di Cristiano Corsini
Resto regolarmente sorpreso dalla tendenza di certi commenti, articoli e titoli a usare i dati Invalsi per confermare i soliti luoghi comuni sulla scuola.
Ogni volta che esce il rapporto, la quasi totalità dei commenti si riferisce a un abbassamento del livello di competenze della nostra popolazione studentesca e a un peggioramento della qualità della didattica.
La cosa è buffa per tre motivi.In primo luogo, non sempre le prove attestano un peggioramento. Quest’anno, per esempio, rispetto a due anni fa il peggioramento è riscontrato per le secondarie in matematica e italiano ma non inglese, mentre la primaria mostra più o meno gli stessi livelli di rendimento rispetto al 2019. Rimane il problema della comparabilità dei risultati di somministrazioni avvenute in condizioni molto diverse, ma ha ovviamente senso chiedersi il perché del peggioramento riscontrato, e su questo torno in seguito.
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di Franco De Anna
Premessa doverosa
Sono da sempre convinto della importanza delle rilevazioni annuali che INVALSI compie sui livelli di apprendimento nella nostra scuola, del valore essenziale di questo aspetto della Ricerca Educativa, delle modalità di restituzione all’intero sistema, e con articolazioni che nel tempo si sono andate via via approfondendo, dei risultati di tale ricerca in termini di strumenti preziosi di elaborazione diagnostica su diversi livelli.
In primo luogo, come strumenti utili a supportare la “razionalità decisoria” relativa al sistema stesso innanzitutto in termini strategie di politiche dell’istruzione e di conseguenza della congruenza e dei risultati delle scelte operative ad esse legate.
In secondo luogo, proprio per i caratteri delle articolazioni delle restituzioni di rilevazioni condotte sull’universo del sistema, come strumenti di possibile e analitico riscontro della stessa operatività molecolare a livello di scuola e di classe.
Per tali ragioni di fondo sono sempre stato convinto della necessità di sviluppare attorno a tali aspetti essenziali della Ricerca Educativa il massimo di consapevolezza dei significati specifici degli indicatori e dei protocolli utilizzati, del valore sostanziale di strumenti per l’impegno analitico diagnostico dei dati rilevati, della necessità di accompagnare tale impegno analitico diagnostico a tutti i livelli del sistema, dai decisori agli interpreti professionali.
Come sempre nella Ricerca e in particolare nella ricerca sociale: gli esiti non sono “certezze indiscutibili” ma strumenti per approfondire, verificare, ricombinare scelte operative. Tanto più se l’oggetto è un sistema sociale complesso e particolarmente articolato e pluridimensionale come la scuola.
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di Roberto Maragliano
Più che di tragedia della DaD parlerei di tragedia della cultura nazionale in fatto di scuola.
I primi studi nazionale sulla determinazione sociali degli studi risalgono a sessant’anni fa. Questa predisposizione economico-sociale al successo o non successo scolastici non è mai stata negata né lo è mai stata la sua articolazione geografica nord/sud – est/ovest, elemento che incide pesantemente a livello di scuola secondaria e al di sotto del quale sta, pesantemente confermato dentro la cultura formativa nazionale, una disposizione gerarchica degli indirizzi scolastici. Sono fattori residuali dell’impianto ottocentesco, aristocratico, centralistico, autoritario, e che spiegano anche perché c’era già un’inaccettabile disparità nei risultati, prima della pandemia.
Quindi non è tutta colpa della DaD, se le cose vanno come vanno. Quindi tornare alla situazione di prima (anche se fosse possibile, cosa che non è, basta un po’ di buon senso per capirlo) significherebbe mantenere le disparità ante-Covid, probabilmente peggiorate, visto che mesi e mesi di ‘non scuola’ avranno non poco demotivato tutti, ma li avrà anche convinti di poter giocare un buon alibi.
Chiediamoci dunque l’origine di tali disparità, fortissime già prima, con tassi di eterogeneità nella riuscita e di precoce dispersione significativamente superiori agli standard europei e vediamo di individuare delle priorità per le necessarie misure di intervento correttivo e trasformativo. Quando lo si fa (raramente sui media di massa, più frequentemente qui, nei famigerati social) si parla perlopiù di interventi sulle strutture fisiche (edifici e arredi) o sull’organizzazione didattica (attività laboratoriali, integrazione delle attività, flessibilità degli orari, ecc.). Benissimo.
Manca, a mio avviso, un elemento fondamentale: quello dei saperi, dei contenuti della formazione scolastica. Vanno ripensati, dobbiamo trovare il coraggio di ripensarli, evitando di trincerarci dietro parole come ‘curricolo’, ‘materia’, ‘disciplina’ che riflettono e legittimano al loro interno deleterie istanze di conservazione (epistemologica e politica). Scienza naturale e scienza umana, storia, musica, letteratura, tecnologia, arte ecc. non sono blocchi stabili di sapere dentro i quali e tra i quali identificare collegamenti, sono invece pratiche e modi di vedere, pensare ed essere che si aggregano si integrano si differenziano all’interno di attività di apprendimento, tanto più produttive quanto più attive e coinvolgenti, nella forma ma anche e soprattutto nella sostanza. Smettiamola dunque di prenderci in giro. Se i ragazzi non sanno leggere e scrivere – lo si sostiene con convinzione a vari livelli – non è perché non gli si insegna abbastanza la grammatica, forse è perché si aspira a insegnargliela troppo e troppo male, forse è perché leggono (e studiano e scrivono) cose non del tutto giuste e non sempre nei modi giusti.
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di Pietro Calascibetta
In questi giorni il mondo della scuola festeggia Edgar Morin ricordandone il pensiero cha ha avuto una grande influenza su tutta una generazione di insegnanti. Un altro filosofo che ha ispirato la formazione di molti docenti è stato Giulio Giorello, purtroppo morto prematuramente poco più di un anno fa.
Desidero ricordarlo approfittando della recente la pubblicazione a cura di Antonio Carioti del volume dal bel titolo “Le avventure della libertà” che raccoglie i suoi contributi per #laLettura , supplemento culturale del Corriere della Sera.
Carioti nella prefazione tiene a sottolineare come il rapporto con Giorello non fosse stato casuale , ma frutto di una scelta precisa perché Giorello era la firma più adatta per collaborare ad un progetto culturale come quello de “la Lettura” che voleva «combinare il sapere umanistico e quello scientifico […] contaminare espressioni culturali elitarie e produzione per il consumo di massa».
Un progetto, continua Carioti, che «sembrava cucito su misura per Giulio Giorello […] perfettamente in grado di sparigliare il gioco, trovando sempre lo spunto per incuriosire il lettore o per cogliere nessi tra argomenti apparentemente distanti, con una versatilità più unica che rara».
Da dove derivava tutta questa poliedricità nell’approccio alla conoscenza?
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di Stefano Stefanel
Una scuola a misura di studente è uno slogan un po’ vecchiotto e un po’ retorico, ma rende ugualmente bene l’idea della scuola dentro la società della conoscenza, che ha cura per tutti i suoi studenti. Gli studenti dovrebbero trovare nel sistema scolastico quello che risponde meglio alle loro singole esigenze, nell’interesse comune di aumentare le possibilità e le potenzialità di tutti e quindi anche il benessere (sociale, culturale, economico) di ogni nazione. Nei fatti, però, accade spesso che sia più corretto lo slogan opposto: Uno studente a misura di scuola. Il sistema scolastico non si struttura come un servizio verso le esigenze di ogni singolo studente, ma propone delle strade e cerca studenti che si adattino a queste. Tutta le questioni dell’orientamento, delle bocciature, dei percorsi opzionali, delle materie di indirizzo, delle valutazioni docimologiche trasformano l’idea di essere, come scuola, “a misura di studente” a quella più pragmatica di cercare studenti “a misura di scuola”. Ma fin qui siamo nella normalità del rapporto diretto tra dichiarato ed agito, una questione su cui la scuola sta dibattendo ormai da almeno vent’anni, quelli dell’autonomia, e che i vari tentativi di accountability non sono riusciti a modificare.
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di Paola Di Michele
C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.
Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.
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di Pietro Calascibetta
E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».
UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE
Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.
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di Giovanni Fioravanti
L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo.
Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.
Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo.
Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.
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di Gianfranco Scialpi
Scuola e digitale, l’intervista del Ministro Bianchi collega la competenza all’età.
La questione è più complessa e riguarda la testa.
Scuola e digitale, l’intervista del Ministro
Scuola e digitale. Il Ministro ha rilasciato un’intervista.
La questione del rapporto con l’uso dei dispositivi elettronici è liquidata, riducendo tutto all’età.
Si legge su Repubblica.it:“Tutti i ragazzi che vanno a scuola sono nati in questo secolo, tutti gliinsegnanti nel secolo precedente. Non è una differenza da poco. I ragazzi hanno una capacitàinnata di utilizzare gli strumenti digitali. Dobbiamo, già da questa estate, promuovere una scuola più aperta, consapevole del fatto che le competenze del passato possiamo esprimerle in modi diversi; ma anche del fatto che con queste macchine, possiamo fare cose mai fatte prima.Dobbiamo usare il digitale per aprire le scuole, connetterle fra loro.”La situazione è più complessa. Gli immigrati digitali
A mio parere il passaggio riportato, ha il pregio di semplificare, ma anche di distorcere la realtà.
Stando alle definizioni di M. Prensky (2001), da una parte ci sono i nativi digitali molto competenti e dall’altra gli immigrati digitali identificati con gli insegnanti che a parere del Ministro faticano nell’alfabetizzazione informatica e nell’acquisizione delle relative competenze. Ora la quotidianità ci restituisce una diversa realtà. Innanzitutto occorre dire che molti maestri e professori hanno colonizzato prima dei ragazzi gli ambienti virtuali.
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