Qualche regola per gli scrutini finali

di Raimondo Giunta

In ogni fase della valutazione e soprattutto in quella finale l’insegnante assume diverse responsabilità, che vanno affrontate con professionalità e con sensibilità civica, riscoprendo il significato e l’importanza della propria funzione pubblica (valuta e certifica per gli alunni e la società) e della propria funzione educativa (valuta per il bene degli alunni e nel senso della giustizia).
La valutazione è un’operazione che trova fondamento e significato nell’insieme dei principi pedagogici che regolano l’attività formativa e che non può essere affidata alla libera interpretazione dell’insegnante, se certificazioni e titoli di studio vogliono avere ancora una valenza pubblica.
In questo caso bisogna tenere conto dei vincoli posti dalle norme che presidiano questo campo dell’attività di formazione. La valutazione degli alunni non è un affare privato delle singole scuole e dei singoli insegnanti: si fa come è stabilito e nei termini e nei tempi in cui è stabilito.
All’insegnante resta il compito importante di difendere e far valere gli aspetti educativi della valutazione (equità nei giudizi, valorizzazione dell’impegno e dei progressi, sviluppo personale e autonomia dell’alunno, partecipazione al dialogo educativo); di misurare su questa base il significato dei vincoli di natura pubblicistica e di convalidare la legittimità dei criteri di valutazione adottati. Non bisogna dimenticare che la valutazione e in modo particolare quella finale mette spesso in opposizione alunni e docenti, docenti e famiglie ed è per questo che va svolta con rigore ed equità.
Valutare non significa aprire il tribunale delle pene e delle condanne. E’ sempre un’operazione che va incardinata nelle complessive finalità educative che ogni sistema scolastico si dà. Per evitare conflitti, in cui si gioca la rispettabilità della scuola, è necessario informare correttamente alunni e famiglie e in tempi utili sui risultati di apprendimento.
Operazione che va fatta in modo che sia comprensibile.
Questo significa che l’intera impostazione del processo di valutazione deve essere nota all’interno e all’esterno della scuola.


Degli apprendimenti degli alunni dovrebbero avere cura non solo gli insegnanti e le famiglie, ma anche le istituzioni per la parte di responsabilità che loro compete nella costruzione del migliore ambiente possibile per la vita scolastica degli alunni.
Per una buona valutazione finale suggerirei poche regole, ma sensate:

1) E’ necessario tenersi lontani da qualsiasi forma di arbitrarietà. Non si può e non si deve utilizzare la valutazione come strumento di affermazione o di conferma del potere dell’insegnante e come strumento disciplinare.Si deve, quindi, procedere nella valutazione rispettando i criteri che si è dichiarato pubblicamente di volere seguire. Il nodo da sciogliere nella valutazione è quello di sapere comunicare agli alunni ciò che ci si attende da loro e di incitarli a condividere le finalitàdell’educazione (B.Rey), rispettando rigorosamente la coerenza tra presupposti educativi e didattici e procedure e strumenti di valutazione. Quanti sono coinvolti nella valutazione devono essersi appropriati delle sue finalità,dei suoi metodi e dei suoi criteri;
2)La valutazione deve sempre essere funzionale alla crescita degli alunni e al miglioramento dell’insegnamento, di cui è parte integrante. Valutare per insegnare meglio; essere valutato per meglio apprendere.
La valutazione deve integrarsi nel percorso di costruzione del sapere, deve permettere agli alunni di prendere coscienza del proprio modo di apprendere e delle risorse di cui dispongono. La valutazione deve aiutare gli alunni a conoscere le proprie strategie d’azione per guidarle e renderle più efficaci e oltre ai livelli di apprendimento raggiunti deve mettere in evidenza i progressi degli alunni. La semplice misura degli scarti tra risultati e obiettivi fissati non dà i mezzi per migliorare. Non è valutazione, ma controllo (Le Boterf).
L’insegnante in sede di valutazione finale non può ridursi al ruolo di contabile di errori e di punti; è ancora l’accompagnatore del percorso di crescita e di apprendimento degli alunni;
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3)Bisogna sempre tenere presenti le implicazioni sociali della valutazione. Fatte salve le condizioni stabilite dalle norme generali dell’istruzione, messe in atto tutte le strategie di motivazione e di compensazione, disposti tutti i percorsi di recupero e di riorientamento, la formulazione di un giudizio negativo deve essere fondata sull’impossibilità di procedere diversamente. Nelle valutazioni, fino a quando avranno effetti legali, pubblici e sociali, si mette in palio il rapporto di fiducia dei giovani nelle istituzioni e nella legalità e pertanto ci vuole etica professionale e molta prudenza. La scuola e gli insegnanti dovrebbero essere uno degli aspetti più civili e umani del volto delle istituzioni pubbliche presso le nuove generazioni.
La competenza in valutazione è una delle componenti più complesse della professionalità del docente ed una delle più difficili da esercitare. All’insegnante richiede equilibrio, senso delle istituzioni, passione educativa, attenzione al lavoro dell’alunno e cura delle sue sorti. Richiede un’eccellente cultura socio-pedagogica. “Immagino un giorno, in un futuro non lontano, nel quale le prove e la valutazione non saranno considerate con timore e terrore, non saranno separate dall’insegnamento e apprendimento, non saranno usate per punire o per proibire l’accesso a un apprendimento importante e non saranno considerate riti privati o mistici.
Al contrario, valutazione e attività di insegnamento /apprendimento saranno intercambiabili; l’una influenzerà l’altra in modo da crescere entrambe. La valutazione rivelerà non solo che cosa gli studenti sanno e comprendono,ma anche svelerà come questi apprendimenti hanno luogo e determinano una varietà e qualità di lavoro da mostrare la profondità ,l’ampiezza e lo sviluppo del pensiero di ogni studente”(Earl & Cousins-1995)




Valutazione nella scuola primaria: non c’è formazione senza sperimentazione (e viceversa)

di Stefano Stefanel

Quest’anno ho avuto una prima grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Daniela Venturi dall’Ambito 13 della Toscana (Provincia di Lucca) a tenere un corso di formazione sulla valutazione nella scuola primaria, cui hanno partecipato docenti di scuola primaria degli Istituti comprensivi di Porcari, “Piaggia” di Capannori e di Lucca (IC 3 e IC 4): questo corso si è tenuto tra fine maggio e fine giugno a cavallo degli scrutini ed ha permesso di valutare il processo di valutazione prima e dopo la redazione della scheda sperimentale.
Ho avuto poi una seconda grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Martina Guiducci e dalla maestra Alessandra Galvani a tenere un corso di formazione per l’Istituto comprensivo di Montefiorino (Modena), cui hanno partecipato docenti di scuola primaria e una docente di scuola dell’infanzia.
La terza grande fortuna di quest’anno è stata l’assegnazione della reggenza presso l’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine), dove – grazie alla grande collaborazione di tutte le docenti della scuola primaria coinvolte dalle coordinatrici didattiche di sede Elisa Fain, Luisa Del Torre, Anna Barbetti e Valentina Moretti – abbiamo avviato in brevissimo tempo una importante sperimentazione dividendo l’anno scolastico in due periodi disomogenei (dal 16 settembre al 31 ottobre e dal 2 novembre all’11 giugno) e quindi redigendo una sintetica scheda diagnostica che verrà trasmessa ai genitori ai primi di novembre.

Da questo privilegiato punto di vista ho potuto affrontare in modo disteso e approfondito tutte le tematiche connesse alla valutazione per obiettivi, tenendo comunque sempre di vista le Linee guida ministeriali del 4 dicembre 2020 e l’ultimo numero della Rivista dell’Istruzione (2/2021) curato dall’amico Giancarlo Cerini poco prima di lasciarci. I due corsi di formazione e l’attività sperimentale hanno messo in luce alcuni elementi di questa sperimentazione, che non mi pare inutile affrontare in questo intervento di metà autunno.

DALLA SOLITUDINE AL COINVOLGIMENTO

Il primo elemento chiave della sperimentazione della scheda per obiettivi è l’oggettivo pericolo di isolamento che corrono le scuole primarie, compresse tra una scuola dell’infanzia che non riesce a “bucare” la sua posizione (anche se ormai tutti i bambini passano da lì) e una scuola secondaria di primo grado che, sempre di più e sempre più erroneamente, si ritiene prossima al secondo ciclo e non al primo. La valutazione per obiettivi (che dovrebbe essere estesa e in tempi rapidi a tutti gli ordini di scuola) non solo non è compresa, ma molto spesso non è neppure apprezzata dalla scuola secondaria, quasi che la arbitraria docimologia che sta devastando la scuola italiana sia un elemento oggettivo di valutazione e non un “reperto archeologico della misurazione”. Da questa solitudine valutativa la scuola primaria non  ce la farà ad uscire da sola e l’unico soggetto che può spingere l’Istituto comprensivo a ragionare di valutazione in forma ordinata e verticale è il dirigente scolastico.

Dalle esperienze che sto vivendo mi pare di poter, purtroppo, dire che molti dirigenti scolastici si sono già stancati dell’argomento e, dopo una prima fiammata nell’inverno scorso, hanno delegato ai docenti della scuola primaria tutto il processo, senza farsi coinvolgere più di tanto. Senza il supporto diretto e operativo dei dirigenti scolastici scuole dell’infanzia e scuole secondarie non si muoveranno mai da sole e non entreranno in sinergia con la scuola primaria in questo importante processo di verticalizzazione valutativa. Sembra, a volte, che la nostra categoria sia disponibile a presidiare ogni argomento per un paio di mesi, poi non c’è più tempo e pazienza nella speranza che  le cose vadano avanti da sole, mentre, invece, spesso si arenano.

Uno degli elementi nefasti del mancato coinvolgimento di tutto l’istituto è l’effetto lenzuolo che prendono molte schede di valutazione, con un numero di obiettivi così elevato, che qualunque lettura o comprensione da parte dei genitori è minata in partenza. Schede con 30, 40, 50 obiettivi sono nella normalità e nel web se ne trovano anche con più obiettivi. In realtà una qualunque attività didattica, anche riguardante tutte le discipline che si insegnano nella scuola primaria e che non dovrebbero comunque mai essere secondarizzate, cioè divise rigidamente, può essere descritta da 10-15 obiettivi complessivi. Purtroppo le docenti di scuola primaria temono molto di omettere qualcosa e scambiano la scheda di valutazione per una sorta di documento in cui dare conto di tutto quello che fanno. Anche in questo caso è solo il dirigente scolastico colui che può fermare l’effetto lenzuolo, tranquillizzando le docenti e spostando la loro concentrazione sugli obiettivi dell’apprendimento e non su quelli dei minuti passaggi contenutistici. Un interessante elemento di confronto è quello di somministrare semplici questionari a genitori e docenti degli altri ordini di scuola per verificare come la scheda per obiettivi viene compresa e accettata. Le maestre del lucchese lo hanno fatto in maniera egregia e in tre domande sono riuscite a fotografare il sistema (i genitori, nella fattispecie, hanno capito il ruolo della scuola e dichiarato di aver compreso la scheda,  ammettendo però che preferivano i numeri). Questo lavoro di analisi veloce e tabulabile è necessario per capire come andare avanti, ma deve essere veicolato dall’Istituto scolastico non dalle singole maestre.

IL RAPPORTO TRA L’OBIETTIVO E IL CURRICOLO

Il rapporto tra l’obiettivo e il curricolo molto spesso è stravolto perché in molte scuole non si lavora con i curricoli redatti dalle scuole, ma con i vecchi programmi cui fanno ancora riferimento sussidiari e testi di supporto. Con le maestre di Lucca e di Montefiorino abbiamo però condotto un interessante lavoro , analizzando la scheda e i suoi obiettivi e cercando di capire che tipo di didattica si portano dietro. Tre elementi da questo lavoro sono emersi in maniera molto netta:

  • l’obiettivo non deve mai essere un contenuto e non deve mai coincidere con questo (un contenuto si apprende conoscendolo), ma l’obiettivo ha bisogno dei contenuti per poter essere raggiunto;
  • l’obiettivo non deve mai essere descritto con aggettivi che orientano la lettura e che sviano la comprensione; l’uso, ad esempio, di “semplice” o “breve” porta il genitore a credere che la scuola primaria sia facile e che chiunque possa dire la sua: se il contenuto di quanto si apprende nella scuola primaria è “facile”, il processo di apprendimento è “difficile” e questo molti genitori non lo capiscono perché ritengono che il trasferimento di un contenuto dall’adulto al bambino faccia acquisire competenze (invece cementa una retrograda mentalità da quiz): “facile”, “semplice”, “breve”, ma anche “complesso”, “approfondito” sono l’idea dell’adulto, non la descrizione di quello che sta facendo l’alunno. Per uno studente di 6 o 7 anni un testo scritto (anche breve) è difficile quanto lo è un saggio (anche non breve) per un liceale;
  • va chiarito se l’obiettivo è un obiettivo assoluto (correttezza grammaticale ad esempio, che si acquisisce anche da piccoli) o legato all’età e alla specifica didattica della scuola (la competenza linguistica in lingua inglese, ad esempio) per evitare che l’obiettivo sia raggiunto in prima, ma sia “perso” in terza, segno che quello non era un obiettivo, ma solo uno step di passaggio.

Alla base del curricolo d’istituto esistono poi i tempi della sua attuazione. La partizione “tradizionale” in quadrimestri o trimestri in rapporto alla valutazione per obiettivi è sbagliata e non serve a nulla: un obiettivo non si spezza a metà e la sua declinazione intermedia è inutile o addirittura nociva. Quindi bisogna definire obiettivi diversi per tempi diversi legando l’obiettivo al curricolo progettato. Con le maestre dell’Istituto comprensivo di Pasian di Prato stiamo sperimentando la valutazione di un primo periodo diagnostico di un mese e mezzo: questo ha imposto delle schede che abbiano non più di 5-6 obiettivi e che diano conto di come lo studente si è traghettato nel presente anno scolastico. In questa sperimentazione a Pasian di Prato abbiamo redatto tre schede: una per le classi prime, una per le classi dalla seconda alla quinta, una per le classi della scuola primaria con particolari finalità “La Nostra Famiglia”, dipendente dal nostro Istituto e annessa al Centro di Riabilitazione omonimo, che si occupa di disabilità.

Le scuole dell’Ambito lucchese e l’Istituto comprensivo di Montefiorino, in forma distesa, hanno ragionato attorno a questi problemi e la risposta è stata veramente ottima, con le maestre che hanno potuto argomentare con calma su temi molto significativo, anche facendo riferimento a termini di confronto. Una lettura di varie schede tratte da molte e diverse scuole d’Italia, con la “deduzione” del curricolo correlato ad ogni scheda, ha poi permesso di ragionare con senso critico sulla propria scheda e sul proprio curricolo, in uno spazio di approfondimento necessario. Credo che solo una struttura cooperativa produca un sistema di valutazione che dia conto correttamente del processo di apprendimento degli studenti di scuola primaria.

 

 




Errori a scuola e valutazione formativa

di Raimondo Giunta

“Gli errori sono le porte della scoperta”(J.Joyce)
“Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain)
“Lo Spirito scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G.Bachelard)
“Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori, sono anche i soli a poterli correggere”(G.Le Boterf).

Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola non si è riusciti a correggere il convincimento che l’errore sia una colpa di cui si deve rendere conto e di cui si deve pagare la pena, anche se come ci ricorda A.Giordan sono cinque secoli che l’errore è considerato come inevitabile nell’atto di apprendere, come inerente ai suoi processi.
Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare.
Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni.
Si collocano dentro il processo di apprendimento e indicano il progresso concettuale che bisogna ottenere (J.P.Astolfi).

L’ostacolo incontrato e non superato ha lo statuto di indicatore e di analizzatore dei processi intellettuali in giuoco.
L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola.
Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare.

L’errore può essere soltanto l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono. Non bisogna cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto.
In altre parole l’errore è un’informazione, non una colpa e bisognerebbe finirla con le intimidazioni.
Bisogna accettare gli errori come tappe apprezzabili dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli.
Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla conoscenza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse e dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.

Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e   quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, renitenza o rifiuto.
L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare. Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore diventa uno strumento straordinario per insegnare a ragionare.

Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
Se l’errore, d’altra parte, è visto come motivo di sanzione, gli alunni tenderanno certamente di evitarlo col rischio, però, di cercare più le risposte giuste che concentrarsi sull’apprendimento.
Pur nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore a scuola spesso non si fuoriesce dalle pratiche che tengono ancora sugli altari con tutti gli onori del caso la sua severa condanna.

Gioca a favore di questo stato di fatto anche il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, che è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione.

Un certo modo di considerare gli errori è funzionale ad una logica di selezione. La valutazione a scuola non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova; valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia (Ph.Perrenoud).

Gli alunni e anche gli insegnanti hanno il diritto all’errore, a pensarci bene.
Gli insegnanti non sono contabili del giusto punteggio, ma guide del processo di formazione, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti.
Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perchè hanno una storia cognitiva da raccontare.
Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori.
Con accurata strumentazione l’errore diventa un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perchè dà informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento. La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare ,a superare le sue difficoltà e a progredire.

“La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perchè è riuscito in un caso e non in un altro(…).L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(A.De Peretti).
Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico.
La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale. La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenzazione dell’insegnamento per un’educazione su misura.

La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.
Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato,sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore.
Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare,perche danno consistenza al significato della valutazione.

Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione. Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti, e una concezione elitista, formalmente meritocratica, ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società.

La valutazione non dovrebbe servire ad escludere e a stigmatizzare, ma dovrebbe essere un’opportunità per apprendere meglio.
“Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia, permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti.”(G.Le Boterf)
Purtroppo generalmente nelle pratiche di valutazione viene proposta una pedagogia dell’emulazione e della costrizione; raramente una pedagogia della realizzazione e della cooperazione.
Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, l’impegno, la prestazione degli alunni. “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione, a sostegno di una logica premiale o punitiva, a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione”(M.Ambel).
Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno più considerate con timore e terrore?




Una risorsa in tempo di DaD, la valutazione per competenze

di Antonella Mongiardo 

Perché valutare per competenze

Nell’attuale momento storico, che vede stravolgersi completamente il modo di fare scuola, si sta riscoprendo l’importanza della didattica per competenze.

Dopo aver risolto le problematiche tecniche e organizzative legate all’avvio della Dad, le scuole si trovano, ora, dinanzi ad una nuova sfida: valutare a distanza.

Come si sa, l’attività valutativa attiene all’autonomia delle istituzioni scolastiche ed è una competenza del Collegio dei docenti, che definisce modalità e criteri per assicurare oggettività, equità, omogeneità e trasparenza alla valutazione, nel rispetto della libertà di insegnamento.
Oggi, però, si deve affrontare un problema nuovo, ossia ridefinire criteri e modalità per assicurare una valutazione seria in regime di didattica in remoto.

Gli insegnanti, in questo periodo, sono alle prese con lo stesso tipo di dubbi: come valutare gli studenti alla fine dell’anno scolastico? Come somministrare le prove? Che attendibilità possono avere delle verifiche fatte a distanza?

Ed ecco che la Dad si rivela come una cartina al tornasole che mette in luce il valore e l’utilità della valutazione per competenze. Rompere gli schemi tradizionali della didattica ci ha fatto comprendere che, in questo particolare frangente, è il momento di rimodulare anche la logica della valutazione, spostando l’attenzione dal piano strettamente dei contenuti a quello delle competenze. La domanda, dunque, diventa: quali competenze valutare e come valutarle?
Già da molti anni la didattica per competenze ha fatto il suo ingresso nella scuola italiana, anche se nella pratica scolastica si tende, talvolta, a ritenerla un adempimento conclusivo, una mera integrazione formale del documento di valutazione degli apprendimenti e del comportamento.

Ma oggi ci rendiamo conto che non può essere così. L’emergenza sanitaria, rendendo necessario il ricorso alla Dad e catapultando studenti, docenti e dirigenti in una dimensione digitale, ci ha fatto toccare con mano come nella società attuale, sempre più complessa e tecnologicamente avanzata, caratterizzata da continue e veloci trasformazioni, il principale compito della scuola non sia quello di trasmettere contenuti.

In una realtà caratterizzata da una pluralità di informazioni e da una molteplicità di stimoli culturali, la scuola deve, soprattutto, insegnare ai giovani la capacità di apprendere, interagire con gli altri, selezionare le informazioni, organizzare materiali, utilizzare risorse per risolvere problemi; saper criticare, scegliere, decidere. In altre parole, deve sviluppare competenze.

Un concetto complesso, quello di competenza, utilizzato con valenze e sfumature diverse a seconda del contesto, interessante da esplorare anche dal punto di vista del suo percorso storico e normativo.

Breve excursus storico e normativo sulla “competenza”

La parola “competenza” nasce nel mondo del lavoro, come la capacità personale di eseguire con successo un compito, una mansione o una prestazione.  La letteratura, da Tyler a Perreneaud, Da Le Boterf a Rivoltella, ne offre varie definizioni.

Dai diversi enunciati si coglie ciò che è l’essenza del concetto di competenza, la quale non risiede in una conoscenza, in un sapere, in un’abilità, in un ruolo, ma si compone di tutte queste cose insieme e si estrinseca proprio nella mobilitazione stessa delle risorse, nella loro messa in opera in un determinato contesto.

In Italia, la “competenza” si affaccia nel mondo dell’istruzione e della formazione, quando inizia a maturare l’idea della necessità di avvicinare la scuola al mondo del lavoro.

Negli anni ‘90 la parola competenza fa il suo ingresso nei documenti scolastici e nei “patti” per lo sviluppo e l’occupazione. Di competenza si sentirà parlare soprattutto in seguito all’impegno assunto dagli stati membri dell’U.E. di definire entro il 2006 un quadro unico europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF).

Edith Cresson, uno dei leader culturali dell’U.E., nel Libro Bianco su “Istruzione e formazione -Insegnare e apprendere” (1995) sottolinea l’importanza della cultura per lo sviluppo della persona, oltre che della produttività: “Nel nostro tempo la ‘mission’ fondamentale dell’istruzione è aiutare ogni individuo a sviluppare tutto il suo potenziale e a diventare un essere umano completo, e non uno strumento per l’economia; l’acquisizione delle conoscenze e competenze dev’essere accompagnata da un’educazione del carattere, da un’apertura culturale e da interessamento alla responsabilità sociale”.

E’ in questo contesto culturale che la competenza inizia il suo ingresso normativo nel mondo dell’istruzione e della formazione. E dalla normativa giungono spunti di riflessione e sistematizzazioni.

Il 18 dicembre 2006 il Consiglio e il Parlamento dell’Unione Europea varano una raccomandazione ai paesi membri sulle competenze chiave che devono essere garantite al termine del percorso scolastico obbligatorio. Sono otto le competenze chiave europee, quattro disciplinari (comunicazione nella madre lingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenze matematiche di base; competenze digitali) e quattro interdisciplinari (imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale).

Dall’Europa arriva anche la prima definizione organica del concetto di competenza, identificata come la comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro o di studio, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale.

La raccomandazione viene recepita dall’Italia. Il sistema italiano, la cui principale necessità è elevare il livello medio d’istruzione e contrastare la dispersione scolastica, si pone il problema di quali debbano essere gli obiettivi formativi da garantire al termine dell’obbligo scolastico e della scuola secondaria di secondo grado.
Un importante contributo, in tal senso, viene dato dal documento tecnico allegato al regolamento della legge 296/2006 (che introduce l’innalzamento dell’obbligo scolastico da otto a dieci anni), che definisce tali obietti formativi in termini di competenze. Il documento fa riferimento, in particolare, a quattro assi disciplinari (dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale) e a otto competenze chiave di cittadinanza: imparare a imparare, progettare, comunicare, comunicare e collaborare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione.

La competenza diviene, così, un elemento fondamentale della progettazione scolastica, dalla scuola dell’infanzia al secondo ciclo di istruzione. Lo stesso Pecup, che rappresenta il punto di riferimento per la scuola secondaria di secondo grado, punto di convergenza dell’intera azione educativa della scuola, è centrato non sui contenuti disciplinari, ma sulla persona dello studente; esso esplicita, infatti, sia le competenze disciplinari sia le competenze trasversali che attengono all’autonomia, alla capacità di lavorare in gruppo, allo spirito di iniziativa, al senso civico e di responsabilità.

La legge 92 del 2012 valorizza le competenze acquisite in qualsiasi contesto, formale, non formale e informale, al fine di promuovere il percorso di crescita culturale e professionale della persona in tutta la sua storia di studio, di vita e di lavoro. Il regolamento attuativo della legge Fornero stabilisce i livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti formali, non formali e informali, ai fini della loro individuazione e validazione in termini di crediti formativi.

Come valutare le competenze

La scuola moderna, dunque, è, la scuola delle competenze, che devono essere certificate al termine della scuola primaria, in uscita dal primo ciclo d’istruzione, all’assolvimento dell’obbligo scolastico e al superamento dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo.

Nel primo ciclo, la certificazione delle competenze, riferite alle otto competenze chiave europee, serve a dare alla famiglia e alla scuola del ciclo successivo informazioni qualitative sulla capacità acquisita dall’alunno di risolvere compiti e problemi, nuovi e complessi, in contesti reali o simulati.

Nel secondo ciclo, le competenze sono riferite ai quattro assi disciplinari e alle otto competenze chiave di cittadinanza, parametrizzate secondo una scala articolata su tre livelli: base, intermedio, avanzato.

Per essere certificate, però, le competenze devono prima essere valutate. La valutazione delle competenze è un processo complesso, non circoscritto ad un atto finale ma prolungato nel tempo, attraverso l’osservazione sistematica degli alunni dinanzi a varie situazioni da affrontare.

La valutazione, pertanto, non può essere affidata alle modalità tradizionali usate per valutare gli apprendimenti (compiti scritti, verifiche orali, test strutturati o semi-strutturati), ma si avvale di altri strumenti, come l’osservazione sistematica, le autobiografie cognitive, le prove autentiche, i compiti di realtà, le Uda.

L’osservazione sistematica permette agli insegnanti di rilevare il processo, cioè l’insieme delle operazioni che l’alunno compie per interpretare e risolvere il problema, per selezionare informazioni, per individuare collegamenti, per valorizzare risorse (libri, documenti, tecnologie, etc.)

L’autobiografica cognitiva è il racconto che l’alunno fa di se stesso o di una propria esperienza di apprendimento. La narrazione mette in luce aspetti che talvolta restano nascosti nell’apprendimento. Il racconto di sé consente all’allievo di auto-valutarsi e al docente di valutarlo, rimodulando eventualmente la propria azione didattica in funzione delle esigenze specifiche dell’allievo.

Il compito autentico è un problema complesso da risolvere o un prodotto, materiale o immateriale, che gli alunni possono realizzare utilizzando le conoscenze e le abilità acquisite. Per essere davvero autentica una prova di questo tipo deve essere interdisciplinare; l’insegnante deve essere un coach, un mediatore, e devono essere solo gli studenti a predisporla e organizzarla.

Il compito di realtà è la richiesta che viene somministrata agli allievi di risolvere una situazione problematica, il più possibile rispondente ad una situazione reale, impiegando le conoscenze e le abilità acquisite.

Per valutare un compito autentico o di realtà si utilizzano le rubriche valutative.

Una rubrica valutativa è un insieme di criteri associati ai diversi livelli di una scala di voti o giudizi.
Per costruire una rubrica valutativa, si associano degli obiettivi o prestazioni alla competenza che si intende valutare e si sceglie una scala di punteggi, ad esempio su base 20 o 30, che deve essere messa in corrispondenza con i tre livelli di competenza. Ad ognuno degli obiettivi/prestazioni in cui viene declinata la competenza si associa una scala di voti, articolata in genere su 4, 5, o 6 livelli.  Ad ogni prestazione viene assegnato un voto e il punteggio complessivo misura il grado di sviluppo di quella competenza.

Un altro strumento moderno e efficace per valutare le competenze è l’Unità didattica di apprendimento.
L’Uda è un’esperienza di apprendimento che consente agli studenti di entrare a contatto con diversi ambiti del sapere. Per progettare un’Uda si sceglie un argomento e lo si sviluppa in modo interdisciplinare. Ciò consente agli studenti di utilizzare conoscenze e abilità afferenti a diversi ambiti disciplinari per sviluppare competenze trasversali che saranno valutate e certificate al termine del percorso.

Per realizzare l’Uda si deve aver cura di organizzare momenti di apprendimento che vadano al di là della semplice lezione frontale e che prevedano, ad esempio, ricerche individuali, esperienze laboratoriali, lavori di gruppo, creando così un ambiente di apprendimento più coinvolgente e stimolante per gli studenti ed una valutazione più in linea con quanto richiesto a livello europeo.

Proposta per una rubrica valutativa

La seguente rubrica valutativa è stata impostata su tre competenze chiave di cittadinanza: imparare a imparare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile.

 

 

IMPARARE A IMPARARE

 

COLLABORARE E PARTECIPARE

 

AGIRE IN MODO AUTONOMO E RESPONSABILE

 

 

 

 

 

 

 

IN CLASSE

Rielabora i concetti, utilizza le informazioni per risolvere i problemi

 

1  è disattento alle spiegazioni, lo svolgimento delle consegne è inadeguato, non riesce ad orientarsi per volgere semplici compiti.

2  si distrae di frequente, ha difficoltà a comprendere  le consegne.

3  se sollecitato, comprende semplici richieste, nello svolgimento manifesta incertezze.

4  comprende le consegne e le svolge in modo adeguato.

5  analizza con sicurezza le conoscenze a disposizione per utilizzarle nell’espletamento delle consegne in modo efficace e costruttivo.

 

Partecipa alle attività didattiche, collabora con i compagni e con l’insegnante

 

1  non partecipa quasi mai alle attività didattiche

2  partecipa alle attività in modo discontinuo ed è poco collaborativo.

3 se sollecitato, partecipa alle attività didattiche ed interagisce con i compagni, anche se in modo non sempre adeguato.

4  partecipa alle attività didattiche regolarmente e interagisce in modo costruttivo con i compagni e l’insegnante.

5 partecipa attivamente alle attività didattiche collaborando in modo efficace e costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

 

Rispetta gli impegni assunti, sa organizzare il proprio tempo studio.

 

1  non rispetta le consegne, non sempre si sottopone alle verifiche.

2  non è puntuale nel rispettare i tempi delle consegne, ha bisogno di essere sollecitato nel sottoporsi alle verifiche

3  rispetta le consegne e si sottopone alle verifiche, ma non è sempre costante.

è autonomo nell’organizzare lo studio, è puntuale nelle consegne e si sottopone sempre alle verifiche.

5 è autonomo nell’organizzare lo studio, è puntuale nelle consegne, è sempre disponibile a sottoporsi alle verifiche, anche in modo volontario, e a trasferire le proprie conoscenze al gruppo classe.

 

 

 

 

 

 

IN DAD

1  non rispetta quasi mai le consegne.

2  ha difficoltà a comprendere semplici consegne,  utilizza in modo superficiale e discontinuo le risorse a disposizione.

3  se orientato comprende le consegne, nello svolgimento manifesta qualche incertezza, utilizza le risorse in modo parziale e disorganico.

4  comprende le consegne e sa svolgerle in modo adeguato, utilizza le risorse a disposizione in modo efficace.

5  analizza con sicurezza e padronanza le informazioni acquisite per utilizzarle nell’espletamento delle consegne in modo critico ed efficace.

1  non interagisce quasi mai con l’insegnante

2  interagisce poco e in modo discontinuo l’insegnante.

3  se sollecitato interagisce con l’insegnante anche se in modo non sempre adeguato.

4  partecipa alle attività a distanza regolarmente e interagisce in modo costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

5  partecipa attivamente alle attività a distanza collaborando in modo efficace e costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

 

1  non rispetta le consegne e non effettua interazioni, né sincrone né asincrone.

2  non è costante nelle consegne e ha bisogno di frequenti sollecitazioni per effettuare le interazioni sincrone e/o asincrone.

3  rispetta, in genere, le consegne e ed effettua l’interazione sincrona e/o asincrona, ma in modo non sempre costante.

4  è autonomo nell’organizzare i materiali di studio, è puntuale nelle consegne ed effettua  regolarmente l’interazione sincrona e/o asincrona.

5  è autonomo nell’organizzare i materiali di studio, è puntuale nelle consegne, effettua regolarmente l’interazione sincrona e/o asincrona ed è disponibile ad aiutare il gruppo classe nella risoluzione di problemi organizzativi e/o didattici.

Punteggio e livello competenza

/30                /10          livelli competenza
< 14             4                livello base non raggiunto
14 – 15         5                base
16 – 19         6
20 – 22         7               intermedio
23 – 26         8
27 – 28         9                avanzato
29 – 30       10

 

 

 

 




Valutare in ottica formativa

valutazione_copertinaValutare in ottica formativa è il titolo del nuovo ebook delle edizioni Gessetti Colorati.Ottanta pagine di analisi, proposte e suggerimenti a cura di Riccarda Viglino, formatrice e già insegnante di scuola primaria.

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Ma cosa misurano davvero le prove Invalsi?

di Cristiano Corsini

Resto regolarmente sorpreso dalla tendenza di certi commenti, articoli e titoli a usare i dati Invalsi per confermare i soliti luoghi comuni sulla scuola.
Ogni volta che esce il rapporto, la quasi totalità dei commenti si riferisce a un abbassamento del livello di competenze della nostra popolazione studentesca e a un peggioramento della qualità della didattica.

La cosa è buffa per tre motivi.

In primo luogo, non sempre le prove attestano un peggioramento. Quest’anno, per esempio, rispetto a due anni fa il peggioramento è riscontrato per le secondarie in matematica e italiano ma non inglese, mentre la primaria mostra più o meno gli stessi livelli di rendimento rispetto al 2019. Rimane il problema della comparabilità dei risultati di somministrazioni avvenute in condizioni molto diverse, ma ha ovviamente senso chiedersi il perché del peggioramento riscontrato, e su questo torno in seguito.


In secondo luogo, chi ha un minimo di familiarità con le questioni educative dovrebbe essere al corrente del fatto che le competenze sono un costrutto plurale con dimensioni cognitive, attive, sociali, situate, metacognitive, emotive, dinamiche. Le prove Invalsi rappresentano uno strumento utile per ottenere alcune informazioni sulle prime due dimensioni. Ma non rappresentano una “misura delle competenze”, perché le competenze non sono la somma di qualche abilità e qualche conoscenza: senza prove di diversa natura, autentiche, complesse, dinamiche, coinvolgenti e situate non possiamo “valutare le competenze” in maniera valida e affidabile. Non esiste “una” prova di competenza, servono prove diverse. Tuttavia, le prove Invalsi sono importanti: forniscono informazioni utili su aspetti rilevanti, come le abilità e le conoscenze impiegate per rispondere alle domande. Ma definire “inadatto” uno studente che non raggiunge un determinato livello a una prova Invalsi è profondamente sbagliato. Perché quello studente può mostrare una buona capacità di impiegare conoscenze e abilità se messo di fronte a un compito più coinvolgente rispetto a una prova oggettiva. Le prove Invalsi ci danno indicazioni sulle conoscenze e abilità richiamate dalle domande che pongono. Si tratta di conoscenze e abilità rilevanti, ma non sono le uniche né le più importanti. Sono solo quelle più facilmente rilevabili con una prova oggettiva somministrata a centinaia di migliaia di persone.

In terzo luogo, le prove Invalsi non danno informazioni sulla qualità della didattica a distanza o in presenza. Per ottenere queste informazioni dobbiamo descrivere i contesti e ascoltare docenti, studentesse e studenti. Se vogliamo capire perché studentesse e studenti ottengono certi esiti, dobbiamo abbandonare l’idea di una causalità sequenziale, che tende ad addossare l’intera responsabilità del risultato ai pochi fattori antecedenti che riesce a individuare (tipicamente: scuola e docenti) e orientarci verso una causalità genetica, che analizza come i soggetti interpretano il cambiamento (chi lavora in campo educativo tende a occuparsi di cambiamenti) e accetta il fatto che, nei sistemi complessi, diversi fattori incidono sui risultati.

Per ottenere informazioni sulla qualità della didattica dovremmo provare a rispondere a domande come quelle che seguono.
Quali scelte didattiche, in presenza e a distanza, sono associabili a cambiamenti negativi? Quali scelte didattiche, in presenza e a distanza, sono associabili a cambiamenti positivi? E per quali gruppi di individui? Per quali contesti? Perché certe scelte in determinati contesti e con determinati soggetti “funzionano” e in altri contesti e con altri soggetti no?
Le prove Invalsi sono uno strumento utile, ma non forniscono risposte a queste domande.
Ma la responsabilità non è delle prove Invalsi, la responsabilità è di chi sceglie di usare i dati a vanvera, assecondando la tendenza ad addossare alla sola scuola (in presenza o a distanza) la responsabilità di peggioramenti veri o presunti: non è un caso che, mentre fioriscono ipotesi di riforma della scuola, dell’università e della didattica, non si vede all’orizzonte uno straccio di idea di cambiamento del sistema sociale ed economico. Eppure, la correlazione tra rendimento alle prove e stato socioeconomico è sempre elevata.




Prove Invalsi nel secondo anno di pandemia: cosa ci dicono i risultati

di Franco De Anna

Premessa doverosa
Sono da sempre convinto della importanza delle rilevazioni annuali che INVALSI compie sui livelli di apprendimento nella nostra scuola, del valore essenziale di questo aspetto della Ricerca Educativa, delle modalità di restituzione all’intero sistema, e con articolazioni che nel tempo si sono andate via via approfondendo, dei risultati di tale ricerca in termini di strumenti preziosi di elaborazione diagnostica su diversi livelli.

In primo luogo, come strumenti utili a supportare la “razionalità decisoria” relativa al sistema stesso innanzitutto in termini strategie di politiche dell’istruzione e di conseguenza della congruenza e dei risultati delle scelte operative ad esse legate.
In secondo luogo, proprio per i caratteri delle articolazioni delle restituzioni di rilevazioni condotte sull’universo del sistema, come strumenti di possibile e analitico riscontro della stessa operatività molecolare a livello di scuola e di classe.

Per tali ragioni di fondo sono sempre stato convinto della necessità di sviluppare attorno a tali aspetti essenziali della Ricerca Educativa il massimo di consapevolezza dei significati specifici degli indicatori e dei protocolli utilizzati, del valore sostanziale di strumenti per l’impegno analitico diagnostico dei dati rilevati, della necessità di accompagnare tale impegno analitico diagnostico a tutti i livelli del sistema, dai decisori agli interpreti professionali.
Come sempre nella Ricerca e in particolare nella ricerca sociale: gli esiti non sono “certezze indiscutibili” ma strumenti per approfondire, verificare, ricombinare scelte operative. Tanto più se l’oggetto è un sistema sociale complesso e particolarmente articolato e pluridimensionale come la scuola.

In questi anni di costruzione del sistema di rilevazione, che hanno in parte accompagnato anche il mio precedente lavoro professionale nella scuola, ho sempre constatato la presenza di un elemento negativo, costituito da un equivoco (politico/professionale) fonte di un doppio movimento contrario a tale impegno.
Le rilevazioni dell’INVALSI sono spesso interpretate come “valutazione degli alunni”, intese come valutazione dei risultati dei singoli, che sono di norma impegno essenziale del lavoro specifico dei docenti. E non come rilevazioni “di sistema”.
Da tale equivoco, variamente interpretato nascono le reazioni negative diverse per orientamento ma come se avessero il medesimo “stampo”: chi (giustamente) ribadisce che la “valutazione degli apprendimenti degli studenti” non può essere ridotta alla rilevazione con i test, e per di più su parti (necessariamente) ristrette e limitate dei processi di apprendimento e formazione, finisce per testimoniare e dichiarare a gran voce la inutilità e, a volte, “la molestia” delle rilevazioni nazionali.

In tal modo indirettamente si supporta la considerazione della stessa inutilità della rilevazione sistemica come strumento di supporto alla razionalità decisoria delle politiche dell’istruzione. E contemporaneamente ci si defila dall’impegno analitico diagnostico sulla stessa operatività molecolare del fare scuola quotidiano e situato. Come se il lavoro della scuola non necessitasse invece di un continuo interrogarsi sui risultati e sulle alternative.
Si tratta in sostanza di una remissione di responsabilità sulle scelte e sulle alternative in relazione agli effetti sia a livello delle politiche dell’istruzione (cercare una relazione tra esiti delle rilevazioni e scelte politico-amministrative risulta impegno imbarazzante) sia a livello molecolare si scuola, di classe, di docenti, dove finisce per prevalere la riproduzione e ripetizione del “canone”. Gli effetti ed i risultati si misurano in relazione al loro adeguarsi al canone.

La distinzione strutturale, filosofica ed operativa tra la “valutazione degli apprendimenti” come parte fondamentale della responsabilità del lavoro docente (per altro uno dei punti deboli della cultura professionale) e le “rilevazioni sistemiche” che, per il carattere delle restituzioni effettuate, si offrono come strumenti di analisi diagnostica ai diversi livelli di articolazione sistemica fino a quello “molecolare” (fino a strumenti di interrogazione analitica sul lavoro in classe…) è l’elemento essenziale la cui consapevolezza dovrebbe guidare le lettura dei dati che INVALSI ci propone annualmente.
A maggior ragione in questo 2021.
E tuttavia non si può che constatare che la consapevolezza e la padronanza dei significati sopra richiamati sia l’elemento ancora debole e critico della esperienza ormai pluriennale di quella specifica ricerca valutativa affidata all’INVALSI.
Se un appunto critico mi sento di fare alla attività dell’Istituto è proprio quello della insufficiente promozione e diffusione di quella cultura della valutazione: la capacità di coinvolgere le scuole e i docenti e di “fidelizzare” l’organizzazione scolastica attraverso la consapevolezza del valore analitico-diagnostico dei dati della ricerca restituiti alla riflessione collettiva del sistema scolastico. Dai suoi interpreti diretti nel loro lavoro, ai decisori nei diversi livelli di decisionalità articolata di sistema.
Insomma, la capacità di coniugare l’impegno nella ricerca scientifica e il permanente miglioramento dei suoi protocolli e risultati, con il suo riflesso sulla “organizzazione della cultura” nel mondo della scuola.
Alcuni dei caratteri del dibattito che si è subito sviluppato il giorno stesso della presentazione complessiva degli esiti delle rilevazioni testimoniano tale elemento critico.

La ricerca contingente delle “responsabilità”

È una deriva inevitabile in questo anno segnato dagli effetti delle emergenze. Comprensibile.
Tuttavia, è evidente la distorsione del collegamento causale tra risultati delle rilevazioni e le diverse emergenze. (Lockdown e Didattica a Distanza…). Più si propongono collegamenti immediatamente causali (“è colpa della DAD”… ma anche “Se non ci fosse stata la DAD dove saremmo…), più si rinuncia a quel lavoro analitico che potrebbe far fruttare i dati delle rilevazioni come strumenti di conoscenza del sistema e delle sue problematiche.
Vorrei contribuire a tale lavoro analitico con approfondimenti specifici, ma per questo impegno rimando al momento in cui saremo in possesso delle restituzioni complete dei dati rilevati.

Mi limito qui a ricordare:
1. La considerazione che gli elementi di emergenza di questo biennio abbiano avuto un peso nel determinare il peggioramento dei dati sui livelli di apprendimento ha la forza dell’ovvio. Non così ovvie le correlazioni tra diverse fenomenologie di peggioramento, quantificazioni relative e i diversi elementi dell’emergenza (Vedi oltre qualche segnalazione)
2. Sono anni che le rilevazioni ci restituiscono dati “critici” (è un eufemismo per diversi aspetti) dei livelli di apprendimento promossi dal sistema scolastico italiano. Critici per i livelli medi, critici per la distribuzione diseguale dei risultati sia per ordini di scuola, per distribuzione geografica, per composizione degli indicatori di distribuzione del reddito e dello sviluppo sociale e culturale, critici per i livelli di dispersione sia esplicita che implicita, critici per la distribuzione dei livelli di apprendimento considerati essenziali.
3. L’effetto dei fattori di emergenza si iscrive perciò su un retroterra già segnato da elementi critici ed inadeguatezze di sistema. Il “popolo della scuola” protagonista delle rilevazioni del 2021 è già segnato da una storia formativa pregressa sviluppata in un sistema inadeguato. Come si distribuiscano perciò i diversi elementi di aggravamento prodotti della pandemia sui diversi fattori di criticità pregressa è elemento che richiede surplus analitico, non semplificazione causalistica.
4. Tali considerazioni valgono anche per alcuni (pochi) aspetti positivi. Per esempio, i miglior risultati relativi alla Scuola primaria certamente sono (anche) correlabili al fatto che in questo ordine di scuola si sono sofferte meno chiusure; ma non si può dimenticare che tale dato (i risultati della primaria italiana che reggono nella comparazione internazionale) è consolidato in tutte le rilevazioni precedenti. Quali sono dunque i reali punti di forza?

Per sintetizzare potremmo suggerire a chi si impegna nella analisi dei dati INVALSI, due costrutti “metodologici” (mi si passi l’ironia): “ricordare sempre che piove sul bagnato” e che perciò “non si può tornare alla normalità, perché è nella normalità che sta il difetto”.
O, se volete, non abbiamo “paradisi perduti” da riconquistare.

Suggerimenti analitici

Come già ricordato proverò a cimentarmi con una analisi dettagliata dei risultati delle rilevazioni quando saranno disponibili le restituzioni complete. Qui vorrei semplicemente suggerire alcuni spunti di riflessione su elementi che vedo trascurati nel confronto immediato che si è sviluppato in questi giorni, e che volentieri lascio sviluppare ai “volenterosi”

1. Credo sia interessante ed importante che nell’osservare il calo dei punteggi medi registrati per italiano e matematica nei diversi livelli di scuola (p.es. 4 punti in italiano, 7 punti in Matematica nella secondaria di primo grado, ma l’indicazione vale per tutti gli ordini di scuola e quali che siano i differenziali di punteggio tra il 2019 e il 2021) si tenga conto non solo degli scostamenti anche del confronto tra le gaussiane rappresentative delle rilevazioni precedenti e di quella del 2021. Lascio l’analisi agli interessati: per esempio osservo che nella primaria (risultati complessivi confortanti) la gaussiana dei dati di italiano del 2021 si restringe rispetto a quella del 2019 mentre quella di matematica si allarga sia per il grado 2 che per il 5. Provarsi ad interpretare nell’analisi.
2. Nell’esaminare i diversi risultati, in particolare nella secondaria superiore si tenga presente che aumenta lo scarto di copertura tra il campione e la popolazione. Mentre per la secondaria di primo grado il campione è al 97,2% e la popolazione al 93.4%, per tutta la superiore il campione è al 93%, la popolazione all’81%. Ma in alcune Regioni, come la Campania, la Puglia, la Sicilia, il differenziale è assai elevato (per il grado 13 in Puglia lo scarto va da circa 90% al 50%). Si tenga inoltre conto che si tratta di regioni che hanno normalmente risultati inferiori alla media nazionale.
3. La correlazione tra aumento degli studenti in difficoltà e indice ESCS di appartenenza, che dimostra che le maggiori difficoltà siano legate a contesti economico sociali e culturali più bassi conferma anch’essa il carico socialmente non uniforme degli elementi di emergenza, ma sarebbe opportuna una analisi più dettagliata. Il confronto di punteggi medi della popolazione suddivisa per quartili di ESCS di appartenenza dava anche in passato valori testimonianza di grandi diseguaglianze. E tuttavia occorre esplorare più attentamente di dati con maggiori disaggregazioni.
Per esempio, se si osserva il rapporto tra studenti in difficoltà e ESCS di appartenenza nei punteggi relativi a Matematica per il grado 8 (secondaria di primo grado) confrontando i dati 2021-2018 e 2021-2019 si riscontar un relativo appianamento degli andamenti, o comunque una correlazione più complessa della affermata causalità diretta.
4. Il costrutto di Learnig Loss mostra da un lato elementi di conferma della “verità” ovvia: si “perde di più” nelle situazioni locali caratterizzate da punteggio già inferiori alla media nazionale. E quindi l’emergenza approfondisce le differenze. Ma dall’altro lato si dimostra anche la ambiguità dell’indicatore “apprendimento perso”.
In alcune rilevazioni si registrano elevati gradi di “learnig loss” in regioni che presentano un più alto livello di punteggi medi: in Matematica grado 13 compaiono con “perdite” sopra la media nazionale regioni come Veneto, Friuli, Toscana, Liguria, Marche; in Italiano sempre grado 13 compaiono con perdite più elevate della media ancora Toscana, Veneto, Friuli….E si tratta di Regioni che hanno invece tradizionalmente e stabilmente punteggi più elevati della media nazionale. In questo caso si potrebbe dire paradossalmente che “perdono di più quelli che vanno meglio”.
Ciò si presterebbe a interpretazioni interessanti. Dove la scuola tradizionale (il canone) è più consolidata e “produttiva” l’emergenza che ti obbliga a cambiare modelli e organizzazione, incide più negativamente. Viceversa, dove l’organizzazione è “normalmente” più debole, la necessità di mutare il “canone” richiama una sorta di “capacità di arrangiarsi”. Processi che alimentano in modo assai differente il difettoso costrutto interpretativo di learning loss (incidentalmente ricordo che la necessità di ricerca e di misure di tale “variabile” (?) è stata significativamente (?) ribadita più volte dalla Fondazione Agnelli…)
5. Altro spunto interessante e necessario di analisi dei dati è quello relativo alla distribuzione delle differenze (tra comparti geografici, tra scuola, tra classi). Nelle restituzioni tradizionali dell’INVALSI tali differenze vengono correttamente interpretate come indicatori di equità del sistema.
Stando ai dati presentati complessivamente per il 2021 si segnala uno spostamento dalla variabilità tra le scuole alla variabilità tra le classi. La differenza tra scuole si attenua, la differenza tra classi si accentua. Anche in tale caso l’analisi dovrebbe essere diretta ad indentificare i fattori di tale spostamento.
Per esempio, si potrebbe ipotizzare con un certo fondamento (da dimostrare) che nella fase in cui la scuola è stata chiamata ad “inventarsi” modelli diversi di organizzazione degli spazi, dei tempi, e della strumentazione didattica (vedi DAD/DID) la variabile “caratteristiche del/dei docenti” abbia assunto un valore rilevante, e da qui la differenza tra le classi. Ovviamente una interpretazione “scomoda” da avallare. Ma che potrebbe segnalare i campi prioritari di intervento per migliorare i risultati.
6. Infine, la questione della dispersione scolastica. Sia quella esplicita (abbandoni ecc…) sia quella implicita legata al raggiungimento di livelli accettabili di apprendimento. Anche in tale caso le rilevazioni 2021 mostrano un peggioramento. Ma vorrei anche in tale caso ricordare che il relativo peggioramento ha per oggetto un inaccettabile valore consolidato oltre il 20% nella “normalità”. Non possiamo “scoprire” questo drammatico punto di caduta (fallimento?) del sistema di istruzione italiano legandolo alla pandemia. Appunto: non si può “tornare alla normalità” perché “il problema sta prima ancora proprio nella normalità”.