La libera espressione

di Giancarlo Cavinato

Il concetto di ‘libera espressione’ ha avuto varie interpretazioni nella pedagogia attiva a seconda dei diversi autori, Steiner, Bettelheim, Rogers, Neill, Korczak, le teorie della creatività (Guilford), Munari…

Il Movimento di cooperazione educativa ha introdotto le pratiche di liberazione attraverso le proposte di Rodari e le esperienze dei suoi maestri e maestre, Mario Lodi, Nora Giacobini, Idana Pescioli, Aldo Pettini fra i tanti.
Negli anni 70 l’incontro con Franco Passatore e il Teatro Gioco Vita con le proposte di animazione teatrale (il teatro dei ragazzi)  ha dato origine a una varietà di esperienze confluite poi nella proposta ‘a scuola con il corpo’.

Nell’accezione di Freinet, la libera espressione corrisponde a un progetto di interezza degli individui, che non va interrotta nel percorso scolastico settorializzando le diverse aree della personalità infantile. .
Per Freinet il bambino  non è un soggetto passivo, ma neppure una creta  modellata per intervento dell’ adulto: sin dalla nascita è dotato di un potenziale di vita. Freinet usa, per esemplificare il bisogno di  potenza, la metafora del torrente che scende impetuosamente verso la pianura.

‘Dobbiamo convincerci del fatto che il bambino non è affatto una terra vergine che attende le sue maestranze, ma un complesso di una vita ricca e tumultuosa, un torrente che non è che alla sua origine, ma che reca in sé tutte le promesse del suo avvenire.’( C. Freinet, Les bases psychologiques des Techniques Freinet, Techniques de vie, ottobre 1959)
Le conoscenze per Freinet  possono essere acquisite seguendo lo stesso processo naturale che permette al bambino di imparare a camminare, a parlare, a svolgere le fondamentali attività funzionali.  Il processo naturale si regge sullo slancio vitale che fa sì che il  bambino sia curioso, ricercatore e sperimentatore, procedendo per tâtonnement. Ogni essere vivente è animato da un bisogno di crescere, di progredire.

Per non ostacolare la maturazione della personalità del bambino, bisogna consentirgli di esprimersi in libertà e manifestarsi all’insegnante così com’è, affinché egli possa, conoscendolo, guidarlo a realizzare il suo progetto di vita. E’ una pedagogia vitalista, nel quadro di ‘un’ottimistica fiducia nella vita’ (C. Freinet, ‘Le invarianti’)
Il bambino arriva a scuola con un suo bagaglio di esperienze, con un suo patrimonio di conoscenze e con una sua personalità. Il maestro non deve distribuire un cibo per il quale l’alunno non ha appetito e che digerirà molto difficilmente (‘non si deve far bere il cavallo che non ha sete…cambiate l’acqua’) , ma deve far leva sulle conoscenze presenti in nuce nei suoi alunni e organizzare il contesto così che esse emergano, vengano poste a confronto, si incontrino con buone proposte stimolanti. Rodari proponeva una pedagogia dello stimolo in luogo di un insegnamento basato su modelli.

Il primo passo è quello di creare le condizioni psicologico-​ambientali per  motivare a partecipare attivamente. Nel MCE si coglie tale suggerimento attraverso la pratica della pedagogia dell’ascolto.
Bisogna lasciar parlare i bambini liberamente, ascoltando attentamente quel che hanno da dire, e cercare di cogliere il motivo intorno al quale si polarizza l’interesse della maggior parte di essi.
La valorizzazione degli interessi reali del bambino, la soddisfazione dei suoi bisogni di creazione, di espressione e di attività costituiscono l’impianto  della pedagogia freinetiana. L’espressione, spiega Freinet, presenta due dimensioni: una di esternazione di vissuti, l’altra di comprensione del mondo circostante. Nel corso della sua vita e, in particolare, durante l’infanzia, l’individuo riceve una quantità di aggressioni dal mondo esterno e ciò turba il suo mondo interiore. Ciascun bambino, pertanto, tende spontaneamente ad esprimersi poiché ha bisogno di ripercuotere all’esterno di sé quel che si porta dentro, quel che lo angoscia.

La seconda dimensione dell’espressione si esercita molto presto nella vita. La funzione della comprensione si manifesta, a livello dei bambini, in una costante formulazione di ipotesi scientifiche, linguistiche, matematiche, filosofiche, come hanno dimostrato i lavori dei gruppi MCE infanzia e educazione e psicanalisi.  La rivoluzione freinetiana consiste proprio nel fare di queste ipotesi ‘fantastiche’ l’origine  del sapere dell’individuo, così da  mettere il bambino, la sua cultura,  al centro dell’azione educativa.

Un’altra dominante della pedagogia freinetiana è la comunicazione che moltiplica i vantaggi dell’espressione. Comunicare con l’altro obbliga a organizzare il proprio pensiero in modo che l’altro lo possa comprendere. Permette, inoltre, di conoscere l’altro, di accordagli il diritto di esistere nella diversità, aumentando così la possibilità di una comprensione reciproca.

Il desiderio di raccontare e di raccontarsi si realizza attraverso il testo libero, espressione profonda e spontanea del bambino. Tale tecnica libera il pensiero del bambino, facilita la sua creatività, produce una varietà di testi, diari, poesie, articoli, narrazioni.
Nel testo libero il bambino si esprime; e per esprimersi utilizza la memoria e l’immaginazione. Tale strumento  utilizza le esperienze passate integrandole  nel presente e stimolando la capacità di ipotizzarne delle nuove, cioè  la capacità di progettazione del futuro, oggi quanto mai necessaria alla luce delle nuove emergenze. Il testo libero nasce da  un interesse vivo, sostituisce il tema tradizionale in cui l’alunno è costretto a svolgere un enunciato scelto dall’insegnante (Rodari ipostatizzerà tale pratica nella sua filastrocca ‘Tema; la mia mucca’).
Tuttavia, il bambino scrive spontaneamente solo se ha qualcosa da dire. Il testo libero deve essere, pertanto, veramente libero: il bambino scriverà soltanto quando avvertirà il bisogno di esprimersi. Paul Le Bohec, maestro collaboratore e prosecutore del lavoro di Freinet, attivo diffusore del metodo naturale di apprendimento, scriverà al riguardo il suo ‘Le texte libre… libre’).

Freinet avverte di non confondere il testo libero con la composizione a soggetto libero; quest’ultima si ha, infatti, quando l’insegnante impone ai suoi alunni di scrivere in classe qualcosa a piacere, in un determinato momento prefissato. Il testo libero deve rispecchiare il mondo e la personalità del bambino, non può essere legato a nessuno svolgimento programmatico: deve riflettersi in esso la vita reale del ragazzo con la sua varietà di stimoli e di interessi.
Le Bohec racconta uno dei primi testi emersi nella sua classe e che il maestro trascrive su un cartellone perché tutti possano ritrovarlo, confrontare con le proprie esperienze.
Una bambina racconta che giocando con la sua bambola, mentre le cambiava il golfino, le è rimasta in mano la testa. E che alla sera, mentre la mamma, per spogliarla e metterla a letto, le stava togliendo il maglione, lei l’ha fermata dicendo: -No, mamma, faccio da sola.-
Mentre nella scuola tradizionale la composizione é destinata solo alla correzione del maestro e, rimanendo un lavoro strettamente scolastico, non può diventare un mezzo di comunicazione, nelle classi Freinet si trascrivono in una prima fase e poi si stampano i testi liberi prodotti  dai ragazzi  realizzando così il giornalino scolastico, valorizzando i testi letti e stampati e facendoli apprezzare dai compagni, dai genitori, dai corrispondenti. La composizione diviene, così, un mezzo di autentica espressione del pensiero di ciascun allievo;  chi scrive lo fa per essere letto ed avere risposte, così come chi parla lo fa per essere ascoltato ed avere riscontri.

Il testo libero rappresenta  un momento espressivo individuale, ma la sua destinazione è sociale: il bambino parla o scrive per comunicare ad altri il suo pensiero. Il momento individuale dà avvio a una socializzazione e a un pensiero riflessivo (diceva Le Bohec che solo scrivendo ci si apre al pensiero). Il bambino si apre a una nuova dimensione, quella dell’organizzazione del pensiero nello schema logico del discorso, dell’espressione, ossia la dimensione sociale.
Ciascun bambino scrive per far giungere il proprio pensiero a qualcun altro; si impegna per gli altri (lettori) e assieme agli altri (compagni). È il giornale scolastico, accanto al libro di vita della classe, che motiva la composizione libera e che la rende uno strumento di stimolo alla scrittura.
‘I bambini hanno bisogno del vostro sguardo, della vostra voce, del vostro pensiero. Essi hanno bisogno di parlare a qualcuno che li ascolti, di scrivere a qualcuno che li legga e li capisca, di produrre qualcosa di utile e di bello che è l’espressione di tutto quello che di generoso e di superiore portano in se stessi.’ (C. Freinet, ‘I detti di Matteo’)
Per trovare il proprio equilibrio l’individuo sente il necessario bisogno di “ripercuotere” all’esterno ciò che lo ha colpito interiormente. Lo si può fare con la parola e con la scrittura, ma anche con il disegno, il canto, l’espressione corporea, la musica, il teatro. Svolgendo tali attività il bambino acquisisce fiducia in sé e migliora le proprie capacità intellettuali e morali. ‘La scuola riparatrice dei destini’ è il testo in cui Le Bohec rilegge le proprie pratiche liberatorie e che in Italia è stato tradotto con il titolo ‘Quando la scuola ti salva’ (ed. Junior).
Elise Freinet si è dedicata in particolare all’’art enfantin’ esplorando una pluralità di tecniche e pubblicando in varie riviste le produzioni delle classi.
Il disegno, una delle manifestazioni dello slancio vitale presente in ciascuno, è una delle migliori risorse di cui il bambino dispone per esprimersi. Il disegno, però, deve nascere spontaneamente. Ciascun allievo disegna soltanto quando lo desidera. Non è necessario che il bambino sappia disegnare bene. Così come non conta saper scrivere bene, ma saper scrivere di cose vere, profonde, che toccano il cuore, che frenano l’impulso alla reazione immediata per una elaborazione differita, più pacata.  L’obiettivo finale non deve essere l’immagine corretta, ma la concretizzazione chiara e coerente di un’idea infantile.

Molti ritengono che il bambino non può disegnare, realizzare un’opera personale solo nel momento in cui conoscerà le regole della rappresentazione e della prospettiva. E lui si convince a tal punto del fatto che non è in grado di produrre niente di valido da inibire  il suo gusto naturale per il disegno. Esiste, certo, un metodo di insegnamento tradizionale, basato su alcune regole che ogni disegnatore dovrebbe conoscere. Effettivamente, quando gli alunni hanno appreso tali regole, sono in grado di rappresentare gli oggetti conformemente alle leggi loro insegnate, ma i disegni sono privi di senso e di personalità; non sono l’ espressione intima della vita.
Attraverso la creazione libera, invece, il bambino si dirige verso una comprensione personale e profonda della natura, a cui non potrebbe pervenire  se la natura gli viene presentata come un modello da copiare.
Lasciamo disegnare il bambino; lasciamo che commenti i suoi disegni, lasciamo che parli. Del resto, «se non ascoltassimo il bambino, cosa sapremmo di lui? » (Elise Freinet).

Le Bohec ha centrato il suo insegnamento sulle ‘creazioni’ che descrive per quanto riguarda l’espressione grafica ne ‘I disegni di Patrick’, ma anche nell’ambito delle creazioni matematiche (cfr. ‘Il metodo naturale di matematica’ nella collana on line RicercAzione MCE) , linguistiche, musicali, plastiche, coreografiche….
A volte una conoscenza o un’introduzione superficiale della libera espressione ha fatto sì che la pedagogia Freinet e del MCE venisse additata come spontaneista, poco scientifica, in qualche modo retaggio di una visione ‘romantica’ del bambino.
In realtà, è frutto di decenni di studi, approfondimenti, esperienze che nulla hanno di spontaneistico e che lasciano negli alunni tracce profonde che li accompagneranno nella vita.
(parte delle considerazioni sul testo libero sono  ricavate dall’articolo di Gemma Errico in ‘Dialegesthai’ che si ringrazia)




I diritti dell’infanzia

di Giancarlo Cavinato                              

Nella pedagogia Freinet ampio spazio è dedicato alla tutela e alla piena realizzazione dei diritti dell’infanzia previsti dalla Convenzione ONU del 1989 .
Un congresso dell’ICEM, il movimento di scuola moderna francese, del 1983, si intitolava ‘Noi lavoriamo perché viva l’infanzia’. Nel 1986 il collettivo educazione alla pace del MCE ha organizzato a San Marino un convegno internazionale ‘Educazione pace cambiamento’ patrocinato dall’Unesco in cui ampio spazio era dedicato al tema dei diritti.

Nel 1982 la Ridef, l’incontro internazionale organizzato dalla Federazione dei movimenti di scuola moderna  (FIMEM), era dedicato ai temi dello sradicamento urbano e in particolare delle condizioni di vita nelle città tema ripreso alla Ridef del 2014 a Reggio Emilia che, su ispirazione del progetto internazionale ‘Città delle bambine e dei bambini’ coordinato da Francesco Tonucci, aveva come tema ‘Sguardi che cambiano il mondo- vivere nelle città delle bambine e dei bambini’.

In tale occasione è stato prodotto, a cura della Fimem, il libro ‘Non dobbiamo tacere- diritti negati, diritti riconosciuti, diritti conquistati’ dedicato ‘a tutti i bambini che soffrono su questa terra’, con documentazioni di situazioni di oppressione e possibilità di soluzioni positive da scuole e gruppi di educatori di tutto il mondo. L’assunto di base è che ‘i bambini del mondo sono bambini di tutti’ Attualmente il testo è disponibile nella collana on line ‘RicercAzione’ del MCE (www.mce-fimem.it).

Ma già alle origini il movimento Freinet ha assunto tale preoccupazione come fondamentale.
In uno dei suoi momenti fondativi, il Congresso I.C.E.M. ( Istituto cooperativo di scuola moderna) di Nantes,  nel 1957, nasce la F.I.M.E.M.
In tale incontro, che ha visto la partecipazione di insegnanti di diversi paesi assieme a pediatri, architetti, psicologi, è stata scritta una  ‘CARTA DEL BAMBINO’, che verrà proposta all’Unesco e che, assieme all’opera di Eglantine Webb, fondatrice di Save the children, e di Janusz Korczak, costituirà la base per i testi internazionali sui diritti dell’infanzia.

La carta  è stata  votata all’unanimità richiamandosi nella presentazione alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU.
Nel corso del congresso ebbe luogo un vivace dibattito per 4 giorni di seguito sul tema della disciplina e delle punizioni ( art.. 12 e 13) con la partecipazione di insegnanti e medici.

Nei 20 punti della mozione n. 1, annessa alla ‘carta’, si trovano le seguenti proposte:
– creazione in ogni città della ‘casa del bambino’
– limite massimo di 6 classi negli edifici scolastici
– limite massimo a 25 degli alunni per classe

Ecco una sintesi delle proposte della Carta:

art. 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Tutti sono dotati di intelligenza e ragione e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di aiuto e di fraternità

art. 2
Ogni bambino ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della sua persona.

art. 3
Nessun bambino sarà tenuto in schiavitù o in servitù.

art. 4
Nessun bambino sarà sottoposto a punizioni o a trattamenti inumani o degradanti

art. 5
Tutti gli individui sono uguali davanti alla legge e hanno diritto a uguale protezione da parte della legge.

art. 6
I bambini non sono né degli schiavi né dei servitori degli adulti. Neppure gli adulti sono schiavi dei bambini. La società deve pervenire a un equilibrio umano ed equo tra gli uni e gli altri.

art. 7
Se l’attività dei bambini non deve contrastare né disturbare l’attività degli adulti, essa non ha per questo meno diritto ad avere, nella vita dei popoli, il posto eminente che le riservano la sua importanza e il suo destino.

art. 8
I bambini hanno diritto nella loro FAMIGLIA, così come gli adulti:
– ad un alloggio dignitoso
– ad un’alimentazione sufficiente
– alla possibilità di attività, di lavoro e di gioco, proporzionate alla loro età

art. 9

I bambini hanno diritto, nella SOCIETA’:
– a spazi liberi dove possano dedicarsi alle attività essenziali per il loro sviluppo e il loro equilibrio: giardini, campi, boschi, fiumi, animali, casa dei bambini, parchi per l’esperienza e il lavoro, alla protezione basilare contro il frastuono, il macchinismo, gli individui pericolosi, contro i pericoli costituiti dal cinema, dalla stampa e dalla radio
– all’attenzione e all’azione educativa degli individui e delle organizzazione preposti a tale scopo

art. 10
I bambini hanno diritto, nella SCUOLA  e nei diversi CENTRI EDUCATIVI:
– al rispetto e all’umanità che vanno garantiti a ogni essere umano
– a locali convenienti, adeguati al lavoro e alle attività necessarie a una buona educazione e a una formazione efficiente
– a delle condizioni umane di lavoro senz’altra coercizione che i bisogni della comunità

art. 11
Il lavoro imposto ai bambini non potrebbe, in ogni caso, eccedere i limiti legalmente consentiti per gli adulti: 30 ore settimanali per i bambini, 40 ore per gli adolescenti

art. 12
La sola disciplina auspicabile è una disciplina di gruppo che non può che essere cooperativa. Ogni disciplina autoritaria fondata sulla forza oppressiva e sulle sanzioni che ne costituiscono l’arma e lo strumento, è un errore e una cattiva azione, che l’educatore deve evitare di impiegare

art. 13
Nei casi gravi, le sanzioni non dovranno essere somministrate che con estrema cautela, tenendo conto delle circostanze attenuanti e della preoccupazione non tanto di castigare, quanto di aiutare a raddrizzare e a progredire  proficuamente

art. 14
Nessuno ha diritto a imporre a bambini e ad adolescenti, prima della loro piena maturità, idee e credenze che non siano il risultato della loro personale esperienza o di una libera scelta a intervenire e a costituirsi forme di giudizio sugli eventi.
Lo sfruttamento morale dei bambini è proibito, così come il loro sfruttamento materiale.

art. 15
I bambini hanno diritto ad organizzarsi democraticamente, per il rispetto dei loro diritti e per la difesa dei loro interessi.

art. 16
Gli organismi legali a ciò preposti sorveglieranno nei diversi paesi sul rispetto della lettera della presente Carta, che dovrà essere affissa nelle scuole, nei municipi e in tutti i luoghi di vita pubblica.

Gran parte di tali indicazioni, come d’altra parte delle prescrizioni della Convenzione del 1989 , sono in diversi paesi ben lungi dall’essere rispettate e anche nei paesi ‘occidentali’ le applicazioni lasciano a desiderare. C’è ancora molta strada da percorrere se consideriamo la povertà materiale ed educativa, le discriminazioni, le sofferenze di molta parte dell’infanzia, come pure le molteplici forme di iperprotezionismo che limitano lo sviluppo di un’autonomia e di una piena cittadinanza attiva.
Noi sosteniamo che i diritti o sono universali o sono privilegi, e che, in quanto diritti, costituiscono principi universali astratti, ancora molto diversi nella loro effettività nei diversi contesti e situazioni di vita.

 




Messa a punto collettiva dei testi

L’apprendimento della lingua scritta darà luogo a un’acquisizione salda e organica a patto che scaturisca veramente da un processo di vita. L’artificio, il vuoto meccanismo, non possono dare che un precario addestramento, che si mantiene soltanto fino a che son presenti certi stimoli deteriori e non educativamente validi’   [1]

La considerazione dell’errore come tentativo provvisorio e non come dato immodificabile predittivo  di insuccesso è centrale in una pedagogia democratica e che si ponga l’obiettivo di non mortificare e demotivare gli alunni e di valorizzarne le espressioni.

C’è tutto un lungo lavorio che porta da una stesura di testi come trasposizione immediata di un parlato a un parlato ‘pronto per essere scritto’[2]

E’ un lavorio che attraversa fasi diverse e si avvale dell’apporto dell’insegnante che funge da stimolo e rispecchiamento e non da censore, ma ancor più dell’apporto e dei suggerimenti dei compagni che cercano, in quanto comunità linguistica, le soluzioni più adeguate. Il testo viene così rimaneggiato più volte fino ad assumere una formulazione ritenuta soddisfacente. Andrà così inserito nel libro di storie della classe o nel giornalino. Non rimarrà chiuso in un quaderno.

L’insegnante bada allo sbaglio di ortografia o di grammatica: la sua valutazione ha per oggetto quasi esclusivamente la correttezza formale del testo. In questa prassi la ricchezza e la originalità del pensiero non vengono prese in considerazione che a parità di correttezza ortografica. Ma quale ricchezza, quale originalità potrà venir fuori in una situazione educativa i n cui non si bada che alla forma? [3]

Nell’esempio riportato sopra, ‘Carla  che ha scritto la storia e la consegna alla maestra ha molte aspettative, non certo quella di consegnarla a… un correttore di bozze o a un commissario d’esame. […] E’ all’inizio della seconda, la storia l’ha scritta in stampato con un grosso pennarello nero su due fogli A4 in orizzontale, andando a capo quando finiva il foglio. Ha usato per scriverla un tempo del suo piano individuale di lavoro.  Carla non ha nessuna delle preoccupazioni della maestra riguardo alla correttezza, è tutta presa dalla sua storia… [4]

Una volta comunicato il suo pensiero, la sua ‘gelosia’ per il fratellino  che rimane a casa con la mamma, e il sogno che possa venire a scuola con lei, può entrare in azione la squadra di ‘correttori’ di bozze: si discute, si toglie, si aggiunge, si chiede a lei di spiegare, si cancella, si amplia. Si valutano varie proposte (la Lim si presta meglio della lavagna tradizionale).

E’ un’attività impegnativa di ricerca di funzionalità e comunicatività delle scritture  che si alterna a momenti di scrittura collettiva, incluso l’autodettato collettivo a seguito di esperienze della classe.

La conquista della correttezza e della competenza avverranno gradualmente grazie al lavoro paziente del gruppo che, guidato dall’adulto, esplorerà le vie per rendere la comunicazione più efficace.[…]E’ la motivazione di fondo che muta, in questo tipo di revisione del testo, rispetto alla semplice “correzione” dell’insegnante sul testo di un alunno che si è espresso secondo un modello linguistico lontano da quello dell’adulto. La motivazione cambia dal di dentro e profondamente il significato delle nostre azioni[5]

‘I ragazzi generalmente partecipano con entusiasmo a questa  operazione, dato che il testo eletto è diventato un po’ di tutti loro. Una tale partecipazione emotiva non vi sarebbe se il testo non fosse stato scelto dai ragazzi. Il maestro trascrive alla lavagna  il testo in esame, proposizione per proposizione. I ragazzi sono invitati a individuare gli errori […] l’insegnante dà la parola a un ragazzo, il quale si reca alla lavagna e corregge l’errore; tutti gli altri sono invitati a dire se la correzione è giusta o no. Ed è qui che vien fuori la grammatica vivente, la quale sorge dalle difficoltà della lingua viva e non da fredde e meccaniche lezioni. […]L’importante è che i ragazzi prendano da sé coscienza dell’errore; non è mai auspicabile che il maestro corregga direttamente.[6] 

Scriveva Freinet: ‘Abbiamo esposto […] i vantaggi pedagogici della redazione libera e spontanea, motivata dalla stampa, dal giornale scolastico e dagli scambi interscolastici; i vantaggi della scelta da parte dei bambini stessi, della messa a punto in comune, di questa specie di esaltazione e di liberazione psichica che suscitano la presa in considerazione del pensiero del bambino, la trascrizione in caratteri stampati (oggi al PC n.d.a.), l’illustrazione e la sua diffusione.[7]

 

[1] B. Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti,Roma, 1971
[2] L. Lentin, ‘Il bambino e la lingua parlata’, Armando, Roma, 1973
[3] B. Ciari, op. cit., p. 99
[4] B. Campolmi, A. Di Credico, N. Vretenar (a cura di) ‘Chi ben comincia…parlare scrivere leggere a scuola’ Asterios, Trieste, 2020 p. 117
[5] N. Vretenar (a cura di) ‘Dire fare inventare parole e grammatiche in gioco’, Asterios, Trieste, 2020 p. 109 sgg.
[6] B. Ciari, op. cit. , p. 104-105
[7] C. Freinet ‘La scuola moderna’, Loescher, Torino, 1969, p. 112, trad. G. Tamagnini (una nuova traduzione è in corso da parte di E. Bottero per i Quaderni di cooperazione educativa




Per una pedagogia dell’autonomia. Oltre i compiti, un’altra scuola è necessaria

di Giancarlo Cavinato

La situazione della sospensione della scuola nel periodo del lockdown  se da un lato ha visto molti insegnanti impegnati alla ricerca di pratiche possibili a ‘bassa intensità tecnologica’ per promuovere esperienza, gioco mentale, mantenere forme di interazione e ascolto (cfr. il blog senzascuolawordpress.com) , dall’altro ha visto piovere nelle case già sovraccariche di problematiche schede ed esercizi (giungendo perfino  alla ‘raffinata perfidia’ di alcune situazioni in cui sono stati chiesti a insegnanti di inviare i compiti per la settimana pasquale) a seguito di lezioni trasmissive. Coniugazioni di verbi, studio di regioni, frazioni ed equivalenze… tutta una tradizione mnemonica si è riversata su alunni su cui per di più gravava il ‘sospetto’ della soluzione da parte degli adulti. E agli insegnanti l’ingiunzione di una valutazione sommativa standard applicata a una situazione del tutto nuova. Eppure proprio alcune proposte circolate (fare della casa, del nucleo familiare, dello spazio circostante luogo e sede di attività e di ricerche) andavano proprio nella direzione che Freinet ha così chiaramente delineato.

La pedagogia Freinet è una pedagogia dell’emancipazione e in quanto tale prevede precisi dispositivi che evitino assuefazione, saturazione, meccanicismo e, soprattutto, un aumento delle differenziazioni fra alunni e il conformismo (i ‘diligenti’ che svolgono regolarmente i compiti assegnati e i ‘negligenti’ che non stanno al passo). E’ emblematico l’esempio nel film ‘L’école buissonnière’ di Jean-Paul Le Chanois (1949) dell’alunno che non ricorda la data della battaglia di Azincourt ma dimostra un elevato grado di consapevolezza e di conoscenza della lunga marcia per la conquista dei diritti umani,

Freinet cercava di sviluppare nei ragazzi l’autonomia e l’autoorganizzazione attraverso le tecniche  con lo scopo che  il gruppo, attraverso un’organizzazione della classe  cooperativa, sia impegnato  in attività significative, in ricerche intorno a temi di  interesse, in laboratori. Quindi nemmeno a scuola è produttivo assegnare compiti, evitando il triangolo banale “spiegazione/studio – compito/interrogazione –  valutazione”.

Schedari autocorrettivi  e biblioteche di lavoro non sono quindi pensati in funzione di un ‘allenamento’ privo di significato ma di una messa a disposizione di un repertorio di materiali, fonti, ‘buoni modelli’ linguistici e logici per una progressiva consapevolezza di sé, una messa alla prova e un autocontrollo tali da costituire una dotazione di strumenti non chiusi in se stessi ma recuperabili in una serie di attività di ricerca, documentazione, produzione e comprensione, risoluzione di problemi della vita. Ed è la vita che deve entrare, scrive Freinet, nelle classi. Quindi gli impegni che responsabilmente  gli alunni si assumono in relazione a un piano di lavoro definito collegialmente prevedono, sì, delle attività al di fuori della scuola. Ma si rende necessario all’attività della classe- quindi di un gruppo sociale-   reperire attraverso ricerche, interviste, strumenti,  oggetti e dimostrazioni quanto può arricchire e integrare la conoscenza di argomenti su cui si sta lavorando.

Una scuola vera è una scuola dove si apprende a pensare insieme;  se le cose si fanno con piacere, si proseguiranno anche a casa: non c’è separazione netta ( un testo libero, la lettera al corrispondente, una proposta di logo per il blog della classe,…).

E’ la prosecuzione di un percorso di pensiero.

…LA SCUOLA NON PUO’ ESSERE LUOGO DI DISPERSIONE O ATROFIZZAZIONE DEL PENSIERO

Tali attività trovano il loro corrispettivo e complemento  nelle uscite nell’ambiente alla ricerca di altre testimonianze, in un interscambio costante fra scuola e ambiente.

E’ così che si possono sviluppare e affinare attività e modi diversi di apprendere, che vanno tutti ‘allenati’:

  • osservare/ ricercare, fare ipotesi /esplorare/visitare ambienti naturali, strutture produttive, musei, teatri/camminare
  • sviluppare manualità e progettualità/ costruire, inventare
  • narrare storie /collaborare/conoscere il mondo/leggere / buoni testi e lingue diverse
  • classificare insegne, spazi, costruzioni, manifesti pubblicitari, …/fare ordine/organizzare/
  • classificare oggetti, attività umane, seriare/ collezionare /leggere il territorio/
  • osservare il cielo le albe i tramonti/osservare le ombre e i movimenti del sole e le fasi lunari/
  • sperimentare forme e colori /scrivere testi diari poesie/problematizzare
  • osservare cambiamenti temporali e spaziali
  • storia personale storia familiare /storia di scoperte oggetti invenzioni eventi/ raccogliere fonti, testimonianze, intervistare

Per costruire autonomia

Le attività per stimolare la ricerca, l’espressione, la scoperta di regole, non sono “compiti”. revisione di quanto fatto in ottemperanza al piano di lavoro personale e della classe, organizzazione di esposizioni, ‘conferenze’ e, progressivamente, metodo di studio.

Il lavoro individuale

Ovviamente ci vuole anche l’esercizio e l’allenamento per consolidare delle capacità specifiche. In alternanza con la consultazione di schede di controllo è necessario periodicamente rivedere insieme il lavoro, fare una messa a punto collettiva,  perché l’alunno/a, con l’aiuto dei compagni e  dell’adulto, acquisti consapevolezza dei suoi punti di forza e del lavoro che deve ancora fare per raggiungere degli obiettivi di cui ha chiara l’importanza.

Il tempo necessario

non può essere il tempo consumistico dell’esercizio fai e chiudi (il quaderno, la scheda, la verifica)
è necessario un tempo per il pensiero, per il confronto, per il fare, per il dialogo che aiuta gli alunni/e a prendere coscienza dei loro percorsi, dei loro progressi, della strada ancora da fare.

Una scuola dei tempi lunghi

rende superflui  i compiti a casa: il tempo pieno e  le scuole aperte il pomeriggio. con biblioteche aperte e accessibili con orario lungo, in città che offrano occasioni culturali anche ai giovanissimi contro la povertà educativa.
Una scuola dai tempi lunghi che educhi a ricercare personalmente, dopo l’orario, il piacere e il bisogno della lettura, della scrittura, dell’espressione artistica; addirittura a trovare piacere in attività significative legate a percorsi scolastici, nello studio, anche nell’allenamento.

Nel rispetto del diritto al gioco e a spazi vuoti di proposte (cfr. Convenzione ONU)

Non discriminazioni

Non siamo per i compiti “assegnati”, né a scuola, né tantomeno a casa se poi ai ragazzi/e viene inflitta l’umiliazione di vederli ignorati o semplicemente corretti o valutati senza che sia dedicato al loro sforzo il giusto tempo per il confronto e la revisione.
E’ fonte di discriminazione, la pratica di assegnare compiti a casa complessi e uguali per tutti/e che qualcuno svolgerà facilmente e per qualcun altro saranno un ostacolo insormontabile: perché c’è chi è autonomo/a e chi non lo è; chi padroneggia la lingua dei compiti e chi no; chi può contare sull’aiuto di adulti competenti e chi no; chi vive dopo la scuola dentro spazi tempi e relazioni adeguate e chi no.

Quindi

  • Non compiti impossibili, non calibrati  sulle possibilità reali
  • Non compiti che si possano fare solo con aiuto esterno
  • Non compiti che siano oggetto di valutazione
  • Non compiti che uno possa fare agevolmente in 10’ mentre un altro in tempi estenuanti
  • Non compiti basati su memoria e meccanismi

Ridurre le disuguaglianze

“Rimuovere gli ostacoli” è un compito obbligatorio PER L’ADULTO. Assegnare a tutti/e compiti uguali, complessi, da svolgere in solitudine, sapendo che non tutti sono in grado di svolgerli, aumenta le distanze. Fa il contrario di quello che dovrebbe fare.

È una responsabilità gravissima.

 




Linguaggio, significato e comprensione del testo

di Giancarlo Cavinato

Leggendo un testo può capitare di imbattersi in termini come ‘gheriglio’, ‘pistillo’, ‘sgranocchiare’, ‘mariuolo, ‘zuppiera’, di cui il lettore non conosce il significato.
All’età in cui si affronta la pagina scritta non è ancora possibile ricorrere al vocabolario, né la definizione data dall’adulto consente di inquadrare il termine nel testo orale o scritto, e non lascia una traccia sufficiente a riconoscere il significato del termine quando lo si reincontra,
E’ questo uno dei nodi centrali per la costruzione di strategie consapevoli di lettura e per poter comprendere messaggi in profondità.

Una scuola conservatrice affronta il tema del significato in modo coerente alle sue linee generali di organizzazione culturale e funzionale: come struttura rigida trasmette cultura in modo rigido. Per la lingua si privilegia lo scritto sul parlato e per lo scritto si tengono d’occhio modelli, che mal sopportano devianze.
Si crede che la lingua sia formata da una somma di elementi tutti della stessa importanza, dai più semplici ai più complessi, le vocali, le consonanti, le parole, le frasi, le proposizioni, i periodi…si crede anche che l’analisi di questi elementi si possa fare ancora secondo gli schemi del razionalismo di Port-Royal (analisi logica e grammaticale) e che questo tipo di analisi giovi al saper scrivere e al saper parlare. Una scuola conservatrice ha della lingua una concezione statica ove la massima ambizione è scrivere secondo “il modello”. Dal bambino della prima elementare, che mette insieme i “pensierini” e legge sul libro di lettura, al ragazzo della media, che svolge il tema, c’è una continuità didattica e metodologica, che testimonia il peso e il ruolo della tradizione […..]

In una scuola, che considera la lingua come nomenclatura e che crede che il significato sia entro le forme linguistiche, il problema della lettura si risolve abbastanza facilmente. Quando il bambino ha superato il momento strumentale del leggere, che viene visto nella capacità di trasformare dei segni scritti in suoni, la lettura in classe sembra avere un unico obiettivo: superare al più presto e nel modo migliore le difficoltà (sillabazione, rispetto dei segni d’interpunzione, doppie, buona pronuncia di tutti i suoni, intonazione, velocità); la comprensione di ciò che si legge non sembra essere un grosso problema: se si sta attenti, si capisce.

Infatti una scuola, che trasmette il sapere attraverso la parola e che chiede agli alunni di dimostrare di sapere, ripetendo ciò che hanno letto o ascoltato, è una scuola che crede che i significati stiano dentro alle parole e che trasmettere parole voglia dire trasmettere significati.

La comprensione della lettura sembra essere quindi problema di buona volontà e di attenzione, dal momento che i significati sono dentro le parole.

Conquistare il significato

In ‘Pensiero e linguaggio’ Vygotskij [2] affronta in modo originale e con un esame approfondito il tema del significato.
Vygotskij critica quella corrente psicologica, che considera il legame tra parola e significato, come un legame di ordine puramente associativo, formatosi nella coscienza, per il fatto che una certa parola e una certa cosa si sono presentate più volte in coincidenza.

“La parola richiama il suo significato allo stesso modo con cui il soprabito di una persona conosciuta richiama alla memoria la persona stessa.”

La comprensione del linguaggio, secondo questa teoria, consisterebbe in una catena di associazioni, richiamate alla mente da immagini o da parole: “Una volta il soprabito può farci ricordare la persona che lo porta, un’altra volta è l’aspetto della persona che può richiamarci alla memoria il suo soprabito. Conseguentemente la comprensione del linguaggio e l’espressione del pensiero nella parola in nulla si differenziano dal semplice atto di ricordare per associazioni.”

Vygotskji non condivide una visione così semplicistica del rapporto parola-significato e del valore della complessità del significato, e con una serie di serrate argomentazioni, che si richiamano a sperimentazioni legate allo studio dello sviluppo del pensiero e del linguaggio nel bambino, contrappone alla teoria associazionistica la sua tesi[…]:

  • il significato della parola è una generalizzazione
  • il significato della parola si sviluppa.

Nell’affermare che il significato della parola è una generalizzazione, Vygotskji sottolinea la complessità del significato, che è prodotto di una serie di operazioni mentali e non l’espressione di pura associazione.
Il significato della parola “è riflessione generalizzata” della realtà, che realizzandosi nella parola trova in essa il segno necessario alla comunicazione. Il significato della parola è, per Vygotskji, l’unità in cui si sostanzia il pensiero verbale, esso è infatti, egli dice, tanto pensiero che linguaggio.
La comunicazione (e la comprensione) è possibile quando il pensiero riesce ad operare sulla realtà con generalizzazioni successive che si traducono in simboli(le parole). Per cui ogni parola non si riferisce ad un singolo oggetto, ma ad un gruppo o a una classe di oggetti.

Poiché il significato è prodotto di un’operazione del pensiero e non di una giustapposizione associativa, esso non è un dato, ma un processo dinamico. C’è una conquista lenta e continua dei significati da parte del bambino, proprio perché si tratta di conquistare delle generalizzazioni sempre più astratte, e quindi trasferibili.
Che il significato sia una conquista continua e non sia dato una volta per tutte, lo dimostra la diversità di competenza, che si riscontra nel bambino dell’elementare e nel ragazzo della media, tra aspetto semantico e fonetico del linguaggio (Piaget, ad esempio, ha dimostrato come il bambino possa usare nel suo linguaggio i “perché” e i “sebbene” dell’adulto, ma dando ad essi significati diversi da quelli dati dall’adulto)[3]

Anche Bruner sul rapporto tra competenza sintattica e semantica scrive: “Ciò che è impressionante rispetto al linguaggio come una delle espressioni specializzate dell’attività simbolica, è che uno dei suoi aspetti, la sfera sintattica. raggiunge molto rapidamente la maturità. La maturità sintattica di un bambino di cinque anni sembra priva di connessione con la sua abilità nelle altre sfere. Egli può disporre di parole e di enunciati, utilizzando regole molto astratte; ma non può, in modo corrispondente, organizzare le cose che le parole e gli enunciati rappresentano. Questa asimmetria si riflette nelle attività semantiche del fanciullo, dove la sua conoscenza dei sensi delle parole e le implicazioni empiriche dei suoi enunciati restano infantili per molti anni, anche dopo che la sintassi si è pienamente sviluppata.”[4]

Nella conquista del significato il bambino passa dalla giustapposizione nome-oggetto (ad es. “gatto”, sentito come il mio gatto Fufi e non altri) al considerare “gatto” come rappresentante di una classe ( il “gatto” come uno fra tutti i gatti possibili, bianchi, neri, grandi e piccoli), per salire infine al rapporto di inclusione cioè al sistema (gatto-felino; felino-animale).

La seconda affermazione di Vygotskji relativa allo sviluppo dei significati è già insita nella prima.
Se il significato è una generalizzazione e se esso è l’unità in cui si sostanzia il pensiero verbale, conseguentemente esso è processo dinamico.
Questo ha una grossa conseguenza sul piano metodologico-didattico.
Nella scuola dell’obbligo, ove il bambino e il ragazzo stanno maturando la cultura di base, considerare i significati delle parole come processi in evoluzione, vuol dire cambiare, nei confronti dell’alunno, l’atteggiamento dell’insegnante.

Se i significati sono strettamente legati alle conquiste del bambino, al grado di sviluppo del suo pensiero verbale nel rapporto con la realtà, compito dell’insegnante è quello di aiutare tutti a conquistare significati sempre più astratti, più generalizzabili.

La scuola tradizionale, che ha alle spalle una teoria associazionistica, considera i significati come dati una volta per tutte; dell’esattezza dei significati è garante l’insegnante. Si instaura così, ancora una volta, una situazione di subordinazione culturale e di dipendenza. Il maestro è il solo arbitro che decide del significato, basta chiederlo a lui e ricordarsi che cosa ha detto. Non c’è stimolazione dello sforzo del bambino a cercare il significato, a provarlo in situazioni di confronto e quindi di verifica.

“Il brano letto vuol dire questo e non altro, chi ha capito in modo diverso ha sbagliato.”

Però non si dà al bambino la possibilità di provare, di dimostrare, di difendere l’errore perché ciò sarebbe una perdita di tempo, dal momento che l’insegnante stabilisce dove comincia e dove finisce l’errore. Quando il bambino chiede il significato di una parola sconosciuta, gli si spiega cosa vuol dire o lo si rimanda al vocabolario, se è più grande: gli si danno ancora parole per spiegare parole.

Si toglie la condizione prima dell’apprendimento del linguaggio: quella della prova, dell’uso, quella che ha permesso a tutti di imparare in modo attivo, sperimentale, impegnato, la lingua materna, prima di venire a scuola.

Significato e lettura

Se ora guardiamo alla lettura, tenendo presente quanto abbiamo detto sul significato, essa acquista un valore ben diverso da quello che solitamente le si attribuisce. Leggere, scoprendo i significati che il messaggio trasmette, è un’operazione complessa, che va ben al di là della capacità strumentale di decifrare dei segni.

Nell’arco dell’obbligo la lettura può diventare momento fondamentale dell’apprendimento della lingua, se si pensa che da sei a quattordici anni le operazioni mentali di classificazione, di analisi e di sintesi hanno la possibilità di esercitarsi su “oggetti” molto diversi per quantità e qualità, “oggetti” verbali e scritti, semplici e complessi, con cui viene a misurarsi la “cultura” di ogni ragazzo, con tutto ciò che essa ha alle spalle e con tutto quanto viene via via acquistando.

Riprendiamo quanto abbiamo detto sul significato.

  • il significato della parola è una generalizzazione;
  • il significato della parola si sviluppa;

e aggiungiamo quanto dice De Mauro[5]:

“Le forme linguistiche non hanno un’intrinseca virtù semantica: isolate dal parlante che le adopera, esse non hanno capacità di garantire la trasmissione di un significato univoco: acquistano tale capacità soltanto in relazione a chi le usa.”

Un uso tuttavia che non è senza vincoli perché “il significato di una parola non  dipende dall’uso di un individuo uti singulus, ma dall’uso di un individuo in quanto inserito in una certa comunità storica e quindi da ciò obbligato (anche se maleducato) a evitare ogni arbitrio individuale nell’attribuire un significato ad una parola.”
Da scienza del significato, dice De Mauro, la semantica passa ad essere scienza del significare.
“L’uomo è il solo responsabile del suo parlare, del quale egli solo foggia, corregge trasforma forme e valori. il suo parlare è uno dei modi di intervenire nel mondo, ordinando secondo valori collegati a forme nate collettivamente, l’esperienza che egli ne ha: forme e valori che egli stesso ha creato, e la cui unione egli solo, solidale con  i suoi simili e con  se stesso, può e sa garantire. l’esperienza semantica riposa dunque sulla possibilità d’azione dell’uomo.”

Abbiamo quindi ricavato linee indicative su cui impostare il lavoro:

  • la lettura è un’operazione attiva, che coinvolge il bambino con tutto il suo vissuto, sia essa lettura della lingua scritta o lettura delle parole dell’insegnante o dei compagni di classe;
  • imparare a leggere (nel senso di leggere per capire) è un’operazione difficile, che richiede tempi e tecniche adeguati; non è certo operazione automatica (nel senso che basti stare attenti per capire);
  • significanti uguali, cioè “parole” uguali, non hanno per tutti gli stessi significati, né li hanno per il singolo bambino in tempi e in situazioni diverse;
  • quando si leggono la lingua scritta o la parola degli altri, i segni scritti o verbali riattivano in noi le tracce del nostro vissuto e ci offrono interpretazioni che, al limite, sono solo nostre (“La comprensione di un testo sta nell’uso delle connessioni precedentemente acquisite. Nel processo di comprensione si ha l’attualizzazione delle connessioni formate in precedenza e l’inclusione di nuove connessioni nel sistema già formato”[6])
  • il confronto delle varie “letture”, la messa in discussione dei significati trovati, permettono di uscire dal proprio vissuto e di socializzare la conoscenza;
  • la possibilità di un confronto finalizzato alla ricerca dei significati può essere garantita da un’organizzazione della classe, profondamente diversa da quella tradizionale, che si realizza attraverso tre elementi:
  • gli strumenti (schede e materiali pensati per creare in classe occasioni di uso motivato e verificabile della lingua e quindi di riflessione su di essa e su coloro che la usano)
  • il ruolo dell’insegnante
  • il lavoro di gruppo

Il nostro cervello sembra avere fondamentalmente due grosse attività: una riproduttrice e una combinatoria.
I fatti, gli oggetti, le persone, i sentimenti lasciano tracce sulla nostra sostanza nervosa, che registra in tal modo la realtà. Noi possiamo così conservare le esperienze anteriori e facilitare il loro reiterarsi.
Tuttavia senza la seconda attività, la combinatoria, saremmo capaci di adattarci soltanto a situazioni usuali e stabili; non saremmo capaci di affrontare il nuovo, l’inatteso, saremmo esseri rivolti solo al passato.
L’attività combinatoria permette di collegare le tracce fra di loro in un modo anche diverso da come si presentarono nel passato, permette di rielaborare creativamente tracce vecchie e tracce nuove, formando e rappresentando nuove situazioni. [7]

Quando leggiamo, e tentiamo di capire un testo, i segni della pagina scritta richiamano e attualizzano le vecchie tracce in un processo che è complesso e articolato, legato com’è ai modi e ai tempi e alle situazioni in cui le tracce si formarono, al funzionamento della memoria a lungo o a breve termine, alla partecipazione del lettore al fatto lettura, ai “disturbi” che sorgono fra lui e il testo, ecc.

Le vecchie e le nuove tracce si combinano dando vita a nuove connessioni, in un sistema in cui trovano equilibrio dinamico tracce vecchie e nuove, pronte a ristrutturarsi e ricombinarsi sotto la spinta di nuove stimolazioni, di obiettivi da raggiungere, soprattutto all’uso, che il soggetto ha deciso di fare del materiale, che viene ad avere via via a disposizione.
Dando la possibilità ai bambini di leggere per comprendere in base a quanto proposto tramite i tre elementi suddetti, si rispetta combinatoria e quindi la creatività nella lettura.
Una creatività che aiuta nel modo più naturale la crescita conoscitiva che avviene per continue ristrutturazioni del già posseduto con il nuovo e non già per semplice aggiunta quantitativa.
Una creatività che, pur lasciando tutto lo spazio al singolo, lo immette subito al confronto con gli altri, alla ricerca del significato, che, essendo unità delle  due funzioni del linguaggio, quella intellettuale e quella comunicativa, non può non fare i conti con le esigenze della lingua, come sistema entro il quale il singolo si muove.

Un momento particolare: la classe prima

Un discorso sulla lettura deve coinvolgere la classe prima, il momento cioé in cui il bambino affronta in modo sistematico i segni della lingua scritta così come la scuola glieli propone. La classe prima non può essere saltata in un discorso sulla lettura, perché il modo, la strada che si percorre per appropriarsi dell’alfabeto non sono indifferenti all’uso della lettura.
Non ci sono, secondo noi, una fase strumentale di appropriazione del meccanismo del leggere e poi una fase di lettura, come scoperta dei contenuti, come comprensione del messaggio; l’una staccata e indipendente dall’altra.
Il modo in cui s’impara a leggere condiziona il leggere.
Conoscere le combinazioni alfabetiche, attraverso una serie di condizionamenti percettivi, in cui la memoria gioca il ruolo preponderante, può voler dire per molti bambini subire i segni della lingua scritta come qualcosa di estraneo, di abbastanza incomprensibile, di inutile. Qualcosa di cui si farà volentieri a meno appena cesserà l’imposizione, perché la fatica del leggere non viene ricompensata da una gratificazione equivalente. E l’unica gratificazione naturale alla lettura è la comprensione di ciò che si legge.

Tutto ciò sembra ovvio: tuttavia se si osserva e si controlla la lettura dei bambini a scuola, troppo spesso ci si trova davanti a capacità di giustapporre delle sillabe o delle parole, sonorizzando i segni della pagina scritta, senza che tale capacità porti, come dovrebbe portare, alla comprensione di ciò che si legge.
Troppo spesso il leggere è slegato dal capire: la capacità strumentale gira a vuoto su se stessa: si legge per leggere.
La lettura, e altre attività della scuola, non riescono a coinvolgere il bambino e perciò non sono capaci di rispondere alle sue domande culturali; tali attività sono spesso imposte, senza una conoscenza appropriata del bambino e del suo rapporto con esse. […]

Ci sembra che alcuni punti vadano tenuti presenti:

  • L’apprendimento della lingua scritta non è tanto o solo un problema di discriminazione percettiva, di strutturazione spazio-temporale, di abilità senso-motoria, ma è soprattutto un problema socio-linguistico, coinvolgente cioè l’area culturale del bambino a tutti i livelli;
  • bisogna che la motivazione al leggere nasca da leggi interne alla lettura; bisogna cioè che la fatica del deciframento sia ricompensata, fin dall’inizio, dalla scoperta del significato, non da premi e da castighi esterni, caduti i quali cade anche la lettura. La lettura deve essere fin dall’inizio avvertita e attenta: un gioco il cui risultato va sempre cercato, perché non sempre prevedibile;
  • non può essere dato per scontato che il bambino comprenda “naturalmente” il nesso esistente tra la lingua parlata e la sua rappresentazione scritta: tale nesso deve essere conquistato attraverso un cammino né facile né breve;
  • la lingua scritta è fatto simbolico molto astratto: perché il simbolo sia conquistato bisogna dare al bambino la possibilità di incorporarlo, di farlo proprio, come proiezione del suo vissuto e del vissuto della classe;
  • la lingua è sistema simbolico, in cui le parti e gli elementi sono tra loro collegati in modo tale che, manipolandone alcuni, si altera il prodotto totale del sistema, cioè il significato.
  • la conoscenza razionale, analitica, è conquista lenta, è gioco intellettuale dentro i segni della lingua, alla scoperta delle analogie percettive., visive, sonore, semantiche. E’ intuizione, prima, scoperta, poi, che la lingua è codice con sue leggi e sue costanti, le cui mutazioni non sono senza conseguenze sul piano dell’espressione e della comunicazione.
  • è una presentazione di testi e frasi come simbolizzazione dei vissuti, nel senso che i segni rimandano a dei significati vissuti e conosciuti, e che i significati si traducono in segni. Segni di cui si ha una conoscenza partecipata, affettiva. prima, razionale poi. Segni che si capiscono perché si conosce anche il contesto di cui fanno parte.

[…] prima è il maestro che scrive per il bambino, che traduce in segni l’esperienza o che legge dei segni per tutti; la partecipazione è data dal sentire, dal sapere che quelli sono i segni della classe, sono la proiezione delle cose fatte, viste, toccate insieme. Insieme o da soli dette, parlate, cantate, e poi ritrovate, come segni grafici, come cose scritte. Leggere vuol dire riconoscere un’esperienza vissuta in un insieme di simboli, vuol dire scoprire significati sconosciuti,, ma vuol dire anche prendere coscienza che ad es. l’ordine in cui gli elementi si presentano non è casuale e che la sua alterazione altera il significato, il messaggio.

Una lettura “avvertita” fin dall’inizio; lettura attenta al risultato, cioè al significato. Pronta a cogliere le mutazioni legate alla variazione dei segni dentro ad una struttura.
Una lettura avvertita fin dall’inizio condiziona l’attenzione del bambino al significato che può scaturire dai segni, un significato che bisogna sempre vagliare, perché i segni, manipolati nelle loro relazioni, possono dare risultati imprevedibili.
Forse così, a livello di gioco, si possono intuire le possibilità di porre o di trovare nel simbolico relazioni diverse dal reale; intuire anche le enormi possibilità che nel simbolico relazioni e operazioni acquistano. Abbiamo detto intuire, perché è chiaro che non vi possono essere in prima classe esigenze di analisi degli enunciati o dei periodi.

Un tale approccio alla comprensione dello scritto fa seguito alla fase di scrittura e lettura libera, per tentativi.
Si fondava, negli anni 70, su un approccio con il metodo globale, allora considerato l’alternativa a un metodo fonico-sillabico rigido e prescrittivo, che consegnava i bambini a una sorta di impossibilità di fuoriuscire dalla decifrazione [8]

Diversi elementi intervenuti successivamente hanno convinto gli insegnanti MCE a rivedere completamente l’approccio:

  • l’emergere di un’attenzione al rapporto lingua parlata- lingua scritta[9]
  • la proposta della lettura funzionale e silenziosa dell’Association française pour la lecture [10]
  • l’incontro (reincontro) con il metodo naturale di Freinet nella versione particolarmente pregnante proposta da Paul Le Bohec [11]
  • la conoscenza delle ricerche di E. Ferreiro e A. Teberosky sulla costruzione della lingua scritta [12]

[1] L’articolo si rifà ai contenuti del volume Gruppo nazionale lingua ‘Lettura come comprensione’ a cura di B. Malfermoni, B. Tortoli Giraldi,  Milano, Emme edizioni, 1978
[2] L. S. Vygotskij, ‘Pensiero e linguaggio’, Firenze, Giunti, 2007
[3] J. Piaget, ‘Il linguaggio e il pensiero del fanciullo’, Firenze, Editrice universitaria, 1955
[4] J. Bruner, ‘Studi sullo sviluppo cognitivo, Roma, Armando, 1968 , p. 60
[5] T. De Mauro, ‘Introduzione alla semantica’, Bari, Laterza, 1965
[6] L.S. Vygotskji, A. Lurija, A. Leontiev, ‘Psicologia e pedagogia’, Roma, Editori Riuniti, 1971
[7] L.S. Vygotskji, ‘Immaginazione e creatività nell’età infantile’, Roma, Editori Riuniti, 1972
[8] Mialaret G., ‘Apprendimento della lettura’, Roma, Armando, 1967
[9] L. Lentin, ‘Dal parlare al leggere’, Milano, Emme edizioni, 1979
[10] J. Foucambert, ‘Come si impara a leggere- la lingua scritta come codice autonomo rispetto alla lingua orale’, Milano, Emme edizioni, 1981
[11] P. Le Bohec, B. Campolmi, ‘Leggere e scrivere con il metodo naturale’, Bergamo, Junior, 2001
[12] E. Ferreiro, A, Teberosky, ‘La costruzione della lingua scritta nel bambino’, Firenze, Giunti Barbèra, 1985




Valutare è necessario, ma c’è modo e modo

abcdi Giancarlo Cavinato

Il tema della valutazione è cruciale. Ed è cruciale il perché della valutazione.
Sottende un’idea di insegnante, di scuola, di società.
La valutazione, pur espressa in modi e forme diversi, é comune a tutte le scuole.
La valutazione è necessaria? Una scuola può non valutare?
Si può tranquillamente rispondere che la valutazione non è solo necessaria, ma che non è pensabile una scuola che non valuti. Ma c’é modo e modo, finalità e finalità, criteri e criteri.

Quando si cominciano a porre e porsi domande di tipo:
-Chi valutare?
-Cosa valutare?
-Come valutare?
-Perché valutare?
subito cominciano le differenziazioni.

Il valutare non è un fatto semplice e i fini, le modalità, le tecniche della valutazione non sono così definiti da non lasciare margini di dubbio e incertezza. [1]
Risale agli anni 70 la critica pedagogica e politica a una scuola selettiva che respingeva ed emarginava gli alunni più ‘lontani’ dal tipo di cultura che essa intendeva trasmettere. Colpevolizzando sempre e solo l’alunno e mai mettendo in conto le eventuali carenze dell’istituzione (assenza di strutture e risorse adeguate, povertà di strumenti didattici, brevità dei tempi di lavoro, carente formazione degli insegnanti). Una scuola che valuta l’alunno ma non valuta se stessa.

La scuola ‘moderna’ auspicata da Freinet è, viceversa, la scuola del successo, non una scuola dello scacco o degli errori.
Il bambino è della stessa natura dell’adulto… Non c’é una differenza di natura ma soltanto una differenza di grado. Prima di giudicare un bambino o di sanzionarlo, fatevi la domanda: se fossi al posto suo, come potrei reagire? E come agivamo quando eravamo come lui?”
Nessuno ama girare a vuoto , agire come un robot fare degli atti, piegarsi a dei pensieri iscritti in meccanismi ai quali non si partecipa. Se un bambino gira i pedali di una bicicletta immobile, si stancherà presto»
Ogni individuo vuole riuscire. La bocciatura è inibitrice, distruttrice dell’andatura e dell’entusiasmo[2]

Per attuare un insegnamento coerente, Freinet mette a punto una serie di dispositivi e di pratiche. Di alcune tecniche si tratta in altre rubriche di questo ‘alfabetiere: l’assemblea, il metodo naturale, il piano di lavoro, gli schedari autocorrettivi, il tentativo sperimentale. Altri strumenti verranno esemplificati in seguito (la messa a punto collettiva dei testi, i brevetti, i profili pedagogici,…).
Sono ‘tecniche di vita’ fondate sull’autovalutazione degli alunni e degli insegnanti, sulla discussione (chiedendo ai propri alunni cos’è secondo loro la valutazione’ per cosa è utile,..), sull’attivazione di processi di gruppo accanto a quelli individuali.

In una classe organizzata in forma cooperativa in cui il successo di ognuno è legato al lavoro e all’impegno di tutti. E le modifiche delle percezioni reciproche attraverso la registrazione dei progressi sono di stimolo e motivazione a cooperare superando competitività e individualismi.

Paul Le Bohec, maestro bretone collega di Freinet, utilizzava le puntine da disegno colorate. Ogni alunno aggiornava i propri istogrammi personali nelle diverse attività registrando gli esiti e i progressi, confrontandosi così con se stesso, non con gli altri e quindi evitando frustrazione e gerarchie di valore.
A sua volta la corrente della pedagogia istituzionale francese ha messo a punto strumenti e tecniche per la valorizzazione dei soggetti, del loro bisogno di essere considerati e di valere modificando le relazioni d’aula e considerando i soggetti in grado di darsi autonomamente regole e istituzioni della classe (‘da istituiti ad istituenti’). Oury introduce le cinture di capacità di diversi colori secondo il modello del judo. I possessori di colori più alti sono invitati ad aiutare i compagni.

Tocca a noi trovare le organizzazioni adatte per far lavorare ogni bambino, per farlo riuscire, progredire, senza per questo rinunciare ai lavori collettivi che assicurano la coesione e il dinamismo del gruppo-classe e che fanno della cooperativa una realtà generatrice di impegni personali. Ci sembra difficile parlare di cooperativa, di gruppi, di istituzioni o di qualsiasi altra cosa, se prima di tutto nella classe ogni bambino non ha la possibilità di lavorare al suo livello e al suo ritmo.’[3]

Così come A. De La Garanderie ha condotto ricerche sui diversi stili di apprendimento e le modalità (lui li definisce ‘gesti’ mentali) di elaborazione, memorizzazione, evocazione di contenuti, riflessione personali, suggerendo di condurre con gli alunni un dialogo pedagogico per farle emergere e rispettare.[4]

Il ritorno dei voti numerici e della possibilità di bocciare con l’epoca Gelmini ci conduce a riprendere quel lungo percorso che aveva portato, grazie a tante maestre e maestri, alle motivazioni sociali e culturali di una pedagogia attiva e cooperativa.
Tanto più che oggi la presenza nelle classi di alunni portatori di culture, lingue, contesti di appartenenza diversi, rende necessario ripensare l’impianto complessivo di contenuti e attività.
La mia incapacità a esprimere con un numero quella complessa realtà che è il bambino a scuola, ha diverse motivazioni. La pagella, così com’è oggi, è uno strumento di valutazione impreciso e soggettivo. Il numero che dovrebbe essere scritto nelle caselle corrispondenti alle “materie” o a gruppi di attività, è il risultato di una strana miscela di sensazioni riguardo alle attività del bambino, che il maestro compie sulla base di un modello di sufficienza che varia da insegnante a insegnante.[…] La prima scoperta che fa l’educatore quando instaura un rapporto non autoritario con gli alunni, è che essi sono tutti diversi. […] L’educatore che ricerca e utilizza le diverse attitudini e capacità personali nel contesto sociale della classe, realizza attività collettive nelle quali ogni bambino, stimolato dagli altri, dà il meglio di sé. Viene così innalzato il livello collettivo della ‘produzione scolastica’ realizzata sulla base degli interessi dei bambini e non dell’imposizione del maestro. In questo caso non è possibile valutare l’apporto individuale sia qualitativo che quantitativo, perché ogni intervento è legato agli altri. E’ un tipo di intervento che la pagella non considera…’[5]

IL MOVIMENTO DI COOPERAZIONE EDUCATIVA E LA VALUTAZIONE

a) la valutazione è attribuzione di valore per l’autostima e la motivazione al successoè riconoscere:

  • LE CONDIZIONI SOCIALI E PSICOLOGICHE DEI SOGGETTI
  • I BISOGNI FORMATIVI E LE CONDIZIONI PER ESPLICITARLI
  • IL GRUPPO COME RISORSA PER L’APPRENDIMENTO

b) la valutazione attesta i livelli di apprendimento, le competenze raggiunte e orienta l’azione didattica e la progettazione della scuola descrivendo gli apprendimenti effettivamente realizzati in termini di conoscenze e competenze;

c) è una valutazione “per l’apprendimento” e non “dell’apprendimento” nel senso che riconosce le potenzialità e facilita l’autovalutazione da parte dell’alunno;

d) non si limita a “registrare” i successi o gli insuccessi ma accompagna il processo di apprendimento attraverso modalità di valutazione che supportano la motivazione di ciascun alunno e registrano i processi personali e di gruppo ;

e) descrive le competenze e gli apprendimenti effettivamente raggiunti superando il concetto di valutazione come misurazione degli apprendimenti: valutare un alunno non è calcolare la media aritmetica delle singole verifiche, ma individuare le sue reali competenze.

f) per questo il MOVIMENTO DI COOPERAZIONE EDUCATIVA ha lanciato la campagna di sensibilizzazione ‘Voti a perdere’ coinvolgendo oltre 20 associazioni, organizzando giornate di studio e incontrando centinaia di insegnanti e genitori

La campagna si inserisce in un percorso di riflessione e di ricerca-azione attorno ai temi più complessivi della valutazione formativa, e delle competenze. Resta forte la nostra attenzione all’innovazione delle metodologie, al superamento della lezione frontale e di una didattica trasmissiva, alla ricerca di pratiche didattiche volte al riconoscimento della dimensione formativa nella valutazione,in un’ottica di scuola inclusiva.

Per aderire alla campagna www.mce-fimem.it

[1] Malfermoni B., ‘La valutazione’, supplemento a ‘La vita scolastica’, fascicolo n. 11, 1977
[2] Freinet C., Les invariants pédagogiques- Oeuvres pédagogiques’, Seuil-Paris-1994 vol. 2 pp 383-413, traduzione di Alain Goussot
[3] A. Vasquez, F. Oury ‘Tecniche e istituzioni nella classe cooperativa’, Emme ed., Milano, 1979
[4] De La Garanderie A., ‘I profili pedagogici’, La Nuova Italia, Firenze, 1991
[5] Lodi M., ‘Le pagelle’, in Cooperazione Educativa n.5-6, la Nuova Italia, Firenze 1974 (questo e altri testi nel blog ‘finedeivoti’)




Il Brevetto nella pedagogia Freinet

abcdi Giancarlo Cavinato

Freinet parla di autovalutazione piuttosto che di valutazione. Il che non significa che non sia consapevole della complessità del problema e della sua centralità nella pedagogia dell’educazione. Di come il cosiddetto profitto scolastico accompagni per tutto l’arco della carriera scolastica un ragazzo e possa incidere sull’orientamento per il suo futuro. [1]

Preoccupato per il successo scolastico dei suoi alunni e di tutti i ‘figli del popolo’, di stabilire con loro un dialogo basato sul riconoscimento della dignità dei loro tentativi e delle loro esplorazioni, accanto alle sue tecniche e a quello che definisce il ‘complesso di interessi’ per l’organizzazione della vita della classe [2], egli sperimenta e propone una serie di strumenti il cui presupposto è l’autocontrollo attraverso il piano di lavoro per l’alunno, il ‘profilo vitale che l’insegnante viene via via compilando sulla falsariga del diario in cui l’alunno registra i suoi progressi. [3]

La dimostrazione dell’avvenuta acquisizione di capacità viene effettuata attraverso il brevetto, strumento di riconoscimento mutuato da un lato dall’apprendistato artigianale (la cosiddetta ‘prova d’uso’ che il garzone doveva dimostrare di essere in grado di produrre) , dall’altro dal mondo dello scoutismo, da un altro ancora dall’attestazione da parte di un ente statale della proprietà di un’invenzione.

La valutazione non concerne cioè il complesso di un impianto disciplinare, ma singoli passaggi e tecniche nel percorso di individualizzazione. Il brevetto viene riconosciuto in base a una prova pratica che mostra cosa l’alunno sa e sa fare.
Non è una prova standardizzata, la prova non è lo stessa per tutti ma risponde alle specifiche capacità, esigenze, proposte di ciascuno. A volte si tratta di oggetti, tecniche, schede, ricerche, procedure funzionali al lavoro che sta facendo la classe.
E’ la classe (insegnante incluso) che lo valida. Il ‘prodotto’ viene esposto e diviene oggetto di osservazioni. in determinati momenti il ragazzo lo presenta attraverso una esposizione, la cosiddetta ‘conferenza’. Può essere mostrato a genitori e autorità scolastiche. Al termine dell’anno scolastico viene restituito all’autore. Con il sistema dei brevetti Freinet offre un’alternativa al sistema di emulazione e competizione tipico del voto, ai rischi di demotivazione e frustrazione che esso determina in molti. . ‘Non esistono primi e ultimi. Ognuno può e deve acquistare capacità nelle attività manuali o intellettuali di sua scelta. Ognuno ha così successo a suo modo e secondo le sue attitudini, e ciò è perfettamente conforme alla psicologia del bambino e alle complesse possibilità sociali attuali.’ [4]

Un’esperienza di uso di brevetti al termine di un’attività come il ‘mercato delle conoscenze’ che coinvolge alunni di più classi in forme di insegnamento e apprendimento reciproco si trova nel quaderno MCE ‘Narrare la scuola’ [5].
In questo caso si trattava di far sperimentare agli alunni la necessità e l’efficacia di una messa a disposizione in forme democratiche dei saperi presenti in una comunità.

[1] Redazione Quaderni cooperazione educativa ‘Freinet: dialoghi a distanza’, La Nuova Italia, Firenze, 1997 P. 96
[2] C. Freinet ‘La scuola del popolo’ Ed. Riuniti, Roma, 1973
[3] op. cit. p. 144-146
[4] op. cit. p. 146
[5] P. Scotto, G. Caavinato, A. Busato, ‘Al mercato delle conoscenze. Dare visibilità ai saperi dei bambini’ in, S. Nicolli ( a cura di) ‘Narrare la scuola. insegnanti riflessivi e documentazione didattica’ ed. Asterios, Trieste, 2018, pp. 123-140