La scuola, comunità educante per contratto

bambini_scuoladi Italo Bassotto 

Lo sapevate che “la scuola è una comunità di dialogo, ricerca, esperienza sociale…” per contratto?
Già!, il CCNL del 2018 lo impone all’art 24 a tutti i suoi appartenenti: dirigenti, docenti, personale educativo, amministrativo e ausiliario …. gli studenti no, loro non appartengono!

Dunque la vexata quaestio se la scuola sia una “istituzione sociale” o una “comunità” è risolta a favore di quest’ultimo concetto.
La distinzione tra i due termini fu coniata dal sociologo tedesco Tonnies, secondo il quale, i legami sociali possono essere classificati, da un lato, come una forma di interazioni immediate e personali, su cui si basano ruoli, valori e credenze vissute in maniera organica e comunitaria (Gemeinschaft, termine tedesco, normalmente tradotto appunto come «comunità»), o invece come interazioni indirette, da cui derivano ruoli più impersonali, valori formali o artificiali, e credenze meno condivise (Gesellschaft, anch’esso vocabolo tedesco, comunemente tradotto come «società»).
Recentemente, nel dibattito intorno alla identità della scuola è emerso il dominio del concetto di “scuola come istituzione”, per sottolineare la natura vincolante e regolativa dei rapporti giuridici e dei processi, che vengono posti in essere tra gli individui che ne fanno parte, da cui il termine sintetico di “istituzione sociale”.

Va detto che se per “scuola” si intende il “sistema scolastico” di un paese, forse l’uso del concetto bdi “istituzione sociale” potrebbe essere adeguato, per rendere ragione del complesso delle norme giuridiche che ne regolano il funzionamento ( anche se la sua complessa architettura richiama più la facciata della Sagrada Famiglia di Barcellona, che le linee sobrie e pulite del Partenone!).
Se, invece, il termine “scuola” viene usato per indicare ognuna delle circa 11.000 istituzioni scolastiche autonome presenti ed operanti sul territorio nazionale, allora l’uso del termine “comunità” ha una qualche appropriatezza, ma non è il caso del citato art 24 del contratto, il quale sembra far riferimento alla somma di tutte le scuole facenti parte dei “sistema pubblico di istruzione e di formazione”.
In altri termini, l’idea di comunità è prossima alla condizione di “stato nascente” delle relazioni interpersonali e sociali, o, meglio ancora, di costruzione sociale delle stesse in funzione dello scopo essenziale della organizzazione scolastica, che è la formazione dei giovani cittadini della più vasta comunità nazionale.
Ma di essa, secondo i contraenti del CCNL 2018, non fanno parte i protagonisti più importanti: gli studenti, i quali, evidentemente, non hanno diritti negoziali e non possono sedersi a nessun tavolo di trattativa al riguardo; glielo conceda al massimo possono sperare in qualche “benigna concessione” del personale preposto alla loro formazione, ma sempre all’interno delle regole contrattuali pattuite tra stato e rappresentanze dei lavoratori.
E una scuola organizzata con il marchio della esclusione, dovrebbe insegnare ai bambini e ai giovani la convivenza civile e la partecipazione alla vita democratica?
Purtroppo, come detto sopra, gli studenti non fanno parte della “comunità scolastica”; forse per questo il Parlamento ha sentito il bisogno di stabilire regole apposite destinate a far si che gli scolari, non ancora parte della comunità, lo diventino grazie all’insegnamento dell’educazione civica (legge 92 del 20 agosto 2019).
Come si possa imparare a diventare cittadini, che conoscono e praticano le regole della convivenza civile istituite nella nostra società, senza passare attraverso i “riti” dell’appartenenza ad una comunità di “pari”, senza condividere esperienze e conoscenze, grazie all’aiuto degli adulti, il cui compito è di insegnare loro, come si vive e si partecipa alla vita sociale nei gruppi e nelle istituzioni, è un mistero che non so spiegarmi… O meglio, me lo spiego con la progressiva perdita di senso delle parole e dei pensieri, che dovrebbero esprimere, a causa della loro separazione dai rispettivi significati: ormai le parole servono per riempire spazi e silenzi, più che per raccontare il mondo, le esperienze, la realtà delle cose. Non c’è bisogno del parere motivato di psicologi e pedagogisti per far sapere agli adulti, che hanno la responsabilità di organizzare e gestire i servizi scolastici, che, senza l’esperienza diretta della vita di comunità, non ci può essere formazione civica e di cittadinanza.
Così come la musica si impara suonando, il movimento muovendosi, l’arte facendola, le virtù della convivenza civile si apprendono …. vivendole. Non è conoscendo gli articoli della Costituzione che si diventa tolleranti, rispettosi di sé, degli altri e dell’ambiente, onesti contribuenti e cittadini democratici…. serve mettersi alla prova nella concretezza delle condizioni quotidiane dell’esistenza e scoprire i propri limiti e le proprie potenzialità in situazione, per edificare e praticare le virtù civili.

E come è possibile che questa “pratica della convivenza” si realizzi in una scuola organizzata e gestita con criteri di assoluta antidemocraticità e, come abbiamo visto, da degli adulti che, fra di loro, dovrebbero vivere le regole della “comunità” lasciandone però fuori gli studenti?
Che aria di partecipazione democratica volete che respirino gli studenti, che vedono i loro professori praticare l’individualismo più esasperato?, che vivono in una scuola dove è vietato aiutarsi in gruppo, se non a comando e per benevola concessione dell’insegnante?, che hanno libertà di iniziativa culturale solo durante le assemblee, le occupazioni o gli orari extracurricolari?, che si sentono ogni giorno messi in competizione gli uni con gli altri?

La nostra è una scuola che ogni quattro anni (poi, per la verità, le istituzioni riescono ad essere inadempienti anche su questa norma!) ridiscute l’intero sistema dei diritti (un po’ meno quello dei doceri!) del personale che opera in essa e che scrive le decisioni assunte in un contratto; per gli studenti, invece, c’è un ventennale “statuto degli studenti e delle studentesse” assai desueto in molte sue parti, ma unico baluardo a difesa dei loro diritti di cittadini che vivono una intensa esperienza civica di formazione come “destinatari”, anche se, a parole, tutti li dicono “protagonisti”.
Sarebbe lungo l’elenco dei diritti via via conculcati agli studenti dai contratti di lavoro del personale: pensate solo al tema della “continuità” nel sostegno, resa impossibile da graduatorie che assegnano punteggi come caramelle; all’insegnamento di nuove discipline, che viene realizzato a macchia di leopardo (a chi tocca e a chi no, dipende dagli insegnanti che arrivano!) semplicemente perché la formazione del personale è un “diritto-dovere” per contratto e non una “funzione dello sviluppo organizzativo del servizio educativo”, al “diritto allo studio”, inteso come “diritto al successo” in una scuola che, tra bocciature e dispersione, perde 15 studenti su cento ogni anno…..

Gli esempi potrebbero continuare, ma servirebbero solo a dar conto ulteriore della ridicola pretesa di insegnare ai nostri alunni a vivere con responsabilità la loro partecipazione alle varie manifestazioni della convivenza civile e democratica del nostro paese, partendo da una esperienza di 30/40 ore settimanali, in cui dei valori di comunità non v’è traccia alcuna, o, se c’è, è un regalo degli adulti e non una “conquista” dei giovani.

Ora pare che l’applicazione della norma che prevede l’obbligo di insegnamento dell’educazione civica sia rinviata di un anno, in attesa di una messa a punto degli aspetti organizzativi e di gestione delle famose trentatre ore annuali da destinare ad essa, ma non penserete che il dibattito intorno al “nuovo insegnamento” abbia a che vedere con gli interventi sugli assetti organizzativi e gestionali delle scuole per trasformarle in palestre (o laboratori) di convivenza democratica? Si comincia a discutere di: chi dovrà (potrà) insegnarla, a quali discipline togliere le trentatre ore annue che spettano ad essa, se retribuire i docenti che l’insegneranno; se il voto che verrà assegnato farà media con le discipline curricolari o sul voto in condotta, quale documentazione dovrà pretendere il coordinatore dell’insegnamento di educazione civica, affinchè possa controllare l’effettiva attuazione delle ore previste (non certo la loro qualità didattica!)… e via di seguito.

Le scuole continueranno a restare quelle istituzioni con porte e finestre chiuse e dai comportamenti autoreferenziali che sono sempre state, ma con un piccolo vasistas che apre uno spiraglio sulla vita vera delle comunità e della società di cui i giovani dovrebbero far parte dal nome altisonante di “educazione civica”, ma dal vetro già appannato e sporco al punto da non far vedere nulla di quello che accade fuori.

 




Storia di un infanticidio: a proposito di autonomia scolastica

di Italo Bassotto

“ Io so. Io so i nomi dei responsabili …[ … ] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi responsabili. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”

Mi perdoni il grande Pier Paolo Pasolini se uso quella sua meravigliosa testimonianza sul Corriere della sera del novembre 1974 al riguardo dei protagonisti della stagione delle stragi nel nostro Paese; ma anche la storia dell’autonomia scolastica è, per me, la storia di una strage. Solo che, anziché una partita crudele fra adulti accecati da opposte ideologie, si tratta di una strage degli innocenti, di una silenziosa uccisione nella culla di una vita nascente, che si affacciava per la prima volta alla speranza di prendere in mano il destino della educazione formale in una struttura che, fin dalla sua origine nello stato unitario dell’Italia di fine ‘800, aveva avuto sulle sue spalle il carico assurdo di “fare gli italiani”…. Già, perché la scuola italiana nacque con questo fardello sulle spalle: non di formare degli uomini che esercitassero le loro qualità intellettuali e morali nel contesto delle regole che governano la nazione, ma di formare degli “italiani”, come se la cultura avesse dei confini e crescesse solo all’ombra di una bandiera.
E che l’assassinio sia avvenuto nel silenzio più totale, se non nel compiacimento dei suoi protagonisti, ne è conferma la natura del dibattito attuale sulla “cosiddetta autonomia differenziata” delle regioni che l’hanno richiesta al governo centrale sulla base di un preciso dispositivo costituzionale. La scuola non può fare parte del “pacchetto” delle autonomie da concedere alle regioni richiedenti, perché essa è “garante della unita della Nazione”: espressione che è la celebrazione linguistica della ipocrisia di massa con cui si nascondono le infinite differenze che caratterizzano le migliaia di istituzioni scolastiche operanti in Italia e che tutte le ricerche intorno alla “qualità” delle scuole hanno confermato negli ultimi quindici anni almeno (dall’ INVALSI al PIRL; dall’ IEA al TIMM ).
La logica vincente (ancora!) è che le differenze non sono nulla rispetto alla funzione unificante che ha il sistema della scuola pubblica italiana. Dove gli unici due legami che fanno pensare ad un possibile “sistema” sono: il controllo ferreo sull’ingresso, la carriera e l’uscita del personale e il valore legale dei titoli di studio; tutto il resto che accade nelle aule, nei corridoi, e nei cortili degli edifici scolastici ha una inevitabile impronta soggettiva, dettata dalle sottoculture professionali ed organizzative, di cui inevitabilmente si riveste ogni istituzione, quando opera dentro contesti socioeconomici e strutturali molto diversi fra di loro.
L’idea di dare spazio vitale, libertà decisionale e carico di responsabilità a questa capacità “adattiva” delle unità scolastiche, mantenendo una dimensione di guida e propulsione al centro del sistema della formazione scolastica, nasceva dalla consapevolezza della impossibilità di un governo monolitico e accentrato di un servizio, che, con la rivoluzione delle tecnologie e la globalizzazione dei mercati e delle conoscenze, non poteva certo essere tenuto insieme da un sistema amministrativo, costituito da una piramide di regole (dalle leggi alle circolari) la cui messa in opera veniva garantita da una struttura gerarchica nella quale gli ultimi della fila erano meri esecutori di volontà altrui, pur essendo i più vicini a coloro che chiedevano qualità, efficacia ed efficienza al servizio educativo scolastico da essi prestato.

Sapevamo tutti, all’alba di questo terzo millennio, cosa significasse introdurre il principio di autonomia in un sistema rigidamente gerarchico e piramidale:
 liberare risorse di creatività e di ricerca professionale degli operatori scolastici;
 togliere i vincoli di dipendenza gerarchica fra le strutture del governo amministrativo, rovesciandone la funzione: da “comando” a “servizio”
 introdurre strumenti e pratiche di “pianificazione strategica” dei servizi educativi scolastici, coinvolgendo le autonomie locali;
 generare nuove infrastrutture di servizio tecnico-professionale a supporto dei servizi predisposti dalle istituzioni scolastiche autonome
 dar vita a sistemi non più piramidali, ma orizzontali di legami interistituzionali per progetti e per scopi condivisi (reti, intese, accordi di programma….)
 promuovere processi di “ricerca e sviluppo” da parte delle scuole in collaborazione con enti di ricerca accademici e non del nostro paese, ma anche a livello internazionale (o per lo meno europeo).

L’ equipe dell’allora ministro Luigi Berlinguer era talmente consapevole della complessità del processo che si andava ad innescare, che venne varata la immagine della “autonomia come cantiere aperto”, ovvero come luogo definito, ma ad un tempo in continua ristrutturazione, grazie ai contributi che ci si aspettava di ricevere dalla cosiddetta “società civile”… Insomma, per tornare alla metafora iniziale del neonato, il DPR 275 era una creatura neotenica, che aveva bisogno di tutto e di tutti per crescere e diventare quel sistema responsabile ed efficace che si auspicava per la scuola del terzo millennio.
Ed invece il piccolo nato venne subito abbandonato a se stesso. La politica che lo aveva generato lo sottrasse immediatamente ai suoi genitori: dimissioni del ministro su un tema che era strettamente legato all’autonomia, come la responsabilità degli insegnanti e la loro valutazione (anche allora si sottraevano i bambini alle famiglie legittime, con scuse banali!); fine della legislatura e nascita di un governo che prometteva la “restaurazione” del sistema scolastico.
L’amministrazione, che aveva capito tutto, (come sempre!) fu ben lieta di continuare come prima: i Direttori Generali a scrivere circolari che interpretavano le norme (in nome e per conto delle scuole, che non lo sapevano fare!), così come i Provveditori che continuarono imperterriti a gestire gli organici, ovvero il budget professionale delle scuole: come volete che fossero autonome ne4lle loro scelte le scuole, se il numero e la specializzazione dei maestri e dei professori erano decisi nelle stanze dell’Ufficio Provinciale… di concerto con le Organizzazioni Sindacali, naturalmente! Non solo, ma ho sentito con le mie orecchie qualche Provveditore interpellato da un Preside o Direttore Didattico (allora si chiamavano così) su questioni un po’ spinose, gridare irritato.
“Avete voluto l’autonomia, e allora tenetevela!”, e così impiegati e persino uscieri….
Non parliamo poi degli Ispettori, già allora in via di estinzione (per un organico sempre sotto dimensionato): alla sparuta ciurma degli “entusiasti” che, consapevoli della forza che l’autonomia dava al ruolo di chi faceva della consulenza e dell’orientamento il motivo del proprio impegno professionale, si aggiungeva il grosso di coloro che, alla constatazione di perdere tre dimensioni della propria identità (il territorio, il segmento scolastico e la disciplina di studio per la quale erano “Ispettori”), precipitarono in una sorta di anomia professionale; ed, infine, coloro che, per ragioni ideologiche, contestavano l’intero impianto delle politiche scolastiche del Ministro I tentativi di creare dei Centri servizi intermedi che facessero da supporto tecnico- professionale al personale direttivo e docente e creassero le condizioni di sinergia tra i piani dell’Offerta Formativa delle Scuole e i piani per il Diritto allo Studio degli Enti Locali, finirono nel dimenticatoio con le dimissioni di L. Berlinguer.
Le OO.SS ebbero buon gioco ad associare l’autonomia alla legge di riforma dei cicli e con la caduta di questa a far diventare il 275 un Decreto di mera importanza metodologica e didattica, caricando sugli insegnanti e sui capi di istituto tutto il peso della “autonomia”… La reazione del personale, ovviamente in queste condizioni, non poteva che essere quella che considerava l’autonomia un semplice aggravio dei carichi di lavoro.
Se a ciò si aggiungono le tortuose strade burocratiche inventate per aggirare i temi caldi della valutazione (delle scuole, degli insegnanti, dei dirigenti e… degli studenti), la proliferazione dei tipi di disabilità, deficit e disagio che andavano accumulandosi nelle rendicontazioni cliniche e cartacee degli alunni da “includere”, le pretestuose elucubrazioni intorno al new deal dei curricoli: la didattica per competenze di cui si impossessò quasi subito l’amministrazione (che non c’entrava niente, ma che era l’unico modo con cui i poteri sulle scuole (politica, sindacato, burocrazia e giustizia amministrativa) sanno imporre le loro volontà … riportarono ben presto le “professioni” educative scolastiche al loro “alveo naturale”, vale a dire la funzione esecutiva e, con essa, la riconduzione al ruolo impiegatizio…
E, dopo vent’anni, il cerchio si chiude; ovvero: “D.C.”, che non è la Democrazia Cristiana, ma una sigla che significa Da Capo, un invito a ripetere una frase o un brano e che si legge in calce ad uno spartito musicale!