonomia. Alla scuola non si propone di “guardarsi allo specchio”, e di provarsi a fare i conti con se stessa, opportunamente giovandosi di un “amico critico” capace di valorizzare lo specchio e impedendo il “narciso”. Si propone invece di guardare una sua fotografia, scattata da altri (vedi brano di Tabucchi…)

La preoccupazione “sistemica” di tenuta unitaria e di comparabilità, in un contesto di autonomia valorizzata, richiederebbe esattamente di invertire l’approccio: il “cuore” del processo è l’autoanalisi della singola organizzazione; il ruolo indispensabile della dimensione sistemica si esercita indicando un plafond ristretto e essenziale di rilevazione di dati che “non possono non esserci” a garanzia della comparabilità. L’esame dei modelli di autovalutazione implementati dalle scuole sarebbe allora davvero una misura delle loro “propensione” al miglioramento, e la valutazione esterna avrebbe un campo significativo (certo non esclusivo) sul quale esercitarsi. Io comprendo le esigenze di “unità” sistemica; ma così la garanzia di unità del sistema è fondata sul fatto che tutti si “si mettano in divisa”.. Non è un “inedito”: si pensi al processo con cui si è provveduto ad affrontare e risolvere il problema della trasparenza nei servizi on line delle scuole. Anche in tal caso invece di indicare in modo vincolante le informazioni essenziali da assicurare nei rispettivi siti, si è provveduto a trasformarli in “fotocopie”. L’unità si interpreta come “uniformità”. L’identità si interpreta come “identicità”. Il doppio slittamento semantico è proprio della Pubblica Amministrazione e segnala il modo proprio di declinare l’autonomia.
La realtà però si vendica di questo riduzionismo; e in due modi possibili: vi saranno scuole (quelle che hanno sperimentato modelli e protocolli propri) che si batteranno per ampliare e complessificare, falsificare, la “fotografia” ricevuta. Ve ne saranno altre e probabilmente la maggioranza, che, dopo il primo impatto e fatica, assolveranno all’adempimento, compileranno le schede, rispondendo alle domande, assemblando il report… e lasciando sullo sfondo le dinamiche reali della propria identità di organizzazione, i caratteri della propria cultura organizzativa. E così, fuori bersaglio, andrà proprio l’obiettivo di raggiungere una “valutazione autentica”. Non credo sia questo il senso del lavoro di tanti ricercatori che operano all’INVALSI. Né che ciò sia utile allo stesso decisore amministrativo e politico la cui razionalità decisoria dovrebbe essere alimentata proprio dalla “valutazione autentica”

 

  1. Entro tale schema interpretativo, il significato della rendicontazione sociale slitta. Il suo valore sostanziale è quello di essere una “filosofia” della produzione dei servizi in rapporto alla domanda dei cittadini, della comunità locale di riferimento, e del diritto di cittadinanza concretamente esercitato. Una “filosofia” che si materializza in un documento (Il Bilancio Sociale) che diventa oggetto di tale confronto. La rendicontazione sociale non può limitarsi a coincidere con la mera “pubblicità” degli atti. Nulla da eccepire ovviamente (mancherebbe: le scuole sono Enti Pubblici…e che pubblichino loro bilanci è obbligatorio: magari in modo che siano effettivamente leggibili dai cittadini. Che dite dall’aggregato Z01 per esempio?…Lo spiegherà ai cittadini “Scuole in Chiaro”?). Ma la rendicontazione sociale è altro: l’interfaccia dell’autonomia e della sussidiarietà, nel rapporto con la comunità locale, della verificata congruenza tra l’offerta formativa e la domanda… Anche in tal caso il medesimo “scarto” nella filosofia amministrativa. La tenuta sistemica e le preoccupazioni di comparabilità, in un sistema che vede operare una pluralità di produttori autonomi, richiede che siano rigorosamente definite le informazioni essenziali che non possono non esserci; valorizzando, e rendendo semmai oggetto di valutazione “esterna”, proprio le espressioni autonome che, rispettando ciò che non può non essere detto, sviluppino invece fino in fondo la specificità della propria identità.



Signora mia, non c’è più la scuola di una volta: la ragione astuta del sociologo illustre (…e famiglia)

di Franco De Anna

C’è una intuizione di fondo nelle argomentazioni utilizzate da Luca Ricolfi in una intervista rilasciata al Giornale sul libro da lui scritto insieme alla prof.ssa Paola Mastrocola (consorte).
Nella sua formulazione “la scuola progressista” (quella del “tutti a scuola” … quella “promozionale” donmilaniana) è generatrice e di disuguaglianza sociale e di deterioramento culturale generale.

Sollecitato dall’intervistatore enumera tutti di diversi tentativi di riforma scolastica, a partire dalla Media Unica con la scomparsa del Latino, come fonte del progressivo degrado
Si tratta di affermazioni, sgradevoli per alcuni, ma che contengono una base di verità.
Non scoperta da Ricolfi certamente, ma ben prima e da un molto autorevole protagonista.

Ricordo un episodio primi anni ’70 (cruciali nella analisi “scientifica” di Ricolfi)
Parlavo di scuola con un operaio siderurgico (allora facevo un altro mestiere), ed egli con anticipato acume rocolfmastrocoliano, battendo con forza il dorso di una mano sul palmo dell’altra, quasi a voler rappresentare fisicamente il concetto, mi diceva (mi scuso per il suo dialetto lombardo…) “pu sè slarga, pu sè sbasa” (più si allarga, più si abbassa).
Intendeva dire (aveva fatto la vecchia scuola) che secondo lui vi era il rischio, con la scuola di massa, che accadesse ciò che accade su una incudine battendo il martello su un pezzo di ferro incandescente.
Sotto le martellate si allarga certo il perimetro del pezzo. Ma se ne abbassa lo spessore.

Insomma, Ricolfi ha copiato il concetto.
Allora, per completare il ricordo di quella discussione di scuola con e tra operai metalmeccanici (i chimici, si sa, erano più “raffinati”), potrei ripetere a Ricolfi ciò che dissi a loro.
Che avevano assolutamente ragione: il problema era non pensare sempre allo stesso “pezzo” che per allargarlo bisogna abbassarlo…e non pensare sempre allo stesso mezzo (incudine e martello).

Una “vera riforma” avrebbe dovuto cambiare sia “mettendoci più materiale” sia cambiando gli attrezzi.
La parte che Ricolfi tace è invece proprio questa: gli effetti che lui descrive sono dovuti al fatto che si siano voluti dare compiti e significati di crescita, promozione, emancipazione sociale, mantenendo in sostanza la struttura e lo strumento e il contenitore, semplicemente “forzandone” l’ingresso, l’uso e il perimetro, non con “riforme strutturali” ma con “manutenzione” più o meno adeguata (responsabilità anche di parte della cultura progressista).
Naturalmente all’occhio “sociologico” ricolfmastrocoliano, è di scarsa rilevanza che il “compagno” siderurgico che affermava la sua stessa osservazione (…pu sè slarga….) abbia acquisito anche “la terza media” approfittando di una delle poche ipotesi di (potenziale) innovazione strutturale come le 150 ore.