di Stefano StefanelMerito e Meritocrazia sono due nomi che, in questi giorni, fanno discutere, da qualunque parte li si voglia considerare. Poiché il Merito è diventato il nuovo logo del Ministero dell’Istruzione e del Merito credo che, almeno in questa fase, sia meglio attenersi al mondo della scuola, visto che analogo trattamento non hanno ricevuto, ad esempio, i ministeri della Funzione Pubblica, dell’Università e delle Ricerca, degli Interni, ecc.
Se ci fermiamo dunque al Ministero dell’Istruzione e del Merito sono quattro le categorie interessate alla questione:
gli studenti
i docenti
i dirigenti
il personale ATA
LA PERICOLOSA CHINA DEL MERITO COME CONTRALTARE DEL DE-MERITO
Cominciamo dagli studenti che, a tutt’oggi, nel mondo della scuola sono gli unici ad essere valutati in maniere, comunque, troppo disomogenee e molto poco eque. Va immediatamente sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè che tutto ciò che non è de-merito, per sua stessa natura sia merito. Per dirla in modo molto semplificato: se prendo 5 de-merito, se prendo 6 merito: questo è un modo proprio perverso di ragionare. La docimologia italiana è la base strutturale della sua dispersione, perché scambia misurazioni sommarie ed arbitrarie con i processi di valutazione. Bisogna, quindi, sgomberare il campo – immediatamente – dal de-merito, categoria legata a situazioni sociali, personali, culturali, motivazionali che si vanno ad intrecciare spesso con didattiche frontali ed obsolete, ossessione per compiti in classe e interrogazioni, interesse per i risultati dei prodotti e non per quelli dei processi. Il merito deve, dunque, essere qualcosa che dimostra particolari capacità degli studenti che devono essere premiate nell’ambito di un’azione meritocratica, che parte cioè dagli oggettivi risultati di coloro che riescono a sollevarsi dalla media. Dunque, il merito dovrebbe essere la ricerca degli elementi di eccellenza in un sistema che deve, contemporaneamente, avere attenzione ai bisogni di inclusione, supporto, accompagnamento, azioni dirette sulle persone.
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di Giancarlo Cavinato
Nella pedagogia Freinet, nel quadro dell’uso di una vasta pluralità di linguaggi e di codici, l’uso didattico dell’immagine e del film ha avuto un posto fondamentale accanto alle biblioteche di lavoro e agli strumenti di stampa. Freinet aveva realizzato i primi filmini amatoriali utilizzando una cinepresa e un proiettore Pathé.
Michel Mulat, dell’ICEM (Institut coopératif d’école moderne), sta facendo presso l’Università di Nizza e per conto dell’associazione Les Amis de Freinet costituita da anziani insegnanti Freinet di diverse parti del mondo un prezioso lavoro di restauro e documentazione di film e video prodotti nelle classi Freinet (riferimenti e informazioni: michel.mulat@cvc-freinet.org )
Purtroppo molti filmati d’epoca sono andati perduti o distrutti o sono irrecuperabili. Michel ha restaurato un film cult sull’episodio, citato ne ‘i detti di Matteo’, del cavallo che non ha sete. Il testo è tradotto in varie lingue, e letto da insegnanti dei diversi movimenti.
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di Gianni Giardiello
Ossia: …. che cosa c’entra il premio al merito per alcuni, per una scuola che deve essere per tutti e per ciascuno.
Intanto cominciamo a chiarire che la nostra Costituzione dice che tutti i cittadini, a prescindere dalle differenti condizioni economiche e sociali e dalle possibili differenze di genere, di razza, di lingua, di credo, ecc. hanno diritto all’istruzione. La legge che stabilisce l’obbligo scolastico per tutti i cittadini dai 6 ai 16 anni di età, per 10 anni, conferma questo primo fondamentale principio costituzionale.
Il diritto all’istruzione deve essere assicurato a tutti i cittadini dal sistema scolastico pubblico nazionale al cui funzionamento presiede il Ministero dell’Istruzione.
Ebbene il primo problema che si pone è che il sistema scolastico cosi come sta funzionando non riesce a soddisfare questo compito primario che la Costituzione gli affida.
Le cifre ufficiali degli abbandoni scolastici e della dispersione scolastica nel segmento dell’obbligo e nel triennio superiore e nell’università lo dimostrano ampiamente.
Questa è la questione più rilevante. Credo che il bisogno primario non sia quello di premiare ulteriormente chi già è bravo o più bravo, quanto piuttosto di contrastare le politiche ancora molto in voga nella scuola pubblica, orientate a “respingere” (bocciare) o “abbandonare” i più deboli e meno attrezzati.
Il secondo problema nasce dalla considerazione, condivisa da molti, che bisogni dare a tutti le stesse opportunità di partenza e poi vinca il migliore. Quasi che il percorso di istruzione fosse simile ad una qualunque gara podistica.
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di Raimondo Giunta
La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.
Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.
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di Giancarlo Cavinato
Gioco e lavoro: una contrapposizione?
La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.
‘Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorioe questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.’[1]
L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]
Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.
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di Domenico Sarracino
L’idea di chiamare “Ministero dell’Istruzione e del Merito” il vecchio MPI mi ha sorpreso creandomi un certo disagio e anche un inquieto malessere. Dico subito che di per sé l’idea di riconoscere e valorizzare il merito mi trova favorevole, ma a patto che la parola non sia presa isolatamente, ma chiarita, contestualizzata e collegata ad altre fondamentali condizioni.
Ora, il fatto che la compagine di governo utilizzi questa parola insieme ad espressioni ed esternazioni retrive ed oscurantiste che riguardano diritti, visioni del mondo, fatti religiosi e problemi economici e sociali, viene a costituire un puzzle minaccioso che non può non preoccupare.
Nelle mie considerazioni voglio partire dalle disparità presenti nella nostra società che non diminuiscono, anzi si accrescono, per richiamare subito il più alto compito che la Carta costituzionale si pone ed affida a chi è chiamato a guidare il Paese: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dunque innanzitutto è necessario l’impegno a rimuovere le disparità, a costruire medesime condizioni di partenza e opportunità perché ciascuno poi possa farsi costruttore del proprio futuro, progredire, uscire dalla condizione di condanna ad una immutabile predestinazione che lo confina nella subalternità e ne deprime le aspirazioni.
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di Maurizio Parodi
Il nuovo, altisonante e indeterminato appello al “merito” voluto dal Governo Meloni è da molti riferito esclusivamente, prevedibilmente all’impegno degli studenti, e ricondotto a una vigorosa “stretta” normativa.
Va detto che i richiami al “rigore” didattico non sono mai rivolti alla qualità dell’impostazione pedagogica o alla congruenza della struttura organizzativa; no,
il riferimento è a una scuola in cui il merito quasi sempre consiste nell’estrazione socio-culturale, che premia i “migliori”, avvantaggiati in partenza, e allontana i “peggiori”, gli inadatti, i più deboli.
La nostra scuola è fin troppo sbilanciata verso una logica della prestazione che, tra l’altro, tende a confondere il virtuosismo servile con la qualità degli apprendimenti.
Una scuola che non “promuove” l’esercizio e lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente provvisto, ma solo alcune abilità, alcune modalità d’uso dell’intelletto (per giunta le meno elevate, quelle legate alla ripetizione, alla memorizzazione), “bocciando” le altre, che in taluni, fortunati casi la vita si riserva di riscattare – vi sono imprenditori, giornalisti, persino scrittori, filosofi e scienziati che hanno trascorsi scolastici non propriamente brillanti.
Il rapporto tutt’oggi esistente tra rendimento scolastico e ambiente d’origine, il fatto cioè che i “capaci e meritevoli” prosperino soprattutto nelle famiglie “attrezzate” culturalmente e affettivamente, conferma che la scuola non funziona più nemmeno come ascensore sociale.
Ma di fronte al dramma, sempre attuale, della dispersione scolastica, non si può indulgere ad atteggiamenti di fatalistica rassegnazione, quasi si trattasse di un fenomeno “naturale”, di un processo “fisiologico” (e non patologico), connaturato al sistema comunque sano. Non è decente pensare che i ragazzi lascino spontaneamente la scuola, che “demeritino” colpevolmente, e non ne siano invece allontanati, che la rifiutino deliberatamente, e non ne siano respinti; equivale a dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati, proprio come il sarto menzionato da Postman che, limitandosi a confezionare un solo tipo di pantalone, sosteneva fossero sbagliate le natiche del cliente quando il suo modello non calzava a dovere.
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disegno di Matilde Gallo, anni 10[/caption]
di Simonetta Fasoli
Ogni discussione sul merito, comunque la si argomenti, deve fare i conti con l’articolo 34, che va letto come un unico e coerente disegno politico-istituzionale.
Il comma 1 inserisce il concetto dentro l’ambito dell’universalismo dei diritti (quel “tutti” è perentorio, tanto che va oltre il perimetro stesso della cittadinanza come requisito giuridico-formale).
Il comma 2 traduce l’universalità del diritto, determinandone la portata e i termini attuativi fin dentro gli ordinamenti del sistema di istruzione e educazione.
Il comma 3 ne fa un criterio ordinatore di contrasto alle diseguaglianze socioeconomiche matrici di iniquità sociale (quel “anche se privi di mezzi”).
L’insieme del contesto, dunque, vieta ogni deriva meritocratica al concetto di merito.
Per “meritocrazia” intendo l’uso strumentale del “merito” per stabilire o consolidare gerarchie sociali e di potere, che riportano la dinamica sociale dentro l’orizzonte di una società elitaria: basata sul censo, sul privilegio della nascita, sulla cultura che da “bene comune” si trasforma in fattore di discriminazione e in patrimonio da tramandare nel perimetro escludente della stessa classe sociale.
Se tutto questo è vero, e se una ri-contestualizzazione del dettato costituzionale è possibile, o addirittura auspicabile, ne farei discendere i seguenti corollari.
1) tutti sono “meritevoli”: di attenzione, riconoscimento, supporto attivo nei percorsi di crescita e di educazione.
2) nessuno de-merita, nel senso suindicato.
3) de-merita, invece, il sistema educativo di istruzione e formazione che, preordinato per mandato costituzionale al compito di attenzione, riconoscimento, supporto attivo, viene meno alla propria funzione.
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di Rodolfo Marchisio
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Wittgenstein
La lingua cambia continuamente. Ma le modifiche apportate alla lingua che usiamo, con l’avvento del web, sono molte e, come molte cose che passano attraverso quel moltiplicatore e acceleratore che è la rete, hanno conseguenze molto significative anche sulla nostra vita personale e sui nostri diritti di cittadini.
Tanto che la domanda oggi, a partire dalla lingua, non è più “cosa ci faccio col web” ma “cosa il web sta facendo a noi”, al nostro linguaggio e di conseguenza al nostro modo di esprimerci; quindi di ragionare, di sentire, di avere relazioni e fare amicizie, di agire e scegliere, cioè di essere cittadini. (S. Turkle).
“I ragazzi devono saper cosa succede sulla loro pelle in rete” …perché “cambiare è ancora possibile” recitava il Sillabo sulla Educazione civica digitale del MI 2018. In relazione alla attuale fase del web che ha fatto dire a T. B. Lee “Non riconosco più la mia creatura”.
Cominciando dalla lingua, perché di qui comincia il processo che coinvolge informazioni, conoscenze, pensieri; ma anche emozioni, sentimenti, percezioni, relazioni, amicizie e il nostro modo di essere. Persone e cittadini.
Allora è il momento di fare, insieme ai nostri ragazzi, una riflessione linguistica attraverso esempi, ricerche, dati ed autori, su come il nostro linguaggio, in molti modi, sia cambiato con l’avvento del web e su quali siano le conseguenze di questo cambiamento dinamico.
Se ne sta occupando anche la Accademia della Crusca. Ma, fortemente intrecciata con la dimensione lessicale, grammaticale e linguistica, c’è una dimensione culturale e di cittadinanza.
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di Nicola Puttilli
Stupisce lo stupore con cui il mondo della scuola e non solo ha accolto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Forse non tutti avevano letto l’accordo di programma relativo alla scuola delle forze che si apprestano a governare, il cui primo punto recita: “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico…”.
Meritocrazia e professionalizzazione sono aspetti fondamentali nel quadro di un intervento complessivo e organico sul sistema di formazione. L’idea di sostenere i “capaci e meritevoli” è, tra l’altro, alla base dell’art.34 della nostra Costituzione.
Non è d’altro canto possibile non ricordare alcuni decenni di sociologia dell’educazione che, già a partire dagli ’60, hanno chiaramente messo in luce come il “merito” non sia una categoria del tutto neutra ma che strutture concettuali, attitudine all’apprendimento, atteggiamento verso lo studio si definiscono già nei primi anni di vita e dipendono in larga misura dai condizionamenti socioculturali dell’ambiente di provenienza.
Quello che preoccupa, e non poco, non è la presenza della parola merito ma la totale assenza di parole come inclusione e dispersione scolastica. In uno sguardo complessivo come dovrebbe essere quello di chi si accinge a governare non può mancare qualsiasi riferimento a quello che è considerato, ma non da tutti evidentemente, il problema più pressante della nostra scuola, sia in termini sociali sia in costi economici.
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