Tragedia della DaD o della cultura nazionale sulla scuola?

di Roberto Maragliano

Più che di tragedia della DaD parlerei di tragedia della cultura nazionale in fatto di scuola.
I primi studi nazionale sulla determinazione sociali degli studi risalgono a sessant’anni fa. Questa predisposizione economico-sociale al successo o non successo scolastici non è mai stata negata né lo è mai stata la sua articolazione geografica nord/sud – est/ovest, elemento che incide pesantemente a livello di scuola secondaria e al di sotto del quale sta, pesantemente confermato dentro la cultura formativa nazionale, una disposizione gerarchica degli indirizzi scolastici. Sono fattori residuali dell’impianto ottocentesco, aristocratico, centralistico, autoritario, e che spiegano anche perché c’era già un’inaccettabile disparità nei risultati, prima della pandemia.
Quindi non è tutta colpa della DaD, se le cose vanno come vanno. Quindi tornare alla situazione di prima (anche se fosse possibile, cosa che non è, basta un po’ di buon senso per capirlo) significherebbe mantenere le disparità ante-Covid, probabilmente peggiorate, visto che mesi e mesi di ‘non scuola’ avranno non poco demotivato tutti, ma li avrà anche convinti di poter giocare un buon alibi.
Chiediamoci dunque l’origine di tali disparità, fortissime già prima, con tassi di eterogeneità nella riuscita e di precoce dispersione significativamente superiori agli standard europei e vediamo di individuare delle priorità per le necessarie misure di intervento correttivo e trasformativo. Quando lo si fa (raramente sui media di massa, più frequentemente qui, nei famigerati social) si parla perlopiù di interventi sulle strutture fisiche (edifici e arredi) o sull’organizzazione didattica (attività laboratoriali, integrazione delle attività, flessibilità degli orari, ecc.). Benissimo.
Manca, a mio avviso, un elemento fondamentale: quello dei saperi, dei contenuti della formazione scolastica. Vanno ripensati, dobbiamo trovare il coraggio di ripensarli, evitando di trincerarci dietro parole come ‘curricolo’, ‘materia’, ‘disciplina’ che riflettono e legittimano al loro interno deleterie istanze di conservazione (epistemologica e politica). Scienza naturale e scienza umana, storia, musica, letteratura, tecnologia, arte ecc. non sono blocchi stabili di sapere dentro i quali e tra i quali identificare collegamenti, sono invece pratiche e modi di vedere, pensare ed essere che si aggregano si integrano si differenziano all’interno di attività di apprendimento, tanto più produttive quanto più attive e coinvolgenti, nella forma ma anche e soprattutto nella sostanza. Smettiamola dunque di prenderci in giro. Se i ragazzi non sanno leggere e scrivere – lo si sostiene con convinzione a vari livelli – non è perché non gli si insegna abbastanza la grammatica, forse è perché si aspira a insegnargliela troppo e troppo male, forse è perché leggono (e studiano e scrivono) cose non del tutto giuste e non sempre nei modi giusti.


La flipped classroom così come tante altre belle suggestioni che ci vengono da altri regimi scolastici e culturali fanno punteggio accademico, certo, ma risultano inattuabili, dentro l’attuale assetto professionale della docenza. Insomma, occorre rivedere non solo come si fa apprendere ma anche e soprattutto ciò che si fa apprendere a scuola, nelle classi e nei loro prolungamenti di rete.
Riesumando un vecchio termine, ahimè sempre attuale, forse ancora più lo è oggi, direi che occorre lavorare (e molto) per uscire da una concezione libresca del sapere scolastico (e universitario), la stessa che legittima autoritariamente l’oggettività delle rilevazioni e che contemporaneamente consente ai commentatori interni ed esterni, sufficientemente e molto interessati (di disinteressati non ce ne sono), di dire che è tutta colpa della DaD.




Sulle povertà educative

di Stefano Stefanel

La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.

Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.

Succede – e dico “per fortuna” – che figli di genitori alcolizzati o drogati trovino nella scuola o nel lavoro le possibilità per uscire dal degrado familiare, ma succede anche che ragazzini fragili vengano travolti dai problemi delle proprie famiglie. E tutto questo, pur avvenendo in tutti i ceti sociali, ha una ricaduta molto più forte tra gli stranieri immigrati e tra le fasce deboli della popolazione, non sorrette da supporti economici, che di per sé non danno garanzia di nulla, ma che comunque permettono anche agevoli vie d’uscite, che la povertà economica unità alla povertà educativa spesso non permettono.

Gli insegnanti dentro questo girone infernale del nostro tempo hanno maturato ottime capacità nell’individuare e diagnosticare la povertà educativa, molto al di sopra dei servizi sociali, ancora prede della ossessione per le lunghe diagnosi alla fine di lunghe riunioni, laddove il tempo dedicato a diagnosticare supera di gran lunga quello dedicato a supportare. Inoltre il rapporto tra servizi sociali e scuola è spezzato, a cominciare dalla mancata integrazione progettuale e formativa tra educatori di derivazione sociale e insegnanti di derivazione scolastica.

La pandemia ha prodotto dunque un aumento della sensibilità scolastica, anche in chi è totalmente contrario a corsie di attenzione per coloro che hanno problemi. Per cui si è assistito e si assisterà in futuro a povertà educative trattate allo stesso modo sia dai falchi (insensibili al problema che pare non  riguardarli) sia alle colombe (che per il problema soffrono) e cioè attraverso la valutazione disciplinare, che coincide per i falchi e per le colombe, perché ovviamente è negativa. La domanda che a me sorge spontanea (ma comincio a temere che sorga solo a me, anche se spero di no) è questa : come fa uno studente diagnosticato dentro una povertà educativa a rispondere correttamente alle sollecitazioni valutative effettuate attraverso prodotti di verifica stantii (i compiti in classe), sbagliati perché inseriti dentro uno schema “a domanda risponde” di tipo non colloquiale (le interrogazioni)? Davanti a grandi povertà educative la risposta più semplice è programmare più compiti e più interrogazioni e poi mettere due o tre in pagella perché lo studente non è mai venuto a farsi interrogare, anzi spesso non è proprio mai venuto e quindi la distanza tra falchi e colombe si è – per il suo comportamento – azzerata.

Stupisce in tutto questo come non si comprenda che la povertà educativa va affrontata con un progetto che tocchi la vita dello studente, non con una misurazione di apprendimenti effettuata su base docimologica, con le scuole primarie che vorrebbero cominciare a maneggiare una merce avariata come la bocciatura anche dei bambini di quel segmento di scuola. Davanti a diagnosi chiare diventa incomprensibile perché non si agisca sul concetto stesso, eliminando prima la povertà educativa e poi mettendo il soggetto dentro la normalità valutativa. Poiché gran parte degli insegnanti italiani non ha studiato come si valutano gli apprendimenti, il comportamento e come si valuta collegialmente spesso i termini “valutazione”, “misurazione”, “certificazione” sono considerati sinonimi dentro una confusione che produce dispersione scolastica ed esiti bizzarri (valutazioni di fine anno che contraddicono Invalsi e Ocse-Pisa, valutazioni in alcune zone d’Itaia che paiono irrealistiche rispetto ad altre, ecc.) in situazioni pressoché normali, mentre producono una totale catastrofe dentro le povertà educative.

Un’analisi del problema però non è stata fatta dal Ministero e non sembra sia dentro gli interessi attuali dell’Italia. Il Ministero ha solo inviato una estemporanea frase sibillina dentro una comunicazione non essenziale: “Pertanto il processo valutativo sul raggiungimento degli obiettivi di apprendimento avverrà in considerazione delle peculiarità delle attività didattiche realizzate, anche in modalità a distanza, e tenendo in debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale, con riferimento all’intero anno scolastico”. Cosa voglia dire proprio non lo si sa: ognuno tiene conto di quello che vuole e i criteri approvati dai collegi docenti hanno la specificità di essere così vaghi da produrre risultati opposti in base non alla situazione oggettiva dello studente, ma alla sensibilità valutativa del docente. Se poi si pensa di agire sulle povertà educative attraverso il “Piano Estate” (che poi finisce in inverno) mi pare che proprio non ci siamo.

Dentro l’ignobile frase: “Io lo faccio per il bene dello studente” (che vuol dire che qualcuno dei presenti facendo o pensando diverso fa il male dello studente) si nasconde tutta l’idea salvifica per cui l’insegnante sa cos’è il bene dello studente al di là e oltre quello che lo studente sa di se stesso. Tutto questo acuisce il problema, perché questa produzione di diagnosi senza esito sembra una storia che non potrà avere fine. Se due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano (i così detti NEET) e nessuno li mette in relazione con le scuole che hanno appena concluso o abbandonato o con le università che hanno iniziato e non concluso, forse qualche problema di rapporto tra diagnostica e soluzione c’è. Che però la soluzione sia quella di affrontare le povertà educative con dosi massicce di disciplinarismo e verifiche scritte o orali mi pare possa essere almeno messo in discussione. Se c’è stata una diagnosi corretta in base a quale illuminazione divina un soggetto dentro una povertà educativa potrà rispondere correttamente ad una domanda che attiene a contenuti disciplinari o ad un compito contenente la richiesta di risolvere quesiti numerici? Il disinteresse e l’assenza di impegno tracciano un confine molto labile tra voglia di far nulla e povertà educativa (anche se non è difficile da comprendere che al giorno d’oggi la voglia di fare nulla è un sintomo della povertà educativa). Avere in mano uno smartphone e usarlo solo per messaggiare o guardare gli stessi siti con stupidaggini o porcherie, disinteressandosi completamente di tutte le possibilità o le culture che sono accessibili attraverso quello smartphone, dovrebbe far dubitare sulla risoluzione di problemi epocali con metodi per lo più parternalistici e selettivi del secolo scorso (e di quello prima).

Concludo abbinando lo sconcerto ad un’ipotesi: e se invece di produrre diagnosi e piani personalizzati (che tali non sono) cominciassimo a ragionare su progetti scolastici personalizzati di recupero delle povertà educative, verificando solo la diminuzione della povertà educativa, non la risposta esatta ad un quiz di storia?




La valutazione di fine anno fra norma e buonismo

di Pietro Calascibetta

Con una nota ministeriale recante per oggetto “Valutazione periodica e finale nelle classi intermedie primo e secondo ciclo di istruzione” il capo dipartimento del MIUR riepiloga tutta la normativa e le procedure di valutazione per gli scrutini.
Nulla da dire, solo tre osservazioni che mi sembrano importanti anche come riflessione generale sulla valutazione.

1) La nota sembra proprio una sorta di annuncio di ritorno alla normalità. Una circolare alla “nuora perché suocera intenda” . Un messaggio all’opinione pubblica per dire che l’epoca delle deroghe è terminata, si torna alla scuola vera. E’ un prezioso documento per le scuole, sicuramente da conservare come un “Bignami”, ma nulla di nuovo è scritto che il docente e il dirigente non sappia già. Mi domando quali sono state le deroghe sulla valutazione, se non quelle relative agli scrutini dello scorso anno.

2) Il Capo Dipartimento sente poi il bisogno di fare poi una precisazione:
“Si ritiene comunque opportuno richiamare l’attenzione delle SS. LL. sulla necessità che la valutazione degli alunni e degli studenti rifletta la complessità del processo di apprendimento maturato nel contesto dell’attuale emergenza epidemiologica. Pertanto, il processo valutativo sul raggiungimento degli obiettivi di apprendimento avverrà in considerazione delle peculiarità delle attività didattiche realizzate, anche in modalità a distanza, e tenendo debito conto delle difficoltà incontrate dagli alunni e dagli studenti in relazione alle situazioni determinate dalla già menzionata situazione emergenziale, con riferimento all’intero anno scolastico.”

Questa puntualizzazione penso sia anch’essa rivolta all’opinione pubblica, perché a ben vedere il fatto che il processo di valutazione debba riflettere “la complessità del processo di apprendimento” è un principio base più volte ribadito dalla normativa da sempre. E come se un Direttore sanitario scrivesse ai chirurghi del suo ospedale che devono tenere conto dell’igiene e devono lavare le mani prima dell’intervento!
Vale la pena ricordare che I criteri di valutazione sono decisi dal collegio dei docenti attraverso un processo decisionale che vede coinvolti i vari ambiti di lavoro della scuola. In altre parole il perché uno studente ha un sei o un sette sulla pagella dipende da questi criteri (uso il plurale volutamente), i quali devono essere pensati sempre in relazione alla ““complessità del processo di apprendimento” , in quella scuola, in quella classe, per quello studente, con tutto quanto ne consegue come si legge nel pezzo citato.
Mi viene spontanea questa precisazione per ricordare che i voti finali sulla pagella sono una responsabilità professionale dei docenti condivisa attraverso il PTOF dalla comunità scolastica. Non è scritto in nessuna normativa che ci sia un solo criterio, che questo debba essere la media dei voti delle verifiche e delle interrogazioni e che i criteri debbano rimanere immutati per sempre anche se cambia il contesto. Si tratta sempre di una scelta nell’ambito dell’autonomia.
Nella pandemia io sono sicuro, perché mi fido dei docenti e dei colleghi dirigenti, che i criteri presenti nel PTOF siano stati modificati perché professionalmente è questo che si sarebbe dovuto fare senza bisogno di una nota o di una norma ad hoc. Difendiamo almeno questo ambito di autonomia professionale!

La norma uguale per tutti è quella che stabilisce i criteri con i quali si promuovono o meno alla classe successiva gli alunni. Questi criteri sono obbligatori e stabiliti per legge secondo le norme citate nella stessa nota ministeriale.
Tranne che per gli scrutini, durante la pandemia la scuola dell’autonomia si è autonomamente autoregolata rispetto alle valutazioni, DaD o non DaD, perché è quello che l’autonomia didattica le consente di fare anche in tempi normali e questo è un plus valore proprio della scuola autonoma. Ad un certo punto si è avuto l’impressione e qualcuno ha fatto credere che tutto dipendesse dal Ministero, ma così non era, almeno per certi aspetti.

3) Nella nota c’è un riferimento diretto ed esplicito alla valutazione degli studenti dislessici e di quelli diversamente abili che hanno una certificazione e una normativa dedicata che i docenti anche in questo caso dovrebbero comunque ben conoscere. Nulla di nuovo. In questi casi la domanda da farsi è se i docenti abbiano o meno modificato il PDP in base alla “complessità del processo di apprendimento” di questi mesi. Modificando il PDP anche i criteri di valutazione dovrebbero essere stati adeguati alla situazione (ovviamente se fosse stato necessario).
Non si fa cenno invece a quegli studenti anch’essi definiti BES (con bisogni educativi speciali) che non hanno una certificazione formale e una normativa speciale come i dislessici e i disabili , ma sono tutelati solo dalla normativa sui BES (Direttiva 27-12 -2012 e CM n.8 2013). Peccato!
Ricordo che la Direttiva specifica che “ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”.
Faccio questa precisazione perché proprio in questa categoria “di mezzo” all’interno dei BES potrebbero (avrebbero potuto ) trovare posto tutti quegli studenti che per seri motivi, di cui sono venuti a conoscenza diretta i docenti, si siano realmente trovati in difficoltà in questi mesi per svariati e gravi motivi la cui tipologia può essere a conoscenza solo dei docenti stessi (solo ad esempio: perdita di un parente, mancanza di connessione, situazioni complicate in famiglia, mancata disponibilità da parte della scuola di tablet da dare in comodato ecc. ecc.).
Formalizzare e ufficializzare il disagio specifico dell’alunno e definire il suo bisogno educativo speciale condividendo questo accertamento in modo trasparente con la famiglia e verbalizzandone lo status temporaneo di BES avrebbe dato la possibilità a questi alunni di rientrare a pieno titolo tra gli studenti con BES, avere come la normativa prevede un Piano Didattico Personalizzato (PDP) anche provvisorio e anche non necessariamente così analitico (solo una scheda per carità! ) come quello dei dislessici e poter avere dei criteri di valutazione anche ben diversi da quelli dei compagni senza dover ricorrere al “buonismo” alla “comprensione” alla pacca sulla spalla, alle discussioni di principio nello scrutinio e soprattutto in modo trasparente e professionale. Senza parlare del valore educativo di questa soluzione agli occhi dello studente stesso.

Tante volte, come abbiamo visto durante la pandemia, si vuole scoprire l’acqua calda senza invece valorizzare quanto è già presente nella normativa stessa. Anche quando si introducono dei possibili miglioramenti nell’applicazione della normativa già in essere, come è stato nel caso del PAI e PIA , queste cadono subito nell’oblio e nessuno più ne parla.




Dare un valore all’apprendimento. Come cambiare rotta verso una valutazione formativa

di Daniele Scarampi

Il termine “valutazione” ha le sue radici nel participio passato latino di valére, ovverosia quel vàlitus che rimanda a un concetto ben preciso: avere un prezzo, riconoscere un valore.
Tale premessa non può che presupporre la prospettiva sistemica – globale, situata e omnicomprensiva – della valutazione, che rispecchia essenzialmente un processo formativo in itinere piuttosto che limitarsi alla rilevazione o alla semplice misurazione di singoli episodi didattici.
In quest’ottica, valutazione, progettazione e azione didattica sostanziano un paradigma d’apprendimento che, come ben ha raccontato la scuola di Barbiana, dà piena cittadinanza a quei saperi che non si imparano tra banchi di scuola, ma stando a contatto con la realtà in cui si vive; un apprendimento che dal reale prende lo spunto affinché ognuno acquisisca gli strumenti necessari di base per poter essere un cittadino consapevole.

In altre parole, la valutazione degli apprendimenti – eredità dell’esperienza di don Milani – precorre quel concetto di competenza che, partendo dalla sperimentazione e dalla laboratorialità, fonda (o dovrebbe fondare) il modello psicopedagogico della scuola odierna; modello nel quale l’alunno di viene messo alla prova non tanto per rimediare un voto o una certificazione, quanto piuttosto per capire se il sapere acquisito è sfociato in un saper essere e, di conseguenza, in un saper interagire con gli altri.

Questa prospettiva valutativa, che s’attaglia tanto alle attitudini dell’alunno quanto al suo stile di apprendimento e dà spazio alla relazione e alla costruzione condivisa dei saperi, concretizza l’Assessment for learning, ossia la valutazione per l’apprendimento, permettendo di monitorare in modo continuo e puntuale le acquisizioni dei discenti.
L’Assessment for learning è un vero e proprio processo educativo e formativo che sprona gli studenti a riflettere su quanto hanno imparato, in prospettiva metacognitiva, permettendo al docente di avere una maggiore consapevolezza del livello di ciascuno e si pone in alternativa all’Assessment of learning, che di fatto cerca di trarre informazioni sulla didattica mediante la somministrazione delle prove di verifica.

La valutazione dell’apprendimento mostra cosa si è memorizzato o assorbito e sovente offre una fotografia di una situazione parziale, legata al momento, in quanto mira a garantire la “contabilità” del profitto scolastico. Invece la valutazione per l’apprendimento si prefigge di migliorare il processo d’apprendimento, esplora le potenzialità dello studente e ne promuove costantemente i progressi.

Ora, fermo restando il fatto che le Ordinanze Ministeriali n.52 e n.53 del 3 marzo 2021 (a proposito di esami conclusivi del primo e del secondo ciclo d’istruzione) nonché la Nota n. Prot. 699 del 6 maggio 2021 (a proposito della valutazione periodica e finale delle classi intermedie nel primo e nel secondo ciclo d’istruzione), seppur in regime derogatorio abbiano ripristinato diversi passaggi dei due riferimenti normativi fondamentali sulla valutazione nel primo ciclo (D.lgs 62/2017) e nel secondo ciclo (DPR 122/2009), ci si auspica che almeno le attività didattiche/ricreative connesse con il Piano Scuola Estate 2021(Nota n.643 del 27 aprile scorso) possano svincolarsi dall’Assessment of learnig e approdare all’interno dell’Assessment for learning.

Infatti, come ben hanno scritto per il portale Pavone Risorse prima Marco Bollettino e poi Paolo Fasce, sarebbe importante che – almeno limitatamente alle fasi 1 e 3 del Piano Estate – si potessero riscoprire tutte le potenzialità inespresse del processo valutativo, liberando la valutazione da prassi obsolete e deleterie, scorie di un passato gentiliano che l’ha incatenata al congruo numero di verifiche scritte, orali e pratiche.

Bibliografia e sitografia

L’eredità di Barbiana, su www.edscuola.it
Giulia Abbiati, L’Assessment for Learning e la Dynamic Classroom  su it.pearson.com
La valutazione per l’apprendimento e per gli alunni disabili su european-agency.org Castoldi, Valutare a scuola. Dagli apprendimenti alla valutazione di sistema, Roma, Carocci, 2012

 




Defascistizzare la valutazione, almeno per le “pratiche estive”

di Paolo Fasce

Ho sempre riflettuto sul tema della valutazione. A volte l’ho fatto con tono scherzoso, mettendone alla berlina gli eccessi pseudo docimologici (lo feci proprio sul sito di Pavone Risorse), altre l’ho fatto più seriamente dedicando un capitolo della mia tesi di dottorato (anche questo pubblicato sul sito di Pavone Risorse). Recentemente ho scritto un Regolamento della Valutazione che nei prossimi giorni, dopo un passaggio in Commissione PTOF e discussioni diffuse nei dipartimenti disciplinari e nei consigli di classe, affiorerà in Collegio dei Docenti per una discussione collettiva e meditata. Lo rendo disponibile in questa sede perché potrebbe ispirare qualcuno e contribuire a salvare delle vite.
In questo regolamento ho provato a defascistizzare la valutazione.
Uso tecnicamente questa parola, giacché ho appreso che la locuzione “congruo numero di valutazioni scritte, orali e pratiche” deriva da un articolo di un regio decreto della riforma Gentile.
La normativa vigente, quella che è emersa col DPR 122/2009 e con D.Lgs. 62/2017 sembrano però lettera morta nei regolamenti sulla valutazione innestati nei PTOF che continuano a parlare di “congruo numero di voti”. Il mio contributo vuole accogliere ciò che è scritto nelle norme vigenti, ma non letto, meno che mai praticato.
Non è il regolamento che scriverei se fossi imperatore del mondo (dico “imperatore del mondo” perché il regolamento che scriverei non avrei il potere di deliberarlo neppure se fossi Ministro), ma è un contributo di cosa si può fare entro la legislazione vigente (quella davvero vigente, non quella che molti immaginano che ancora viga).
Pare assurdo, ma nessuno l’ha letta, la legislazione vigente. Nessuno si attiene. Tutto continua come se nulla fosse. E, infatti, spesso la scuola soccombe ai ricorsi. Per forza. Andiamo avanti per prassi obsolete.
Giacché non sono più giovane, ho fatto qualche esperienza e penso che dovremmo tutti adottare a scuola quella che in medicina è un cardine sul quale si basa da millenni questa disciplina: “primum non nocere”.
Ed è innegabile il fatto che i voti nuocciano. Creano disagio. Paura. Distaccano dal piacere dell’apprendimento. A volte, nelle psicologie condizionate di studenti che poi diventeranno disadattati nella vita, sono lo scopo del gioco. “Ho preso otto!” dice la mia stessa prole. Sono io che le chiedo: cosa hai imparato?
Alla luce di queste considerazioni, che mi fanno dire che la scuola avanzerebbe di un secolo semplicemente abolendo i voti (ma per fortuna mia e vostra, non sono l’imperatore del mondo), potete immaginare quanto stucchevoli appaiano alla mia modesta persona le notizie che sostengono che per le attività estive legate ai progetti che verranno finanziati col PON collegato al “Piano scuola estate 2021. Un ponte per il nuovo inizio” e con altri finanziamenti all’uopo dedicati, dovrebbero essere valutate. Nulla osta alla valutazione (peraltro, del tutto immaginata, temo da menti perverse), ma i voti no. No grazie.




Piano estate, non c’è nessuna valutazione degli alunni

di Marco Bollettino

Lo scorso 29 aprile, in contemporanea con la presentazione del Piano Estate del Ministero di Istruzione, tutte le Istituzioni Scolastiche hanno ricevuto una circolare, firmata dal Capo Dipartimento Stefano Versari, nel cui testo le parole “valutazione” e “valutare” ricorrevano ben sei volte.
“Ma come – si chiederanno in tanti – anche nelle lezioni estive gli alunni verranno bombardati con verifiche e interrogazioni?”
Fortunatamente no, ma è significativo che, quando si parla di valutazione, i più pensino subito ed irrimediabilmente al voto.
Parafrasando Boniperti verrebbe da dire che “il voto non è importante, è l’unica cosa che conta”.
Nel caso del Piano Estate il voto c’è ma è solo il punto di partenza, nemmeno il più importante, per la progettazione degli interventi.
Piuttosto, scrive Versari, dovremo «dialogare con i ragazzi, scartando modalità standardizzate o schematiche [perché] mai come in questo caso la personalizzazione dell’insegnamento è fondamentale e questa chiede di conoscerli».
Il dialogo continuo tra docente e discente e l’utilizzo continuo del feedback per modificare e migliorare la didattica è uno dei capisaldi della cosiddetta valutazione per l’apprendimento (assessment for learning).
La parola chiave è quel “per” che modifica totalmente il significato dalla valutazione tradizionale. Non si tratta più solo di verificare il possesso, o meno, di conoscenze e competenze ma anche (e piuttosto) di ricevere un feedback dagli studenti che ci consenta di migliorare la nostra didattica.
Spesso, imprigionati dalla burocrazia e alla ricerca costante del “congruo numero di verifiche” perdiamo comprensibilmente di vista questo importante aspetto della valutazione.
Liberati dalle catene del voto, è auspicabile che, almeno per le fasi I e III del Piano Estate riscopriremo le potenzialità di tutti gli altri aspetti del processo valutativo.




Per una nuova valutazione mite nella scuola primaria

di Iosa Raffaele

Proposte per una “variante M”

Sto studiando attentamente tutta la normativa sulla “nuova valutazione” nella scuola primaria, nata per merito delle leggi 6.6.2020  n. 41,  e 13.10.2020 n. 126.

Accompagnano le leggi un’Ordinanza ministeriale e le “Linee guida” corrispondenti per l’applicazione a scuola.

Materia ricca e complessa, che merita scavare bene per comprendere la connessione tra le sue ispirazioni pedagogiche e i fatti attuativi richiesti nei nuovi documenti di valutazione proposti.
Sono naturalmente molto lieto del fatto che almeno nella scuola primaria si sia superata, per la seconda volta della storia contemporanea,  la logica di valutazione sommativa con voti numerici.

Ma proprio per questo, per evitare che la nuova valutazione scada in una finzione formale e non in un processo di qualità, mi permetto di approfondire alcune questioni che per me sono cruciali per garantire una qualità formativa della valutazione come processo di sviluppo vero e non sanzionatorio.

E, soprattutto, proporrò qui l’aggiunta, per la nuova scheda di valutazione,  di un nuovo “spazio testuale” per me essenziale. Aggiunto, non alternativo, per rendere più efficace  la novità valutativa.

  1. La centralità di una valutazione formativa mite

E’ sorprendente leggere i numerosi passaggi normativi che indicano nella formatività la base pedagogica essenziale della nuova valutazione. Mai prima la formatività della valutazione è stata così ampiamente descritta ed enfatizzata. Per questo mio lavoro,  registro qui le più significative frasi contenute nelle Linee Guida, che rispettano con precisione i mandati legislativi.

“La valutazione ha una funzione formativa fondamentale. E’ parte integrante della professionalità docente, si configura come strumento insostituibile di costruzione delle strategie didattiche e del processo di insegnamento e apprendimento, è strumento  essenziale…….per sostenere e potenziare la motivazione al continuo miglioramento a garanzia del successo formativo e scolastico”

“L’ottica è quella della valutazione per l’apprendimento, che ha carattere formativo poichè le informazioni ….sono utilizzate anche per adattare l’insegnamento ai bisogni educativi degli alunni e ai loro stili di apprendimento, modificando le attività in funzione di ciò che è stato osservato

“La prospettiva della valutazione per l’apprendimento è presente nel testo delle Indicazioni Nazionali, ove si afferma che la valutazione come processo regolativo non giunge alla fine di un percorso, ma “precede, accompagna, segue” ogni processo curricolare e deve consentire di valorizzare i progressi negli apprendimenti degli allievi”.

“Per gli obiettivi non ancora raggiunti o in via di prima acquisizione la normativa prevede che “l’istituzione scolastica, nell’ambito dell’autonomia didattica e organizzativa, attiva specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento (art. 2 comma 2 D.L. 66/2017). E’ dunque importante che i docenti strutturino percorsi educativo-didattici tesi al raggiungimento degli obiettivi, coordinandosi con le famiglie nell’individuazione di eventuali problematiche legate all’apprendimento, mettendo in atto strategie di individualizzazione e personalizzazione

Ce n’è quanto basta per affermare che con la valutazione formativa così esaltata:

  • è in gioco non la valutazione sommativa delle azioni di un bambino che apprende, magari facendo le medie tra le varie performance,  ma l’apprezzamento della processo di apprendimento in corso
  • è in gioco parallelamente l’azione didattica che ha messo in campo l’insegnante, per comprenderne l‘efficacia o meno rispetto alle sue attese, e trarne dunque le conseguenze con modifiche, adattamenti, miglioramenti necessari per garantire il miglior apprendimento possibile.

Non è eretico, ma saggio, affermare quindi che la valutazione formativa  significa riconoscere che:

  • il bambino impara secondo come l’insegnante insegna da cui, viceversa e di conseguenza
  • l’insegnante insegna secondo come il bambino impara

Pare quindi che si tratti di una valutazione mite, intendendo con questo aggettivo un approccio non sanzionatorio né classificatorio in scale su ogni bambino/a, ma una seria, serena e non ansiogena riflessione in azione sul fare della scuola in tutti i suoi soggetti (chi insegna e chi impara),  che approfondisca i punti di successo e quelli di difficoltà come chiave proiettiva per costruire miglioramenti e adeguamenti del processo di apprendimento/insegnamento. Insomma,  ci importa in primis il successo formativo massimo possibile per ogni singolo bambino e bambina. Non è  un caso che si accentui il valore dell’autovalutazione come strumento di crescita di motivazione al miglioramento sia nell’alunno che nell’insegnante.

Naturalmente la valutazione formativa ha senso se si fa ogni giorno in ogni attività in corso, ed è evidente che quella “formale” intermedia e finale sono il risultato di un processo riflessivo costante. Citando l’approccio di Shon nel suo  celebre “professionista riflessivo”,  la valutazione formativa quotidiana è una reflection in act, la capacità mite e attiva del docente di accorgersi man mano in ogni attività degli intoppi, dei successi, delle deviazioni, delle difficoltà emerse riaspetto alle sue attese , cui da subito porre alcuni interventi migliorativi. La  valutazione intermedia e finale prevista dalla nuova normativa diventa quindi una reflection on act, quando cioè dopo un certo periodo si riflette sull’insieme dei percorsi e si colgono in modo più sistematico i punti di forza e i punti di difficoltà emersi nel farsi della scuola. Si può anche dire che la seconda reflection senza la prima rischia di diventare un surrogato ambiguo della vecchia pagella. Ma si può anche dire che la prima reflection è utilissima per evitare di valutare troppo tardi un alunno, quando   si sono persi per strada i percorsi che hanno portato al successo o alle difficoltà. Dunque ecco perché il valore mite dell’autovalutazione, sia per l’insegnante che per l’alunno (e la sua famiglia).

Quindi  le cosiddette “schede di valutazione” previste dalla nuova norma  diventano non un documento banalmente “certificatorio”, ma uno strumento riflessivo collettivo di carattere operativo, ed insieme partecipato, che ha una funzione primaria: il miglioramento del processo didattico-educativo.

Sono affermazioni di una sana pedagogia.

  1. La “variante M”

E’ quindi giunto il momento di presentare la “variante M” che mi sento di proporre come parte essenziale del nuovo strumento di valutazione. La chiamo “variante” perché termine di moda sul  virus con varianti disastrose, pensando invece che questa sanifichi il rischio che l’attuale proposta di schede, nonostante le buone intenzioni,   imiti le precedenti  pagelle con scale  e voti camuffati.

Ricordo che la norma prevede piena flessibilità metodologica nella struttura della scheda (finalmente citato l’art. 4 del DPR 275/99 regolamento autonomia), pertanto ogni scuola avrà una propria scheda valutativa. La norma prevede come “parti necessarie” delle nuove autonome schede la presenza di tre elementi:

  1. La definizione dei “livelli” raggiunti da ogni alunno, suddivisi nelle 4 categorie da “in via di prima acquisizione” ad “avanzato” per ognuno degli obiettivi  di apprendimento individuati dalla scuola
  2. Gli obiettivi desunti dal curricolo PTOF di scuola e di classe, precisati in forma puntuale (es. non “Lingua italiana” ma “produrre testi scritti di diverso tipo”) definiti per ogni disciplina.
  3. Infine, per ogni alunno va redatto un “giudizio descrittivo”, in forma dunque discorsiva, di cui è in discussione se un solo giudizio complessivo o disciplina per disciplina.

Di questi elementi  nel prossimo capoverso 3,   suggerirò alcune proposte di merito.

Ma a questo punto mi sono accorto che mancava qualcosa, cioè che è necessaria una “variante”  perché nelle due bozze di  scheda presenti nelle Linee guida (e nei testi) non è mai presente uno spazio ad hoc di scrittura  per me  invece decisivo:  la presentazione di quelle che ho chiamato “Azioni didattiche di miglioramento” (ecco perché M) che descrivano quello che le Indicazioni definiscono sulla valutazione formativa che  “precede, accompagna, segue” ogni processo curricolare e consente di valorizzare i progressi negli apprendimenti, e le Linee guida chiamano “individuazione di eventuali problematiche legate all’apprendimento, mettendo in atto strategie di individualizzazione e personalizzazione”.

La presenza di questa variante M esalta la pratica formativa e mette nero su bianco  una valutazione che si impegna non a promuovere o bocciare ma a migliorare tutti e due, insegnante e alunno.
Sarebbe anche, per le famiglie, una migliore comprensione del vero processo didattico in gioco. E di partecipazione consapevole, di cui c’è molto bisogno.

Di questa variante M si potrebbe inserire uno spazio di scrittura sotto ogni disciplina, oppure un unico contenitore che metta insieme le diverse attività didattiche di miglioramento che si intendono realizzare. Preferisco, naturalmente, la seconda ipotesi (si capirebbe meglio il carico di impegno complessivo).
Ma ogni scuola veda come preferisce lavorare.

Ma perché inserire la variante M nella scheda e non scriverla in un testo a parte? La ragione è evidente: perché così si darebbe in modo operativo l’idea che la valutazione è davvero formativa, sia come processo mentale dell’insegnante che come azione pratica per i suoi effetti nell’ insegnamento/apprendimento.

Quattro precisazioni su questa variante M

  1. Ricordo che l’art. 4 del DPR 275/99 sull’autonomia scolastica prevede che “le istituzioni scolastiche individuano le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale”. Poiché il modello di scheda è a libertà delle singole scuole, nulla vieta che sia presente questa  variante nell’ambito dell’autonomia. Per me è invece una scelta mite di valore civico e deontologico
  2. Questa variante renderebbe possibile descrivere le azioni concrete che l’insegnante intende mettere in campo per il miglioramento, da  compilare (ovviamente) quando si rilevino delle difficoltà. Così  il documento di valutazione diventa un atto operativo e non  banalmente certificativo. Nell’intermedio  indicano le difficoltà presenti e le strategie di miglioramento, a fine anno segnano da dove  ripartire per l’anno successivo. Dunque anche un atto per la continuità didattica da un anno all’altro.
  3. Darebbe ai genitori un’immagine valutativa motivata e partecipata. Non solo crocette sui vari livelli e buone parole sul giudizio descrittivo, ma anche l’impegno formativo che la scuola mette in campo, raccogliendo anche dai genitori  il loro altrettanto dovuto impegno.
  4. I contenuti della variante M. Nello spazio qui aggiunto e  presentato andrebbero  descritte le azioni (non le intenzioni generiche) di natura didattica che l’insegnante intende  realizzare per adeguare la sua progettazione, migliorare  l’apprendimento, percorrere vie di apprendimento nuove e diverse. Va evitato di far passare la variante M come ripasso o ripetizione, ma come individualizzazione   attiva anche con strumenti, tempi e modi diversi dal mainstream della didattica.

E’ dunque una valutazione d’impegno dell’insegnante.

Condivido pienamente i suggerimenti delle Linee guida di scrivere azioni attraverso verbi fattuali e contenuti concreti e non generiche formulazioni del solito pedagogese.
In questo modo il documento di valutazione diverrebbe strumento partecipato, come già si proponeva la Legge 517/77 che per la scheda di valutazione all’art. 4 così diceva, anticipando quindi il senso di questa mia variante (insomma, non ho inventato nulla, se non ripreso una buona pratica).

Legge 517/1977       Art. 4

L’insegnante  o gli insegnanti di classe sono tenuti a compilare ed a tenere aggiornata una scheda personale dell’alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola nonché le osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sui livelli di maturazione raggiunti.

Dagli elementi registrati sulla scheda viene desunta trimestralmente dall’insegnante o dagli insegnanti della classe una valutazione adeguatamente informativa sul livello globale di maturazione, il cui contenuto viene illustrato ai genitori dell’alunno o a chi ne fa le veci dall’insegnante o dagli insegnanti, unitamente alle iniziative eventualmente programmate in favore dell’alunno ai sensi dell’art. 2 della presente Legge.

  • Altre questioni operative legate alla valutazione formativa

C’è ampia e non semplice discussione sulle questioni obiettivi didattici /livelli di apprendimento /giudizi descrittivi. Le Questioni di metodo e di merito  che qui intendo precisare sono cornice  attorno  al “cuore” della mia proposta di variante M. Lo scopo è anche di riflettere su una questione di fondo: trovare l’essenzialità della valutazione evitando alcuni eccessi di iper-scrittura che temo possano avvenire, non per una qualsiasi difesa corporativa della fatica del lavoro docente, ma anzi per favorire la necessità pedagogica e metodologica di puntare all’essenziale, perché l’eccesso invece rischia di produrre confusione e opacità. Quindi suggerisco di scrivere il giusto, evitando il “crampo dello scrivano” per troppe ridondanti formulazioni o per forme di esibizioni di “quante cose fa la scuola”, come se il tanto fosse sinonimo di bene.

  • Sugli “ obiettivi-oggetti” da valutare.

Vi sono discussioni su quali e quanti obiettivi  di apprendimento registrare per ogni disciplina,  che dovrebbero (dovrebbero) corrispondere al PTOF e alla programmazione di ogni singola classe. Vi sono varie ipotesi in campo che tra un po’ vedremo.

Condivido comunque che il repertorio degli obiettivi o altre soluzioni  debbano sempre essere oggetti fattuali (interessante suggerire  verbi e contenuti) non petizioni pedagogiche astratte. Dunque:

  1. Alcuni registrano l’intero repertorio degli obiettivi della disciplina descritto nelle Indicazioni, o i traguardi di competenze, Ricordo che gli obiettivi di ogni disciplina hanno due repertori: uno fino alla 3.a, l’altro alla 5a, mentre i traguardi di competenze sono unici per tutta la primaria  Una marea quindi di items.
    Ho visto bozze di schede di scuole che compongono lo spazio degli obiettivi semplicemente con un taglia e incolla di tutti i repertori di obiettivi disciplinari o di traguardi di competenze. Assurdo: così la scheda diventa un malloppo ridondante e le crocette da mettere su uno dei quattro livelli  comporrebbero una sommatoria illeggibile  di croci tali da sembrare una specie di cimitero valutativo  con effetto confusione. Sento anche un retro-pensiero che così si “obbligherebbero” (bonariamente, si intende) gli insegnanti  a conoscere meglio le Indicazioni Nazionali. Sadica opzione, cui spesso rispondono meglio le tante riviste scolastiche e le Guide didattiche chiavi in mano. Ma no, via: si dia fiducia e rispetto alle nostre maestre: la proposta è la selezioni giusta e misurata di obiettivi o traguardi, quelli che servono e rispondono meglio a ciò che si fa effettivamente in classe. Per me: pochi obiettivi/traguardi chiari, quelli più significativi. Non per lavorare meno ed avere meno crampi dello scrivano, ma per ergonomia mentale e interpretativa.
  2. Si potrebbero dunque registrare solo una parte degli obiettivi o traguardi contenuti nella programmazione,  i principali o quelli legati al periodo (es. primo quadrimestre).  Il rischio comunque  è che la lista degli obiettivi  diventi un elenco separato di micro-obiettivi, rischiando di perdere di vista l’insieme del bambino. Che non impara per obiettivi separati, ma per connessioni e spesso con attività trasversali.
    La lettura e la scrittura ne è un esempio, si usa in ogni disciplina o quasi.
  3. Alcuni suggeriscono di registrare come obiettivi  i  nuclei fondanti delle diverse discipline, che non sono mai molti, e dare anche alla valutazione una maggiore percezione di processualità oltre al singolo anno di frequenza. E’ un’opzione che a me affascina, perché nei nuclei c’è un’idea  delle conoscenze epistemologicamente eredi  di Edgard Morin (che poi è il maitre à penser delle Indicazioni del 2012).
    In ogni caso, questa fase sperimentale e di transizione rende possibile individuare diverse forme di aggregazione degli obiettivi, provare diverse strade, laicamente,  senza fretta di esibizionismo.
    E ricordarci che non tutto nella scuola primaria viene (grazie a Dio) separato per discipline, ma spesso aggregato e intrecciato in forme interdisciplinari attive interessanti.
  • Per gli alunni con disabilità

Sento molte discussioni su come dovrebbe essere la valutazione formativa per gli alunni con disabilità. Si sostiene, ad esempio, che inserire un repertorio di obiettivi diversi da tutti gli altri compagni sarebbe discriminante, anche se questi per la verità provengono dal PEI, che per un alunno con disabilità è strumento principe sia della programmazione che della valutazione.

Sono dell’opinione che forse il modello di obiettivi per nuclei fondanti (e anche quello per traguardi di competenze) sia il più adeguato perchè offre a tutti  più facilmente orizzonti comuni, allargano nel lungo periodo i percorsi didattici che, nel caso della disabilità, avrebbero nel documento di valutazione una voce comune ma poi nel PEI una sua più precisa articolazione.

In ogni caso la variante M  sarebbe per gli alunni con disabilità importante, perché farebbe emergere nello strumento comune di valutazione le azioni di miglioramento necessarie senza nasconderle in sedi separate.

3.3. Sui livelli e sui giudizi descrittivi

La relazione  tra i vari obiettivi da valutare a livelli e il “giudizio descrittivo” deve essere simmetrico obiettivo per obiettivo o potrebbe essere sintetico per tutte le disciplina con un solo testo?
Io non ho dubbi: meglio un solo giudizio descrittivo complessivo, magari articolato in punti di forza e di debolezza per due ragioni. La prima, più prosaica, per evitare agli insegnanti il già citato crampo dello scrivano per l’iper scrittura ridondante. La seconda, più sottile e pedagogica: per evitare che il “giudizio descrittivo” diventi una sommatoria neo-cognitiva di parole del pedagogese, piene di fumo, come spesso accadeva anche nelle schede della vecchia e cara 517.  Problema che peraltro esiste anche nel giudizio descrittivo unico, cui suggerisco di dare forma sobria, essenziale, operativa più che retorica, consolatoria o ammiccante. Al proposito allego (allegato 3) a questo mio articolo una chek list composta da una scuola simpatica sul significato e la struttura semantica dei diversi aspetti che potrebbero comporre un Giudizio descrittivo globale. Questo anche per condividere le parole e il loro significato, non tanto per dare una serie di parolette standard da usare con un puzzle di termini presi qua e là. Premetto che non è un testo perfetto, che ha bisogno di lavoro, ed ha per me alcuni aspetti da approfondire, ma può servire come base di lavoro per un testo essenziale e  utile.

  1. E infine, una novità che valorizza l’autonomia: come dividere l’anno per fasi valutative?

Segnalo qui un aspetto di cui non parla quasi nessuno e che con questa nuova valutazione  potrebbe essere interessante da sperimentare. Mi spiego: non c’è scritto da nessuna parte che la valutazione della scuola primaria debba essere suddivisa in due quadrimestri o tre trimestri, in particolare i due quadrimestri abituali e di moda che vanno da settembre a febbraio e da marzo a giugno.

E qui ci aiuta la potenza pedagogica dell’art. 4 del DPR 275 del Regolamento autonomia già citato.

Conosco alcune (poche) scuole che suddividono le fasi “formali” di valutazione  in due periodi del tutto diversi dalla tradizione quadrimestrale. Anche per dar valore alla variante M, potrebbe ad esempio essere interessante che la valutazione intermedia  avvenisse tra fine novembre a metà dicembre, cioè dopo un primo trimestre intenso, perchè rende possibile conoscere bene i propri alunni e scorgere presto pregi e limiti sia del nostro lavoro che del loro apprendimento. Spesso fare prima la reflection on act è molto utile perché rende possibile capire prima i nodi critici, e soprattutto avere dopo più tempo (5 – 6 mesi) per adattare, modificare, sviluppare, arricchire il curricolo. Darebbe flessibilità e coerenza ad un lavoro di continuo processo educativo capace di modificarsi per tempo.

La suddivisione tra prima fase in trimestre e la seconda in semestre darebbe anche ordine e simmetria all’impegno per i nostri alunni con disabilità, ai quali il PEI prevede la piena definizione del curricolo individualizzato entro i primi 3 mesi dell’anno. In questo modo anche per loro (e per gli insegnanti) un’economia temporale e di scala nei diversi documenti programmatori e valutativi da realizzare.

Non sembri strano al lettore, ma tutto questo è possibile. Impossibile è solo svolgere la valutazione finale prima che termini l’anno scolastico in classe. Ma questa proposta vuol anche suggerire una pratica di creatività e di coerenza pedagogica che l’autonomia didattica  renderebbe possibile (e per me auspicabile), molto più  di quanto si sia pensato finora.

Come si noterà, il cuore di questo articolo è la mia proposta della versione M, il resto è di contorno per una discussione e ricerca in cui conterà molto un lavoro in comune ed una sperimentazione della migliore pratica di valutazione formativa possibile. Quindi: non schedari calati dall’alto, né troppa fretta ad avere un chissà quale “pagellone” strapieno di crocette e chiacchiere, ma sostanza, una sostanza formativa che va al cuore della didattica e della qualità del lavoro docente. I maestri e le maestre non si facciano prendere dalla fretta, ma dalla serietà e da scelte oculate, capaci di sperimentare diversi modelli sapendo poi scegliere quello più utile.

In allegato

SCHEDA DESUNTA DALLE PROPOSTE, SOLO INDICATIVE,PRESENTI NELLE LINEE GUIDA DEL MIUR  CON LA VARIANTE M  disciplina per disciplina

SCHEDA DERIVATA DALLE PROPOSTE CONTENUTE IN QUESTO ARTICOLO CON LA VARIANTE M

VALUTAZIONE SCUOLA PRIMARIA INDICATORI PER IL GIUDIZIO GLOBALE