Didattica a distanza e setting fluttuanti

di  Mario Maviglia e Laura Bertocchi

La scenografia nella didattica a distanza (M. Maviglia)

 Uno dei tanti effetti che la pandemia ha avuto in campo scolastico è stato quello di aver prodotto un radicale cambiamento nell’allestimento del setting educativo, intendendo con questo termine “l’insieme delle variabili che definiscono il contesto entro cui si svolge la relazione formativa”[1] (M. Castoldi, 2016) .
Tra queste variabili generalmente vengono ricomprese il tempo, lo spazio, le regole, gli attori, i canali comunicativi, ma anche le forme relazionali. La didattica a distanza ha cambiato le caratteristiche di tali variabili, anche se finora non si è molto approfondito e discusso questo aspetto che pure influenza in modo non secondario l’impresa educativa. Se ad esempio consideriamo le coordinate spazio-temporali si può facilmente constatare che un conto è fare scuola avendo come riferimento un setting strutturato con spazi ben identificabili (aule, laboratori, atelier, palestre ecc.) e dove il “controllo” del docente è ben delineato, un altro è gestire la lezione in spazi virtuali, come nella DaD, dove l’”aula” si scompone in tanti spazi individuali (l’immagine sullo schermo di ogni singolo studente) e la tradizionale scenografia scolastica (fatta di banchi, cattedra, lavagna o LIM, pareti più o meno addobbati, angoli, attrezzature ecc.) risulta completamente trasformata. Peraltro, va sottolineato che mentre nei tradizionali setting d’aula sono i docenti a definire – consapevolmente o meno – l’allestimento della scenografia in modo che sia funzionale al tipo di attività che vi si svolge e agli obiettivi che si vogliono conseguire, nella scenografia dettata dalle contingenze della DaD il “controllo” dei docenti risulta molto più labile e indefinito e comunque fortemente influenzato alla tecnologia.

Un altro aspetto da considerare è che nella “scenografia DaD” entra prepotentemente in campo il contesto familiare dei singoli studenti, sebbene attraverso il particolare e limitato occhio della webcamera.
Di fatto si entra nelle case degli studenti (e gli studenti entrano in quella dell’insegnante, se il collegamento avviene dalla casa di costui), si spia dentro. Questa deformazione dei confini del setting educativo determina problemi del tutto nuovi rispetto alla tradizionale gestione delle attività didattiche.


La variabile tempo, ad esempio, va incontro ad una serie di alterazioni: in situazione di DaD può succedere che non tutti gli studenti riescano a collegarsi alla rete e dunque si va incontro a inevitabili perdite di tempo o comunque a tempi morti. (Ricordiamo che “Il rapporto DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) 2020 della Commissione Europea (…) ci vede posizionati al 25° posto globale nel ranking della digitalizzazione dei paesi dell’Unione Europea (i dati sono riferiti al 2019, perciò ancora 28 paesi)” (Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia, CENSIS e TIM, 2020[2]).
Non è che nelle situazioni normali non vi siano perdite di tempo, ma mentre in quest’ultime il docente può intervenire direttamente per risolvere eventuali problemi, nella DaD le possibilità di intervento da parte dell’insegnante sono molto più limitate. A ciò va aggiunta la diversa strumentazione tecnologica di cui gli studenti possono usufruire a casa e dunque le differenti possibilità di avere collegamenti ottimali oppure problematici. Non tutti gli studenti utilizzano la banda larga o la fibra per il processo dei dati. Questi aspetti, se non adeguatamente considerati, rischiano di creare difformità nelle possibilità di accesso al servizio scolastico. In fondo in classe la strumentazione didattica è a disposizione di tutti gli alunni; nella situazione di DaD è invece fortemente correlata alla dotazione tecnologica delle famiglie.

Va pure detto che la didattica a distanza, se non adeguatamente gestita, tende ad enfatizzare gli aspetti più trasmissivi dell’insegnamento con un inevitabile scivolamento verso un approccio nozionistico alla didattica. La didattica in presenza non è scevra da questi rischi, ovviamente, ma le specifiche coordinate spazio-temporali della DaD accentuano ancor più questi elementi unidirezionali della comunicazione magistrale. Ci sono ovviamente degli “accorgimenti” che possono attenuare questi aspetti; uno di questi, ad esempio, consiste nell’attivare gli studenti nei giorni precedenti la lezione o l’attività didattica, in modo che possano consultare materiale on line che lo stesso docente fornisce loro o che possono reperire direttamente sulla base delle indicazioni date dall’insegnante (ovviamente in relazione all’età degli alunni). In questo caso la lezione viene “costruita” insieme agli studenti sulla base di quanto hanno capito/trovato sull’argomento. Ancora troppo spesso gli studenti vengono considerati meri destinatari dell’attività didattica, più che protagonisti, e la DaD rischia di relegarli in una dimensione di maggiore passività.

Un ulteriore aspetto va tenuto presente nella scenografia della DaD, sempre in relazione alla gestione dei tempi. Proprio perché gli elementi trasmissivi rischiano di farla da padrone, i tempi di attenzione potrebbero conoscere livelli ancor più bassi di quanto non succeda nelle situazioni scolastiche ordinarie. È pur vero che i ragazzi oggi sono abituati a stare anche molte ore davanti a un computer, ma le forme di utilizzo sono molto diverse di quanto avviene durante la DaD in quanto le loro possibilità di intervento sul palinsesto sono decisamente molto limitate.

Gli aspetti comunicativi (L. Bertocchi)

Possiamo allora chiederci quali strumenti ha il docente in DaD per cercare di coinvolgere gli studenti. Alcuni non sono poi così diversi da quelli utilizzati in presenza.
Partiamo da una constatazione: ogni insegnante è guardato ed ascoltato (si spera!), anche in DaD. Spetta a lui decidere di “operare una messa in scena attiva del proprio corpo”[3] e della propria voce, anziché “essere passivamente esposto agli sguardi”[4] degli studenti. Spetta a lui scegliere di utilizzare consapevolmente gli strumenti che ha a disposizione, cosciente delle reazioni che atteggiamenti e comportamenti possono suscitare.

La voce innanzitutto. È lo strumento professionale per eccellenza, fondamentale per ogni docente, anche quando la didattica si realizza a distanza. Cerchiamo di analizzare in che misura e con quali differenze rispetto alle lezioni che tradizionalmente si tengono in presenza.

L’insegnamento “è essenzialmente fatto di parole”[5]. Il docente comunica in modi diversi e con diversi scopi:[6]

  1. Di controllo: ordina, comanda, tronca i conflitti.
  2. Di imposizione: regola, dispone, moralizza, giudica, informa.
  3. Di facilitazione: chiarisce, mette in evidenza, dimostra, insegna.
  4. Di svolgimento del contenuto: stimola, apprezza, offre aiuto.
  5. Di risposte personali: risponde alle domande, accetta le esperienze personali, interpreta, riconosce i propri errori.
  6. Affettivi positivi: loda, mostra sollecitudine, incoraggia.
  7. Affettivi negativi: ammonisce, rimprovera, accusa, rinvia.

Soffermiamoci quindi sugli aspetti paraverbali, detti anche non verbali, del parlato e che riguardano il modo in cui qualcosa viene detto. Essi “modellano, arricchiscono, completano, a volte modificano”[7] il significato del messaggio, fino al punto di stravolgerlo.  Tra le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso troviamo:

  1. L’altezza: riguarda la frequenza del suono e permette di distinguere una voce acuta da una grave, un tenore da un baritono per esempio.
  2. Il timbro: deriva dall’ampiezza di vibrazioni e permette di riconoscere suoni che hanno la stessa altezza, come una medesima nota suonata da un oboe e da una chitarra rock.
  3. La velocità di eloquio: riguarda il numero di sillabe pronunciate in un determinato lasso di tempo.
  4. Il ritmo: e cioè l’alternanza delle velocità in un discorso.
  5. L’intensità: ci permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti.

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Permettono di distinguere la nostra voce tra mille altre, come una sorta di impronta digitale. Le altre caratteristiche invece, note con il termine di “colore”, oltre a suscitare spesso prevedibili reazioni nell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici dei sentimenti e delle emozioni di colui che parla.

Vediamo qualche esempio.

Al di là di precise caratteristiche personali e culturali, adattare il ritmo al discorso è molto importante. Un andamento regolare esprime emozioni tranquille, ma rischia di diventare mono-tono, rendendo estremamente difficile mantenere nell’interlocutore un’attenzione costante. Un ritmo irregolare, al contrario, rende emozioni forti e violente e, al contempo, permette di sottolineare i passaggi che riteniamo fondamentali.

Inoltre, poiché anche in DaD è auspicabile che il processo di insegnamento-apprendimento si realizzi in modo collaborativo, l’esperienza ci insegna che, in questa modalità più che in presenza, gli interventi degli studenti vanno sollecitati, poiché “sparire” e nascondersi dietro ad uno schermo è più facile e più frequente che in un’aula scolastica.

Anche i silenzi possono essere ricchi di senso e di significato. Non parlare, dopo aver posto una domanda, permette all’interlocutore di inserirsi nel discorso, dandogli il tempo necessario a formulare una risposta. Il rischio di silenzi prolungati in remoto è però che qualcuno li attribuisca a problemi di connessione. Ecco, in questi casi “riempire” i silenzi con cenni di incoraggiamento e sorrisi può essere una strategia.

Altra caratteristica molto importante nella comunicazione è l’intensità della voce: una voce forte richiama l’attenzione, incita, esorta, ma può anche apparire prevaricatrice; al contrario, una voce troppo bassa rischia di perdersi e di non essere correttamente percepita, soprattutto in DaD, dove i rumori in sottofondo sono diversi e possono interferire con l’adeguata comprensione del messaggio.

D’altro canto, non deve essere sottovalutata la ricchezza comunicativa del linguaggio non verbale. Il contatto fisico – una delle forme più forti di trasmissione di un messaggio, che favorisce l’avvicinamento, anche emotivo, tra le persone – in DaD viene a mancare.

Permangono invece, in tutta la loro potenza comunicativa, altri gesti che – come le parole – rivestono diverse funzioni. Nella comunicazione a mezzo busto le mani possono essere visibili. Tra i gesti principali individuiamo quelli[8]:

  1. Olofrastici: con una sola parola trasmettono un messaggio, come per esempio il gesto “vai via!”
  2. Articolati: indicano un nome o un oggetto, come quando ad esempio puntiamo il dito per indicare una persona.
  3. Iconici: rappresentano immagini.
  4. Arbitrari: che appartengono ad uno specifico linguaggio, come quello dei segni per i sordi.
  5. Codificati: ai quali attribuiamo precisi significati condivisi.

Questi gesti, utilizzati correttamente, arricchiscono ed enfatizzano il discorso.

Anche la mimica facciale gioca un ruolo importante in DaD, ma non solo. Alcune espressioni hanno evidenti funzioni di rinforzo, positivo o negativo, di ciò che viene detto a parole. Questi i più evidenti:

  1. Testa: scuotere la testa dall’alto verso il basso indica approvazione, assenso; muoverla invece da destra verso sinistra mostra disaccordo, dinego; inclinarla da un lato, magari guardando negli occhi l’interlocutore, trasmette attenzione, empatia, propensione all’ascolto.
  2. Occhi: aggrottare le sopracciglia mostra contrarietà, disapprovazione; alzare gli occhi al cielo, magari sbuffando, rivela stizza e irritazione; sollevare un solo sopracciglio indica scetticismo e incredulità; spalancare gli occhi mostra sorpresa o terrore (ma speriamo non sia questo il caso!).
  3. Bocca: abbiamo un sorriso sardonico, beffardo, persino sprezzante quando gli angoli della bocca sono rivolti verso l’alto mentre lo sguardo rimane serio; un sorriso sincero invece mostra approvazione e incoraggiamento; serrare le labbra, magari mordicchiarsele, rivela disagio.

Numerose piattaforme permettono di mettere in evidenza colui che parla e allora lo sguardo e il sorriso diventano fondamentali. Il contattato oculare è possibile anche via web, soprattutto nei momenti in cui -anziché parlare a tutta la classe – si instaura un dialogo collaborativo con un singolo allievo. Generalmente guardare il proprio interlocutore trasmette sensazioni di franchezza, attenzione, partecipazione, incoraggiamento. Se in presenza essere fissati può mettere alcuni studenti a disagio, poiché percepiscono questo atteggiamento come aggressivo o sfidante, ciò raramente succede a distanza, dove il filtro dello schermo attenua le espressioni, rendendole meno nitide. Per questa ragione allora una certa enfatizzazione di alcune caratteristiche può aiutare l’efficacia comunicativa.

Quanto abbiamo presentato sopra sono solo alcuni spunti per sollecitare una prima riflessione su come anche in situazione di DaD è opportuno prestare attenzione agli aspetti scenografici del fare scuola, un fare scuola affatto diverso da quello ordinario e proprio per questo meritevole di essere investigato nella sua diversità. L’aspetto comunicativo riveste, in questo contesto, una particolare importanza considerato che è soprattutto sulla figura dei docenti e degli studenti che si concentra l’attenzione, a differenza della classica situazione d’aula dove gli stimoli percettivi sono molto più variegati. 

NOTE

[1]https://www.iccocchilicciananardi.edu.it/attachments/article/591/Oltre%20la%20metodologia-setting%20organizzativo%20e%20clima%20relazionale.pdf

[2] https://www.operazionerisorgimentodigitale.it/sites/default/files/pdf/20201130%20Rapporto%20sulla%20Trasformazione%20digitale%20dell’Italia%20-%20esteso.pdf

[3] C. Pujade-Renaud (1983), Le corps de l’enseignant dans la classe, ESF, Paris, p. 74

[4] Ibidem

[5] G. Ballanti (1979), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Lisciani e Giunti Editori, Teramo, p. 7

[6] M. Maviglia, L. Bertocchi (2021), L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, pp. 58-59

[7] G. De Landsheere, A. Delchambre (1981), I comportamenti non verbali dell’insegnante, Lisciani & Giunti Editori, Teramo, p. 37

[8] I. Poggi (1987), Le parole nella testa. Guida a un’educazione linguistica cognitivista, Il Mulino, Bologna, p. 51




Sorridere, voce del verbo insegnare

di Mario Maviglia e Laura Bertocchi

Sorridere per vivere meglio (M.Maviglia)

Nel 1972 Patch Adams, un anomalo e anticonformista medico statunitense, fonda in Virgina il Gesundheit! Institute (Salute, in tedesco). La ricetta di Adams è apparentemente semplice: la salute si fonda sulla felicità ed è possibile intraprendere un percorso di cura e terapia se vi è un approccio con l’altro basato sull’umorismo, la vicinanza emotiva. All’ingresso dell’ospedale da lui fondato ha fatto mettere una frase famosa: “Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione. La salute si basa sulla felicità – dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, la soddisfazione nel lavoro e l’estasi nella natura delle arti”.[1]

L’intuizione di Patch Adams non è la trovata di un medico bizzarro o alternativo; in realtà vi sono prove scientifiche che evidenziano il valore terapeutico del riso. È noto infatti che il riso fa aumentare la secrezione di sostanze come l’adrenalina e la noradrenalina e le endorfine che provocano diminuzione del dolore e della tensione. Ma vi sono altri effetti collegati al riso:

Muscolatura: quando si ride parte la muscolatura … si rilassa e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino (ridere equivale a un buon jogging fatto rimanendo fermi). Solo col riso muoviamo alcuni muscoli del corpo e soprattutto del viso. Quando il cervello invia il messaggio “ridi”, ben quindici muscoli del viso vengono attivati dal segnale …  La risata si riflette dall’espressione facciale ai muscoli del torace e dell’addome (le spalle e il torace si sollevano aritmicamente) sino agli sfinteri. Non a caso dopo una risata a crepapelle si sentono i muscoli della pancia doloranti, come pure le costole.

Respirazione: Il primo beneficio provocato da una risata lo riceve la respirazione, che grazie ad essa diventa più profonda. L’aria dei polmoni viene rinnovata attraverso fasi di espirazione e inspirazione tre volte più efficaci che in stato di riposo. Questo favorisce l’eliminazione dell’acido lattico, una sostanza tossica per il nostro organismo, con una sensazione di minor stanchezza. Le alterazioni del ritmo respiratorio intervengono sull’ossigenazione del sangue. La respirazione, inoltre, esercita e rilassa la muscolatura toracica e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino.

Circolazione sanguigna: La risata favorisce, attraverso la respirazione profonda, l’ossigenazione e la circolazione del sangue con aumento della pressione arteriosa. Il riso crea un calore interno generalizzato che ossigenando tutte le cellule del corpo, può accelerare la rigenerazione dei tessuti e stabilizzare molte funzioni corporee, contribuendo a difendere il fisico da infezioni. La riattivazione della circolazione provoca un generale senso di benessere (cenestesi).

Cuore: Durante una risata, il cuore aumenta le pulsazioni anche fino a 120 al minuto.

Occhi: Quando si ride gli occhi sfavillano, hanno una luce più accesa grazie a un nuovo apporto di sangue fresco alle pupille.

Naso: Si dilatano le narici, aumentando così la quantità d’aria che entra nelle fosse nasali. Chi più ride, inoltre, con l’aria fresca ripulisce anche le fosse nasali e chi ride meno incorre nelle malattie di raffreddamento.

Sistema uditivo: Gli stessi suoni emessi da una risata contribuiscono a darci una sferzata di vitalità, grazie a un’azione positiva diretta sui nervi auditivi …

Polmoni: Il primo effetto di una bella risata è di dare aria ai polmoni, con lo stesso risultato degli esercizi che si dovrebbero fare ogni mattina appena alzati. I nostri polmoni contengono infatti dal 10 al 15% di aria residua, che non esce con la respirazione ordinaria, ma che è bene togliere.”[2]

Sulla scia delle esperienze terapeutiche di Patch Adams si è sviluppato un filone di studi denominato clownterapia e di esperienze che si sono diffuse in tutto il mondo[3].

Solo un dubbio rimane dopo quanto detto sopra: perché la gente mediamente sorride e ride poco?
Infatti secondo alcuni dati pubblicati da La Stampa (risalenti al 2010)[4] con l’avanzare dell’età si tende a ridere sempre meno. Infatti, mentre un bebè arriva a ridere fino a 300 volte al giorno, già un adolescente ride “solo” sei volte al dì e dai 20 ai 30 anni si ride in media solo quattro volte al giorno. Tra i 30 e i 40, invece, le cose migliorano: le risate salgono a cinque, ma questo sembra sia legato alla presenza di bambini piccoli, che si hanno di solito intorno proprio in questa fascia d’età. Dopo si assiste ad un crollo: a 50 anni si ride tre volte al giorno, mentre per gli ultra-sessantenni la media si riduce a 2,5. Se si considera che i docenti italiani sono i più vecchi in Europa è facile desumere che nelle classi italiane si tende a ridere e sorridere molto poco.

Sorridere per apprendere meglio (L. Bertocchi)

Se ridere fa vivere meglio, in senso generale, è altrettanto vero che un approccio sorridente, caldo e cordiale aiuta il processo di apprendimento. E questo per ragioni di carattere psicopedagogico. Innanzi tutto, il processo di apprendimento si sviluppa, com’è noto, all’interno di una relazione e dunque la qualità dell’apprendimento, la sua stabilità, la sua implementazione dipendono anche da come funziona tale relazione. In sostanza, c’è un forte intreccio tra gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Una relazione che stigmatizza l’errore o la prestazione probabilmente non aiuta il processo di apprendimento; così pure, una relazione fredda, distaccata, poco empatica rischia di non dare quella giusta motivazione al soggetto in situazione di apprendimento.

Ce ne dà una testimonianza lo scrittore francese Daniel Pennac, che è stato anche professore. In una intervista concessa a Repubblica l’8 ottobre 2016[5], l’inventore di Malaussène afferma “L’umorismo protegge il nostro interlocutore con cui ci stiamo relazionando e in questo senso crea un legame prezioso tra le persone perché con la risata si rassicura l’altro divertendolo. Nel mio caso l’umorismo l’ho ereditato da mio padre. Durante il mio primo anno di scuola sembrava che io non avessi appreso nulla se non la prima lettera dell’alfabeto. Mia madre era terribilmente preoccupata, ma poi mio padre la fece ridere dicendole semplicemente: non ti devi preoccupare, tra ventisei anni conoscerà perfettamente tutte le altre lettere! Ecco, usare il sorriso, la risata, per rassicurare l’altro, per metterlo di nuovo in condizione di affrontare la realtà, questo è il segreto. È quello che ho fatto come professore, rifiutandomi sempre di drammatizzare i piccoli insuccessi dei miei alunni”.

Ridere di se stessi, in primo luogo, appare molto terapeutico, anche perché, nota sempre Pennac, “Tutte le tragedie dell’umanità sono state provocate da megalomani incapaci di prendersi gioco di loro stessi. Io cerco di non prendermi mai troppo sul serio, anche se è più complicato quando sono stanco”. Riguardo la sua esperienza scolastica lo scrittore confessa che provava vergogna per i suoi fallimenti e che nutriva desideri di vendetta contro i suoi professori. “Ho impiegato molto tempo a capire che la vendetta è un sentimento sterile. L’umorismo è stato per me un lungo apprendimento dell’amore”. Da docente, Pennac ha usato l’umorismo come leva motivazionale: “Credo che agli studenti si possa trasmettere l’autoironia è proprio da lì che bisogna cominciare, per combattere in modo efficace la paura che i bambini hanno della scuola. Perché questa paura distrugge ogni capacità di apprendimento”.

Su questi aspetti ha dedicato una grande attenzione Daniela Lucangeli che ha sottolineato la necessità di fondare quella che con felice espressione ha denominato una “didattica del sorriso”[6].
Afferma Lucangeli:Le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni. Se imparo con curiosità e gioia, la lezione si incide nella memoria con curiosità e gioia. Se imparo con noia, paura, ansia, si attiva l’allerta. La reazione istintiva della mente è: scappa da qui che ti fa male. La scuola ancora crea questo cortocircuito negativo”[7].
Ma la studiosa avverte che adottare questa modalità non vuol dire fare i faciloni: Non si vuole incoraggiare una scuola ‘molle’ ma si vuole incoraggiare una scuola capace di dare il 38% in più di organizzazione cerebrale, se sa come innescare il meccanismo dell’intelligenza creativa, costruttiva distribuita“.

Chiunque si sia trovato ad insegnare sa quanto la motivazione giochi un ruolo decisivo nel processo di apprendimento. Certo, la demotivazione scolastica ha cause molteplici e complesse, ma un atteggiamento positivo, che promuova la motivazione intrinseca, può predisporre favorevolmente all’impegno o, quantomeno, limitare le situazioni di disagio che spingono a rifiutare lo studio. Come chiarisce Boscolo[8], l’insegnante può interagire con l’atteggiamento motivazionale dei suoi alunni. Adottare rinforzi non punitivi, non frustranti, riesce a sostenere nella fatica che l’apprendimento comporta. Ed è qui che il sorriso assume un ruolo cruciale.

Innanzitutto precisiamo che il sorriso deve essere vero, sincero. Bonfiglio[9] ha individuato diverse tipologie di sorriso, tra le quali ricordiamo: il sorriso di paura, di disprezzo, triste. Queste espressioni suscitano emozioni negative, che non favoriscono il processo di insegnamento-apprendimento.
Il sorriso che scegliamo di portare in classe ogni giorno deve essere aperto, onesto, sentito.

C’è il sorriso di benvenuto, che accoglie gli studenti ogni mattina all’ingresso nella scuola; il sorriso di incoraggiamento che, unito ad un cenno del capo, invita alla partecipazione attiva, a prendere parola, ad intervenire in una discussione. I rinforzi positivi non possono che essere accompagnati da un sorriso, così come gli sguardi d’intesa. Sorridere in risposta al nostro interlocutore comunica che abbiamo capito e condividiamo ciò che ci viene detto.
Affinché la nostra espressione sia percepita come sincera e partecipata, è necessario che anche gli occhi sorridano, diversamente la sensazione è che qualcosa stoni, come se lo sguardo trasmettesse un messaggio completamente diverso rispetto al resto.
Naturalmente l’età dei nostri studenti determina la percezione di una gamma più o meno ampia di emozioni, di sfumature di significato. I bambini della scuola dell’infanzia non hanno ancora pienamente sviluppato la sensibilità che generalmente permette ad uno studente di scuola superiore di distinguere un sorriso d’intesa da uno di condivisione.
Non è però questo il punto. Qualunque sia il motivo che ci porta a sorridere in classe, questo deve essere sostenuto ed incentivato perché, come precedentemente esposto, non può esserci apprendimento se manca una disposizione d’animo fiduciosa e propositiva.

Nell’ “Etica Nicomachea”[10] Aristotele aveva notato la stranezza del fatto che per poter fare alcune cose è necessario impararle e che per impararle bisogna farle… Secoli più tardi il paradosso aristotelico non è risolto e si adatta perfettamente al mistero dell’insegnamento-apprendimento: un accompagnamento positivo e propositivo può essere imparato, ma per impararlo è necessario praticarlo. Possiamo quindi imparare a sorridere, ma solo esercitando questa capacità, che può diventare un atteggiamento costante.
Tutto ciò naturalmente non significa che sia necessario avere sempre il sorriso stampato in volto: come abbiamo visto, un sorriso sforzato viene percepito immediatamente come falso. È però necessario acquisire la consapevolezza che le nostre espressioni e i nostri atteggiamenti suscitano reazioni solitamente prevedibili nel nostro interlocutore.
Proviamo quindi a sorridere di più: in quel sorriso ci può essere tutto il senso di ciò che vogliamo trasmettere.

[1] P. Adams (2014) Salute!, Feltrinelli, Milano; P. Adams (2005), Visite a domicilio, Apogeo, Adria

[2] http://www.accademiadellarisata.it/public%5CPDF%5CRicerca%5C1.PDF

[3] A.Dionigi, P, Germani (a cura di) (2014), La clownterapia. Teoria e pratiche, Carocci, Roma; V. Olshansky (2017), Manuale di clownterapia, Audino, Roma; M. L. Mirabella, Clownterapia. Volontari clown in corsia e missionari della gioia, Neos edizioni, Torino, 2006; G. Mattia (a cura di), (2014), Con un naso rosso tutto posso! Esperienze di clownterapia, Pensa editore, S. Cesario di Lecce.

[4] https://www.lastampa.it/cultura/2010/10/09/news/dopo-i-52-anni-non-si-ride-piu-1.3699699

[5] https://www.repubblica.it/rclub/persone/2016/10/08/news/daniel_pennac_una_risata_ci_salvera_-150803693/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=FOW821d90pM

[7] M. D’incerti (2019), Daniela Lucangeli, l’importanza di insegnare con gioia, Intervista, in “Donna moderna”, 18/02/2019; D. Lucangeli (2019), Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, Erickson, Trento

[8] P. Boscolo (2012), La fatica e il piacere di imparare. Psicologia della motivazione scolastica, UTET Università, Torino

[9] S. Bonfiglio (2008), Introduzione alla comunicazione non verbale, ETS, Pisa, p. 90

[10] Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M. Mazzarelli (2000), Bompiani, Milano