Fascismo sì/fascismo no? Il vero problema è il ruolo del Ministero

di Pietro Calascibetta

L’esternazione di questi giorni del Ministro Valditara nei confronti della preside di Firenze è sicuramente un intervento inopportuno perché invece di stigmatizzare comunque la violenza davanti a una scuola tira fuori una sua personale valutazione storica della contemporaneità dandone un imprimatur istituzionale, una valutazione che se non compete, come lui dice alla preside, meno che mai compete ad un ministro anche se è un docente di diritto (romano) in più è un atto di per sé diseducativo nei confronti dei ragazzi da parte di un adulto gerarchicamente superiore che sconfessa un altro adulto che nel suo ruolo ha deciso di fare un intervento sui propri studenti per dare un segnale che almeno nell’istituzione scolastica che frequentano, vivaddio, c’è una figura istituzionale che si preoccupa di loro e non se ne lava le mani lasciandoli nella convinzione che se la devono cavare da soli.
Spero che non si cada nella solita polemica fascismo sì, fascismo no perché la vera questione che spero emerga in questo caso non è il pericolo fascista dove molti della destra vorrebbero portare il discorso per meglio controbatterlo, ma il ruolo del Ministro e del Ministero nell’insegnamento della storia nella nostra scuola. Perché di questo si tratta.

Giorni fa commentavo un articolo di Mario Maviglia su Nuovo Pavone Risorse che stigmatizzava l’intervento della Sottosegretaria Paola Frassinetti che contestava ufficialmente la partecipazione dello storico Eric Gobetti ad un incontro dedicato alle foibe con gli studenti di una quinta ( secondaria di secondo grado e non della primaria !) di un istituto superiore calabrese etichettando lo storico come negazionista, quando in realtà lo storico non nega affatto le foibe, ma cerca di collocarle nel contesto storico di quegli anni individuando le co- responsabilità di quanto è avvenuto prima e dopo quegli avvenimenti.
Un Ministero che dà la linea sull’interpretazione autentica dei fatti storici e che dà la patente agli storici che di mestiere fanno ricerca, mi sembrava di per sé eccessivo.
A questo punto mi sono detto che bisogna guardare più a fondo ciò che sta avvenendo in una prospettiva più ampia che va oltre Valditara.
E’ il Ministero ( cioè la politica) che deve fornire ai docenti l’interpretazione autentica dei fatti storici da insegnare in aula? E’ una questione più delicata di quanto si immagini perché non riguarda l’oggi.
Mi sono ricordato allora che cominciano ad essere sfornate dal Ministero nel silenzio generale “Linee guida” su argomenti diciamo storico-culturali. Mi sembra di capire che un’entità “politica e amministrativa” qual è di fatto il Ministero abbia cominciato a spiegare ai docenti come devono trattare i contenuti di alcuni specifici argomenti. Posso capire (ma fino ad un certo punto) le Linee guida metodologiche per trattare la dislessia o su come declinare in obiettivi le finalità disciplinari stabilite per legge. Si tratta di indicazioni operative su come applicare le norme ordinamentali, sono indicazioni “tecniche”, ma non capisco questo nuovo filone di Linee guida.
Che siano “Linee Guida per la didattica della Frontiera Adriatica” firmate da Bianchi oppure “Linee guida nazionali per una didattica della Shoah a scuola” o, chissà fra poco “Linee guida sulla guerra in Ucraina” o su una presunta “Guerra civile in Italia” non mi interessa proprio, non mi interessa l’argomento, né mi interessa che le abbia prodotte un governo di sinistra o di destra.
Spero che non ci sia uno spoil system rispetto agli argomenti di storia.
E’ il principio che trovo sconvolgente e un pericoloso precedente. E’ proprio sulla scia di questa nuova tipologia di Linee guida, la sottosegretaria Frassinetti solo per dare un segnale che la destra “vigila” sulla memoria delle foibe, si permette di sanzionare pubblicamente una libera decisione di una scuola di incontrare uno storico, decisione che attiene all’ambito della famosa libertà di insegnamento a cui tutti si appellano anche a sproposito.
La trappola in cui si può cadere è quella di lasciare che passi la narrazione che c’è una storia di sinistra e una storia di destra che ciascuna parte politica difenda la sua storia. In mezzo ci sarebbero non solo i docenti con i loro studenti, ma anche la democrazia perché in democrazia c’una storia anche travagliata, ma sempre condivisa.
Questo è un messaggio per la sinistra a congresso che è alla ricerca della sua identità. Chi va con lo zoppo comincia a zoppicare. La Costituzione non garantisce forse la libertà di pensiero e la libertà di insegnamento?
Trovo questo atteggiamento ministeriale di oggi come quello di ieri umiliante anche per i docenti che dovrebbero avere la professionalità per saper scegliere le fonti e i percorsi più adatti per formare nei propri studenti quella competenza critica prevista dalla normativa soprattutto per la storia contemporanea.
Ricordiamo sempre su questo sfondo il caso della professoressa di Palermo che aveva osato affrontare il tema della discriminazione con i suoi studenti sempre delle superiori parlando delle leggi razziali di ieri e del decreto sicurezza di Salvini di oggi e che si è trovata sospesa e senza stipendio, sanzione annullata poi solo dal tribunale del lavoro, ma non rivista dal Ministero anche dopo il cambio di governo .
A questo punto mi viene alla mente tutta le discussione frettolosamente archiviata nata intorno all’introduzione nell’ordinamento penale dell’aggravante delle affermazioni negazioniste della Shoah, dei fatti di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti rispettivamente dagli artt. 6, 7 e 8 dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale.
Allora vi fu un acceso dibattito tra chi riteneva un segnale importante sanzionare le affermazioni negazioniste e chi invece affermava che l’idea di una verità storica di stato non solo sarebbe stata aberrante, ma avrebbe sancito l’impotenza di tutta una società a combattere il negazionismo sul terreno dell’educazione, dell’informazione e della cultura.
Qual è quindi il ruolo della scuola oggi nell’insegnamento della storia, soprattutto quando è contemporanea? Come si può insegnare storia quando se dici una cosa sei di sinistra e se ne dici un’altra sei di destra? Vogliamo fare della scuola una palestra di scontro politico? E’ questa l’educazione civica ?




PNRR e innovazione del lavoro: una falsa partenza

di Pietro Calascibetta

Parliamo di carriera o di lavoro? Una premessa necessaria a proposito del “docente esperto”.

L’ istituzione della figura del “docente esperto” con il “Decreto Aiuti bis” [1] è stata interpretata come l’introduzione di una carriera per i docenti e ha innescato subito un’accesa discussione.

Franco De Anna nel webinar del 17 agosto promosso da “Gessetti Colorati”[2] ci ha fatto notare che la disposizione, anche se inserita in modo inusuale in un decreto di tutt’altro tema, è frutto della Legge n. 79 del giugno 2022 che definisce la cornice di alcune delle azioni previste dal PNRR tra cui quelle relative all’istruzione ed è su questo che bisogna porre l’attenzione.

Osservando meglio la premessa della parte che riguarda l’istruzione e i rimandi normativi si scopre infatti  che l’art.38 del Decreto Aiuti e la Legge 79 in realtà dovrebbero essere finalizzati a dare una risposta nell’ambito della pubblica istruzione alla richieste della UE di avviare con il Recovery Plan italiano un processo pluriennale “ di innovazione del lavoro pubblico[3] con l’obiettivo di riqualificare la pubblica amministrazione migliorando la professionalità dei suoi dipendenti.

Se le cose stanno veramente così, piuttosto che discutere della carriera sarebbe più interessante e utile interrogarsi sulle valenze e sull’efficacia dei provvedimenti nel poter effettivamente raggiungere l’obiettivo di innovare il lavoro nella scuola come richiesto dalla UE e dare ad esso la dignità che merita e quali proposte fare per aggiustare il tiro di un provvedimento in essere che presenta già prima di essere applicato molte ambiguità in modo che non diventi l’ennesima occasione sprecata per affrontare la questione del lavoro nella scuola.

Un quadro normativo contraddittorio

Da quanto si legge la modalità scelta per innovare il lavoro nella scuola è stata l’introduzione di un “ sistema di formazione e aggiornamento permanente delle figure di sistema[4] , individuate nei “docenti con incarichi di collaborazione a supporto del sistema organizzativo dell’istituzione scolastica e della dirigenza scolastica[5] e più genericamente dei docenti di ruolo “articolato in percorsi di durata almeno triennale” e gestito dalla “ Scuola di alta formazione dell’istruzione[6] istituita contestualmente.

La norma precisa che l’attività di formazione e aggiornamento ha come obiettivo “promuovere e sostenere processi di innovazione didattica e organizzativa della scuola, rafforzare l’autonomia scolastica e promuovere lo sviluppo delle figure professionali di supporto all’autonomia scolastica e al lavoro didattico e collegiale[7]

Fin qui tutto bene. Sembrava proprio da queste premesse che tale formazione supplementare dovesse distinguersi da quella obbligatoria per tutti i docenti di ruolo già prevista dall’ articolo 1, comma 124 della “Buona scuola” e che fosse finalizzata a quella formazione appunto aggiuntiva e specifica dedicata a chi avesse voluto o dovuto per ragioni di servizio occuparsi di qualcosa di più e di diverso dal solo insegnare come è d’obbligo per tutti i docenti.

A prima vista sembrava che fosse l’innovazione si fondasse  su  una differenziazione tra i docenti non basata sulla “bravura” o l’anzianità, bensì basata da una parte sull’acquisizione e il rafforzamento di competenze addizionali per compiti particolari rispetto all’insegnare e al progettare la propria lezione d’aula, dall’altra sulle mansioni effettivamente svolte nell’organizzazione scolastica oltre la docenza.

A questa apertura iniziale non è corrisposta però nell’articolazione successiva della norma, una esplicita e chiara definizione di percorsi formativi specificatamente attribuibili alle figure di sistema attualmente presenti in tutte le scuole, né di percorsi per quei docenti che si offriranno volontari, prefigurandone un ruolo di supporto nell’organigramma di un istituto attraverso una formazione specifica, magari come “agenti di cambiamento” nei collegi o nei gruppi o come psicopedagogisti , o altro.

Le indicazioni dei percorsi di formazione sono invece deludenti e oltremodo generiche trattando di  “attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento e guida allo sviluppo delle potenzialità degli studenti, volte a favorire il raggiungimento di obiettivi scolastici specifici e attività di sperimentazione di nuove modalità didattiche”. Tutto e niente. La solita demagogia dell’indicare con roboanti espressioni come novità ciò che non è tale, facendo sfumare così la possibilità di uno “sviluppo delle figure professionali”   come reale, anche se parziale,   elemento di innovazione nel lavoro dei docenti.

[1] DL 9 agosto 2022, n. 115, art. 38
[2] L’intervento si può ascoltare  in: https://www.youtube.com/watch?v=n4UuYFbiC_4
[3] DL n. 36 del 30 aprile 2022  “Misure   per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Convertito con la Legge  n. 79 del  29 giugno 2022.
[4] Ivi, Art. 16 ter comma 1
[5] Ivi, Art.16 ter comma 3
[6] Ivi. Art. 16 bis
[7] Ivi, Art. 16ter comma 3

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Perché è difficile (o forse impossibile) “convincere” i no vax. Il ruolo della scuola

di Pietro Calascibetta

Parlare di no vax a scuola può essere un argomento spinoso in questo momento perché può sembrare divisivo, ma mi domando se è più divisivo parlarne o non parlarne e lasciare che sia il convitato di pietra della relazione educativa. Nelle superiori ci saranno sicuramente studenti no vax e in tutti i cicli genitori no vax.

Il non parlare con gli studenti di un problema che li coinvolge come persone e come cittadini non è mai una buona soluzione a tutte le età. Proprio per questo è necessario a mio avviso trattare comunque la questione, ovviamente con i dovuti modi nei diversi cicli.
Chi, se non la scuola può affrontare l’argomento in modo formativo al di fuori dalle strumentalizzazioni, abituando i ragazzi ad argomentare piuttosto che ad affermare certezze recuperate con il taglia e incolla dai social. Vogliamo lasciare questo compito ai talk show?
Un approccio orientato alla ricerca su questo tema è quello che meglio può permettere di costruire un percorso di riflessione in grado di favorire un confronto democratico senza correre il rischio di rinfocolare le divisioni. Provo allora a toccare quelli che possono essere gli snodi strategici di un percorso.

I MOTIVI DELL’ALTA TENSIONE

Per prima cosa penso sia importante partire dalla presa d’atto della tensione che si è creata nel Paese in questi mesi, cercando di capire se e come gli studenti la percepiscono è successivamente perché si è creata.
L’opposizione di molti alla somministrazione dei vaccini era ben presente da tempo in Italia, soprattutto l’opposizione all’obbligo vaccinale per i bambini, come il mondo della scuola sa bene poiché ha dovuto far fronte al problema delle famiglie che non volevano sottoporre i propri figli alle vaccinazioni obbligatorie, tanto che la Ministra Lorenzin ha dovuto predisporre il decreto n. 73/17 per ribadirne l’obbligatorietà e fissare le modalità di controllo e sanzione per i non adempienti.
Avverso il decreto è stato addirittura presentato un ricorso alla Corte Costituzionale dalla Regione Veneto, non da un cittadino qualunque, ma da un’istituzione.

Al di là dei ricorsi, la tensione sul tema della vaccinazione non era nel passato mai salita così tanto. Che cosa è cambiato?
Ora la questione del vaccino non riguarda solo i genitori no vax e i bambini non vaccinati, ma riguarda tutta la popolazione adulta, sia i no vax, sia chi invece si è vaccinato.
Quello che sta montando nella società è una sorta di muro contro muro tra chi non intende vaccinarsi e conseguentemente ritiene il green pass un modo sublimale per far vaccinare le persone se non addirittura un ricatto e quindi è infuriato e chi dall’altra parte ritiene che il vaccinarsi sia un dovere nei confronti della collettività per permettere che si ritorni ad una vita normale. Tutti hanno un’opinione al riguardo, in ufficio, sui social, in famiglia, alla tv.

Questa contrapposizione sta assumendo dei toni sempre più accesi perché, se guardiamo bene, tocca per gli uni e gli altri un argomento delicato come la sopravvivenza. Chi non si vaccina ritiene a torto o a ragione che la vaccinazione metta in pericolo la sua vita nel presente o nel futuro e chi si è vaccinato ritiene che chi non si vaccina mette a repentaglio la sopravvivenza della comunità e quindi anche la propria, ma non solo, rimprovera loro il fatto che non vogliono fare ciò che chi si è vaccinato ha fatto per il bene di tutti anche eventualmente esponendosi ad un rischio nel caso vi fosse, una sorta di tradimento bello e buono del patto sociale.

Come si vede si tratta di argomenti che toccano la sensibilità profonda delle persone, mettono in discussione la coesione sociale e sono potenziali micce per far deflagrare qualcosa di più grave di semplici scaramucce.
E’ la dimensione del problema da cui partire.

IL PERCHE’ DEL GRAN RIFIUTO

Lo Stato sicuramente vincerà sui facinorosi, ma i più miti anche quelli che alla fine si vaccineranno per pragmatismo continueranno a sentirsi coartati, non è quindi una questione che si possa nascondere sotto il tappeto come è stato fatto negli anni scorsi con l’obbligo vaccinale dei bambini proprio perché ad essere coinvolti nel rifiuto sono ad oggi circa otto milioni di cittadini.
Al di là delle strumentalizzazioni opportunistiche e delle manipolazioni interessate della realtà per soffiare sul fuoco della protesta e raccogliere consensi a buon mercato, dietro a chi si oppone vi sono bisogni, convinzioni e ragionamenti.

L’ascolto, l’empatia e la comprensione delle ragioni sono l’unica strada per poter aprire un confronto autentico che possa permettere di trovare delle risposte in grado almeno di toccare le convinzioni viscerali della gente.
E’ bene che gli studenti si rendano conto che per affrontare un conflitto sociale bisogna comprenderne le radici profonde per agire su di esse e che la sola dialettica non basta, come insegnano le decine di scontri verbali nei talk show.

Una delle competenze di cittadinanza è saper ascoltare gli altri, soprattutto chi non la pensa come noi.
Se analizziamo con attenzione le argomentazioni messe in campo da chi contesta i no vax ci accorgiamo che le discussioni finiscono per ruotare sempre intorno a due questioni: la liceità del geen-pass e il fatto che i vaccini sono sicuri. Un evidente discorso tra sordi, perché non è questo il problema.
Continuare a confrontarsi su questi temi non tocca i motivi per cui molte persone non intendono vaccinarsi. Un discorso tra sordi, appunto, frustrante per tutti e due gli schieramenti e che alimenta tensione.

COSA SI NASCONDE DIETRO AL “NO”

Proviamo con gli studenti a capire da dove proviene un’avversione così profonda e viscerale verso i vaccini che dovrebbero razionalmente essere considerati da tutti una straordinaria opportunità per la sopravvivenza individuale e dell’umanità.

Utilizzando il testo dell’Ufficio Studi della Corte Costituzionale a cura di Paolo Passaglia, dal titolo “La disciplina degli obblighi di vaccinazione, Corte Costituzionale. Servizio Studi. Area di diritto comparato” (ottobre 2017) andiamo indietro nel tempo e allarghiamo lo sguardo a livello mondiale.
https://www.cortecostituzionale.it/…/Internet_Comp%20…

Scopriremo così che le contestazioni a questa nuova pratica cominciano contemporaneamente alla scoperta della metodologia della vaccinazione per debellare malattie endemiche che tormentavano l’umanità da tempi remoti e mietevano milioni di vittime.
Può essere sorprendente scoprire che fin da allora una parte della popolazione invece di gioire di questa possibilità che risolveva un problema concreto la contesti come oggi.
Per cercare di comprendere questa opposizione è indispensabile conoscere e approfondire con i docenti di scienze cos’è e come funzionava un vaccino in origine e perché si chiama proprio così.
Una volta tanto valorizziamo anche le conoscenze! (https://www.epicentro.iss.it/vaccini/VacciniCosa https://www.treccani.it/enciclopedia/vaccino/ ).

E’ utile far conoscere agli studenti anche la storia dei vaccini e delle pandemie, in particolare la storia del vaiolo deradicato definitivamente solo nel 1980 per scoprire che l’opposizione non è una novità, ma che non sarà facile liberarsi del Covid senza il vaccino.
Si tratta di una conoscenza indispensabile per prendere atto che uno dei motivi, ovviamente non l’unico, per il quale la vaccinazione genera in alcuni individui una viscerale repulsione sul piano psicologico è proprio l’inoculazione di un a sostanza estranea nel corpo di una persona sana.

E’ interessante far conoscere agli studenti la storia di questa pratica dell’inoculazione che risale già al 1700 e l’opposizione ad essa da parte della società dell’epoca con motivazioni diverse (https://www.treccani.it/…/l-eta-dei-lumi-le-scienze…/).
Si capirà perché l’introduzione dell’obbligatorietà delle vaccinazioni così come ogni altro trattamento sanitario obbligatorio che tocca l’integrità del corpo di una persona deve fare i conti con quanto recitano le Costituzioni di tutto il mondo sul diritto all’integrità fisica, sul rispetto della persona, sul rispetto delle convinzioni religiose e del pensiero, una riflessione da fare questa volta con l’insegnante di educazione civica, di diritto o di storia.
Un cenno ai problemi legali, etici e religiosi che vi furono con i primi trapianti di cuore può far capire come un dibattito sulla liceità della vaccinazione non è così pretestuoso, né così datato, senza parlare poi dell’aborto, tema certamente molto più complesso da affrontare, scoprendo che esiste uno stretto rapporto tra etica, religione, scienza e medicina.

La lettura del saggio dell’Ufficio Studi della Corte Costituzionale ci dice che fin dai primi del ‘900 vi sono negli Stati Uniti, così come in altri Paesi , numerosi contenziosi contro la vaccinazione non solo per il vaiolo.
E’ del 1954 la nascita in Francia della “Ligue Nationale Pour la Liberté des Vaccinations”.

Consci di questa diffusa opposizione alla vaccinazione, addirittura contro il vaiolo che era pur una tragica pandemia, e consci dei vincoli costituzionali, le legislazioni dei vari Pasi sono state ben caute nell’introdurre l’obbligo per altre vaccinazioni e quando lo hanno fatto le hanno introdotte per i nuovi nati cercando di trovare modalità particolari di convincimento, per questo il contenzioso fino ad ieri è stato molto circoscritto.

UNA DIVERSA STRATEGIA PER UN CONFRONTO AUTENTICO

L’argomento principale che si oppone ai no vax è che i vaccini per il Covid sono sicuri, lo stesso discorso lo si fa per il vaccino contro il morbillo, la difterite, il vaiolo ecc. E’ vero, ma è la solita argomentazione che fa incaponire di più un no vax.
Parlare di sicurezza del vaccino è un’informazione che va data come atto dovuto (anche in INTERNET dipinto come il pozzo delle fake news si trovano interventi chiari e scientificamente fondati), ma non basta, rispetto all’obiettivo di entrare in relazione con i veri no-vax, è come parlare di sicurezza degli aerei ad uno che ha paura di volare e non intende salire su un aeromobile
Ciò che non viene compreso è che la questione non riguarda questo vaccino, ma più in generale la vaccinazione in sé come si è cercato di far presente richiamando la storia della vaccinazione e coinvolge sul piano psicologico la relazione con il proprio corpo e sul piano culturale la relazione di ognuno con la religione, la scienza, la medicina ufficiale, il mondo dell’industria.
Coinvolge anche il livello di fiducia nelle istituzioni, in particolare il ruolo delle istituzioni nel tutelare i cittadini rispetto alla sicurezza dei farmaci e coinvolge il senso di appartenenza alla propria comunità e quanto si è disposti a fare per essa.
Non si potrà aprire un discorso con i no vax fino a che chi crede nei vaccini non accetta che non si tratta di una questione di sicurezza del singolo vaccino e che i no vax non sono spuntati ora per la prima volta, ma fanno parte di un movimento di opinione che ha radici profonde e ramificate nella società e nella cultura.
Come si vede non è un discorso che può trovare una soluzione in un debate a somma zero.
Un debate a scuola con una simulazione di un confronto tra no vax e vaccinati può essere molto utile, soprattutto se videoregistrato, ma per poi analizzare le argomentazioni utilizzate e soprattutto la pragmatica della comunicazione, non certo per venire a capo della questione.

Il danno è che, come la mancata prevenzione del Covid insegna, per anni si è sottovalutata la questione dell’uso dei vaccini senza pensare e prevedere che forse sarebbe arrivato un tempo in cui il vaccino sarebbe tornato ad essere uno strumento indispensabile per salvare l’umanità come è stato per il vaiolo e come stava per essere per Ebola e che ad essere coinvolti non sarebbero stati solo e tanto i nuovi nati, ma intere popolazioni di adulti con le loro convinzioni e paure naturate negli anni.

Sarebbe un errore considerare l’opposizione ai vaccini un evento marginale o un incidente di percorso. La disponibilità della popolazione alla vaccinazione e alle misure di protezione va considerata una delle condizioni per una strategia di prevenzione delle future epidemie e pandemie.
Si potranno convincere oggi in modo sbrigativo degli indecisi, qualcuno che ha solo paura dell’ago, ma non i veri no vax per i quali sono necessari ben altri argomenti e tempi poiché è una questione culturale.
Ecco ancora una volta il motivo per il quale la scuola è il luogo per discuterne per poter andare alle radici profonde del problema e capire cosa fare. Non è mai troppo tardi!

L’URGENZA DI NUOVA CULTURA PER IL TERZO MILLENNIO

Se allarghiamo ancora il discorso dai no vax ad altri movimenti si comprende ancora meglio la necessità di intervenire sul piano culturale e della formazione come raccomanda l’art. 9 della Costituzione quando fa presente il compito della Repubblica di “promuove lo sviluppo della cultura” non tanto e non solo nel senso di aprire più teatri o cinema, ma nell’alimentare un confronto tra i cittadini sui valori, le credenze, i diritti anche con il cinema o il teatro ecc.
Si parla tanto oggi dei no vax, ma se guardiamo più a fondo ci accorgiamo che ci sono anche i no ogm (già qualcuno dice che diventeremo tutti ogm dopo il vaccino Pfizer), i no global, i no tav , i no olio di palma, i contrari alla medicina ufficiale e fanatici dell’omeopatia o della medicina alternativa di Steiner, i no oil – i no 5G, i no refezione scolastica – i disobbedienti – i complottisti vari, i no stranieri, i negazionisti di questo o quell’evento, i seguaci dell’agricoltura biodinamica, i no alla democrazia rappresentativa, gli QAnon , ecc e tralascio i terrapiattisti.
Guardando nell’insieme si rimane impressionati della relativa vastità di questo fenomeno caratterizzato dai “no” a questo o quello. Con gli studenti si può tentare una lista.

Ovviamente non si può fare di tutta un’erba un fascio, si tratta di movimenti diversi, ma può essere interessante al di là delle differenze ipotizzare la presenza di tratti comuni che attraversano questo mondo sommerso di cui non conosciamo realmente l’estensione.
I no vax sono pertanto in buona compagnia nuotando nell’universo dei “no”.
Se è così siamo di fronte a un vero e proprio problema culturale di vaste dimensioni prodotto dalla straordinaria accelerazione dei cambiamenti in atto. E’ come se ci fosse un disorientamento di fronte alla ricerca di una nuova consapevolezza di sé e del mondo che non appare con chiarezza in una società multiculturale come quella che si sta costituendo. Interessante quanto ricorda Cinzia Mion in un post su fb (https://www.facebook.com/cinzia.mion.9/posts/4695310747160055) sullo stile cognitivo dicotomico /manicheo di molti individui che si rifugiano nella certezza del conosciuto invece di affrontare l’ambiguità del presente.

IL RUOLO DELLA SCUOLA

Limitandoci all’ambito del rapporto di alcuni di questi movimenti con la salute, possiamo però azzardare qualche ipotesi su cosa può accumunare diverse posizioni perché è proprio su questo versante che la scuola può fare la sua parte alla grande.
A me sembra che ci sia innanzitutto una diffidenza nei confronti della scienza e della medicina alimentata da una scarsa conoscenza del sapere scientifico a disposizione dell’umanità, di come operi oggi nel concreto la ricerca scientifica e la medicina e su quali siano le prospettive di sviluppo su cui si sta lavorando.

Quanti docenti conoscevano l’esistenza delle molecole di RNA messaggero (mRNA) di cui si parla da trenta anni e ne avevano parlato in classe con i loro studenti negli anni scorsi, in quanti libri di testo se ne parla?
Conoscere la storia e le vicissitudini di questa metodologia giunta oggi agli onori della cronaca può far capire come procede la scienza, le difficoltà che incontrano i ricercatori oggi come un tempo e può far nascere interessi e passioni nei ragazzi dando loro una prospettiva e dei traguardi su cui impegnarsi.

Così come le TIC hanno cambiato la comunicazione umana e richiedono una nuova cultura della relazione, le tecnologie e le scoperte hanno cambiato profondamente negli anni la scienza e la medicina e richiedono una nuova cultura scientifica.
Diventare consapevoli di questi cambiamenti ci può far assumere un atteggiamento diverso nei confronti della scienza e della vaccinazione.
Non si tratta solo di aggiornare i programmi delle STEM, ma di sperimentare un approccio didattico dinamico a questa area della conoscenza, costruire una didattica che formi sì le basi delle discipline, ma che introduca ad esempio la storia della scienza e della medicina (non come altra materia per carità!) e utilizzi una didattica che abbia anche un filo diretto con la contemporaneità sia attraverso un uso intelligente del WEB come risorsa sia attraverso un rapporto tutto da immaginare nella secondaria con l’Università.
Un secondo tratto comune riguarda la diffidenza nei confronti del mondo industriale, in particolare delle cosiddette Big Pharma interessate come è giusto che sia ai profitti, ma non a scapito degli utenti. Anche se è trascorso del tempo vi sono episodi del passato che hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva come il caso del talidomide messo in commercio tra gli anni cinquanta e sessanta senza un’accurata sperimentazione, ritirato dopo aver causato gravi malformazioni in più di diecimila neonati.
Una tragedia che portò al varo di una legislazione più severa in tutti i Paesi e introdotto la pratica della farmacosorveglianza che ha permesso negli anni di ritirare per tempo molti farmaci. Ma il danno di immagine è stato comunque fatto.
Il timore rimane nella gente e si tramanda di padre in figlio. Riconciliare la popolazione con l’industria farmaceutica vuol dire far conoscere le leggi a tutela del cittadino che ora sono in vigore e come le agenzie di controllo svolgono il loro lavoro e dare maggior trasparenza al rapporto tra le aziende private, la sanità pubblica e la ricerca accademica (un’interessante lettura a questo proposito è il recente volume di Massimo Florio, “La privatizzazione della conoscenza”, Laterza).

Ancora una volta va ricordato che fare educazione civica non è solo conoscere le norme, ad esempio l’esistenza del diritto alla salute, ma sapere come la norma viene applicata concretamente, in questo caso nella tutela del cittadino quando entra in farmacia. Conoscere le sentenze contro gli avventurieri della cura può dare la percezione che la comunità attraverso i suoi organi è in grado di difendere i singoli. Avere la consapevolezza che lo Stato è capace di tutelarti può convincere di più di una dichiarazione alla TV.

Un terzo tratto comune riguarda la debolezza del legame con la comunità e del senso di appartenenza ad essa. Probabilmente la diffidenza non è tanto nei confronti delle singole persone, ma delle istituzioni che rappresentano la comunità, cioè lo Stato di cui non si fidano. Da qui la rivendicazione della libertà per poter agire per conto proprio prendendo su di sé la responsabilità delle decisioni proponendo sul piano politico la democrazia diretta, mentre ad esempio sul piano personale non acquistare cibo ogm curarsi in modo alternativo o nel nostro caso non accettare la vaccinazione.
Da qui l’abbandono dei canali ufficiali dell’informazione che si ritengono corrotti, la ricerca di informazioni in proprio direttamente dal WEB, dagli amici, da chicchessia purché non omologato al sistema. Il passo verso il complottismo a questo punto diventa breve.

Interrogarsi sul perché è crollata la fiducia nelle istituzioni sancita dal famoso “vaffa” è complesso, ma è lì che si trova uno degli snodi dell’opposizione diffusa al vaccino, anche se non l’unico. Rimettere al centro la comunità come valore e bene condiviso è un compito a cui la scuola non può sottrarsi cominciando proprio a dare valore e significato alla comunità scolastica e ai suoi organi rappresentativi spesso snobbati o non valorizzati adeguatamente dagli stessi docenti.
Organismi che possono diventare un laboratorio per un recupero di una cultura democratica e un terreno di coltura di un senso di appartenenza fatto di solidarietà e proposta. A scuola può essere possibile ricostruire quel concetto di libertà così come fu definita dai Costituenti che specificarono che la “libertà individuale ” è tutelata “salvo le limitazioni che la legge stabilisce” , proprio per indicare che la libertà individuale in una comunità non è assoluta , ma è condizionata dalle leggi che la stessa comunità in quanto tale democraticamente predispone attraverso i suoi organi rappresentativi e promulga per tutelare un bene comune che va oltre la libertà del individuo. “Nessuno si salva solo”

Agendo la democrazia nella vita collettiva dentro la scuola è possibile a mio avviso far comprendere come gli organismi possono realmente rappresentare la comunità e che tra rappresentati e rappresentati può esserci un rapporto trasparente.
Una cultura della solidarietà non la si può improvvisare, ma va costruita con pazienza partendo dalle piccole cose come hanno fatto in questi mesi di pandemie molte scuole e molte associazioni.
La scuola può e deve fare la sua parte, ma è l’intera società che deve prendere atto che va riscritto e formalizzato un nuovo patto sociale dove accanto ai diritti chiaramente già scanditi con precisione negli articoli della Costituzione vi possa essere un comma che in modo esplicito faccia riferimento al “dovere” dell’impegno individuale e degli organi rappresentativi per il “bene comune”.

“Nella costituzione del Massachusetts adottata nel 1780, è stabilito come principio fondamentale del patto sociale tra il popolo e ciascun cittadino che tutti dovranno sottostare ad alcune leggi per ‘il bene comune’, e che il governo è istituito “per il bene comune, per la protezione, sicurezza, prosperità e felicità del popolo, e non per il profitto, onore od interessi privati di un determinato uomo, una determinata famiglia od un determinato gruppo di uomini”.




Il fantasma della libertà e i no vax

di Pietro Calascibetta

In un recente post il prof. Luciano Corradini commentando l’atteggiamento dei no vax ci ricorda che “ la libertà senza la fratellanza e l’uguaglianza ha portato anche i francesi al terrorismo della ghigliottina e al dispotismo napoleonico”. Come si fa a non essere d’accordo con tale affermazione e a non essere amareggiati come il professore di fronte a discorsi che di fatto “ difendono la libertà di morire e di far morire gli altri”.
La questione però a mio avviso è ben più grave perché non è circoscritta alla contingenza del vaccino o alle misure di protezione per potersi quindi considerare un incidente di percorso nella nostra vita democratica, ma ha radici profonde e diffuse nella nostra società.
Non a caso si trovano frange di destra e di sinistra unite, come fa notare il professore, dietro lo stesso striscione con in mezzo però una massa indistinta e variegata di persone attratte dal desiderio di partecipare ad una rivoluzione in nome di una “libertà” che in realtà è la propria.
E’ certamente triste pensare come i nostri nonni e padri abbiano lottato per un’altra libertà, quella di tutti che ora viene messa in discussione.
I no vax oggi rappresentano solo l’avanguardia visibile di un movimento che piano piano sta costituendo un nuovo blocco sociale. Non penso di esagerare; se solo unisco i puntini di situazioni che sembrano lontane ne esce un quadro preoccupante per il futuro.
Solo alcuni esempi.

Ci sono dei genitori che da diversi anni ormai rivendicano la libertà di non vaccinare i propri bambini nonostante alcune vaccinazioni siano obbligatorie a tutela dei più deboli, ci sono i genitori che hanno intentato cause perché non vogliono che il loro figlio mangi il cibo della refezione scolastica per avere la libertà di preparargli il pasto secondo le proprie convinzioni dimenticano l’importanza educativa di condividere il cibo con i loro compagni , ci sono delle persone che si sentono autorizzate a circolare con bici e monopattini sui marciapiedi rivendicano la libertà di muoversi come vogliono, c’è chi si oppone al divieto di fumo nei parchi e alle fermate dei mezzi pubblici, ci sono i no tav (non solo e non tanto quelli piemontesi), ci sono quelli che hanno negato l’esistenza della xylella negli ulivi in Puglia rivendicando il diritto di curare le piante secondo le loro convinzioni e via discorrendo.
Il fatto è che tutte queste persone rivendicano il diritto di fare quello che vogliono invocando proprio la Costituzione che non viene messa in discussione, anzi citata come fonte delle loro rivendicazioni.
Voglio dire che è in atto in modo progressivo nella società un mutamento del concetto stesso di “liberta” così come espressa nella nostra Costituzione non solo rispetto alla salute, ma più in generale coinvolgendo ogni aspetto della vita sociale.
Gli articoli della Costituzione che il prof. Corradini cita nel suo post (16 e 32) difendono sì la libertà dell’individuo “salvo le limitazioni che la legge stabilisce”.
E’ proprio questa frase che viene contestata in nome della libertà, perché quella frase inserita dai Costituenti sta proprio ad indicare che la libertà come valore non è assoluta , ma è condizionata dalle leggi che una comunità in quanto tale democraticamente formula e promulga per un bene comune.
La comunità come valore.
Questo è il passaggio cruciale che stiamo vivendo oggi. La “libertà” come un palloncino si è staccata dalla parola “comunità” della Costituzione e fluttua per i fatti suoi.
La comunità non ha più diritto di interferire con la libertà individuale e porre per legge limitazioni come prevede la stessa Costituzione.
E’ l’appartenenza ad una comunità in grado di interferire con l’individuo che è contestata da qualche tempo e, non a caso, è proprio il principio di democrazia rappresentativa che viene messo in discussione con un bel “vaffa”, per una non meglio precisata “democrazia diretta” di più di 60 milioni di persone.
Anche il programma della Lega per le elezioni europee prevedeva un’Europa dove ciascuna entità nazionale o macro-economica poteva decidere se accettare una disposizione comune o no a seconda del proprio interesse.
Come interpretare poi il richiamo alla libertà di insegnamento riproposta di recente nonostante sia già garantita dalla Costituzione se non come una strizzata d’occhio a quei docenti che sono insofferenti ai vincoli del POF che un’altra comunità, quella scolastica, definisce in modo democratico attraverso i suoi organi collegiali. Se pensiamo a chi propone queste visioni e a chi vi aderisce ci rendiamo conto che il problema di come interpretare la “libertà” non è circoscritto alla salute e ai no vax. Si tratta di un ribaltamento culturale e valoriale che attraversa tutta la società.
La “libertà” diventa così un valore assoluto e diventa un diritto individuale nell’immaginario collettivo. Il richiamo alla solidarietà e al buon senso che naturalmente condivido, non credo siano però sufficienti perché c’è solidarietà se ognuno sente di appartenere ad una comunità, ma se manca la consapevolezza e la volontà di essere comunità poco c’è da fare. Se la comunità c’è solo quando mi dà qualcosa (assistenza sanitaria- strade, pensione anticipata ecc.) e non c’è quando mi chiede qualcosa la comunità è un oggetto di consumo e non una risorsa per tutti.
La questione non sta quindi solo nello stigmatizzare i comportamenti dei una minoranza di no vax, ma di cercare di comprendere questo cambiamento culturale e valoriale che piano piano potrà diventare maggioranza in Italia come in Europa.
Credo però che siamo ancora in tempo per un’inversione di tendenza se ci rendiamo conto della posta in gioco e se i docenti nelle scuole e gli intellettuali daranno il loro contributo per recuperare proprio questo concetto di comunità perché possa diventare nuovamente un valore per tutti e ridare il senso che la Costituzione assegna alla parola “libertà”.




Autonomia e libertà. Un ricordo di Giulio Giorello

Stefaneldi Pietro Calascibetta

In questi giorni il mondo della scuola festeggia Edgar Morin ricordandone il pensiero cha ha avuto una grande influenza su tutta una generazione di insegnanti. Un altro filosofo che ha ispirato la formazione di molti docenti è stato Giulio Giorello, purtroppo morto prematuramente poco più di un anno fa.
Desidero ricordarlo approfittando della recente la pubblicazione a cura di Antonio Carioti del volume dal bel titolo “Le avventure della libertà” che raccoglie i suoi contributi per #laLettura , supplemento culturale del Corriere della Sera.
Carioti nella prefazione tiene a sottolineare come il rapporto con Giorello non fosse stato casuale , ma frutto di una scelta precisa perché Giorello era la firma più adatta per collaborare ad un progetto culturale come quello de “la Lettura” che voleva «combinare il sapere umanistico e quello scientifico […] contaminare espressioni culturali elitarie e produzione per il consumo di massa».
Un progetto, continua Carioti, che «sembrava cucito su misura per Giulio Giorello […] perfettamente in grado di sparigliare il gioco, trovando sempre lo spunto per incuriosire il lettore o per cogliere nessi tra argomenti apparentemente distanti, con una versatilità più unica che rara».
Da dove derivava tutta questa poliedricità nell’approccio alla conoscenza?


Nella seconda di copertina troviamo una presentazione che in modo sintetico ce ne dà una spiegazione molto efficace che per questo motivo riporto integralmente.
«Eclettismo, apertura al nuovo e ai fenomeni di massa, contaminazione tra scienza e umanesimo, rifiuto di ogni schematismo. In una parola, libertà. Questa è stata la cifra intellettuale di Giulio Giorello, che ha reso la sua attività culturale un’avventura continua, fatta di incontri, sorprese, slittamenti dei punti di vista, in una pratica della ragione estranea a ogni dogmatismo e rigida appartenenza».

Leggendo questa biografia-lampo e ricordando sullo sfondo il pensiero di Morin a cui accennavo, mi viene spontaneo dire che queste parole potrebbero ben descrivere in modo semplice e chiaro ciò che una scuola dovrebbe fare e che Giulio Giorello personificava nella sua attività accademica e di divulgazione.
Spiazzare gli studenti, trovare il modo di incuriosirli, avere una visione olistica dei saperi, affrontare i classici senza disdegnare gli autori contemporanei, essere aperti al nuovo cercandone le valenze culturali e i nessi con il passato e le opportunità per gli sviluppi futuri, avere un atteggiamento non dogmatico nei confronti delle varie teorie pedagogiche e didattiche cercando di usarne le valenze e le possibilità in base ai bisogni degli studenti che di volta in volta si hanno davanti.
Insomma una scuola come laboratorio della conoscenza e della ricerca didattica applicata in cui sia possibile ai docenti accompagnare gli studenti in un’esplorazione dei saperi fuori da schemi precostituiti crescendo insieme a loro e arricchendosi anche sul piano professionale.
Utopia? No. Una forma-scuola che ha trovato la sua incubatrice nelle scuole cosiddette sperimentali degli anni ’70 e che ha trovato poi nell’autonomia scolastica la sua dimensione ordinamentale e proprio nella sperimentazione la sua dimensione metodologica, almeno nelle intenzioni del legislatore.

A questo punto ho ripensato al rapporto privilegiato che l’Istituto sperimentale Rinascita Amleto Livi di Milano ha avuto la fortuna di avere negli anni proprio con Giulio Giorello e mi sono reso conto di come questo incontro non sia stato casuale, come non lo era stato per “la Lettura”, perché il progetto di sperimentazione aveva diversi punti in comune con questo suo approccio alla conoscenza così ben descritto nelle righe precedenti.
Per cominciare la scelta culturale di dare pari dignità al curricolo scientifico e a quello umanistico a cui è corrisposta sul piano strutturale la scelta di assegnare lo stesso numero di ore curricolari ai rispettivi insegnamenti delle due aree e la creazione di un impianto orario, grazie al tempo pieno, in cui erano possibili occasioni di contaminazione interdisciplinare in copresenza tra i docenti in ambienti di apprendimento laboratoriali per consentire agli studenti di trovare o meglio scoprire in un lavoro individuale e di gruppo i nessi tra le diverse conoscenze, prendere consapevolezza di quelle mancanti da ricercare e, nel fare ciò, acquisire nuove competenze di studio per procedere poi con sempre maggior autonomia nell’esplorazione del sapere.
Ricordo che diverse sono state le occasioni di incontro con Giorello sia in occasione di workshop di formazione dei docenti, sia nella collaborazione con le iniziative promosse dalla scuola come quelle nate nell’ambito del progetto di rete di scuole “ Scienza under 18” promosso da Rinascita per aiutare le scuole a trovare nuove strade per valorizzare la cultura scientifica attraverso il protagonismo degli studenti.
Preso da queste suggestioni mi è venuto alla mente un intervento di Giulio Giorello sull’importanza della flessibilità e della sperimentazione nella scuola.
«L’adattamento presume la passività e il conformismo – diceva in quella occasione – mentre la flessibilità presuppone la voglia di cambiare, la libertà di cambiare, senza la quale le altre libertà vengono meno » Citando espressamente, come faceva spesso, il suo amico e maestro Ludovico Geymonat , anche lui come Morin filosofo e combattente partigiano che ben conosceva la libertà come valore e come condizione indispensabile alla formazione della persona.
Parole importanti e significative quelle di Giorello mi sono detto, in un momento in cui qualcuno si domanda se non sia il caso di tornare alla scuola di gentiliana memoria eliminando i progetti “distrattori”.

L’intervento a cui mi riferisco è quello svolto al Convegno nazionale del marzo 2017 tenutosi all’IRRE Lombardia dal titolo ”RICERCA DIDATTICA SPERIMENTAZIONE E PROFESSIONALITA’ DOCENTE.
Il protagonismo degli insegnanti per rispondere alle nuove esigenze della società” .
Un convegno organizzato dall’Istituto sperimentale “Rinascita A.Livi” di Milano con “Scuola città Pestalozzi” di Firenze e “Don Milani” di Genova per proporre all’attenzione del mondo della scuola l’opportunità di assegnare , nel nuovo quadro normativo dell’autonomia, un vero e proprio ruolo di sistema alle scuole sperimentali “storiche” esistenti già prima della riforma in collaborazione con quella che avrebbe dovuto essere l’ Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica poi ahimè abortita sul nascere con un’operazione di “palazzo” . Uno degli innumerevoli “inciampi” alla piena attuazione della riforma.

Consapevoli per esperienza diretta dell’assoluta necessità di avere almeno un’ipotesi progettuale degna di questo nome per guidare le scelte strutturali e organizzative da tradurre in un’offerta formativa , la rete delle tre scuole riteneva che l’esperienza organizzativa di gestione della flessibilità di queste “avanguardie” e di altri istituti con percorsi simili, sarebbe stata utile per sostenere nei vari territori tutte le scuole nell’attuazione proprio dell’autonomia di “ ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come recita il dettato dell’art, 6 del Regolamento attuativo, che poi è il vero cuore della riforma in quanto la sola autonomia didattica e organizzativa si trasforma in un esercizio di ingegneria e il POF un menù di offerte nel mercato delle utenze in mancanza di un’ipotesi progettuale solida e specifica predisposta dai docenti di ciascun istituto con la propria comunità scolastica da sperimentare per il successo scolastico dei propri studenti.
Ho riascoltato allora per intero l’intervento di Giorello estrapolandone alcuni passi che mi sembrano particolarmente significativi alla luce del dibattito odierno per comprendere la valenza dell’autonomia come strumento di libertà progettuale non tanto per il singolo docente, ma, ed è questa la novità, per ciascuna comunità scolastica.
Un contributo prezioso per comprendere meglio che qui si tratta della libertà di trovare le modalità più adatte per raggiungere un obiettivo comune e non la libertà di fare ciò che si vuole.

« La libertà di sperimentare è una libertà molto preziosa per la scuola – sottolinea con passione Giorello – e credo che questa libertà debba essere con coraggio e con decisione rivendicata da queste tre componenti della scuola: gli studenti, gli insegnanti e le famiglie »
Una sperimentazione non fine a se stessa ma motivata dal fatto che la scuola non può essere solo custode del passato, ma deve essere in grado di rendere gli studenti consapevoli che la conoscenza è in continua evoluzione, da qui la necessità di un incessante rinnovamento dei contenuti, «basterebbe guardare appunto alla storia della fisica o alla storia della biologia – incalza Giorello – per renderci conto di come siano emersi nuovi problemi e come i contenuti stiano cambiando. Certo non puoi fare una riforma permanente dei contenuti cambiandoli ogni giorno, né tantomeno stabilire una serie di norme che regolino i comportamenti di docenti ed insegnanti che vengono cambiati col ritmo della rivoluzione permanente, per citare la battuta di Lev Trockij, però qualcosa si può fare, io – aggiungeva – me ne rendo conto di nuovo con la mia esperienza personale. […] un problema sarà quindi sicuramente quello dell’aggiornamento dei contenuti».

In questo compito Giorello sottolineava l’importanza di ripensare il rapporto tra università, luogo anche di ricerca disciplinare, e la scuola che ha bisogno di essere alimentata in progress dall’evoluzione della conoscenza anche in funzione orientativa e motivazionale per i propri studenti facendo nascere interessi e stimolando talenti. Un rapporto però da stabilirsi non sotto forma di adesione passiva ai rituali accademici, ma flessibile nelle modalità e nell’approccio in base ai bisogni delle singole scuole. Non a caso il Regolamento dell’autonomia prevede, accanto all’autonomia di sperimentazione, ricerca e sviluppo , l’autonomia nel creare reti e convenzioni con università, Enti e associazioni (art. 7).
Giorello vede la flessibilità per la scuola non solo come una condizione possiamo dire insita nello sviluppo del pensiero e nella metodologia di insegnamento, ma come un diritto vero e proprio.
Nell’intervento al Convegno per introdurre questo concetto prende spunto da cosa accadeva nelle università medievali. «Quando un gruppo con un maestro non si trovava a suo agio in un contesto prendeva e andava a sperimentare altrove, questo è un elemento molto bello ed è bello che sia nato nel mondo della scuola. Il “diritto di exit” è secondo me è una delle componenti fondamentali di una società aperta e democratica, certo è una componente di libertà che va gestita in modo responsabile […], il “diritto di exit” va pesato rispetto ad altri diritti come l’assenza di danno agli altri […] quindi ci sono problemi estremamente intriganti, ma il cercare una proliferazione di esperimenti in uno spirito di autonomia mi sembra un elemento che lega la nostra scuola o almeno dovrebbe legare la nostra scuola a una tradizione profonda libertaria che ha costituito il meglio dell’esperienza europea nel senso di Husserl».

Avviandosi alla conclusione del suo intervento, Giorello non poteva essere più chiaro rispetto all’importanza della libertà di sperimentare scegliendo non a caso una frase di Patrick Pearse, un leader nazionalista irlandese, poeta ed educatore che alla libertà aveva dedicato la sua vita in quanto fu fucilato dagli inglesi dopo il fallimento dell’insurrezione del 1916 di cui era stato uno dei promotori.
Pearse, spiga Giorello, « aveva definito una scuola in cui i programmi burocrati uccidono la spontaneità di insegnanti e di studenti una specie di” murder machine” cioè di macchina per uccidere. La sua risposta era stata quella di un continuo tentativo di aprire in più direzioni, di far vivere le alternative. Allora – continua Giorello portando un esempio – c’erano i sostenitori della Celtic revival che dicevano : “Insegniamo le grandi favole, le epiche dei Gaelici nella nostra scuola!” e quelli che invece dicevano “No, insegniamo geometria per esempio la dura geometria di Euclide!” e Patrick Pearse rispose loro “ Perché non tutte e due!”».
Il messaggio finale è un auspicio . « Questo tipo di exit – conclude – se diventa un abito intellettuale è qualcosa che impedisce alla nostra scuola di diventare solo una macchina per uccidere la creatività, la spontaneità degli studenti e la volontà di cambiare dei nostri migliori insegnanti.”




Un tagliando per l’autonomia scolastica

Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.


La seconda opportunità è sul piano ideologico. La crisi economica e le contraddizioni nella globalizzazione che si sono aperte con la pandemia alimentano la discussione sul fallimento del modello neoliberista. Un’occasione troppo ghiotta per non considerare fallita anche un’autonomia scolastica bollata fin da subito come adesione proprio al modello neoliberista.
La terza opportunità è data dall’inquietudine già da tempo presente nella società e ingigantita dalle polemiche di due anni di DaD per una scuola che non riesce, nonostante le riforme, a raggiungere in tutto il Paese gli obiettivi che si era proposti riguardo al successo scolastico soprattutto delle fasce deboli (vedi la dispersione,  gli scarsi risultati a livello di apprendimenti di base, il divario tra Nord e Sud).

RICORDARE FA BENE ALLA VERITA’

Non è il caso di fare qui una difesa d’ufficio dell’autonomia, ma alcune cose vanno dette, forse per rispetto di quelle migliaia di docenti, dirigenti e genitori che hanno creduto e credono ancora nell’autonomia, hanno  sperimentato le sue potenzialità e ora di fatto vengono accusati di essere complici  della “Spectre dei poteri forti”.
L’autonomia scolastica è nata con il dichiarato intento di conciliare il dettato costituzionale alle esigenze didattiche ed organizzative poste da una scuola ormai diventata di massa.
L’istituzione della scuola media unica nel 1962 non è stata una riforma qualsiasi, è stata di fatto un cambiamento di sistema. Questo è un passaggio fondamentale per capire l’autonomia e la pretestuosità delle obiezioni che le vengono mosse.  La secondaria di primo grado non poteva essere né un ginnasio come vorrebbero gli adoratori della conoscenza pura, né un avviamento sia sul piano didattico che organizzativo, di conseguenza anche la secondaria di secondo grado non poteva essere la stessa di prima, ma anche la scuola elementare doveva tener conto che i propri alunni non avrebbero più dovuto scegliere tra avviamento e ginnasio.
Dal 1962 si è avviata una fase di ricerca di una nuova forma scuola per il sistema scolastico che alla fine ha preso la forma dell’autonomia. Il superamento della scuola gentiliana non è stata una scelta ideologica calata dall’alto e pensata a tavolino, scritta da infiltrati della Confindustria al ministero, ma una scelta pedagogica che  tra l’altro raccoglieva pratiche diffuse.

Non a caso l’autonomia con le riforme successive ha le sue radici profonde nell’esperienza della scuola attiva e nella sperimentazione diffusa degli anni ’70 e ’80 che ha addirittura cercato di far diventare ordinamento, come ben testimonia l’art. 6 del Regolamento che ne mutua il metodo per tutti.
Si trattava di una scuola militante che aveva come punti di forza: la progettualità; la flessibilità didattico-strutturale; la cooperazione tra i docenti; il lavoro collegiale come contesto di crescita professionale; i convegni, i workshop e le letture per rispondere ai problemi incontrati nel lavoro quotidiano con gli studenti e non come adempimento e infine un rapporto di collaborazione autentica con le famiglie e i territori intesi come risorse culturali da cui attingere conoscenze ed esperienze reali e non come vincolo per piegare il curricolo ad intrusioni  estranee alla formazione.

Una scuola di prossimità per permettere a ciascun istituto di sintonizzarsi con I propri allievi e con quel «ecosistema formativo» descritto chiaramente ora grazie alle  “Linee guida 0-6” che caratterizza una scuola di massa dove per la formazione di un cittadino colto diventa fondamentale l’educazione accanto all’istruzione.
Un impianto pedagogico che ha come riferimento teorico ben altre figure rispetto agli economisti neoliberisti e ben altre motivazioni rispetto a quella di attivare uno pseudo mercato degli iscritti (a che pro?). Difficile spiegare ai guardiani dell’ortodossia la differenza  tra libertà come profitto  capitalistico  e libertà  come empowerment.

Chiunque abbia esperienza di quegli anni può testimoniarlo. Tutto questo per dire che non mi sono mai sentito nei miei anni di lavoro nella scuola della sperimentazione prima e poi dell’autonomia, un avanguardista del neoliberalismo per aver applicato la normativa dell’autonomia! Mi dispiace per i guardiani dell’ortodossia, ma non abiuro un modello formativo che ha molto in comune con quello dei Convitti della Rinascita fondati dai partigiani alla fine della guerra per contribuire alla ricostruzione del Paese.

DALLE QUESTIONI DI PRINCIPIO ALLA RACCOLTA DEL DISAGIO DEI DOCENTI

Non ci sono dubbi che quella del «Manifesto» sia l’espressione di una posizione politica vera e propria di chi si sente garante (un ruolo  tanto di moda oggi!) di una presunta ortodossia e non invece di una critica costruttiva per migliorare una legge esistente che va pur applicata, basta vedere il linguaggio utilizzato e la forma di proclama che assume il testo nel suo insieme.
Il «Manifesto» ha dunque il solito obiettivo di rilanciare  la proposta di fare tabula rasa dall’autonomia e delle «disastrose riforme» che ovviamente per i firmatari non sono “politicamente corrette”, fin qui nulla di nuovo, questa volta però strizzando l’occhio ai docenti.

Questo è l’aspetto che a mio avviso è più rilevante perché cerca di attribuire all’autonomia e alle riforme la causa del malessere presente oggi in diversi docenti per sostenere la tesi che vanno eliminati.
E’ una questione delicata  che va affrontata con trasparenza perché non sia strumentalizzata.
In questi venti anni   si è diffuso in ampi settori del corpo docente un profondo scontento per tutti gli impegni collegiali richiesti via via dalle riforme che, nell’attuale struttura organizzativa, si riducono ad una serie di adempimenti burocratici che finiscono per saturare il già esiguo tempo a disposizione per il lavoro collettivo che avrebbe dovuto costituire un’occasione di valorizzazione delle competenze di ciascuno e di sviluppo professionale.

Un esempio tra tanti la sproporzione tra il tempo necessario per tutte le incombenze burocratiche e financo amministrative che ricadono sulla testa del tutor dell’alternanza scuola lavoro rispetto al tempo a disposizione per un lavoro individuale e collegiale con i colleghi e con il tutor aziendale di progettazione e di monitoraggio che possa permettere a tale attività di non appiattirsi sulle esigenze del partner aziendale, di essere effettivamente un’esperienza formativa che arricchisce la preparazione culturale dello studente e di non essere una forma di apprendistato mascherato.
In altre parole, serpeggia tra molti docenti, soprattutto della secondaria e dei licei, un malessere profondo che nasce dalla sensazione di un tempo sprecato e inutile in attività impiegatizie e in obblighi formali che sottraggono energia che altrimenti potrebbe essere indirizzata alla funzione docente e alla propria disciplina.
E’ vero che vi sono molti casi in cui il lavoro collegiale funziona, ma grazie al volontariato dei docenti coinvolti che trovano troppo spesso il tempo al di là dell’orario di lavoro e il misero riconoscimento economico.

Il lavoro collegiale da punto di forza dell’autonomia e delle riforme è diventato oggi il suo “ventre molle” e non a caso è proprio il lavoro collegiale che è sotto attacco in questa “nuova” versione del “Manifesto» anti-autonomia, con tutto ciò che resta della scuola attiva   che implica un’attività di progettazione comune fuori dall’aula con il territorio e le famiglie.  Una mossa astuta.
Ancora una volta non è una forzatura interpretativa di quanto scritto nel «Manifesto».
A che scopo questa enfasi per un ritorno alla centralità dell’ora di lezione «senza distrazioni» di progetti e attività trasversali. Una scuola di 60 minuti come dovrebbe essere questa cosiddetta “nuova scuola” al di là  delle motivazioni  filosofiche,  è una scuola che non ha bisogno di progettazione e di monitoraggio collettivo in itinere e quindi di tempo dedicato al lavoro tra docenti fuori dalla classe, bastano gli scrutini. E’ una scuola che riducendo all’osso l’organizzazione e il ruolo del dirigente scolastico nella regia delle attività, toglie finalmente di mezzo “l’uomo solo al comando” con “ li beli braghi bianchi”.

Un bel risparmio anche di risorse non dovendo pagare figure di sistema e altri docenti in ruoli organizzativi non più necessari. Più piccioni con una fava!
Il richiamo poi alla libertà di insegnamento è un altro tassello a favore del vecchio e tranquillizzate modo di lavorare del fu ginnasio: preparare la propria lezione a casa senza «perdite di tempo collegiali» come è espressamente scritto nero su bianco, fare lezione in aula in santa pace senza dover concordare nulla con i colleghi e non avere alcun obbligo di doversi uniformare a qualsiasi «didattichese» non solo ministeriale, ma neanche a quello elaborato e  approvato dal collegio in forza del POF,  che ovviamente si deve abolire facendo quadrare il cerchio  di quelle che sono diventate  quasi delle rivendicazioni  para-sindacali.

Messa in questo modo non è più solo una critica ideologica all’autonomia con le solite parole d’ordine che mobilitano sempre i guardiani dell’ortodossia, ma una chiamata alle armi rivolta ai docenti per “rimettere i remi in barca” approfittando del fatto che la scuola come comunità di pratiche è in difficoltà.

L’AUTONOMIA E’ UN CANTIERE ANCORA APERTO ?

Come scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori  come membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Altro che robotizzazione della scuola e alienazione, piuttosto una scelta strategica di empowerment delle risorse umane presenti invece di far calare dall’alto   programmi  e didattiche  queste  sì preconfezionate.

Se le premesse sono queste, bisogna però a questo punto chiedersi sinceramente perché una scuola immaginata e voluta come un laboratorio artigianale a disposizione dei docenti sia percepita a torto o a ragione proprio da molti insegnanti come una struttura tecnocratica o tendente ad esserlo che non offre motivi di gratificazione.
Sempre Berlinguer scrive «Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante.

Sono sotto gli occhi di tutti i non pochi ostacoli che ha subito la l’attuazione dell’autonomia soprattutto sul piano della struttura organizzativa e contrattuale chiave di volta per la sua possibile e reale attuazione, tra tagli delle risorse, fuoco amico, personalismi e cambi di governo..
Forse allora una spiegazione al malessere c’è. Se le cose stanno come scrive Berlinguer, la forma che ha assunto oggi l’autonomia non è quella che avrebbe dovuto essere. Il malessere dei docenti è reale perché lavorano in un contesto che non permette di fare quanto richiesto dalle stesse norme, è come avere il piede in una scarpa fuori misura, troppo stretta per camminare.
Questo va detto con forza e chiarezza per essere credibili nella risposta a quei docenti che credono di risolvere i problemi della scuola abolendo l’autonomia e le riforme.
L’attuazione piena dell’autonomia può diventare un obiettivo politico proprio in questo momento in cui è così forte il desiderio di cambiamento e trovano terreno fertile le vecchie polemiche ideologiche corroborate dall’uso strumentale del disagio dei docenti.

LA CRITICA COME OPPORTUNITA’ PER FINIRE L’OPERA

L’intervento dei firmatari del «Manifesto» può essere sicuramente l’occasione per coinvolgere i docenti e i cittadini dopo vent’anni in una riflessione su cosa sia realmente l’autonomia scolastica e quale sia la sua valenza nell’applicazione del dettato costituzionale (vedi il dibattito aperto da Gessetti Colorati) e  quali siano gli ostacoli che si contrappongono ad una sua  piena realizzazione,  senza nascondere le difficoltà.
Questo però non basta. E’  urgente fare il punto su dove siamo arrivati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme e valutare bene   ciò che manca ed è indispensabile che ci sia per il suo regolare funzionamento.
Se il cantiere dell’autonomia è ancora aperto, allora è necessario mettersi al lavoro con proposte politiche precise facendone  una questione “identitaria” come si usa dire oggi rispetto alla scelta fatta vent’anni fa.

E’ giunto il momento che chi ha a cuore le sorti dell’autonomia e crede della sua importanza per una pedagogia attivistica si faccia carico anche di ciò che non funziona e del malessere dei docenti e ne prenda atto come problema da risolvere esplicitandone in modo puntuale e trasparente i motivi e prospettando soluzioni concrete sul piano normativo e contrattuale che possano evitare, come si dice, di “dover buttare il bambino con l’acqua sporca” perché è nello status quo attuale il rischio di una deriva tecnocratica da una parte o di un reset di sistema come estrema ratio dall’altra, come vorrebbe il «Manifesto».
Per questi motivi penso che non si possa discutere di quanto afferma il «Manifesto» aprendo solo una disputa intellettuale sul piano pedagogico tra addetti ai lavori.

LIBERARE L’AUTONOMIA

Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché la posta in gioco tocca i docenti anche come lavoratori .
L’autonomia non può attuarsi in modo efficiente ed efficace dentro una struttura organizzativa che fa riferimento al modello gentiliano di cui è prigioniera.
Questo vuol dire che per poter parlare di un’autonomia compiuta bisogna avere il personale, uno stato giuridico, un contratto, dei profili professionali per le figure di sistema che comunque l’autonomia prevede come figure chiave,  nonché una configurazione dell’orario di cattedra dei docenti  tutti funzionali alla realizzazione del progetto didattico-strutturale di ciascuna scuola.
Dall’organizzazione del lavoro dei docenti dipende la capacità della scuola autonoma di individualizzare e personalizzare i percorsi da cui dipende a sua volta il potersi fare realmente carico delle differenze sociali, culturali, cognitive degli studenti. Insomma di essere efficaci.
Si tratta di un aspetto che attiene alla professionalità e al benessere di docenti, ma anche ai risultati e al successo formativo degli studenti.
E’ inutile investire nei corsi di recupero extrascolastici creando una scuola parallela  invece di investire    nel far funzionare  la flessibilità    per permettere alle scuole   di  riorganizzare  i curricoli  disciplinari su una  metodologia attivistica  che possa  unire  progetti e curricolo in un unico percorso integrato di istruzione ed educazione  .

Anche l’appello lanciato per la scuola del futuro dall’Associazione Gessetti Colorati individua un aspetto critico nell’organizzazione del lavoro “Una buona azione d’insegnamento/ apprendimento è possibile solo in presenza di un’adeguata organizzazione del lavoro che dovrebbe essere responsabilità dei gruppi di insegnanti. Solo una nuova e miglior organizzazione può contrastare il modello tecnocratico che il documento [il Manifesto] denuncia.”

UN CONTRIBUTO CHE VIENE DALLE SPERIMENTAZIONI DIDATTICO-STRUTTURALI

Purtroppo l’organizzazione del lavoro non dipende  solo dalla buona volontà dei docenti, ma dai vincoli normativi e contrattuali.
Sulla base dell’esperienza di sperimentazione didattico-strutturale avuta nella mia carriera scolastica, gli ambiti su cui porre l’attenzione che hanno un’influenza sull’efficienza e l’efficacia della scuola dell’autonomia possono essere i seguenti.

  • Un organico funzionale al progetto come era espressamente previsto in origine dalla stessa normativa applicativa. In altre parole un organico con più docenti di quelli necessari alla lezione frontale individuati come numero e classi di concorso in base al progetto di ciascuna scuola ovviamente entro un range    L’organico funzionale doveva accompagnare l’attuazione della riforma, ma dopo un anno di sperimentazione è rimasto lettera morta fino alla “Buona Scuola” che lo ha introdotto timidamente in modo residuale rispetto alla disponibilità di docenti nelle graduatorie e per attività di potenziamento e non per il curricolo disciplinare vero e proprio a cui doveva essere destinato. Sull’importanza e le vicende dell’organico funzionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.4 del 2020 dal titolo “Autonomia scolastica e organico funzionale. Un matrimonio che s’ha da fare!”
  • Un tempo scuola per poter avere a disposizione un monte ore adeguato come risorsa disponibile per una scuola attiva, in altre parole un tempo pieno non solo nella primaria, ma anche nella secondaria di primo grado e nel biennio della secondaria di secondo grado. Un tempo pieno non solo e non tanto come misura di welfare, ma come tempo scuola necessario e riconosciuto per una didattica attiva.
  • Un’articolazione del monte ore di cattedra e un’organizzazione del lavoro che permetta ai docenti di operare realmente come comunità professionali. In altre parole:
  • non avere in ordinamento docenti con 6 o 9 classi che di fatto sono docenti “di serie B” non potendo materialmente fare parte realmente di nessuna équipe inficiando lo stesso concetto di comunità professionale e creando di per sé malumore e frustrazione. Le ore di cattedra in più potrebbero costituire un monte ore per la flessibilità dei curricoli attraverso  il lavoro   con gli studenti.
  • Poter utilizzare parte dell’orario di cattedra  per le  attività collegiali  soprattutto quelle di équipe previste dalle stesse riforme come la progettazione di classe  e avere così    un numero certo di ore a disposizione settimanali o quindicinali per progettare, individualizzare, personalizzare, monitorare in itinere e valutare i curricoli.

Sull’importanza e la funzione del consiglio di classe come motore dell’autonomia e centro della comunità professionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.1 del 2021 dal titolo “Il coordinatore di classe: una figura chiave”

  • Avere un vero e proprio organico in ogni istituto di figure di sistema individuate nella tipologia a livello nazionale come fondamentali e riconosciute come tali nel loro ruolo.  Fare in modo che i  possano scegliere di mettersi a disposizione per questi incarichi  arricchendo  la propria formazione specificatamente per svolgere compiti di project leader dei consigli di classe e dei dipartimenti o di referenti organizzativi   con adeguati distacchi dall’insegnamento e un riconoscimento contrattuale specifico, una modalità già praticata per i docenti distaccati all’università.

Questo può permettere finalmente agli altri colleghi di poter svolgere in modo efficace il proprio lavoro di docenti in aula, E’ una scelta  organizzativa  per lasciare a chi vuole solo insegnare la possibilità di farlo senza dover essere obbligato dalle circostanze in ruoli di sistema mal sopportati e per i quali non si ha il minimo interesse e attitudine. Questa specializzazione nell’ambito del ruolo docente non necessariamente deve essere collegato alla progressione di carriera che potrebbe trovare anche  altri canali e  modalità per attuarsi.
Sull’importanza e la funzione delle figure di sistema per il funzionamento di una vera comunità professionale, oltre all’intervento di cui sopra sul coordinatore di classe, rimando ad un mio contributo in NUOVO PAVONERISORSE 26 maggio 2021 dal titolo “Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema

La verità è che la qualità della scuola dipende non solo dalla innovazione didattica messa in atto dal singolo docente, ma anche dalla forma  che  assume    la struttura e l’organizzazione  in base ai vincoli  in cui è costretta. L’innovazione organizzativa  proposta dall’autonomia e dalle riforme  ha bisogno di risorse, non si può fare  “con i fichi secchi”.

Un’autonomia senza oneri per lo Stato rimarrà purtroppo incompiuta.




Piano estate, un ponte per superare l’emergenza

di Pietro Calascibetta

Finalmente vediamo il Ministero dell’istruzione cambiare tattica e prendere l’iniziativa facendo una proposta articolata di arricchimento dell’offerta formativa con un investimento questa volta finalizzato direttamente agli studenti di ben a 510 milioni di Euro.
Si dà la possibilità alle scuole di progettare un percorso che possa fare da ”ponte”, come scrive il Ministro, tra l’anno appena chiuso tra mille tribolazioni e il nuovo avvolto ancora in un futuro incerto nonostante i vaccini.
Una finestra temporale da sfruttare al massimo che, in base al rischio calcolato, si presume sia contrassegnata dalla possibilità di rimanere in presenza.
La disposizione ministeriale insiste giustamente sul fatto che non si tratta di lanciare a caso una manciata di attività, ma di immaginare da parte delle scuole, nell’ambito della loro autonomia e in collaborazione con i genitori e il Terzo settore, un vero e proprio progetto “di senso” come è scritto e ben pianificato.


Immagino quindi che debba essere coerente da una parte con il modello educativo e formativo del singolo istituto e dall’altra aderente ai bisogni specifici degli studenti in base a quanto hanno potuto o non potuto fare concretamente in questi mesi e al contesto in cui vivono.
Giustamente l’Associazione Nazionale dei Collaboratori del Dirigente scolastico (ANCoDiS) si chiede : “chi si occuperà della realizzazione del progetto” e io aggiungo della progettazione.
Anche in questo caso, come ci ha abituato la pandemia, emerge la debolezza di un sistema scolastico che non prevede la presenza strutturale di figure intermedie che possano occuparsi professionalmente e con un orario di lavoro dedicato e adeguato ai molteplici compiti correlati alla realizzazione del PTOF di una scuola (badiamo bene spesso con 800/1000/1500 studenti!)
In questo sistema scolastico sono gli stessi docenti che danno la loro volontaria disponibilità a occuparsene ottenendo in cambio una misera cifra forfettaria da suddividersi, prelevata da un fondo assegnato alla scuola.
E’ un paradosso che se non ci sono volontari di tutto dovrà occuparsene il famoso “uomo solo al comando” (di quale truppa se i soldati possono scegliere se partecipare o meno alla battaglia!) .
Nella scuola uno vale uno e anche la competenza a svolgere un compito logistico o di coordinamento è un optional poiché molte volte il dirigente si trova costretto a scegliere tra i disponibili piuttosto che tra chi potrebbe meglio svolgere un incarico. Comunque chi prende un incarico aggiuntivo anche per spirito di servizio e con le competenze si trova poi nel corso dell’anno caricato di altre incombenze magari non previste.
Il condivisibile e importante progetto ministeriale che può dare respiro soprattutto agli studenti più fragili, cade pertanto in un contesto sicuramente problematico perché la sua riuscita e soprattutto la qualità di ciò che si farà dipende dalla capacità progettuale della scuola che, si badi bene, non dipende dalla preparazione e dalle intelligenze dei docenti su cui non si discute, ma sulla possibilità concreta che hanno di incontrarsi di fare riunioni realmente efficaci, di valutare bene i bisogni degli studenti, di gestire le presenze in estate anche quando a svolgere le attività può essere il Terzo settore, senza parlare della vigilanza e del problema delle ferie del personale.
Il tutto in un orario di lavoro di contratto di 18 ore per coprire solo ed esclusivamente le ore di lezione in aula ( ad esempio come fa un docente con 6 o 9 classi a sentirsi parte di un’équipe di classe e curarsi degli studenti fragili!) .
E’ già un quasi miracolo che l’incarico alle scuole sia stato dato alla fine di aprile, anche se maggio è il mese che prelude agli scrutini e a tutte le incombenze di chiusura dell’anno.
Bisognerà poi vedere anche quanti Euro sono destinati alla progettazione e all’organizzazione di tutto questo bel progetto e in che misura è possibile utilizzarli realmente per la progettazione che dovrebbe coinvolgere i consigli di classe almeno nella parte didattica e pedagogica per poter tenere conto dei bisogni . In base a ciò si vedrà quale tipo di organizzazione si potrà mettere in piedi per l’estate.

La questione delle figure intermedie è, come si intuisce, centrale in questa situazione, ma anche per la “scuola che verrà” di cui tutti parlano e che si dovrebbe realizzare. Non bastano i soldi per rendere la scuola più efficace ed efficiente. La vera riforma che si attende non è didattica, ma organizzativa e attiene allo stato giuridico, al contratto e all’utilizzo del monte ore di lavoro dei docenti, oltre allo stipendio naturalmente.
La RIVISTA DELL’ISTRUZIONE dedica proprio a questo argomento il Focus del numero 1 del 2021 a testimonianza dell’attenzione per questa questione del suo direttore, il compianto Giancarlo Cerini che ben conosceva la scuola reale.
In questo numero della Rivista io mi soffermo sul coordinatore di classe, una figura sottovalutata sul piano del suo ruolo nel funzionamento del consiglio di classe come vera équipe progettuale e per l’individualizzazione e personalizzazione del curricolo. Un approccio che a mio avviso può contribuire a ridurre la dispersione prima che diventi un problema.