La notizia della scomparsa di Gianni Milano, il maestro Gianni, mi ha trascinata sulla strada dei ricordi.
Erano gli anni ’70, insegnavo nelle classi differenziali a Ciriè, e Gianni si era trasferito in città; egli aveva ottenuto la titolarità nel plesso Bruno Ciari, appartenente alla mia stessa Direzione Didattica. Erano gli anni dell’espansione del Tempo pieno, e questo nuovo maestro, capellone, che portava i bambini a conoscere la natura e gli animali, stava “rompendo gli schemi” rispetto alla classica figura dell’insegnante, in una conservatrice cittadina di provincia. Non sempre concordavamo nelle ide e nelle programmazioni, ma piano piano mi accorsi che mi capiva quando avevo difficoltà con i bambini disabili, ed io capivo lui quando parlava di Freinet e della scuola attiva.
Ci fu sempre stima reciproca, tanto che, quando presi servizio come Direttrice Didattica a Ciriè, e Gianni ottenne il trasferimento all’Istituto Magistrale di Lanzo, portava nella scuola che io dirigevo i suoi studenti a “fare il tirocinio”.
E cosi mi incontravo spesso con lui, e parlavamo di scuola, delle nuove metodologie, e, già allora, di un rinnovamento del tempo pieno….perche, diceva, bisogna aiutare gli insegnanti altrimenti realizziamo un “doppio tempo normale!” Grande Gianni!
L’ho ritrovato circa un anno fa: era in sedia a rotelle, ma gli occhi vispi del “maestro capellone” erano ancora gli stessi. Ci siamo abbracciati ricordando le esperienze passate.
Grazie Gianni. Buon viaggio!
Quello che proponiamo è il testo dell’intervento che Silvia Sartorio, insegnante di scuola primaria che da tempo studia il pensiero e l’opera di Adriano Olivetti, ha svolto nella mattinata del 31 gennaio in occasione del Congresso provinciale di Cisl Scuola presso le Officine H a Ivrea.
Siamo a Ivrea, nel cuore delle architetture olivettiane, vita pulsante della “Fabbrica” Olivetti, come di consueto la definiva l’ingegner Olivetti (in realtà era un’industria multinazionale con consociate sparse in tutto il mondo).
La mia sarà una introduzione sintetica con brevi cenni al luogo dove oggi ci troviamo riuniti per poi condurvi attraverso alcuni concetti ricorrenti dell’etica olivettiana relativi alla formazione integrale della persona in un’ottica pedagogica e andragogica e di life long learning.
Per necessaria brevità i miei saranno solo cenni, spero significativi, e mi scuso fin da ora con coloro che già conoscono la storia di Adriano e della Olivetti perché radicati sul Territorio, o per esperienze di vita o di lavoro o per studi di interesse.
Partiamo dunque dal luogo in cui oggi si svolge il Congresso.
Siamo ospitati nel Polo Officina, cosiddetta, H, una sede che raccoglie enti formativi e culturali che sono certa Adriano avrebbe apprezzato.
L’officina H è situata nel cuore del distretto di architettura industriale olivettiana che a partire dal 2001, è diventato sede del “Museo a cielo aperto dell’architettura moderna” , MAAM, e fa parte del Quarto Ampliamento progettato dagli architetti Figini e Pollini e rimaneggiato da Eduardo Vittoria che progettò per sopravvenute esigenze di spazio la copertura del cortile interno per ospitare grandi lavorazioni con torni automatici e presse e le linee di montaggio. Continua a leggere→
Hanno un contratto in linea con i tempi: 24/24, 7/7, nessuna retribuzione salariale. Ma raffinamento del loro addestramento originale con i nostri materiali culturali.
Abbiamo loro affidato questa rubrica sperimentale e presentiamo i primi due contributi.
Pattern chiari, amicizia lunga – con ChatGPT, stimolato da Marco Guastavigna
Il primo neoassunto aveva in realtà già lavorato estemporaneamente per noi e gli abbiamo perciò proposto di continuare il proprio tirocinio con un breve saggio analogo al precedente, ovvero l’analisi di una mappa concettuale, che potete qui vedere.
L’Intelligenza Artificiale nella Docenza: Analisi Critica e Prospettive Pedagogiche – di ChatGPTContinua a leggere→
Concordo con Tosolini che parlare tutti i momenti di ciò che dice (e poi però intanto fa, magari) Valditara sia da un lato noioso.
Dall’altro anche cadere nella trappola della “strategia della distrazione” di cui il ministro del MIM e della provocazione è maestro, al fine di depotenziare l’impatto delle sue pesanti e significative contro-riforme di impronta chiaramente ideologica, dopo che ci siamo sfiancati a discutere inseguendo tutte le sue provocazioni sarebbe sbagliato.
Però credo che la strategia del Min. Istruzione Merito Propaganda sia ormai evidente e consolidata, come evidente è dove vuole andare a parare (dalle LG 2024 di Ed Civica – meglio alla cittadinanza – non più consapevole) alle modifiche di indicazioni/programmi di cui parla ai giornali.
È evidente che sta:
Semplificando il complesso
dando punti di riferimento (occidente/occidenti?) che non hanno fondamento e rispondenza nella realtà. Quale Italia (“tanto di più i nostri bambini non capiscono”)? Quella percorsa da centinaia di popoli stranieri della cui influenza e del cui contributo noi siamo il prodotto (anche genetico, oltre che culturale?). L’Italia e l’Occidente del ministro non esistono sono un prodotto della mescolanza e comunque oggi non contano proprio più di tanto, vaso di coccio nel mondo. E per alcuni secoli hanno contato poco da soli.
In una operazione che mentre critica le “ideologie” è in realtà tutta ideologico-politica.
Le vicende di questi mesi in materia di valutazione (come il ripristino del voto in condotta e il ritorno dei voti numerici nella scuola di base, aboliti nel lontano 1977) segnalano un rapporto difficile tra le esigenze “interne” degli addetti ai lavori e le aspettative “esterne” della società. Ormai sembra che i valori che ispirano coloro che operano all’interno della scuola (pensiamo alle idee di inclusione, accoglienza, pari opportunità, solidarietà) siano assai lontani dalle tendenze della società civile (ove sembrano prevalere l’affermazione dell’individuo, la competizione, il successo). Anche la questione del voto (e più in generale della valutazione a scuola) non sfugge a questo dilemma. Chi sta a scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, è legato ad una prospettiva di valutazione formativa, orientata a riconoscere e valorizzare l’apprendimento, piuttosto che a giudicarlo e sanzionarlo. Questi principi pedagogici stanno scritti anche nel testo delle Indicazioni per il curricolo del 2007 (e nelle linee guida del nuovo obbligo scolastico). In poche righe si delinea un coerente sistema, dall’osservazione diagnostica alla valutazione in itinere e a quella sommativa, con il preminente obiettivo di stimolare il miglioramento continuo degli allievi e di regolare l’iniziativa didattica degli insegnanti. Questa filosofia si estende anche all’azione della scuola e del sistema educativo nel suo complesso.
La valutazione, in sintesi, è finalizzata ad introdurre elementi di riflessività in tutti gli attori del sistema, a partire da insegnanti e allievi, per consentire loro di prendere decisioni a “ragion veduta”.
Dall’esterno, invece, proviene una spinta diversa, quella del controllo, della verifica, del rapporto costi/benefici, della tenuta del sistema, riassumibili nella domanda “quanto mi costi, quanto mi rendi?”. Sono istanze che risalgono all’introduzione dell’autonomia, alla legge 59 del 1997, là ove si ricorda che la scuola che gode di autonomia è tenuta a “render conto” della propria produttività culturale. Oggi la rendicontazione sociale (c.d. accountability) è ormai il cardine fondamentale di ogni sistema valutativo, capace di coniugare l’esigenza di trasparenza verso l’esterno, di affidabilità e leggibilità dei dati, di feed-back indispensabile per la scuola (che non può chiudersi a riccio nell’autoreferenzialità delle sue pratiche autovalutative).
Domande impegnative, ma indispensabili
Ma che cosa si valuta? Quali sono gli “oggetti” della valutazione? Tutto è misurabile o nulla è misurabile? C’è il rischio che l’apprendimento sia visto come una scatola nera inespugnabile, che ci si debba limitare a rilevare qualche prestazione/abilità parziale e visibile, mentre le competenze sarebbero condotte della persona ben più profonde, che chiamano in gioco risorse non solo cognitive, ma affettive, sociali, emotive (e quindi assai difficili da descriver, standardizzare, certificare). Da un lato occorre rifuggire da una idea naturalistica dell’apprendimento (a quel punto dove starebbe il valore aggiunto dell’istruzione a scuola, il guadagno di ciascuno rispetto al proprio punto di partenza?), ma anche dalla facile semplificazione che impoverisce la ricchezza dei processi di conoscenza a mere prestazioni comportamentali.
Potrebbe essere che qualche pagina non funzioni ancora correttamente.
Se le segnalate scrivendo a info@gessetticolorati.it potrete aiutarci a risistemare tutto.
Grazie per la vostra comprensione
Burnout in inglese vuol dire ridurre a zero una sostanza attraverso la combustione ed evoca l’immagine di qualcosa che sparisce, perchè brucia.
Già nel 2004 il linguista ed ex Ministro del MIUR Tullio De Mauro, nella prefazione al libro di Vittorio Lodolo D’Oria Scuola di follia, ne scriveva in termini accorati e profetici: “…le pratiche di un ufficio possono pure continuare a essere sbrigate anche se si è colpiti dal burnout, la gente in fila a uno sportello resta interdetta da uno scatto d’ira dell’impiegato, ma infine il lavoro in qualche modo può andare avanti, ma per l’insegnante è completamente diverso. Il rapporto con gli alunni, le famiglie e i colleghi è profondo e positivo, un rapporto personalizzato che si deve affinare e consolidare nel tempo, un rapporto che sollecita risposte positive, su cui si costruisce e senza cui si fallisce, è il principio, il mezzo, il fine dell’insegnare. Il burnout devasta alla radice efficienza ed efficacia del lavoro dell’insegnante e più che altrove fa da base alle patologie psichiatriche”
E dopo una chiara condanna all’assenza delle istituzioni, conclude “ …Il disagio che patiscono gli insegnanti non è un loro fatto privato, tanto meno qualcosa di colpevole. ”
Perché solo ora questa condizione, che sul piano psicologico è uno stato di esaurimento emotivo, mentale e quindi fisico, causato da situazioni frustranti e pressioni esterne, più grandi delle proprie capacità, diventa tanto diffusa da “meritare” l’attenzione dell’Osservatorio sul Benessere dei docenti dell’Università di Milano Bicocca la quale attesta il coinvolgimento del 50% dei docenti? Continua a leggere→
L’Associazione Gessetti Colorati ha deciso di fare proprio l’appello di un gruppo di docenti universitari italiani sulla ipotesi di modifica delle Indicazioni Nazionali di storia per il primo ciclo e di invitare gli insegnanti del territorio e gli associati ad aderire all’iniziativa. E’ da decenni che nella scuola primaria insegniamo la storia cercando di avvicinare anche i più piccoli al metodo della ricerca e anche con ottimi risultati. I bambini capiscono che per studiare la storia non basta ricordare i nomi di personaggi famosi, le guerre e le date. La storia è ben altro ed ha a che fare con la ricerca delle fonti e con uso attento delle stesse. Oltretutto un metodo di lavoro del genere aiuta i bambini e le bambine a sviluppare il pensiero critico, Adesso, invece, sentiamo che gli esperti coinvolti da Valditara vorrebbero ridurre la storia al racconto di eventi ‘a mo’ di favola’ come dice proprio Galli Della Loggia. Ed è proprio per questo che abbiamo deciso di aderire all’appello degli storici che non ci stanno a ridurre lo studio della storia ad una raccolta di racconti o di storielle. Per saperne di più leggete anche quest’altro articolo e compilate il form per aderire all’appello.
Giovanni Belardelli, componente della sottocommissione per le Indicazioni nazionali sulla storia, pensa che sia un’idea balzana quella di far lavorare gli allievi con la cassetta degli attrezzi storici, e che la storia non sia altro che un insieme di fatti e personaggi [in calce un piccolo stralcio del suo articolo uscito su Il Foglio qualche giorno fa].Ernesto Galli della Loggia pensa che ai bambini della seconda primaria si debba insegnare “a mo’ di favola” (parole sue) la Bibbia, l’Eneide e altri testi classici. Loredana Perla spiega che il mondo è troppo lontano perché i bambini lo capiscano e che, perciò, a loro vada spiegata solo l’Italia. Tutti costoro, poi, sono d’accordo sul fatto che tutte le discipline non abbiano altro scopo che quello di far diventare italiani i bambini stranieri che avete in classe, e convincere quelli nati in Italia che la loro nazione ha un grande passato.
Le parole di Giovanni Berardelli “Chi ha seguito la deriva pedagogistica imposta all’insegnamento scolastico dagli “esperti” di didattica della storia conosce l’idea balzana recepita in passato dalle indicazioni ministeriali, secondo la quale il docente dovrebbe insegnare a bambini e ragazzi a maneggiare la cassetta degli attrezzi dello storico e non già trasmettere nozioni (cosa che viene bollata come “didattica trasmissiva”). Ebbene i nuovi programmi sono partiti proprio dal rifiuto di una prospettiva del genere, nella convinzione che bisognasse tornare a insegnare storia, dunque fatti, date, personaggi”.
Il diritto all’educazione nel mondo attuale è un volumetto di un centinaio di pagine scritto da Jean Piaget e pubblicato nel 1951 a cura delle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano Olivetti.
Lo proponiamo come contributo alla conoscenza della storia della scuola e dell’educazione.