Un allenatore per la scuola italiana

di Pietro Calascibetta

Ho seguito come molti italiani lo straordinario percorso della pallavolo maschile ai tempi di Velasco, non solo per le vittorie, ma anche per il modo di gestire ( scrivo gestire e non solo allenare) le squadre.
Il mio interesse è cresciuto per questo personaggio quando, ritiratosi dalle competizioni, ha cominciato a fare l’opinionista, il conferenziere e il consulente sulla gestione dei gruppi di lavoro e sul ruolo del coach di una squadra aziendale o sportiva che fosse.
Mi ha colpito in particolare la risposta data già molti anni fa in un’inchiesta televisiva ad un giornalista preoccupato della sfrenata passione dei ragazzi per i videogiochi.
Velasco, per spiegare il perché i ragazzi stanno attaccati ore e ore alla console, gli fece notare che quando sbagli in un videogioco devi tu stesso trovare il modo di capire come trovare il modo per superare l’ostacolo e così salire di livello imparando dagli errori e riprovando in un modo diverso.
La soddisfazione, la parte ludica se vogliamo, sta proprio nell’ affrontare la difficoltà e nell’essere stati capaci di avercela fatta da soli da qui la voglia di continuare . Quando sbagli o il tuo avatar muore , diceva Velasco, il videogioco non ti giudica, non viene fuori una scritta lampeggiante del tipo “ sei stato incapace” o non sei stato sufficientemente bravo”, il videogioco non dice nulla , ti mette alla prova nuovamente, ti sfida continuamente. Il merito di chi gioca sta nell’aver imparato a superare gli ostacoli, di ’essere diventato capace di farcela.

Come insegnante e poi come dirigente ho trovato questa riflessione di Velasco straordinariamente illuminante per spiegare in modo semplice cosa debba fare l’insegnante e cosa sia l’apprendimento al di là dei saggi letti , dei corsi e corsi di formazione, di indicazioni nazionali e Linee guida che tentano di spostare l’asse metodologico della scuola italiana dall’insegnamento all’apprendimento e tentano di ridefinire i ruoli facendo dello studente il vero soggetto attivo della lezione.
Nella scuola del terzo millennio posso constatare seguendo i nuovi docenti che devono sostenere il concorso, che è ancora largamente usato il metodo classico del “io ti spiego” e “tu rispondi”.
Non facciamo scoprire agli studenti la poetica di Pirandello, ma gliela spieghiamo noi docenti oppure facciamo vedere un bel filmato di YouTube di 2- 3 minuti, magari a fumetti su Pirandello con buona pace dell’educazione digitale. E’ come spiegare a parole un dipinto senza mai farlo vedere.
Il “laboratorio” è visto ancora troppo spesso semplicemente come un luogo attrezzato ora in modo multimediale, non come un una metodologia , come in realtà dovrebbe essere, con cui gli studenti scoprono la conoscenza in aula o in qualsiasi altro luogo utilizzando gli strumenti di indagine della disciplina, sbagliando e riprovando per poi imparare per la vita come si fa.
Velasco indirettamente parlando di videogiochi ci fa capire un’altra verità importante per la scuola. Il desiderio di essere promossi nei nostri studenti non è alimentato dal fatto che nella classe successiva puoi imparare nuove conoscenze della disciplina, puoi imparare nuove modalità per risolvere problemi o diventare più capace in qualcosa , non è il desiderio di diventare più competente a motivare lo studio per la “promozione”, ma la paura di essere bocciato e considerato incapace oppure il miraggio di un premio come avere in regalo un nuovo smartphone o il motorino.
Come sarebbe più motivante una scuola in cui lo studente non è semplicemente “promosso” all’anno successivo dal consiglio di classe, ma in cui possa passare al livello successivo del curricolo disciplinare quando è stato in grado con le proprie forze e con l’aiuto dei docenti a guadagnare tutte le competenze necessarie ad esplorare il livello successivo della disciplina scoprendo nuove conoscenze e acquisendo nuove abilità.
Una scuola in cui è lo studente che “si promuove” da solo , lo studente può dire di avercela fatta con le sue forze come nel videogioco.
C’è un’altra considerazione di Velasco sullo sport che mi sembra molto calzante per la scuola e che Walter Veltroni riporta in bell’articolo sul Corriere del 10 agosto sugli allenatori che rendono possibile agli atleti di una squadra di dare il meglio di se stessi coltivando la loro autostima e sostenendoli nei sacrifici.
“Non è che giochiamo di squadra – riporta Veltroni da una chiacchierata con Velasco – perché siamo poco egoisti , perché siamo buoni, perché ci piace stare con gli altri . Giochiamo di squadra perché è più efficiente, perché si rende di più. Anche perché siamo meno soli nei momenti difficili”.
Io credo che nella scuola non si abbia consapevolezza del ruolo e dell’importanza del gruppo classe nell’apprendimento. Il cooperative learning è una tecnica didattica che può essere utilizzata per svolgere diverse attività, ma l’essere una classe va oltre il cooperative learning , vuol dire essere una squadra che deve essere capace di collaborare non solo durante il cooperative learning, ma in qualsiasi attività per poter imparare , più impara il gruppo più e meglio imparano i singoli.
Nel gioco di squadra non vince il singolo, ma la squadra. La promozione non è una questione individuale, ma riguarda la classe nel suo insieme.
L’inclusione non è un principio morale, ma una necessità operativa se la classe è una squadra.
Il docente non può pensare agli studenti solo come individualità , ma come membri di una squadra le cui dinamiche, i cui stili di apprendimento, i cui bisogni speciali hanno bisogno di essere gestiti in modo da creare una rete interattiva. Il peer tutoring non è una modalità da utilizzare al bisogno, ma una delle modalità di collaborazione.

Chiudo con un’altra riflessione di Velasco che Veltroni ha raccolto prima della finale delle Olimpiadi di quest’anno.
“La pallavolo e il giornalismo devono smettere di parlare dell’oro che manca, è deleterio per tutti. Si vede sempre quello che manca , è uno sport tutto italiano, l’erba del vicino è sempre più verde. E’ una filosofia di vita, ma l’oro olimpico quando arriverà, arriverà.[…] godiamoci “ quello che abbiamo, e non quello che non abbiamo, poi è chiaro che daremo tutto quello che abbiamo per fare di più”.
A me viene una riflessione sulla mania del voler infilare a forza il “merito” nella scuola. come competizione.
Parafrasando Velasco è vero che gli studenti daranno tutto quello che hanno per fare di più, ma se non li assilliamo con il mito del successo a tutti i costi , ma se riusciremo a motivarli e a sostenerli nella loro fatica di imparare lasciando che loro siano i protagonisti dei loro successi.
A proposito, vista la medaglia d’oro, Velasco aveva proprio ragione!
Come scrive Veltroni , Velasco “trasmette carisma e saggezza, equilibrio e passione.” I nostri docenti possono fare altrettanto? Penso di sì, se si accorgono e se si rendono conto finalmente di essere i coach di squadre di potenziali talenti da “allenare” e non di studenti da istruire.




Lo spoil system dei curricoli

di Pietro Calascibetta

Non c’è di peggio che distruggere ciò che si vorrebbe valorizzare imponendo delle scelte di parte invece di prendere atto della realtà.
E’ il caso del curricolo di storia che il ministro Valditara vorrebbe rivedere per salvare la scuola valorizzando l’identità italiana.
Mentre le vacche italiane sono minacciate da quelle francesi e gli artigiani italiani da quelli olandesi, non si capisce da chi sia minacciata la storia nazionale.
Il ministro non si è accorto che nonostante i proclami reiterati per anni e le leggi che alcune forze politiche sono riuscite ad introdurre, l’Italia è un Paese ormai multietnico e lo sarà ancor di più anche solo con le quote legali di ingressi decise dal governo.
La realtà in cui vivono i nostri studenti italiani e i nostri docenti italiani nelle aule non solo delle grandi città è una realtà multietnica.
Mentre i dinosauri vivono nei libri, nei film e nei fumetti, i compagni ucraini, siriani, filippini, cinesi, somali, palestinesi, ecc. sono accanto a loro tutti i giorni e con loro condividono non solo l’aula, ma le emozioni, i ricordi, la cultura.
Ciascun docente è consapevole che se vuole che l’apprendimento sia efficace deve creare un gruppo classe coeso e una cultura del gruppo e non delle fazioni contrapposte.
Maschi e femmine, italiani e stranieri, con e senza bisogni speciali.
Il problema quindi non è valorizzare “l’identità italiana” con un lavaggio del cervello agli stranieri e contemporaneamente iniettare una siringa di italianità agli studenti italiani che magari hanno il nonno emigrato in Argentina, ma semmai capire come fare a valorizzare l’italianità come cultura tra le culture in una realtà già multietnica.
Lavorare per problemi non è purtroppo nella prassi di una nuova politica che si è fatta da sé.
La coordinatrice della commissione fantasma che Valditara ha costituito per questa operazione di spoil system è la professoressa Loredana Perla e uno dei membri Ernesto Galli della Loggia.
Dimmi con chi vai ti dirò chi sei recita un detto popolare.
Per capire quali saranno le “linee guida” che seguirà la commissione nel suo lavoro è molto facile, basta leggere il volumetto di 128 pagine, pubblicato nel settembre dello scorso anno e scritto a due mani da entrambi i membri della commissione, dal titolo “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo”.
Qui possiamo trovare tutto quanto occorre per un commento ex ante senza paura di essere smentiti.
Lo farò attraverso una recensione di questo volumetto scritta da Luigi Cajani su Historia Ludens “L’Identità colpisce ancora. Un libro sul curricolo scolastico di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla “.
Una recensione molto interessante perché riapre una discussione mai conclusa su come debba essere impostato un curricolo di storia per i nostri studenti di oggi e di cui il ministro pare non interessarsi, interessato com’è nel seguire le indicazioni direttamente dal suo segretario di partito.
E’ bene ricordare a tutti che da tempo è in atto una “battaglia dei curricoli” , come la definisce Cajani, tra i sostenitori di un insegnamento identitario e quelli di un insegnamento scientifico della storia, una questione apparentemente burocratica e formale, ma che non va sottovalutata soprattutto in questa fase in cui ciascuna parte politica è alla ricerca della propria individualità perduta e la destra è desiderosa di affermare la propria a suon di decreti.
Non si tratta di una questione di “lana caprina” né riservata ai soli esperti, ma dovrebbe riguardare l’intera collettività perché un’’impostazione non è uguale ad un’altra nell’effetto che produce perché se la proposta di Galli della Loggia e di Perla dovesse tradursi realmente in indicazione nazionale influenzerà la cultura e il modo di pensare di un intero Paese nei prossimi anni.
Ecco perché l’interesse elettorale ha preso il posto dell’interesse alla coesione sociale che un sistema democratico dovrebbe avere a cuore.

Non si sa se il ministro coinvolgerà soprattutto le scuole e le associazioni professionali dei docenti nella discussione del testo che sicuramente verrà alla luce, cioè coloro che vivono sulla loro pelle la questione della coesione sociale e della tenuta delle loro classi.
Ciò che si vuole introdurre è quel curricolo identitario che Galli della Loggia prefigura nel volume e che ha sicuramente dei limiti, ma anche degli aspetti originali che Luigi Cajani pur evidenzia nella sua recensione.
Ciò che mi interessa mettere in evidenza qui, in relazione ai lavori della commissione, è la contraddizione che un tale approccio sottende e di cui lo stesso Galli della Loggia si accorge senza però trarne le dovute conseguenze.
Scrive l’autore della recensione che Galli della Loggia si trova di fronte a una spinosa contraddizione che dichiara candidamente, da una parte si domanda “se sia lecita l’acculturazione forzata all’«italianità» che in qualche modo verrebbe così imposta a giovani provenienti da culture diverse, anzi per lo più diversissime, da quella italiana” dall’altra afferma con disappunto che oggi “ siamo convinti che ogni persona abbia una sorta di diritto naturale a mantenere integri la propria identità antropologica, la propria storia, i propri costumi, la propria religione, e ci sembra che ogni aspetto della nostra civiltà il quale tenda a mettere in discussione queste cose costituisca un’insopportabile manifestazione di arroganza eurocentrica” (pp. 42-43 del volume).
A queste considerazioni Galli della Loggia risponde da sé dicendo che “se la scuola deve perseguire l’obiettivo dell’inclusione, in che cosa mai dovranno essere inclusi i giovani immigrati o figli di immigrati se non in un ambiente italiano e per ciò stesso necessariamente in buona misura italocentrico?” (pp. 44).»
Uno strano ragionamento. Ammette che l’operazione sarebbe una “acculturazione forzata” , ma poi afferma implicitamente che l’uso della forza è giustificato come conseguenza di questa convinzione diffusa e dura da sradicare che gli stranieri abbiano un diritto naturale a mantenere integra la propria identità, mentre il diritto deve essere garantito agli autoctoni.

Si tratta di un escamotage per giustificare una scelta tutta ideologica. Tutti sanno che in un qualsiasi immigrato le identità si mescolano e si integrano senza la necessità di eliminare l’identità di origine come se potesse inquinare la purezza del contesto in cui si trova. Vale per i pugliesi a Milano piuttosto che per gli italiani a New York o in Argentina.
La perdita o soprattutto la paura di perdere quel pezzo della propria identità più preziosa, che è quella di origine, porta i figli di seconda e terza generazione a rivendicare le proprie origini con una conflittualità esasperata spesso come accade spesso nella banlieue parigina ed è questo il vero pericolo per l’italianità. E’ questo che si vuole? Rompere la coesione nelle nostre aule?
Una politica dell’istruzione che favorisca un’integrazione basata sul rispetto delle identità di origine e il rispetto dei valori della comunità in cui si vive è la vera garanzia per valorizzare l’italianità culturale del paese.

A questo punto vengono spontanee due considerazioni e alcune domande per me cruciali sulla questione che rivolgerei alla neonata commissione ministeriale.

1) Se marcare la propria identità di origine di noi italiani è così importante tanto da ricorrere ad un’acculturazione forzata degli stranieri, perché non deve essere altrettanto importante almeno riconoscere il valore che ha per un immigrato la propria identità di origine?
L’inclusione degli immigrati non può avvenire attraverso altre strade ad esempio potenziando con un apprendimento laboratoriale l’insegnamento dell’educazione civica che, basandosi sulla Costituzione scritta da esponenti di culture diverse, dovrebbe insegnare i valori e i principi di un’italianità condivisa forse più della storia di Roma ?
Oppure la conoscenza degli usi, delle tradizioni e dei costumi degli italiani del Nord come del Sud non è forse valorizzare l’italianità ? (Ricordo un manuale molto usato a scuola negli anni ’70 sui dialetti e le realtà regionali di Tullio De Mauro quando la difesa dell’italianità era finalizzato alla coesione sociale ) .
Sono gli immigrati coloro ai quali spetta l’onere di inserirsi acculturandosi all’italianità o il processo di inclusione riguarda anche gli italiani a cui spetta l’onere di accettare gli immigrati in quanto persone, magari conoscendo qualcosa di più della loro identità di origine?
Gli studenti lo fanno già sia parlando nei corridoi e aiutandosi vicendevolmente, sia in attività che i docenti svolgono proprio per fare della classe un gruppo di lavoro.
Non abbiamo pensato che forse può favorire meglio l’inclusione uno studio curricolare della storia, soprattutto nella scuola di base, in grado di dare ad entrambi gli studenti italiani e immigrati una formazione comune in grado di permettere agli immigrati di capire cosa sia l’italianità e agli italiani di capire il mondo e le diverse identità ? Insomma un curricolo basato sul “pensiero critico, ……sull’epistemologia della storia, sull’approccio multi-prospettico e sulle più recenti acquisizioni della ricerca” come scrive Cajani.

2) Alla viglia delle elezioni europee il ministro per sorreggere la campagna elettorale del suo partito preferisce l’approccio identitario di Galli della Loggia e di Perla dell’ “Insegnare l’Italia”.
Invece di domandarsi in che modo incentivare l’identità europea senza perdere quella italiana. Ancora una volta è Galli della Loggia a dire la sua. In un articolo del Corriere della Sera del 3 aprile 2024 scrive: «L’Ue insomma ha mancato a quello che avrebbe dovuto essere invece il suo primo compito: fare gli europei. Nel solo modo in cui ciò è sempre avvenuto: dando agli abitanti del continente il senso della loro storia dei valori (anche religiosi) cui essa ha dato vita, dell’unicità e, se è permesso dirlo, della grandezza e dell’importanza dell’una e degli altri.»
A questo punto mi domando, cosa intenda Galli della Loggia per “fare gli europei” e quale Europa voglia un ministro dell’istruzione che rappresenta tutti gli italiani e non solo gli italiani che hanno votato il suo partito.
Se fare gli europei vuol dire favorire, valorizzare, creare un’identità europea, mi sarei aspettato una commissione diversa e un approccio diverso al problema dell’inclusione che oggi non può che essere strettamente legato ad un’inclusione tra gli abitanti dell’Europa.
Un curricolo identitario alla vigilia delle elezioni europee dovrebbe essere almeno sull’identità europea. Di questo si ha bisogno oggi.
Forse potrebbe valer la pena di cambiare prospettiva per affrontare gli aspetti culturali legati all’immigrazione. guardando non solo all’Italia, ma all’Europa..
Anche gli immigrati potrebbero trarne beneficio perché è in Europa che vogliono andare, che sognano come loro futuro e forse hanno più di noi il seme per un’identità europea.
Un curricolo di storia realmente europeo non può non raccontare come le storie dei popoli che nelle diverse epoche hanno abitato e abitano il continente si siano intrecciate tra loro continuamente, dalla preistoria ai Romani, dall’Impero alle invasioni, dagli Stati nazionali a Napoleone. alle guerre mondiali.

Una storia comune tra i popoli che hanno abitato l’Europa scritta insieme nel bene e nel male che ha prodotto e che ha lasciato segni molto profondi anche nelle cosiddette identità nazionali odierne che si vorrebbero esaltare come se fossero fiorite dal nulla.
Chi più dei Romani, tanto citati dai puristi dell’”etnia” , ha costruito una società multietnica!
Immaginare una proposta identitaria sull’Europa innovativa rispetto ai curricolo già esistente sarebbe stato troppo per Galli della Loggia e per il ministro .

E’ sempre Galli della Loggia nell’articolo citato del Corriere a darsi la risposta sul perché l’Europa ha fallito nel fare gli europei, diventando così il campione delle contraddizioni.
«Certo, per tutto ciò sarebbe stato necessario sfidare qualche luogo comune del politicamente corretto e soprattutto decidere che cosa si è: che cosa si vuole essere o non essere. Dunque compiere qualche scelta ideale, forse addirittura qualche scelta coraggiosa, indicare un passato e a partire da esso avere un progetto un sogno.»
Si affretta a concludere che questo dovrebbe essere compito della politica che purtroppo non c’è, ma aggiungo io può anche essere compito dell’insegnamento della storia e di un ministro dell’istruzione che voglia superare la contrapposizione politica a tutti i costi per fare l’interesse non di un partito ma di chi frequenta le scuole della Repubblica che a guardar bene sono italiani e stranieri in altre parole sono quelli che si chiamano STUDENTI , studenti che hanno tutti diritto all’istruzione e ad un’educazione ad una cittadinanza democratica come vuole la Costituzione.




Cattedra inclusiva tra utopia e realtà

di Pietro Calascibetta

Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge.
Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che si affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.

In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta.

LA “GRANDE MALATTIA”

Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”

Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti.
L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni.
La “grande malattia” non è la causa del problema del “declino dell’inclusione” bensì un effetto.
Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.

Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni: quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti “culturali”, ma partono da esigenze molto concrete.

Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti.
In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di imparare.
L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro mentre lui ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà!
Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica” (da M. Castoldi).
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA, le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.

Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste.

La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso.
Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.

Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il modo della scuola.
Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa,

Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare?
Perché questo non è avvenuto e non avviene?
Questo è il vero problema.

E’ vero che i “Bisogni Educativi Speciali” sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari, Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi (il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze.

Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione è stata la risposta “politica”, probabilmente errata, al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata.
Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione.
Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo.
Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto?

Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione.
E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato.
Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.

IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO

La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione.
La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo.
L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.

ARRIVIAMO AL PROBLEMA

Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:

  1. i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri;
  2. i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
  3.  anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
  4.  l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.

L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta.

Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche”.
Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe.

Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?

UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO?

La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione.
Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti.

Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo.
Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe.
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES, le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.

In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema.
Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità della formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.

DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’

Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti.
Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto.
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente?

Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!)

Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto.
In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative.

Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico.
Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli.

Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente.

Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.

Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare, un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative.

Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.
Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto” (Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale.

Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.




Cattedra inclusiva, una proposta su cui discutere

di Pietro Calascibetta

Il 25 gennaio 2024 è stata presentata a Roma la proposta di legge sull’ “introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”  [clicca qui per leggere il testo]
E’ un’iniziativa importante perché è una proposta concreta che tocca aspetti strutturali del sistema scolastico ed è stata elaborata, come si suole dire dal basso, da esperti di tematiche relative all’inclusione che lavorano nel mondo della scuola e della formazione ( Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano).

La proposta di legge si pone l’obiettivo dichiarato di dare “alle studentesse e agli studenti con disabilità maggiori opportunità formative e un’effettiva inclusione scolastica e sociale.”
La proposta si fonda sulla convinzione che non possa esserci inclusione senza che tutti i docenti del consiglio di classe siano parte attiva di questo processo con piena corresponsabilità e senza deleghe ad altri, in particolare al docente di sostegno per gli studenti con disabilità.
Un presupposto su cui non si può che essere d’accordo.
Il merito della proposta è di aver posto la questione in termini strutturali perché per incidere realmente e perché funzioni effettivamente una proposta innovativa è necessario individuare la struttura organizzativa che è in grado di renderla praticabile.
Qui la soluzione individuata è quella di creare una cattedra “polivalente” in modo che, dopo un’apposita formazione iniziale e/o in servizio, nell’arco di un quinquennio “tutti i docenti incaricati sui posti comuni effettuano una parte del loro orario con incarico su posto di sostegno, mentre tutti i docenti con incarico su posto di sostegno effettuano, anche nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta formativa dell’istituto, una parte del loro orario su posto comune”.
In altre parole verrebbe eliminata la cattedra di sostegno per una nuova cattedra “inclusiva”.
Per la rilevanza della proposta e per il fatto che tratta anche di questioni strutturali penso che possa esserci lo spazio per alcune considerazioni e domande che possono offrire un contributo alla discussione che certo si aprirà e per una riflessione ed eventualmente per un’integrazione della proposta.

PERCHE’ PARLARE DI INCLUSIONE SOLO PER GLI STUDENTI DISABILI?

Condivido pienamente la necessità di una proposta di legge sull’inclusione perché è arrivato il momento di fare qualcosa non solo per migliorare l’esistente, ma anche per “reagire a percepibili resistenze e di una cultura dell’esclusione e dell’abilismo difficili da estirpare” , come scrivono nel comunicato stampa i promotori della proposta.
Sono inquietanti i segnali di un atteggiamento che, come recenti polemiche sui social hanno evidenziato, alimenta le strumentalizzazioni qualunquistiche che rischiano di mettere in dubbio lo stresso principio dell’inclusione.
Proprio partendo da questa preoccupazione noto che la proposta riguarda solo gli studenti con disabilità quando, a mio avviso, la questione dell’inclusione ha oggi dimensioni più ampie. Questo rappresenta un limite di non poco conto se si vuole affrontare anche l’aspetto culturale e tagliare le gambe al malessere comunque presente..
Oggi la normativa usa il termine “ inclusione” non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con Bisogni Educativi Speciali di cui fanno parte anche gli studenti con disabilità certificata.
L’acronimo BES però non lo ritrovo nella proposta. Questa mi sembra una debolezza.
Non si tratta di una questione formale, ma sostanziale che, a mio parere, non modifica il presupposto di partenza, cioè la necessità di un coinvolgimento diretto di tutti i docenti della classe, ma in parte potrebbe modificare la soluzione strutturale che propone.
Se si vuole puntare l’attenzione sull’inclusione come problema complessivo e non di un solo gruppo di alunni, come credo sia opportuno oggi, sarebbe necessario che la proposta indicasse nella finalizzazione espressamente gli studenti con BES e non solo gli studenti con disabilità.

L’INCLUSIONE NON E’ PIU’ UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA SOLO GLI STUDENTI CON DISABILITA’

Perché è necessario superare l’inclusione come un problema esclusivo degli studenti con disabilità?
Le perplessità sulle modalità con cui si attua l’inclusione oggi, che sono presenti sia tra i docenti sia tra le famiglie non solo degli studenti in difficoltà in particolare quelli con DSA, ma anche dei “cosiddetti normali” come direbbe qualcuno, nasce a mio avviso proprio dalle dimensioni del fenomeno dell’inclusione che sono cambiate rispetto a 46 anni fa quando furono abolite le classi differenziali.
Dopo una fase iniziale di coinvolgimento di tutti i docenti, si è sempre più diffusa la convinzione che l’inclusione degli studenti con disabilità passasse attraverso l’intervento dell’insegnante di sostegno, da qui l’affermarsi dell’abitudine a delegare loro lo sviluppo del curricolo di questi studenti e da qui la richiesta di ore e ore di sostegno al di là dell’effettiva gravità della disabilità e la successiva contrattazione tra i docenti della classe per contendersi la presenza in aula del docente di sostegno nelle proprie ore di lezione.
Le difficoltà di una effettiva inclusione nascevano da questo rapporto disfunzionale tra ruolo del docente di sostegno e ruolo del docente curricolare, come i promotori della proposta giustamente rilevano.
Se l’inclusione riguardasse però solo gli studenti con disabilità la proposta di rimescolare le carte tra posti di sostegno e posti comuni e individuare un’unica figura con entrambe le competenze sarebbe sufficiente a superare il problema, ma con l’introduzione della normativa sui BES l’inclusione, come si è detto, si è allargata ad una platea di studenti più ampia con bisogni speciali diversi senza che per loro sia prevista la presenza dedicata e in copresenza di un docente di sostegno.

Questo ha spiazzato molti docenti perché la gestione di questo nuovo gruppo di alunni della classe non poteva essere delegata come si era finito di fare per gli studenti con disabilità.
Il problema dell’inclusione oggi, a mio parere, va oltre il rapporto tra docente di sostegno e docente curricolare, almeno per gli studenti non con gravi disabilità che richiedono una copresenza del docente di sostegno per la gran parte delle ore.
Per questo motivo per perseguire una reale inclusione si pone la necessità di una modalità diversa di gestire la complessità dei bisogni formativi della classe nel suo insieme perché l’inclusione degli studenti con disabilità non gravi, che rappresentano la maggioranza, è diventato solo parte di un problema più ampio e articolato.

Le associazioni e le famiglie degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento da sempre incalzano i docenti curricolari perché tali studenti non siano affiancati da un docente di sostegno, anche se è comunque un docente del consiglio di classe a tutti gli effetti, che non è previsto per loro neppure dalla normativa perché il disturbo non rientra nelle tipologie dalla Legge 104, rifiutando una medicalizzazione di tale disturbo e pretendendo che sia il docente curricolare stesso ad utilizzare le misure compensative e dispensative nell’ambito del repertorio di metodi e tecniche che ormai dovrebbero utilizzare tutti i docenti per una gestione efficace della molteplicità degli stili di apprendimento degli studenti in una classe.
Insomma l‘inclusione viene vissuta dalle famiglie sempre più come un compito del consiglio di classe e viceversa dai docenti come un compito complesso per il numero di studenti coinvolti e troppo oneroso per la pressione a cui sono sottoposti dalle famiglie e a cui non si sentono adeguatamente preparati .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO COMUNE

Se il problema è quello di fare in modo che i docenti su posti comuni abbiano tutti competenze per una didattica e una relazione educativa inclusiva con anche delle competenze più specialistiche non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con BES e in particolare con DSA, basterebbe curvare la formazione iniziale e in servizio esplicitamente su tali tematiche ed è quanto prevede l’art. 3 della proposta di legge “ Il percorso universitario di formazione iniziale e di abilitazione all’insegnamento dei docenti di posto comune delle scuole di ogni ordine e grado comprende la formazione volta a sviluppare e accertare, nei docenti abilitati, le competenze culturali, pedagogiche, psicopedagogiche, didattiche e metodologiche, necessarie a promuovere l’inclusione scolastica ed in particolare l’inclusione degli alunni con disabilità.”

E’ vero che leggendo il testo dell’articolo si può intuire che tale preparazione possa servire per affrontare la situazione di tutti gli studenti, ma per la particolarità del nuovo contesto in cui si attua l’inclusione disegnato dalla normativa sugli studenti con BES a cui accennavo, andrebbe precisato a chiare lettere nella proposta di formazione che le competenze metodologiche da acquisire dovrebbero essere anche finalizzate alla gestione unitaria della molteplicità dei bisogni educativi speciali presenti in un gruppo classe e degli stili di apprendimento individuali di tutti gli studenti.

Si tratta a mio avviso di una ulteriore specifica competenza che va oltre la specializzazione del docente di sostegno orientata ad un intervento in genere individuale in compresenza.
Il nodo critico dell’inclusione in questo scenario è proprio la competenza a gestire nell’attività didattica in modo unitario e olistico la complessità dei bisogni degli studenti con BES.
Non è raro nella scuola sentire docenti che si lamentano di avere una classe non tanto con uno, due studenti con disabilità, ma “in aggiunta” , fanno presente “disperati”, di avere 8 studenti con DSA, 5 stranieri, 3 con situazioni familiari particolari e via discorrendo.

E’ da qui che nasce il desiderio di avere classi con solo “cosiddetti normali” !
La questione dell’inclusione come ho cercato di tratteggiare ha assunto ora la dimensione di un problema di gestione della classe in presenza di una molteplicità di nuovi bisogni speciali che sono come per gli studenti con disabilità tutelati formalmente e giuridicamente da una serie di adempimenti che la normativa richiede al consiglio di classe e al singolo docente.
Con la proposta di legge così modificata, la figura professionale del docente inclusivo durante le ore curricolari si arricchirebbe effettivamente delle competenze necessarie a gestire l’inclusione scolastica per tutti gli studenti con BES e quindi anche per gli studenti con disabilità in presenza e soprattutto in assenza del collega di sostegno .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO DI SOSTEGNO

La situazione, a mio avviso, presenta invece delle criticità quando vediamo il docente inclusivo sul posto di sostegno per svolgere di fatto la funzione dell’ insegnante specialista “per le attività di sostegno didattico” richieste dalla progettazione in compresenza con il docente inclusivo curricolare per le ore previste in base alla gravità e alla tipologia della disabilità .
In altre parole farebbe ciò che oggi fa il docente di sostegno,. E’ vero che sarebbe anche abilitato nella disciplina curricolare , ma anche il docente di sostegno oggi è comunque un docente disciplinare abilitato o meno.
Premesso che il monte ore complessivo di sostegno di una scuola è determinato in base ai casi presenti e che in base alla proposta di legge andrebbe distribuito in quota parte a ciascuno dei docenti inclusivi, ne consegue che nell’attuale ordinamento si porrebbero diversi problemi nell’organizzare l’ orario di lavoro di ciascun docente e di conseguenza ciò limiterebbe quella flessibilità nell’assegnazione delle ore ai singoli studenti in base alle effettive necessità di ciascuno di loro e in base alla progettazione che è l’aspetto più qualificante dell’utilizzo di tali ore perché non siano solo di assistenza o di “sollievo” per i docenti curricolari.

Un altro problema di non poco conto è legato a come ripartire la cattedra di un docenti con 8 o 6 classi su entrambi i posti . Escludendo tali docenti da questa possibilità di accedere alla cattedra inclusiva si riprodurrebbe una diversità tra i docenti questa volta sulla base del numero di classi, soprattutto nella secondaria di secondo grado dove ad avere più classi sono proprio i docenti delle materie di indirizzo.
Organizzare poi un orario settimanale di un docente in cui si incrocino ore curricolari di cattedra e ore di sostegno è molto complesso e il ricorso ad algoritmi di alcune piattaforme in commercio non è certo garanzia per un utilizzo individualizzato di tali ore sugli studenti con disabilità che ne hanno diritto in base alla Legge 104 ( l’IA potrà forse aiutaci?).
Un altro problema sarebbero le supplenze temporanee dei docenti inclusivi nella fase di transizione.

Già oggi vi sono numerosi casi in cui un docente con uno spezzone curricolare ha un completamento nel sostegno con non pochi problemi di “incastri” di orario e anche sul piano logistico ad esempio se su più plessi o ordini di scuola.
A questo punto sorge la domanda se effettivamente abbia una reale utilità assegnare al docente inclusivo ore sul posto di sostegno e non puntare invece solo ad arricchire la formazione del docente curricolare attribuendogli il ruolo di docente “inclusivo” .mantenendo comunque la separazione nell’assegnazione dei posti con il vantaggio comunque che un docente potrebbe passare da una tipologia all’altra dando la propria disponibilità nell’ambito delle scelte progettuali della stessa scuola o del consiglio di classe in relazione alle problematiche specifiche..

I COORDINAMENTI

La proposta di un COORDINAMENTO PEDAGOGICO DI ISTITUTO mi trova non solo d’accordo, ma entusiasta essendo stato uno degli organismi centrali nell’organigramma della sperimentazione a cui ho lavorato e un cavallo di battaglia nel proporre l’esperienza alle altre scuole.
Se, come mi sembra di aver compreso, dovrebbe essere un organismo che non si occupa esclusivamente di inclusione, in altre parole non sostituisce il GLI, ma “ persegue il raggiungimento degli obiettivi del piano dell’offerta formativa e sostiene la qualità dell’insegnamento” con una visione di insieme attraverso le “ supervisioni” e il “ supporto formativo” , lo trovo assolutamente necessario e può essere uno strumento molto potente di rilancio dell’autonomia scolastica se ha una funzione s di sintesi..
Naturalmente per questo motivo il suo funzionamento, anche se non finalizzato all’inclusione, avrà una significativa ricaduta su di essa e non solo per gli studenti con disabilità, ma anche per gli i studenti con BES e in generale per tutti gli alunni.
Per questo motivo trovo pertinente il suo inserimento nella proposta di legge anche se si occupa di inclusione.

Sarebbe però il caso di chiarire meglio nel testo della proposta questa funzione non settoriale per evitare fraintendimenti visto che si individua nell’articolo successivo un organismo di coordinamento territoriale espressamente dedicato all’inclusione. .
Un Coordinamento didattico, diventa all’interno delle scuole una risorsa strutturale che potrebbe diventare il motore di quell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art.6) che dovrebbe fare del PTOF non un semplice menù di attività come di fatto il più delle volte è finito per diventare nonostante la buona volontà dei docenti., ma una vera e propria ipotesi didattico-pedagogica-organizzativa elaborata professionalmente dai docenti con la collaborazione delle altre componenti scolastiche per raggiungere i traguardi previsti a livello nazionale tenendo conto dei bisogni speciali o no degli studenti nello specifico contesto territoriale.
Un organismo che potrebbe lavorare in tandem con chi si occupa dell’autovalutazione di istituto e la rendicontazione sociale per lo stretto legame dell’azione di coordinamento con i processi di miglioramento.
Per la verità vi sono diversi istituti che hanno nell’ambito dell’autonomia organizzativa introdotto organismi simili, ma il passo avanti sarebbe avere un organismo di sistema normato per legge in tutti gli istituti con delle figure anch’esse di sistema e soprattutto, questo è l’aspetto qualificante e determinante per fare la differenza, con un distacco “dall’insegnamento per metà orario del servizio prestato” o comunque per un monte ore che possa permettere di poter effettivamente essere una risorsa per i consigli di classe alle prese con le problematiche legate all’applicazione del PTOF nel proprio contesto operativo.
Per quanto riguarda la composizione mi domando perché non possa essere questa una delle collocazioni dei “docenti esperti” dando ad essi un ruolo di sistema che attualmente la normativa non assegna loro contribuendo a fare in modo che queste novità introdotte per i più svariati motivi convergano finalmente in un’ottica organizzativa invece di essere scollegati gli uni dagli altri.

In un tale organismo, che dovrebbe essere il cuore dell’azione formativa, dovrebbe essere presente sicuramente la figura del dirigente scolastico proprio in virtù del suo ruolo di garante dell’unitarietà dell’azione formativa e forse un ispettore (anche se su più scuole) con quel profilo di consulente così come delineato dal recente decreto n. 41/2022 che ne potrebbe fare una risorsa del sistema delle autonomie e non solo un funzionario dell’apparato ministeriale.
Per quanto riguarda invece la gestione solo degli aspetti più specifici dell’inclusione ritengo che sia utile il mantenimento del GLI come organismo a questo deputato con i compiti attualmente assegnati di cui la proposta non parla..

Mi trova concorde poi la proposta di un “COORDINAMENTO TERRITORIALE PER L’INCLUSIONE (CPTI)” per come è stato concepito con l’obiettivo di semplificare sul territorio la gestione degli interventi specifici sull’inclusione ed evitare l’attuale frammentazione..
Frazionare gli organismi e i compiti sul territorio mi sembra che non favorisca la sinergia tra le varie istanze.




La scuola e il “regno della menzogna”

di Pietro Calascibetta

Sulla recensione di Galli della Loggia del volume di Giorgio Ragazzini, “Una scuola esigente”, pubblicata sul CdS del 13/1/23 si è abbattuta una valanga di commenti a volte sarcastici e ironici, a volte molto aspri per usare un eufemismo.
Nel trafiletto di cui parliamo Galli della Loggia si occupa dell’inclusione.
La scelleratezza perpetrata dalla normativa consisterebbe nella scelta di inserire nella stessa classe “unici al mondo” sia i ragazzi con delle difficoltà nella loro completa gamma di situazioni sia quelli che definisce “cosiddetti normali”, diciamo alla Vannucci, con un risultato a suo dire disastroso.
Un’affermazione senz’altro forte e provocatoria.
Non voglio aggiungere nulla, per chiarezza posso dire di condividere pienamente gran parte dei commenti critici che ho letto.
Detto questo vorrei tentare di affrontare invece la polemica che ne è nata toccando un altro aspetto della questione che mi sembra non meno importante dei valori su cui gran parte dei commentatori hanno puntato.

OLTRE AI VALORI C’E’ DELL’ALTRO

Approfittando dell’assist fornito dalla recensione, a me pare che a Galli della Loggia non sia sembrato vero di poter aggiungere un nuovo tassello al suo teorema che la scuola è stata rovinata con le sciagurate riforme fatte per motivi politici e opportunistici dall’allora PCI e dai suoi complici, i fiancheggiatori del compromesso storico e del neoliberismo.
Non è una mia malevola interpretazione, ma è una tesi da lui compendiata addirittura in un saggio per dare supporto scientifico alle sue “opinioni” in merito, espresse a puntate in vari articoli sul Corriere.
Non a caso Galli della Loggia è molto vicino al “benemerito”, come lui lo definisce, “ Gruppo di Firenze” di cui Giorgio Ragazzini è un esponente di spicco da sempre in prima linea su questo fronte.
Sono convinto che Galli della Loggia non sia razzista e non sia Vannacci, ma utilizza l’argomentazione del mondo alla rovescia perché è abbastanza diffusa in quella parte di cittadini convinti come lui che ci sia stata una macchinazione della cosiddetta cultura di sinistra per realizzare una società al contrario, come dimostrano i numerosi lettori dell’ormai famoso generale.
Così facendo sdogana la vulgata popolare secondo la quale per cominciare a risolvere il problema del far funzionare la scuola bisogna liberare i “cosiddetti normali” dalla palla al piede degli altri studenti che, detto tra noi, potrebbero poi essere la maggioranza della classe.
E’ lo stesso ragionamento che lo porta a dire che bisogna liberarsi delle ore di programmazione, dei progetti, delle compresenze, di tutto ciò che non è “lezione” dove c’è un discente che ascolta e un docente che insegna, insomma dell’autonomia.
Parlare dei “cosiddetti normali” è un modo probabilmente strumentale per raggiungere una platea di persone che possano condividere con lui la battaglia contro l’autonomia scolastica, la pedagogia e i pedagogisti, le riforme ecc. il vero cancro a suo parere della scuola italiana che va, possiamo dire parafrasando, “normalizzata”, riportandola dove non si sa, ma è dato intuire, se tutto ciò che è stato fatto dagli anni sessanta in poi non va bene.

IL MORALISTA

Accesa così la fiamma dell’empatia, passa nella sua recensione a giocare la carta “Selvaggia Lucarelli” e afferma di voler smascherare il falso “mito” della scuola inclusiva denunciando che quella che viene esaltata come una scelta di civiltà è “una menzogna” perché non corrisponde alla realtà di una scuola allo sfascio qual è secondo lui la scuola italiana oggi.
Sono sicuro che Galli della Loggia se interrogato sulla questione dirà che lui ha il massimo rispetto per tutti gli studenti con BES, DSA , disabilità ecc. ed è proprio per questo che usa volutamente il termine “menzogna” facendosi così paladino non solo dei “cosiddetti normali”, ma anche di questi studenti fragili che sono stati ingannati e che non riescono ad avere i benefici promessi da questa scuola forgiata dalle riforme facendosi così portavoce di un disagio sicuramente presente e di alcuni problemi che effettivamente esistono nell’inclusione.
È per questo motivo che oltre ad una risposta sui valori è necessaria a mio avviso una risposta chiara e netta sule cause del problema del disagio che lui solleva.

CHI MENTE?

Galli della Loggia mente sapendo di mentire non solo sulla reale dimensioni del problema, ma sulle cause delle difficoltà che l’inclusione incontra effettivamente.
L’autonomia permettendo la flessibilità nella costruzione dei percorsi e nella gestione del gruppo classe è lo strumento più adatto in grado di permettere una didattica inclusiva in un scuola di massa aperta a tutti e non solo alle élite selezionate come era nella visione della scuola superiore di Gentile.
L’autonomia come risposta al problema dell’inclusione.
Perché tutto questo non si è avverato? Per Galli della Loggai perché le premesse erano sbagliate, i “normali” non devono convivere con chi non lo è! I soliti buonisti!

NEL “REGNO DELLA REALTA'”

Nel “Regno della realtà” c’è un’altra spiegazione. Va detto con determinazione che le difficoltà non derivano dalla convivenza di studenti “normali” e di studenti con bisogni speciali, ma dal fatto che l’autonomia scolastica che oggi vediamo, non è l’autonomia quale sarebbe dovuta essere se non fosse stata boicotta fin dal suo esordio e successivamente negli anni non dando le risorse necessarie al suo funzionamento sia finanziarie che normative.
Il fatto che Galli della Loggia dovrebbe conoscere è che l’autonomia la si è fatta con i fichi secchi (passata la festa, gabbato lo santo!) senza mettere a disposizione quanto indispensabile ad attuarla per come era stata concepita, a cominciare da quell’organico necessario a permettere quella flessibilità della lezione, del gruppo classe, delle attività che doveva servire proprio per dare tempi e modalità di apprendere in base ai bisogni differenti degli studenti. Il nocciolo dell’inclusione.
Qualcuno ricorderà sicuramente la sperimentazione dell’organico funzionale subito fatta abortire. Bisogna aspettare la Buona Scuola per trovare finalmente la possibilità di ampliare l’organico in base ai bisogni progettuali di ciascun istituto anche se in modo contraddittorio e molto parziale. Non a caso Berlinguer e Renzi sono considerati da questi signori la coppia che ha rovinato la scuola.
Ma le cause delle difficoltà non stanno solo nell’ organico.
Si è fatta l’autonomia senza modificare la struttura delle cattedre con insegnanti con 8-6 classi che si può immaginare come possano prendersi cura non solo dei ragazzi in difficoltà, ma anche dei “normali”.
Non si è definito il ruolo del coordinatore di classe ora ridotto ad assistente tuttofare, che sulla normativa neppure esiste, che invece dovrebbe essere il project leader dell’équipe di lavoro ; non si è adeguato lo stato giuridico dei docenti alla nuova organizzazione richiesta dalla flessibilità, lo stesso dicasi per il contratto.
Galli della Loggia dovrebbe chiedersi come opinionista il perché di tutta questa resistenza a considerare sullo stesso piano sia l’insegnamento in aula sia l’attività di coordinamento e di progettazione e monitoraggio necessarie a sostenere sul piano pedagogico e didattico la flessibilità del gruppo classe, le attività di scuola attiva e il lavoro di gruppo intorno ai quali ruota la scommessa dell’autonomia e dell’inclusione. Non fanno parte entrambe della professionalità docente? Quale cultura li tiene separate come se fossero due lavori diversi, un lavoro di serie A ed uno di serie B?
L’autonomia prevedeva di cambiare il modo di lavorare dei docenti. Dalla progettazione individuale del singolo docente a casa propria a quella collegiale inserita come parte integrante dell’orario di lavoro nel luogo di lavoro. Viene il dubbio di credere che se questo lavoro è svolto a casa individualmente è professionale, se svolto a scuola con i colleghi è un impaccio burocratico?
L’inclusione in una scuola di massa non è una questione che può affrontare individualmente il singolo docente, ma riguarda il consiglio di classe e l’intera comunità scolastica con tutte le sue componenti.

IL “REGNO DELL’AMNESIA”

Più che il “regno della menzogna” la scuola sembra essere il “regno dell’amnesia” .
Ci si è dimenticati che la stessa piattaforma unitaria dei sindacati confederali della scuola del 2002-2005 sottolineava la necessità nella nuova scuola dell’autonomia di “un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Quali sono stati gli interventi contrattuali e normativi per dare all’autonomia quello che era necessario per poter funzionare?
E’ ovvio che se l’autonomia fonda le sue basi nell’art. 6 del Regolamento e nel lavoro cooperativo dei docenti e poi non c’è uno spazio e dei tempi adeguati per lavorare con questa modalità, i numerosissimi compiti collegiali che le riforme e l’autonomia stessa richiedono ai consigli di classe e ai docenti con un lavoro collegiale finiscono per essere ridotti ad adempimenti burocratici per necessità pratica e per sopravvivenza.
Tolta l’elaborazione creativa, rimane il verbale taglia e incolla.
E’ facile poi mettere in evidenza la burocratizzazione della scuola e lo svilimento professionale.
Insomma con un’espressione non elegante la scuola dell’autonomia è “cornuta e mazziata”.
Se tutte le attività non di insegnamento sono considerate attività aggiuntive, alcune di queste svolte su base volontaria, pagate con un compenso chiamato accessorio prelevato da un fondo da contendersi gli uni con gli altri, come si può chiamare ancora autonomia questa umiliante condizione di lavoro? E’ comprensibile il disagio dei docenti.
Galli della Loggia dovrebbe scrivere che se la scuola è in difficoltà non è per le riforme e per l’autonomia, ma perché in Italia si fanno le riforme, ma poi non ci si preoccupa di renderle realmente operative. Nella scuola e altrove.
Pensiamo al ruolo previsto dalle riforme per i GLI, Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, in cui dovrebbero essere presenti anche i referenti delle strutture sanitarie che per i tagli alla sanità sono invece assenti; pensiamo alla mancanza di finanziamenti per la psicologia scolastica in una società dove la scuola dovrebbe rappresentare un presidio per affrontare i disagi sempre più diffusi negli adolescenti come i disturbi alimentari , l’ansia, gli attacchi di panico, ecc, pensiamo alla scomparsa del medico scolastico dalle scuole facendo mancare anche un suo ruolo nell’educazione alla salute tanto che durante il Covid si è dovuti ricorrere ad un docente come referente con mansioni, queste si, che non avevano nessun rapporto con la funzione docente; , pensiamo ai docenti e ai supplenti nominati in ritardo , al cambio dei docenti ogni anno, tutto imputabile ad una cattiva gestione dell’amministrazione e non alle riforme.
Mi sembra che ci siano sufficienti argomenti per dire che la convivenza di studenti “normali” e di studenti non “normali” è un’opportunità e una ricchezza non utilizzata come si dovrebbe e non valorizzata per l’indifferenza che ormai da tempo connota l’azione politica e il regno dei “cosiddetti normali” verso i ragazzi e i giovani..
Sarebbe il caso che gli opinionisti si assumessero la responsabilità di cominciare a dire il vero separando, quando scrivono sui media, i fatti nella loro complessità dalle opinioni strettamente personali soprattutto se ideologiche.




L’altra faccia della valutazione

di Pietro Calascibetta

Come per la luna ci sono due “facce”, anche per la valutazione ci sono due “facce”: una che vediamo e che è rappresentata dai voti in decimi che bisogna scrivere per legge sulla pagella e che per questo ci sembra l’unica e l’atra nascosta che non vediamo o non vogliamo vedere, ma che forse è ancora più importante ed è quella che ha più influenza sull’apprendimento e sul lavoro del docente.
Si tratta della valutazione in itinere.
Questo continuo ridurre il dibattito sulla valutazione ad un referendum tra chi è a favore e chi è contrario ai voti in decimi in assoluto confonde tutti, docenti, studenti e famiglie e impedisce di affrontare proprio l’altra “faccia” della valutazione quella più importante per la formazione.
Scorrendo la normativa è chiaro che la “valutazione periodica e annuale” deve essere fatta in decimi, dove per “periodica” si intende quella trimestrale o quadrimestrale e che la “ media” è solo un criterio (giusto o sbagliato, corretto o scorretto che sia) che entra in gioco solo per alcune fasi finali della “valutazione”. Se guardiamo bene la normativa, ci si rende subito conto che queste disposizioni riguardano solo i documenti formali (pagelle) e i criteri di ammissione e di promozione all’esame (di stato).
Lo scopo del mettere voti in decimi ha un obiettivo preciso di sistema. Non voglio discuterne la validità in questa sede perché voglio porre l’attenzione sul processo di valutazione in itinere durante il percorso formativo, diciamo nella quotidianità del far lezione. E’ ciò di cui si parla meno.
Che si tratti di valutazione formativa o sommativa o altro non troviamo dei vincoli normativi su come rappresentare gli esiti di questa “valutazione” che potremmo chiamare meglio misurazione o osservazione e sui criteri da adottare per gestirla in modo operativo da parte dei docenti nella quotidianità.
Vi è pertanto nel processo di valutazione una parte discrezionale (quella nascosta) e una parte normata (quella che si vede nei documenti formali).
Dare un voto in decimi nei compiti in classe, nei compiti a casa , nelle interrogazioni o in quant’altro e fare o non fare la media di questi voti o quale criterio adottare per confrontarli e trarne una sintesi per la valutazione trimestrale o finale non è scritto da nessuna parte. prima di essere giusto sbagliato.
Le modalità e i criteri di questa fase della valutazione sono una responsabilità dei collegi e dei docenti che essi si devono assumere professionalmente senza nascondersi dietro l’obbligatorietà normativa di dare un voto che in realtà non c’è.
Non è scritto da nessuna parte della normativa in che modo utilizzare questa attività di monitoraggio per determinare il voto periodico trimestrale o quadrimestrale in decimi sulla pagella e con quale criterio utilizzare poi tali i voti trimestrali per esprimere il voto finale sempre sulla pagella.
E’ una leggenda metropolitana il fatto che nelle interrogazioni o nei compiti in classe “bisogna” dare un voto in decimi. Chi lo fa, lo fa per una sua scelta anche inconsapevole, un’abitudine consolidata. Non è giusto o sbagliato, ma non è un obbligo.
Questa libertà nel gestire questo aspetto della valutazione non è casuale, perché lo scopo della valutazione in itinere, diciamo quotidiana, operativa è diverso dallo scopo del voto in pagella come giustamente osserva Cristiano Corsini . La valutazione mentre si impara serve allo studente per capire dove sta andando e al docente per capire dove sta portando lo studente, insomma se la direzione è quella giusta.
L’art. 1 c. 4 del DPR 122/99 precisa che “Le verifiche intermedie e le valutazioni periodiche e finali sul rendimento scolastico devono essere coerenti con gli obiettivi di apprendimento previsti dal piano dell’offerta formativa, definito dalle istituzioni scolastiche ai sensi degli articoli 3 e 8 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275” e il comma 5 che “ Il collegio dei docenti definisce modalità e criteri per assicurare omogeneità, equità e trasparenza della valutazione, nel rispetto del principio della libertà di insegnamento. Detti criteri e modalità fanno parte integrante del piano dell’offerta formativa.”
Dirò di più: l’art. 1 c. 2 del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 62, confermando la normativa precedente, dice espressamente che “la valutazione è coerente con l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche, con la personalizzazione dei percorsi e con le Indicazioni Nazionali per il curricolo e le Linee guida di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, n. 88 e n. 89; è effettuata dai docenti nell’esercizio della propria autonomia professionale, IN CONFORMITÀ CON I CRITERI E LE MODALITÀ DEFINITI DAL COLLEGIO DEI DOCENTI E INSERITI NEL PIANO TRIENNALE DELL’OFFERTA FORMATIVA.”
Il Regolamento dell’autonomia all’art.4 c.4 precisa che ” [Nell’esercizio della autonomia didattica, le istituzioni scolastiche individuano……..] le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale […].
Se le modalità di valutazione in itinere sono normate già che cosa dovrebbero decidere i collegi?
Luigi Berlinguer a chi gli chiedeva cosa si potesse fare e non fare con l’autonomia rispondeva che tutto era permesso tranne ciò che era espressamente vietato.
L’autonomia avrebbe dovuto incoraggiare il pensiero laterale dei docenti e dei dirigenti scolastici e non essere intesa alla vecchia maniera come un mansionario a cui attenersi, ma al contrario essere intesa come una serie di suggerimenti per fare e sperimentare, insomma come una risorsa creativa per cercare nel caso della valutazione il modo migliore per monitorare l’apprendimento. Con la valutazione siamo in una situazione in cui i docenti “sono più realisti” del Ministro. Hanno molto spesso applicato automaticamente una norma che riguarda il risultato finale all’attività di monitoraggio in “cantiere”.
Purtroppo la questione della “valutazione” nell’immaginario collettivo sembra proprio non avere nulla a che fare con l’autonomia e, anzi, sembra creare una sorta di polarizzazione negativa non solo nell’opinione pubblica, ma tra gli stessi docenti perché blocca l’attenzione sulla questione del voto in decimi e sulla “media” senza permettere di vedere tutti gli spazi di autonomia che esistono nel processo di valutazione durante l’insegnamento oltre ai voti in decimi e le “medie”.
La valutazione in itinere quotidiana, è un elemento centrale del patto formativo tra i docenti di un consiglio di classe e i loro studenti in primo luogo e le famiglie.
Il come raccogliere un feedback su ciò che stanno imparando gli studenti in aula ( osservazioni, misurazioni, altro) e come comunicarlo di volta in volta (differenziale semantico- numero-percentuale- giudizio- emoticon – ecc) è una decisione professionale così come individuare il criterio con il quale tradurre questi feedback in voto in decimi per le esigenze “legali” richieste dalla norma.
Nella parte discrezionale la valutazione è tutt’uno con la relazione educativa non a caso il DPR 249/98 (Lo statuto delle studentesse…) dice che “ Lo studente ha inoltre diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che lo conduca a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento.” Il come si valuta influenza la relazione educativa in modo determinante sul piano psicologico e pedagogico. Io andrei a cercare lì le cause di moti abbandoni e della dispersione.
Per concludere credo che per difendere l’autonomia e per rivendicare la propria professionalità i docenti, i dirigenti e il collegio dovrebbero utilizzare appieno gli spazi di autonomia che la stessa normativa lascia sulla valutazione proprio per praticare quella autonomia di ricerca, sviluppo e sperimentazione che altrimenti a cosa servirebbe?
Vi sono diverse esperienze in tal senso nelle scuole tra cui quella dell’Istituto Rinascita di Milano sviluppata alcuni anni fa.




Rilanciare l’autonomia partendo dalla qualità del lavoro

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Pietro Calascibetta

“LA SCUOLA SI RIPRENDE LA PAROLA”

E’ sicuramente una buona notizia l’appello lanciato delle associazioni professionali AIMC-CIDI-MCE-PROTEO FARE SAPERE per rimettere in moto quel protagonismo del mondo della scuola che aveva contraddistinto gli anni ’70/80.
Allora si trattava di dare forma, metodologie e contenuti ad una scuola solo enunciata nella Costituzione e tutta da realizzare, oggi di rilanciare l’autonomia scolastica.
Ma perché è necessario “rilanciare l’autonomia”?

L’AUTONOMIA NON È UNA RIFORMA QUALUNQUE

L’autonomia che siamo chiamati a difendere fa parte di quelle riforme che sono state realizzate per attuare i principi della Costituzione.
In Italia il sistema scolastico del dopoguerra si è caratterizzato per una sostanziale continuità con il passato fascista e addirittura prefascista, fatta ovviamente eccezione per il maquillage degli elementi esplicitamente legati al regime tolti immediatamente.
Il dettato costituzionale ha cominciato ad attuarsi e a cambiare il nostro ordinamento scolastico solo negli anni successivi e per tappe attraverso quelle che noi chiamiamo sbrigativamente “riforme”.
Nello specifico gli organi collegiali hanno creato il quadro giuridico per “l’effettiva partecipazione” permettendo che la democrazia partecipativa da valore enunciato nell’ ultimo comma dell’art. 3 divenisse prassi anche nella scuola; l’autonomia scolastica a seguire ha creato il quadro operativo affinché la partecipazione non fosse solo formale dando “potere” e strumenti agli organi collegiali di adeguare la progettazione « ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti» nel territorio ponendo le basi per rendere possibile anche nella scuola un altro pilastro della democrazia: “l’autonoma iniziativa dei cittadini” (art.118); la rendicontazione sociale, lo Statuto delle studentesse e la valutazione di sistema attiene all’art.97 sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
La difesa degli organi collegiali e dell’autonomia e la loro completa attuazione non è quindi la difesa di riforme qualunque o la riforma di questo o quel ministro, ma la difesa di norme che, pur con i loro limiti , incompletezze e lacune da emendare, hanno attuato la Costituzione rompendo la continuità con il passato facendo della scuola una comunità gestita in base ai principi democratici, una comunità di cui fa parte anche il dirigente con precisi vincoli molto più stringenti di quanto fosse a guardar bene prima dell’autonomia e durante il regime fascista. Questa è l’autonomia.
Chiarito il perché l’autonomia è così importante per la democrazia e che quindi bisogna far funzionare realmente queste “riforme” , bisogna chiedersi perché l’autonomia è in crisi.

LA CRISI E’ LA MANIFESTAZIONE DI UN DISAGIO REALE

Di fronte all’ importante compito di formare gli studenti ad affrontare le sfide sociali e dell’ambiente di domani che proprio l’autonomia avrebbe dovuto rendere più efficace, la scuola presenta oggi delle criticità che il manifesto elenca compiutamente.
La crisi della partecipazione agli organi collegiali; la crisi delle politiche delle riforme a fronte alla loro concreta applicazione; l’impoverimento delle relazioni interne in ciascun istituto che si esauriscono “in dinamiche prevalentemente individuali,”; il ripiegamento e l’isolamento di chi aveva “scommesso sull’autonomia“, insomma uno strisciante e generalizzato abbandono dell’impegno.
Per rilanciare l’autonomia credo che si debba necessariamente affrontare le radici di questa crisi e capirne il perché, non basta chiamare alla mobilitazione. Credo che il rilancio dell’autonomia parta proprio dal trovare delle proposte per superare questa crisi. Proposte, però, che vadano al nocciolo della questione.
La crisi nasconde un profondo disagio degli operatori della scuola che è maturato in questi anni per il modo con cui sono costretti a lavorare proprio nella scuola dell’autonomia su cui molti avevano “scommesso” e avevo contribuito a realizzare.
Una contraddizione molto dolorosa che spesso disorienta chi ci ha creduto veramente e ha lottato per essa.
Un disagio che, purtroppo, non è una fantasia alimentata dai media, un atteggiamento vittimistico di una categoria o una oscura manovra politica, ma una realtà tangibile perché si vive proprio sul piano professionale e sulla propria pelle.
Un disagio che si sta trasformando in deriva per la mancanza di un’iniziativa comune in cui riconoscersi .Un disagio che ha prodotto quel disimpegno e quel “ripiegamento” che rischia ora di aprire la strada a soluzioni populiste, particolaristiche e autoreferenziali facendo perdere la dimensione comunitaria del sistema scolastico e del lavoro nel proprio istituto esponendo la scuola al rischio di “derive autoritative se non, talvolta, autoritarie” come si paventa nell’appello.

IL RISCHIO DI BUTTAR VIA L’AUTONOMIA PER SBARAZZARSI DELLA CRISI

La tentazione di trovare una soluzione attraverso vie brevi è forte come forte è il disagio e concreto il rischio di “buttar via la stessa autonomia insieme a questa crisi”.
Aderire ad una dimensione regionale del servizio scolastico nell’ambito di un’autonomia differenziata può esercitare una certa attrattiva a fronte di un centralismo che invece di offrire all’autonomia una credibile governance di sistema, come puntavano le stesse norme, si barcamena tra il laissez faire e il dirigismo centralista come abbiamo ampiamente sperimentato anche durante la pandemia e come sta riprendendo piede oggi.
Può essere attrattiva anche l’idea di ridimensionare se non di archiviare gli organi collegiali, l’autonomia e le stesse riforme additate come la causa della burocratizzazione della scuola .
Il malcontento trova infatti nell’autonomia e nelle riforme ad essa correlate un facile capro espiatorio.
Tutta la lamentela sulla burocratizzazione della scuola è alimentata dal fatto che l’autonomia ha introdotto nel lavoro del docente una serie di attività di progettazione, di monitoraggio e autovalutazione oltre alla lezione d’aula che si sono trasformate attualmente in semplici adempimenti e non in attività significative e di conseguenza gratificanti sul piano professionale e riconosciute sindacalmente in modo adeguato come tali, come invece dovrebbero essere.
Non è un segreto ricordare che le critiche all’autonomia e alle riforme provengono anche da settori significativi dell’area democratica, alcuni ossessionati dall’idea che l’autonomia sia il cavallo di troia di una presunta aziendalizzazione della scuola, altri preoccupati che l’autonomia favorisca le scuole private, altri ancora contrariati agli obblighi di rendicontazione , di autovalutazione e valutazione dei risultati che la normativa sull’autonomia e sugli organi collegiali impongono nell’ottica della trasparenza e della partecipazione democratica nei confronti dei genitori e degli studenti e non certo per una logica puramente efficientistica come spesso si crede.
Il pensiero verticale porta poi a ritenere che il superamento della crisi possa passare attraverso la solita leva della formazione dei docenti che è sì una delle condizioni che permette l’autonomia, ma non il dispositivo per superare questo disagio che risiede altrove, come dirò più avanti, e colpisce più duro, se possiamo dire, addirittura il personale con maggiore formazione e più impegnato nelle attività necessarie a far funzionare la scuola perché si sente soverchiato dalle incombenze che si scaricano proprio su chi è più disponibile aprendo la porta ad un burnout diffuso.
Un’ altra via breve, anzi brevissima, è l’aumento dello stipendio, sicuramente sacrosanto, ma che sarebbe un modo per far tacere la categoria se non si toccano le condizioni di lavoro.
Se da una parte c’è il disagio del personale della scuola, dall’altro c’è un atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica verso la scuola e i docenti dovuto ai risultati non particolarmente brillanti degli studenti e dalla situazione della dispersione e degli abbandoni che non segna una significativa inversione di tendenza, tanto che si deve ricorrere a misure straordinarie.
Tutto questo costituisce una formidabile sponda ai detrattori dell’autonomia.

MA LA SCUOLA IN CUI LAVORIAMO E’ VERAMENTE LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA?

Scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), “Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante che è necessario tenere presente nel momento in cui vogliamo parlare di rilancio dell’autonomia.
A questo punto viene da chiedersi. La scuola dell’autonomia è proprio quella che si vive tutti i giorni nella quotidianità dei propri istituti? Oppure quella che viviamo è la brutta copia di un’autonomia che ancora non c’è?
C’è il rischio che gli insegnanti stessi considerino un fallimento l’autonomia e le riforme successive senza averle sperimentate per come erano state pensate.
Berlinguer ci conferma che il processo di riforma del sistema, che lui ben conosce, non si è ancora compiuto del tutto.
Se le cose stanno così la prima cosa da fare per difendere l’autonomia è indicare chiaramente ciò che manca e chiedere con chiarezza che l’autonomia sia completata.

L’ AUTONOMIA INCOMPIUTA

Varato il Regolamento si è creduto o voluto credere che ormai la riforma fosse tutta lì e che bastasse applicare il Regolamento perché l’autonomia si realizzasse per incanto.
Chi per un motivo chi per un altro, chi in buona fede chi con il fine preciso di boicottarla non si è posto il problema di come il lavoro del docente sarebbe dovuto cambiare con l’introduzione della flessibilità sia rispetto agli studenti sia rispetto ai colleghi.
Guardando ciò che è avvenuto allora e la situazione in cui ci troviamo adesso ci si rende conto che il pezzo mancante riguarda proprio il lavoro, come se la professione docente fosse ancora un’attività individuale circoscritta nell’interazione tra il singolo docente e lo studente, orientata alla selezione di una classe dirigente e non un processo collettivo di formazione dei cittadini in cui la comunità scolastica e l’autonomia in sé ( se funzionano) diventano un vero e proprio dispositivo di apprendimento di competenze disciplinari e sociali per gli studenti e per gli adulti.
In particolare non si sono affrontate due questioni che sono determinanti per l’attuazione dell’autonomia.

L’ORGANICO COME RISORSA

La prima riguarda l’organico, cioè l’entità delle risorse umane necessarie al lavoro nella scuola. Appena dopo il varo del Regolamento prese l’avvio una sperimentazione nazionale che prevedeva al posto dell’organico tradizionale conteggiato in base ai parametri della scuola selettiva, l’assegnazione alle scuole di un organico in base al “progetto di autonomia” degli istituti cioè conteggiato in base ai bisogni metodologici necessari nello specifico contesto di ciascun istituto in base all’utenza.
Ci si era resi conto evidentemente che la flessibilità organizzativa e didattica avrebbe richiesto la disponibilità di un organico più ampio di quello strettamente necessario alle lezioni a classe intera e tradizionalmente assegnato in base alle classi da coprire e alle ore curricolari di ciascuna disciplina, un nuovo organico che sarebbe servito per la predisposizione di nuovi contesti di apprendimento con un tempo più lungo, non con attività extracurricolari (vedi doposcuola, recupero o L.A.C.) come si vuole fare oggi, ma per rendere possibile quella riorganizzazione del curricolo disciplinare prevista dal Regolamento, l’operativizzazione del curricolo, la personalizzazione, l’individualizzazione, la sperimentazione e la ricerca.
Lo stretto legame tra organico, organizzazione del lavoro e successo formativo era stato ampiamente dimostrato dalle scuole nelle esperienze di avanguardia degli anni ’70.
Una proposta di organico però subito sepolta e finita nel dimenticatoio, ripresa solo dalla “Buona scuola”, ma, tra un compromesso e l’altro, solo come potenziamento condizionato dall’entità delle quote di personale rimaste a disposizione nelle graduatorie di ciascuna disciplina dopo le assegnazioni ordinarie. Qualcuno direbbe “con il personale residuale” alla faccia del rispetto della professionalità di quei docenti e dei bisogni progettuali delle diverse realtà scolastiche.

IL LAVORO E’ CAMBIATO

La seconda questione riguarda più propriamente le modalità di lavoro dei docenti.
Che ci fosse allora la consapevolezza che l’autonomia avrebbe comportato un’innovazione anche nel lavoro dei docenti è testimoniato addirittura da quanto leggiamo nella piattaforma unitaria di allora dei sindacati (“Un contratto per la scuola dell’autonomia”, Piattaforma CGIL – CISL – UIL Scuola , 2002 – 2005, 13 Giugno 2002) dove si sottolinea proprio la necessità nella scuola per l’attuazione dell’autonomia di “ un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Ancora Berlinguer scrive nel volume citato che l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole per valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori presenti in base al dettato costituzionale in quanto membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Questo avrebbe comportato prendere in considerazione un orario di lavoro del docente in cui la docenza, le attività di tutoraggio degli studenti, di confronto con le famiglie e di progettazione, monitoraggio, ricerca e sviluppo tra colleghi potessero avere la stessa dignità ed essere messe sullo stesso piano dell’insegnamento in aula.
nascondere il problema di come affrontare l’autonomia sul piano del lavoro sotto il tappeto dei tagli al bilancio senza che nessuno mettesse un limite a questo depauperamento della scuola ha compromesso in modo irrimediabile la “dimensione cooperativa” , la ricerca di nuovi contesti di apprendimento e ha di fatto ristretto l’autonomia alla didattica d’aula facendo credere che la flessibilità nei programmi e nelle metodologie anche con l’aiuto delle TIC fosse sufficiente a raggiungere le finalità che l’autonomia voleva perseguire, confondendo l’autonomia didattica con quella che si chiama libertà di insegnamento.
Una responsabilità anche dell’area democratica. Ciò che è stato sacrificato è stato il “core” dell’autonomia e la vera novità: l’autonomia organizzativa, di sperimentazione, ricerca e sviluppo che richiede tempi e spazi adeguati per realizzarsi.
Se guardiamo con attenzione tutte le riforma successive constatiamo che sono state pensate sulla premessa che ci fosse nella scuola lo spazio e il tempo di agire la “dimensione cooperativa” della professione, da qui la difficoltà oggi nella loro applicazione concreta (ad esempio per i professionali o per l’inclusione)
La realizzazione e il monitoraggio del PDP, del PEI e del Progetto individuale, del Progetto formativo individuale, del Progetto orientamento del PCTO, del curricolo trasversale di educazione civica ecc. ecc., solo per fare qualche esempio, da progettazioni e strumenti operativi di lavoro per i docenti diventano adempimenti con crocettati e taglia e incolla da mettere a verbale e archiviare.
Chi li fa come dovrebbero essere fatti ( e sono in molti per fortuna ) lo fa attraverso il lavoro volontario, al massimo con una mancetta in busta paga.
L’autonomia ha finito per prendere la fisionomia di un decentramento di funzioni amministrative ed è spesso diventata un modo per scaricare sui collegi e i dirigenti la responsabilità dei risultati senza dare né le risorse umane né gli strumenti organizzativi per gestire la flessibilità e la progettualità richiesta dalle norme. Anche i distacchi dei docenti che una volta venivano dati alle scuole per seguire i progetti (segno che erano necessari) sono stati subito eliminati in cambio di…niente.
In altre parole l’autonomia ha dovuto muoversi nelle strettoie di una struttura e di un’organizzazione del lavoro che fa riferimento al modello gentiliano diventandone prigioniera.
Un autonomia fatta con i fichi secchi. Una categoria umiliata due volte sul piano professionale.

QUANDO IL LAVORO E’ DI SERIE A E QUANDO DI SERIE B

Le riforme assegnano un ruolo centrale ai contesti collegiali, al consiglio di classe, ai dipartimenti disciplinari e ad una serie di figure il cui elenco si allunga ogni anno tra cui il coordinatore di classe, illustre fantasma, non previsto neppure da una norma, ma fondamentale per fare del consiglio di classe una vera équipe che può occuparsi della dispersione.
Il coordinatore di classe vale dunque meno del tutor dell’orientamento a cui si vorrebbe riconoscere un punteggio extra per i trasferimenti? I docenti con 9 o 6 classi. che spesso sono i docenti delle aree di indirizzo nelle superiori, non possono materialmente esercitare la “dimensione cooperativa” costretti a passare da una riunione all’altra e a cui si chiede di fare il tutor del PCTO.
Manca uno stato giuridico del personale a misura dell’autonomia, una modalità di comporre gli organici che permetta realmente l’autonomia progettuale, un ordinamento e delle figure professionali che possano essere messe in grado a ciascuno di poter svolgere il proprio lavoro in modo conforme ai compiti richiesti dall’autonomia, un contesto in cui ciò che si impara nei corsi di formazione si possa realmente applicare.
Mentre l’autonomia richiederebbe una collaborazione tra docenti posti sullo stesso piano e un lavoro di pari dignità indipendentemente dai compiti svolti, nella realtà l’unico lavoro riconosciuto professionalmente è quello di cattedra mentre tutto il resto e accessorio, aggiuntivo e soprattutto facoltativo mettendo in difficoltà non solo i dirigenti, ma anche gli stessi collegi e chi ha a cuore la scuola.
Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché da questi dipende la qualità delle prestazioni professionali in aula e di conseguenza i risultati degli studenti, ma questo sembra non si possa più dire, non a caso i testi di Piero Romei non sono più neppure nella bibliografia dei concorsi.
Rilanciare l’autonomia richiede che ci sia una proposta per “liberare” finalmente il lavoro in modo che possa adattarsi in modo compiuto all’autonomia e alle riforme successive.

IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI

In questi anni quando si pronuncia la parola “ lavoro” si pensa subito al contratto e non allo stato giuridico e ai compiti che la normativa assegna ai docenti e ai dirigenti dai quali dipende in realtà la qualità del lavoro. L’organizzazione viene vista più da un punto di vista sindacale che professionale confondendo spesso i due piani che vanno affrontati separatamente anche se ovviamente ciascuno è in relazione con l’altro.
Ancora una lettura della piattaforma contrattuale del 2002 chiarisce bene questi due piani.
“ Le risorse vanno attribuite direttamente alle scuole per la individuazione e la gestione delle funzioni obiettivo al fine di valorizzare e sostenere la flessibilità progettuale delle scuole […]
Per quanto riguarda, invece, le figure di sistema: uno specifico intervento legislativo dovrà prevedere la loro istituzione, le modalità di selezione, il reclutamento e la dotazione organica. Solo successivamente il contratto potrà definirne i regimi orari e gli inquadramenti.”
Una precisazione importante. L’idea della necessità di un Middle Management ante litteram.
Per rilanciare l’autonomia mettendo in primo piano il lavoro nella sua interezza e non solo la didattica è necessario chiedere alla politica e al legislatore di ridefinire lo stato giuridico dei docenti su “modelli di lavoro differenziati” e “ professionalità articolate” funzionali ai nuovi compiti che l’autonomia e le riforme richiedono nella loro attuazione.
Oggi questa esigenza è ancor più presente di quanto fosse allora perché sono state introdotte nella scuola una dopo l’altra delle nuove figure che non possono che essere definite di sistema perché devono essere obbligatoriamente presenti in tutte le scuole con gli stessi compiti e nulla hanno a che fare con le funzioni strumentali legate alla specificità dei diversi istituti come il contratto del 2002 ben chiariva.
Il ruolo delle associazioni professionali può essere a questo punto molto importante per aprire una riflessione sul lavoro nella scuola e sulla sua articolazione sulla base degli effettivi compiti che la normativa assegna al personale scolastico per capire quale assetto ordinamentale dovrebbe avere la scuola perché questi compiti possano essere assolti in modo efficace senza mortificare la professionalità di nessuno.
Le associazioni possono avere un ruolo determinante per formulare alla politica delle proposte che valorizzino la professionalità dei docenti.
Le esperienze pluriennali di scuole come l’Istituto Rinascita di Milano, Scuola Città di Firenze e don Milani di Genova, per citare quelle che conosco meglio, essendo sperimentazioni non solo didattiche, ma strutturali ( che lavorano fuori ordinamento per intenderci) hanno potuto individuare dei modelli che possono offrire sicuramente delle idee al dibattito che si vuole animare, ma ciò che è importante e che i tavoli interassociativi che si chiede di costituire nelle scuole possano, sulla base dell’esperienza che il personale vive quotidianamente elaborare una proposta di un nuovo stato giuridico e di un ordinamento che possa permettere di innovare l’organizzazione dando dignità al lavoro.
Ridefinito il contesto in cui operare diventerà determinante il ruolo del sindacato per trovare il modo migliore per tutelare il personale attraverso una revisione contrattuale in grado di riconoscere questa nuova dimensione del lavoro del docente sul piano economico e della carriera.
Invertendo la sequenza il risultato purtroppo cambia di molto.