Album di famiglia, a proposito del “kennediano di Piadena”

di Enrico Bottero

Una delle ragioni per cui in Italia le pedagogie attive non sono riuscite a incidere nell’Istituzione scuola e la sua pedagogia è la divisione tra due interpretazioni politiche delle stesse: a sinistra c’era chi le considerava un modo importante per cambiare la società a partire dalla scuola e chi, invece, ritenendo prioritaria anche temporalmente la battaglia politica contro il capitalismo, pensava che fosse del tutto inutile, anzi controproducente, cercare di cambiare un’istituzione borghese che sarebbe di per sé repressiva e quindi meritava di sprofondare. Quest’ultima posizione era sostenuta, ad esempio, dai Quaderni Piacentini.
Quaderni Piacentini era una Rivista politica trimestrale fondata da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi nel 1962. E’ stata un’importante rivista della sinistra extraparlamentare.

In questo articolo del 1971 (è pubblicato integralmente sul sito di Gessetti Colorati) Mario Lodi, definito il “kennediano di Piadena” viene accusato di “riformismo didattico”. Il riformismo sarebbe ingenuo e pericoloso perché manipolerebbe i ragazzi con una forma edulcorata di potere invece di renderli consapevoli della lotta di classe in cui l’avversario sarebbe anche l’insegnante (viene alla mente, ad esempio, “Quel brutale, finalmente? “  un classico di quegli anni).
Il rapporto educativo sarebbe di per sé autoritario, dunque la classe cooperativa non sarebbe altro che un mito borghese, un inganno.
Le riforme con cui Lodi (e molti come me) lavoravano negli anni Settanta e le tecniche didattiche sarebbero stati dunque una manovra del potere per mantenere il suo sfruttamento di classe. E via discorrendo. In questo articolo (mancano le firme delle persone, secondo una consolidata prassi per cui non ci si assume la responsabilità personale ma solo quella del collettivo) l’intolleranza ideologica prevale su tutto. Non si lavora per un’educazione alla tolleranza e alla democrazia ma per radicalizzare un conflitto radicale tra il bene e il male, dove il bene sta naturalmente dalla parte degli autori dell’articolo. Tutte le utopie, quando si trasformano in concezioni provvidenziali della storia, finiscono lì.
L’utopia della speranza si trasforma in utopia della certezza, dei detentori della verità. Questo articolo è importante perché, riaprendo l’armadio dei ricordi della sinistra, svela ambiguità presenti ancor oggi e su cui non si è ancora ampiamente riflettuto.
Cadute le illusioni palingenetiche, queste posizioni oggi si ripresentano sotto una veste diversa, quella della deistituzionalizzazione e della critica radicale della scuola in nome di un’idea di rifiuto totale di qualsiasi autorità, considerata di per sé repressiva (rifiuto che, questo sì, è un mito: il rifiuto totale di qualsiasi autorità non elimina l’autorità ma ne introduce una forma più sottile, quella della seduzione).
E’ un rifiuto a cui vengono spesso arruolati educatori come Oury o Freinet, che però non sostenevano affatto queste tesi. Oggi tutti osannano Mario Lodi ma allora molti a sinistra lo condannavano duramente.
Se non vogliamo comportarci come le Chiese laiche o religiose più integraliste (da vivi li condannano come eretici, e dopo morti li fanno santi, tanto non possono più parlare) sarebbe bene ragionare su tutto questo e chiedersi se non siano ancora presenti logiche settarie che non fanno che ostacolare l’impegno comune a favore delle pedagogie attive e dell’impegno per una società più giusta e solidale.




Un’educazione nuova per il XXI secolo?

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Enrico Bottero

Gli educatori della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, riuniti in Congresso a Nizza nel1932, redassero una Carta che iniziava con queste parole: “L’attuale crisi impone a tutto il mondo di concentrare gli sforzi nella direzione di una rinnovata educazione. In vent’anni l’educazione potrebbe trasformare la società e infondere uno spirito di cooperazione capace di trovare soluzioni ai problemi del nostro tempo. Nessuno sforzo nazionale è sufficiente per raggiungere questo risultato.
La Lega Internazionale per l’Educazione Nuova rivolge un appello urgente ai genitori, agli educatori, agli amministratori e agli operatori sociali affinché si uniscano in un vasto movimento universale. Solo un’educazione che realizzi in tutte le sue attività un cambiamento di atteggiamento nei confronti dei ragazzi può inaugura-re un’epoca liberata dalla rovinosa competizione, dai pregiudizi, dalle preoccupazioni e dalle miserie che caratterizzano la nostra civiltà attuale, caotica e insicura”.
Quegli educatori, pur molto diversi tra loro, credevano che solo una nuova educazione avrebbe potuto formare cittadini aperti al mondo, tolleranti e solidali, evitando così nuovi sanguinosi conflitti.
Avevano una forte visione provvidenziale, poi, purtroppo, smentita dagli eventi successivi. Oggi, dopo quasi un secolo, abbiamo meno certezze sulla possibilità di cambiare il mondo grazie all’educazione e tuttavia quelle parole ci interrogano ancora.

Questo articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Encyclopaideia.
Lo si può leggere integralmente cliccando qui.




Ma il piano estate c’entra poco con il sistema formativo allargato

Stefaneldi Enrico Bottero

Il Piano scuola per l’estate 2021 è un documento interessante perché prende finalmente atto che, dopo più di un anno di confinamento i nostri ragazzi non hanno solo (e tanto) bisogno di un tradizionale recupero didattico (soprattutto se realizzato con i soliti metodi trasmissivi) ma di luoghi di relazione di esperienze di vita sociale.
Il Piano, seguendo la normativa precedente propone “patti di comunità” tra scuola, Enti Locali, enti pubblici e privati (e assegna fondi cospicui). Assisteremo alla riedizione del sistema formativo integrato (o allargato, secondo la dizione di De Bartolomeis in Fare scuola fuori della scuola, Aracne, 2018, ) quello che abbiamo vissuto tra gli anni 70 e 80? C’è da dubitarne.
Tra allora e oggi abbiamo assistito a un’importante modifica strutturale del nostro sistema. Con il principio di sussidiarietà (formulato per la prima volta da Papa Leone XIII nel 1891 contro lo Stato laico e liberale) è stata attribuita di fatto funzione pubblica ad enti privati. Nello stesso tempo con le leggi degli anni 90 negli Enti Locali è stata introdotta una logica aziendale di tipo privatistico.
Come già notava allora De Bartolomeis “l’allargamento conquista scarso spazio senza il contributo decisivo dell’Ente Locale”.
Oggi purtroppo, in nome dell’efficienza (sic!), la logica privatistica ha invaso lo spazio sociale, anche le Istituzioni. In queste condizioni, come osserva Christian Raimo in un recente articolo pubblicato su Internazionale, è logico porsi la domanda: accordi tra scuola e terzo settore (un terzo settore falcidiato dalla crisi e affamato di contratti) saranno in grado di costruire progetti pedagogicamente fondati e motivati da un reale interesse collettivo? Chi farà la regia di tutto questo ora che Stato ed Enti Locali hanno ormai quasi del tutto dismesso i loro servizi diretti (quasi spariti gli insegnanti comunali di allora, servizi educativi assegnati a cooperative e privati, ecc.) in nome della sussidiarietà? Bastano la buona volontà e i soldi se non ci sono le condizioni strutturali? Spero di sì, naturalmente, ma un’analisi spassionata non permettere di essere molto ottimisti.




Scuole chiuse, scuole aperte: apocalittici e integrati

di Enrico Bottero
(www.enricobottero.com)

L’attuale situazione di emergenza, provocando la chiusura delle scuole, ha aperto un’ampia discussione sull’uso della didattica a distanza, sui suoi limiti e sulle sue possibilità. Questa discussione è stata l’occasione per far emergere un contrasto più profondo che da tempo circola nella scuola e nella società. Sono emerse diverse posizioni ma per brevità mi limito a segnalare quelle più significative e apertamente opposte tra loro.
Parafrasando Umberto Eco, definirei le prime quelle degli apocalittici e le seconde quelle degli integrati.

Gli apocalittici denunciano il tentativo di sfruttare l’emergenza coronavirus per imporre un maggior controllo sui metodi di insegnamento limitando così la libertà degli insegnanti. Gli apocalittici hanno ottime frecce al loro arco. In effetti, da tempo si sta tentando di uniformare gli insegnanti a una sorta di esperanto neoliberista che identifica la buona didattica con i mezzi utilizzati per realizzarla e organizza dall’alto il controllo dei risultati senza mai preoccuparsi di ciò che si fa in classe in termine di trasmissione di cultura e di crescita delle persone. Si pensa che grazie alla “società della conoscenza” l’accesso ai saperi sarà democratizzato, si afferma che i metodi attivi sarebbero miracolosamente resi operativi grazie alle tecnologie dell’informazione e molto altro. Il miglior insegnante, per i sostenitori di questo modello, che qualcuno ha definito del progressismo organizzativo (1), è quello che riproduce pratiche standardizzate per ottenere determinate performance, anche grazie all’utilizzo salvifico delle nuove tecnologie.
Il tutto si può realizzare all’interno di una scuola che di fatto non è più un’istituzione ma un semplice servizio la cui qualità si misura con il metro della soddisfazione degli utenti/clienti. (2)

Secondo questa visione, la scuola deve “rendere dei conti”, produrre risultati: “pedagogia bancaria”, l’avrebbe chiamata Paulo Freire. Gli integrati del progressismo organizzativo, però, non rappresentano affatto la pedagogia, come sostengono con insistenza polemica gli apocalittici.
Rappresentano “una pedagogia”, la versione moderna e soft della pedagogia tradizionale che si propone di fare lezione con altri mezzi ma non modifica l’organizzazione delle attività né propone una radicale revisione delle modalità di valutazione in funzione formativa.
Tutto bene dunque? Niente affatto, perché se è vero che la scuola non deve “rendere dei conti” è pur vero che deve “rendere conto”.
I ragazzi che sono affidati alla scuola impegnano l’insegnante a ideare tutti i modi possibili, nelle condizioni date, per far raggiungere l’apprendimento a tutti, anche a distanza, quando ciò può essere utile o non ci sono alternative. Se la didattica a distanza non è la panacea che può sostituire la didattica in presenza non è neppure un demone da rifuggire in nome della superiorità della relazione diretta.

Da tempo sappiamo che la “forma scolastica”, cioè il sistema organizzativo fondato sulla lezione collettiva e simultanea, le classi chiuse, la prevalenza della valutazione selettiva su quella formativa produce esclusione e ostacola successo formativo di tutti.
Questo sistema, affermatosi con la nascita delle scuole nazionali, non è coerente con l’art. 3 di quella Costituzione che gli apocalittici invocano spesso a difesa della libertà di insegnamento.

La Costituzione è il nostro comune patto di convivenza civile e va rispettata in toto. Nel testo costituzionale diritti degli individui e diritti collettivi si integrano a vicenda. Non ci sono gli uni senza gli altri. Dunque, per dare sostanza all’art. 3 della nostra Carta, la scuola dovrebbe modificare la sua tradizionale organizzazione del lavoro, dei tempi e degli spazi. In sintesi si potrebbe dire: dai programmi agli obiettivi di apprendimento, dalla classe chiusa ai gruppi flessibili, dalle rigidità disciplinari ai progetti multidisciplinari, dall’insegnamento collettivo alla pedagogia differenziata, dagli esercizi classici al lavoro per progetti e problemi, dalla valutazione selettiva alla valutazione formativa. La sfida è trasformare il sistema formativo nel suo insieme, un compito che dovrebbe veder impegnati sia i decisori e gli amministratori che gli insegnanti.

Oggi, però, la “forma scolastica” resta una pietra miliare della scuola: né gli apocalittici né gli integrati sembrano metterla in discussione proponendo pratiche alternative.
Gli apocalittici difendono i loro spazi di libertà ma non vediamo da parte loro molte iniziative volte a utilizzare l’autonomia didattica per introdurre qualche modifica organizzativa nella direzione indicata.
Agli integrati, poi, gli schemi di un’organizzazione del lavoro top down non sembrano andare così male. Si pensa a un’organizzazione aziendale della scuola secondo un modello verticale taylorista, oggi contestato anche in molti settori del mondo produttivo. Conservatori gli uni, conservatori gli altri, avversari nelle discussioni ma in pratica alleati, a conferma dell’incredibile stabilità dell’organizzazione del lavoro nella scuola affermatasi nel corso del XIX secolo.

 (1) Il progressismo organizzativo fa riferimento alle teorie dell’organizzazione e del management oltre che a teorie dell’apprendimento di impronta comportamentista utili a rendere i risultati facilmente osservabili. Ad esso si contrappone il progressismo pedagogico che ha la sua origine nelle variegate esperienze dell’Educazione nuova.
Agli apocalittici sfugge questa differenza e pertanto condannano tutta la pedagogia.

 (2) Su questi temi rinvio a un mio articolo sull’autonomia scolastica in Italia

 




La didattica a distanza non è un nemico della buona didattica

arcobalenodi Enrico Bottero

Questa emergenza ha messo la scuola di fronte al problema della didattica a distanza e dei suoi strumenti.
Anche in assenza di una piattaforma pubblica messa a disposizione del Ministero (come accade in altri Paesi), molti insegnanti si stanno impegnando con costanza e attenzione utilizzando diverse piattaforme disponibili per mantenere un rapporto, non solo didattico, con i loro ragazzi.
Il loro lavoro è prezioso anche per il futuro e conferma che la didattica a distanza, pur con i suoi limiti, non è un nemico della buona didattica. Negli stessi giorni molti hanno aperto una discussione sul senso della didattica a distanza, sulla sua necessità, obbligatorietà e limiti. Dal mondo della scuola sono emerse diverse riserve.
Quella che stupisce di più invoca le norme contrattuali per sostenere la non obbligatorietà. Sul tema non mi pronuncio per assenza di competenza in merito, anche se resta lo stupore. Mi limito a osservare che sulla non obbligatorietà alcuni giuristi hanno sollevato qualche dubbio.

Qualcuno rifiuta anche la necessità di un “giuramento di Pestalozzi”. I medici sono una cosa, si dice, gli insegnanti un’altra. Non sono d’accordo. La professione docente è una professione di cura, anche se non del fisico. Esiste dunque un obbligo morale, deontologico, anche se non ancora formalizzato. Purtroppo chi unisse queste obiezioni, spero pochi, oggi avrebbe argomenti per giustificare il suo non fare nulla. E questo non sarebbe un bel messaggio nel momento in cui molte categorie di lavoratori sono impegnate ad aiutare la collettività a superare l’emergenza.

Ci sono poi le obiezioni più fondate. Si fa notare come nella situazione attuale (assenza di strumenti digitali in molte case, rete non buona in molte zone d’Italia, diversità culturali ed economiche tra le famiglie nel dare un supporto ai ragazzi ) la didattica a distanza non faccia che aumentare le disuguaglianze. È certamente vero ma questi sono aspetti negativi su cui è necessario lavorare chiedendo interventi politici che li riducano (è ciò che hanno fatto alcune Associazioni come il MCE). Intanto, però, è meglio darsi da fare con quello che c’è perché non fare nulla sarebbe certamente peggio.

In qualche caso la critica alle attuali condizioni della rete e delle competenze tecnologiche si estende alla didattica a distanza in quanto tale. L’argomento è interessante perché inoppugnabile: la superiorità della relazione autentica e viva tra insegnante e allievo rispetto alla relazione virtuale. Un’affermazione giusta (e ovvia) se fatta in nome di un fondato metodo di insegnamento/apprendimento che fa tesoro della ricerca sui problemi dell’educazione e delle esperienze delle migliori didattiche attive.
Il rigetto della didattica a distanza potrebbe tuttavia nascondere il tradizionale rifiuto del metodo e delle tecniche, un rifiuto che ha una lunga storia nell’idealismo italiano (Gentile è molto più presente di quanto non si pensi nel nostro inconscio collettivo).
Contro questo rifiuto hanno combattuto generazioni di insegnanti attivisti: da Celestin Freinet, con il suo “materialismo pedagogico” e il primato delle tecniche, a Bruno Ciari (“la tecnica – scriveva Ciari – non è altro che la realizzazione dei valori, i quali non esistono affatto per sé, come nell’iperuranio platonico, ma solo in quanto si attuano nella vita della scuola”) a Francesco De Bartolomeis (v. il suo bel libro I metodi nella pedagogia contemporanea, Loescher, 1963). Le tecniche e le condizioni materiali fanno il metodo, ne sono la concretizzazione (il che non vuol dire però che l’insegnante ne sia schiavo).
Devono naturalmente essere utilizzate bene, con competenza, in modo non passivo, al servizio di una buona pedagogia. Il problema non è dunque l’alternativa didattica a distanza/ didattica in presenza ma quale didattica si fa.
La professoressa a cui scrivevano i ragazzi di Barbiana aveva un’idea chiara idea della scuola e della valutazione, faceva “selezione di classe” e non aveva a disposizione le attuali tecniche ma quelle della scuola moderna (lavagna, quaderno, aula scriptorium/auditorium), nate per diffondere l’alfabetizzazione ma poi ridotte a strumenti di fidelizzazione delle masse agli ideali nazionali. Siamo sicuri che tornando a scuola e allontanata la didattica distanza si tornerà (o, dovrei dire, si passerà?) a una scuola fondata sul coinvolgimento degli allievi, sulla valutazione formativa, su una didattica differenziata, sul lavoro di gruppo, su una scuola attiva e non trasmissiva, il cui unico scopo è la riuscita di tutti gli allievi?
Poiché è l’organizzazione materiale che rende concreto il metodo (e non lo spirito di gentiliana memoria, un velo che copriva la realtà di una pedagogia sostanzialmente autoritaria anche se formalmente seduttiva) è lecito pensare che in alcuni casi le abitudini storicamente consolidate imporranno le loro leggi. Le routine spesso prevale, anche a nostra insaputa.
“Quando il dito indica la luna – scriveva un saggio – lo sciocco continua a guardare il dito”. Facciamo dunque uno sforzo, guardiamo la luna e impegniamoci utilizzando per l’apprendimento di tutti le tecniche che abbiamo a disposizione in quel momento.
La scuola nuova attiva, diceva Célestin Freinet, deve essere “moderna”. Molti insegnanti lavorano già a questa scuola, in mezzo a molte difficoltà. Non lasciamoli soli. Impegniamoci insieme quando sarà finita l’emergenza, anche con una rinnovata competenza digitale. Oggi la sua assenza non è altro che analfabetismo, un avversario storico della scuola e delle sue promesse di emancipazione.




LESSICO PEDAGOGICO: CONTRATTO DIDATTICO

di Enrico Bottero

Una nuova voce del Lessico Pedagogico

Il contratto didattico è il contratto  che si realizza tra  l’insegnante e gli allievi. Se viene rispettato da tutti il contratto garantisce che le relazioni all’interno della classe si svolgano senza difficoltà. Il contratto può essere esplicito o implicito (Brousseau). Il contratto legittima gli status, i ruoli, le attese di ognuno nei confronti degli altri, sempre a condizione che non ci siano inganni o errori di interpretazione. Quando in una situazione didattica all’allievo viene assegnato un compito, la sua realizzazione dipende dalle domande che vengono poste, dalle informazioni fornite in fase iniziale e soprattutto dagli obblighi e dai vincoli (espliciti o impliciti) posti dall’insegnante.

Il contratto didattico non è immutabile nel tempo ma si modifica con l’evoluzione della storia della classe, delle relazioni con gli insegnanti e degli allievi tra di loro.
Ecco due   esempi differenti di messaggi dell’insegnante che condizionano il contratto didattico:
1. “L’importante non è capire ma eseguire correttamente il compito perché su quello sarai valutato”;
2. “Non è l’esecuzione corretta del compito  l’obiettivo principale ma realizzare una comprensione. Attraverso il compito sarà solo quest’ultima ad essere valutata”.
Il tipo di contratto didattico condiziona inevitabilmente il processo di apprendimento.




LESSICO PEDAGOGICO: IL PROGETTO

LESSICO PEDAGOGICO
di Enrico Bottero

PROGETTO
Metodo pedagogico in cui l’insegnante si propone di mobilitare gli allievi attorno a un’attività che ha lo scopo di realizzare qualcosa, anche al di fuori della scuola (fare uno spettacolo, preparare un’uscita, preparare una mostra, ecc.). Il progetto può avere anche uno scopo intellettuale. In questo caso, tuttavia, si preferisce parlare di pedagogia del problema. Il progetto è stata una pratica molto diffusa nelle scuole attive e ha visto tra i suoi sostenitori Dewey, Kilpatrick, Freinet. Il valore pedagogico del progetto consiste nel fatto che, attraverso di esso, si motivano gli allievi. Si pensa sempre di far acquisire conoscenze formali, ma non prima di aver finalizzato l’attività. La priorità è che l’attività abbia un senso per i suoi protagonisti. Il concetto di progetto è stato recentemente modificato dall’uso inflazionato di questo termine per indicare ogni documento che serve a indicare obiettivi di una scuola o di sue attività specifiche. Spesso il progetto è anche uno strumento di controllo e promozione delle innovazioni didattiche e organizzative. Si tratta di un utile strumento organizzativo che tuttavia non va confuso con la pedagogia del progetto.

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