Valutare uno studente e misurare un divario non sono la stessa cosa

di Stefano Stefanel

Il dibattito sul merito è subito scivolato sul de-merito. È di questi giorni lo scambio mediatico sull’uso dei voti inferiori al quattro, che ha avuto nel Ministro Valditara uno dei suoi protagonisti. La questione del demerito e dei voti inferiori al quattro rientra in quella passione tutta italiana per la docimologia del negativo che sta letteralmente facendo cadere la questione del merito nella gabbia (non salariale, ma non meno divisiva di quella) del de-merito. I sistemi scolastici più evoluti, come quelli nordici, tendono a diminuire l’esistenza o l’impatto delle valutazioni negative, perché fortemente interessati a quelle positive. Ma anche i sistemi scolastici più selettivi (come quelli dell’estremo oriente asiatico) utilizzano strumenti misurativi per selezionare in ingresso e poi impongono standard di rendimento altissimo, che vedono le valutazioni negative come semplici elementi di blocco al prosieguo degli studi.
Il sistema scolastico italiano invece si definisce inclusivo e ha come suo principale obiettivo la lotta alla dispersione scolastica, per cui non si comprende come la questione della docimologia del negativo venga posta in maniera così sommaria. Mi sfugge, cioè, come sia possibile pensare che uno studente in difficoltà riceva uno sprone a fare meglio da una serie 2 o di 3 dati con l’intento di punire incoraggiando, cioè creando un ossimoro valutativo-punitivo, che dovrebbe fare orrore a chiunque si occupi di pedagogia.


Il dilemma potrebbe essere anche questo: in quanto sistema scolastico quello italiano è interessato alla pedagogia o invece è più propenso a sposare il meccanismo che verifica l’effettiva trasmissione del sapere dalla “testa ben piena” del docente alla “testa ben vuota” dello studente attraverso sistemi misurativi tutti autoreferenziali e tutti per loro natura con tendenza misurativa-punitiva? Il discorso sulla pedagogia si frange contro quello del disciplinarismo, che vede nella pedagogia un elemento di diluizione della disciplina entro metodologie meta-cognitive che allontanano dal risultato cognitivo, elemento necessario per ogni competenza disciplinare. Però se manca l’attenzione alla didattica e alla pedagogia dallo schema didattica trasmissiva/misurazione docimologica non si esce.
Se proviamo a ribaltare la questione pedagogica una pratica interessante è certificare dopo attenta valutazione (non misurazione) se uno studente è in grado di essere valutato su un contenuto o su una abilità o anche su una competenza.
Se voglio assegnare un compito sulle frazioni o sulle derivate (in base all’ordine di scuola) dovrei prima accertarmi se lo studente ha compreso il concetto di frazione e le potenziali operazioni connesse o se ha compreso come ci si muove nelle derivate.
Altrimenti lo studente consegnerà il compito in bianco o cercherà di copiare. Questa certificazione in ingresso impone un’analisi attenta del processo di apprendimento degli studenti al fine della valutazione, non dopo la valutazione. Invece questa certificazione viene effettuata attraverso un passaggio semplice empirico privo di alcun valore scientifico: dato che l’insegnante ha spiegato le frazioni o le derivate questo costituisce di per sé elemento d’accesso alla verifica e quindi alla valutazione sulle frazioni o sulle derivate.
Io ci vedo un salto poco logico, ma forse perché mi occupo troppo di pedagogia e poco di discipline. Nell’ambito di questa impostazione misurativo/valutativo ecco che allora diventa logico accanirsi sulla docimologia del negativo, quella docimologia in cui il 3 è meglio del 2,5 e il 4/5 è peggio del 5. Se noi applicassimo questa mentalità – molto gettonata a livello scolastico e a questo punto anche ministeriale – ad esempio al salto in lungo avremmo giudici che perdono un sacco di tempo a misurare salti di atleti che non hanno raggiunto la sabbia con misure ridicole e inutili. Nel salto in lungo se il salto non è di almeno 3 metri non lo si misura, mentre nelle scuole italiane se il compito vale meno di 5 è tutta un gran misurazione in basso. Qualcuno dirà: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.

Al di là delle paradossalità tutto questo confluisce verso un meccanismo perverso di raccordo tra misurazione e valutazione.
La valutazione molto negativa (quella di cui si è parlato, sotto il 4) se è una vera descrizione di livello e viene inserita in una media matematica non è migliorabile. Se il livello dello studente è 2 o 3 quello studente non sarà mai in grado di prendere 8 e 9 per bilanciare la media (un’insegnante mi ha detto: difficilmente sarà in grado anche di prendere 6) e quindi una misurazione molto bassa che fa media impedisce il recupero.
Se invece la valutazione molto bassa non fa media ma è solo la misurazione di una pessima prova o la punizione allora non si comprende perché venga data e a cosa serve, visto che un semplice 6 è in grado di cancellarla. Devo tornare al salto in lungo, purtroppo: pensate a una giuria fortemente impegnata a misurare i salti che non hanno raggiunto i tre metri e che quindi vanno misurati in pedana e non sulla sabbia e che sono più lunghi da rubricare, e che dica che comunque tutti quelli che saltano più di sette metri sono eccellenti e quindi vincono la gara a pari merito. Quella giuria verrebbe presa per una congrega di pazzi e tutti direbbero che non sono interessati alle misure basse, ma solo a quelle alte, che devono essere precise al millimetro, perché si vince il campionato del mondo o l’olimpiade anche per un centimetro o addirittura per meno. O pensate allo sci dove i migliori si devono misurare in forma elettronica, mentre i meno bravi si potrebbero misurare con un cronometro a mano. Si dirà ancora: ma la scuola non è il salto in lungo o lo sci. Ovviamente, purtroppo.

L’idea che la docimologia del negativo sproni al miglioramento si frange sui dati della dispersione italiana (ancora altissima) e sull’abbandono che conduce verso i due milioni di NEET, cioè dei giovani che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano e sono tutti passati dalle nostre scuole.
La docimologia del negativo ha una semplice conseguenza: se lo studente è bravo e ottiene buoni risultati è merito dei docenti e della scuola, se i suoi risultati sono negativi è de-merito suo o della famiglia, o del web, o della società, o del degrado dei costumi. Diciamo che la scuola come tutti vuole privatizzare i profitti (buoni esiti merito nostro) e pubblicizzare le perdite (cattivi esiti de-merito degli altri).

In questa oggettiva confusione pedagogica si apre il grande problema del PNRR-Divari territoriali, del PNRR-Next Generation Labs e del PNRR Next Generation Classroom.
Dal punto di vista misurativo-valutativo gli esiti di questa enorme operazione solla scuola verranno verificati sulle presenze ai corsi, sugli acquisti effettuati dalle scuole e non sulla diminuzione dei divari e quindi sulla riduzione della dispersione. Anche in questo caso si da per scontato che il semplice accesso ad un servizio o ad un’attività produca di per sé un esito positivo in uscita. In realtà non può essere così, perché la differenza le faranno i singoli percorsi e il loro valore pedagogico. E lo faranno anche gli acquisti se messi a sistema con una nuova pedagogia.
In realtà mi sembra che molta scuola italiana sia molto concentrata sul merito che si misura in base al de-merito (cioè tutto quello che non è de-merito è merito, quindi tutti i salti dai tre metri in su sono “meritevoli”) e non mi pare ci si stia rendendo conto che una Ri-Generazione della scuola (terminologia ministeriale) parte solamente dall’idea che la scuola vada rigenerata, perché altrimenti continua a De-Generare. Se devo Ri-Generare qualcosa vuol dire che sta De-Generando, quindi una qualche idea sulla pedagogica come elemento di eliminazione o diminuzione dei divari ci dovrebbe essere. In realtà poiché noi valutiamo misurando (per lo più con una gioiosa attenzione al negativo) la pedagogia ci fa un po’ paura, perché a differenza della trasmissione impone che colui che insegna sia più interessato a quello che gli studenti apprendono piuttosto che a quello che gli studenti ascoltano.
Diciamo che se la mia squadra di salto in lungo fa troppi salti nulli devo allenarli meglio, non misurarli con ossessione sotto i tre metri. E devo cambiare qualcosa perché altrimenti sono costretto ad abbassare a due metri la base di misurazione. Anche qui c’è un’obiezione: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.




Il volto gesuitico dei voti

di Giovanni Fioravanti

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione.
Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.
Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”
E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.
Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.
Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai Gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro.
Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?
È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.
La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.
No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.
Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.
La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi.
Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.
Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire.[1]

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.
Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.
Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare.

[1] “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017




Sbagliando si impara: fare valutazione ma senza provocare timori

di Raimondo Giunta

“Gli errori sono le porte della scoperta”(J. Joyce)
“Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain)
“Lo Spirto scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G. Bachelard).
“Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori,  sono anche i soli a poterli correggere”(G. Le Boterf).
Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola non si è riusciti a correggere il convincimento che l’errore sia una colpa di cui si deve rendere conto e di cui si deve pagare la pena, anche se come ci ricorda A. Giordan sono cinque secoli che l’errore è considerato come inevitabile nell’atto di apprendere; come inerente ai suoi processi.  Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare. Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni. Si collocano dentro il processo di apprendimento e indicano il progresso concettuale che bisogna ottenere (J. P. Astolfi).
L’ostacolo incontrato e non superato ha lo statuto di indicatore e di analizzatore dei processi intellettuali in giuoco.
L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola. Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare. L’errore può essere soltanto l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono.  Non bisogna cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto. In altre parole l’errore è un’informazione, non una colpa e bisognerebbe finirla con le intimidazioni.

Bisogna accettare gli errori come tappe apprezzabili dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli. Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla conoscenza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse e dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.
Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, renitenza o rifiuto.

L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare.  Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore diventa uno strumento straordinario per insegnare a ragionare.
Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
Se l’errore, d’altra parte, è visto come motivo di sanzione, gli alunni tenderanno certamente di evitarlo col rischio, però, di cercare più le risposte giuste che concentrarsi sull’apprendimento.

Pur nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore a scuola spesso non si fuoriesce dalle pratiche che tengono ancora sugli altari con tutti gli onori del caso la sua severa condanna. Gioca a favore di questo stato di fatto anche il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, che è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione.
Un certo modo di considerare gli errori è funzionale ad una logica di selezione.  La valutazione a scuola non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova; valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia (Ph. Perrenoud).

Gli alunni e anche gli insegnanti hanno il diritto all’errore, a pensarci bene. Gli insegnanti non sono contabili del giusto punteggio, ma guide del processo di formazione, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti.

Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perché hanno una storia cognitiva da raccontare. Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori. Con accurata strumentazione l’errore diventa un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perché dà informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento.  La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare, a superare le sue difficoltà e a progredire.

“La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perché è riuscito in un caso e non in un altro(. . . ). L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(A. De Peretti).

Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico. La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale.  La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenziazione dell’insegnamento per un’educazione su misura. La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.

Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato, sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore. Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare, perché danno consistenza al significato della valutazione.
Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione.  Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti, e una concezione elitista, formalmente meritocratica, ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società. La valutazione non dovrebbe servire ad escludere e a stigmatizzare, ma dovrebbe essere un’opportunità per apprendere meglio. “Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia, permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti. “(G. Le Boterf)

Purtroppo generalmente nelle pratiche di valutazione viene proposta una pedagogia dell’emulazione e della costrizione; raramente una pedagogia della realizzazione e della cooperazione. Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, l’impegno,  la prestazione degli alunni.  “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione,  a sostegno di una logica premiale o punitiva,  a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione”(M. Ambel).  Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno più considerate con timore e terrore?




VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: UN VADEMECUM PER IL 1° E IL 2° CICLO

La valutazione degli studenti, periodica e finale, costituisce una delle principali responsabilità delle scuole, anche rispetto all’efficacia delle comunicazioni alle famiglie, pertanto deve rispondere a criteri di coerenza, trasparenza, motivazione e documentabilità.
A tal proposito si richiama l’art.1 del Regolamento sulla valutazione, secondo cui l’allievo ha diritto ad una valutazione trasparente e tempestiva.
Proponiamo in proposito un vademecum realizzato dalla dirigente Antonella Mongiardo.




Due o tre cose su Invalsi, 100 e lode, competenze e dintorni

di Stefano Stefanel

L’estate porta sempre con sé il dibattito sui risultati Invalsi e sugli esiti degli esami di Stato facendo emergere l’inesistente cultura della valutazione italiana propria dell’opinione pubblica e di troppe componenti della scuola. Inoltre l’estate fa emergere anche la stucchevole polemica sulle competenze, sui voti alti, sulla scuola figlia e vittima del sessantotto. Il tutto visionato da un punto di vista solo liceale, con commentatori che boccerebbero tutti gli studenti che non scelgono di studiare a fondo greco e latino. Poiché, però, l’indignazione non serve a nulla provo qui con “due parole”, ammesso che queste, invece, possano servire in una società e in un mondo che brucia tutto con la velocità di Instagram.

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Con grande voluttà e gran spregio del senso del ridicolo vengono messe in estate in correlazione alcune considerazioni che nascono da contesti diversi:

  • i dati Invalsi fotografano un sud in ritardo rispetto al nord e mostrano i dati Invalsi in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa;
  • all’esame finale del secondo ciclo (che qualcuno ancora si ostina a chiamare “maturità” anche se con la maturità delle persone con c’entra nulla) non viene bocciato nessuno o quasi;
  • al sud fioccano 100 e 100 e lode in controtendenza rispetto ai risultati Invalsi.

Alcuni colleghi dirigenti del nord (con una certa malcelata tendenza allo sciacallaggio) si buttano estivamente sui dati per rimarcare la serietà delle scuole del nord di fronte alla leggerezza di quelle del sud. Le scuole del sud, per lo più compostamente, si sottraggono a questo dibattito estivo e poi tutto torna come prima.

Dal punto di vista scientifico (che non interessa praticamente a nessuno) la commistione di questi dati è assurda: al sud ci sono molti studenti molto bravi che giustamente sono licenziati con voti molti alti. Cosa c’entra tutto questo coi dati Invalsi negativi per il sud?
I 100 e 100 e lode mica vengono assegnati agli studenti deboli o debolissimi: quelli al massimo escono dall’esame di stato con 60 o 61, al nord come al sud. La cosa, inoltre, che fa inorridire è che l’argomento è “brandito” da commentatori per lo più in pensione che conoscono la scuola italiana perché sessant’anni fa l’hanno frequentata, o da dirigenti che di solito guidano licei del nord di prestigio frequentati dai migliori studenti in circolazione. Questa caotica sovrapposizione di dati, che non c’entrano tra loro, viene poi trasformata in autorevoli opinioni e tutto non può che fermarsi lì.

Se proprio vogliamo incrociare i due dati sarebbe interessante sapere quanti studenti sia al nord che al sud con valutazioni basse nell’Invalsi hanno preso 100 o 100 e lode all’esame di stato. Non conosco questi dati ma propendo per lo zero per cento o poco più. Se ho ragione allora chiedo di cosa si parla? Confrontare i dati deboli di un sistema scolastico con gli esiti dei migliori studenti dello stesso sistema è segno di una grande incompetenza valutativa, ma anche di smemoratezze assolute: a cominciare da quella basilare che ci fa individuare sempre e dovunque e facilmente il “migliore della classe”. Se una classe è debole al miglior e diamo voti bassi o quelli che si merita? L’esame di stato è dentro la stessa logica: se uno è bravo deve avere il voto alto anche se il contesto in cui studia è modesto.

Decisamente autolesionista è poi la manifestata voluttà con cui molti esprimono il desiderio che all’esame di stato ci siano bocciati. Gli stessi, però, non desidererebbero mai che ci fossero bocciati alle tesi di laurea, perché la fine di un percorso lungo deve essere accompagnata, non messa davanti ad una prova concorsuale. Anche perché abbiamo la dispersione scolastica (leggi soprattutto bocciature) più alta d’Europa. Magari qualche bocciato in più potrebbe esserci, invece, nei concorsi a cattedra, dove partecipano solo i laureati e dove molti commissari sono professori universitari. Ma questo è un altro discorso.

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C’è poi, sempre attiva ma d’estate un po’ di più, la critica al lassismo, ai voti alti, alle competenze da eliminare a favore delle vecchie e amate conoscenze, alla lotta contro le “non cognitive skills”, anche se tutte le aziende e tutta la società della conoscenza quelle cercano dentro un sistema ordinato di “cognitive skills” (che molto spesso sono trascurate proprio dalle università da cui vengono i commentatori più appassionati del sapere trasmissivo, cartaceo, statico).

Le competenze sono nient’altro che il saper utilizzare conoscenze e abilità in ogni contesto e non solo in quello scolastico. Una competenza si poggia sempre su conoscenze e non esiste mai in senso generico. Non si può però valutare una competenza con compiti e interrogazioni standard, perché la sua valutazione è più complessa. Questa idea del “docente trasmettitore” che imbonisce le piccole folle a lui assegnate come un muezzin, forte di una cultura tradizionale, statica e ben definita è alla base della disastrosa situazione italiana (non solo scolastica) dove tutti vogliono parlare e   nessuno vuole ascoltare. Abbiamo tanti conferenzieri e pochi pedagogisti, abbiamo tanti che proclamano e declamano e molti di meno che sanno insegnare. Quando poi si valuta tutto cade nel grigio in cui ogni colore si confonde: si valuta, di solito, attraverso misurazioni standard (compiti e interrogazioni) autodefinite dal docente che poi misura decidendo la scala numerica e che e trasforma i voti attraverso le medie in valutazioni. Percorso completamente sbagliato che limita la conoscenza dei progressi dei migliori, ripete all’infinito le performance dei medi e affossa quelli in difficoltà, che con questi metodi di valutazione sono nella stessa situazione di chi, non sapendo nuotare, viene gettato in acqua con addosso uno zaino di sassi.

Circola poi anche la “malsana” idea che per gli studenti in difficoltà sia necessario far più scuola e non migliorare gli strumenti pedagogici e selezionare i saperi da insegnare, come se il soggetto più debole potesse essere aiutato dall’aumento di carico (quando ero alpino se un mulo era “debole” si diminuiva il suo carico, non lo si aumentava: così, per dire). In questo ci mette del suo anche l’Invalsi che misura i ritardi in periodi (“in certe zone del paese si è indietro di un anno”, ecc.), senza mai curarsi del problema principale, che non è quanto si sta a scuola, ma come si sta a scuola, che non è quanto si studia ma come si studia. Parole al vento, lo so, legate all’altro grande equivoco su cui nessuno vuole mai entrare: i docenti con le loro metodologie ottengono con la gran maggioranza degli studenti risultati sufficienti, buoni o ottimi. Le stesse metodologie con una parte degli studenti producono risultati pessimi. Si assiste però a questa considerazione: se lo studente va bene a scuola è merito del docente, se va male è demerito dello studente. Vecchio vizio italiano: privatizzare i ricavi e socializzare le perdite. Forse sarebbe il caso di capire che le metodologie vincenti per la maggioranza sono spesso quelle che distruggono le potenzialità di apprendimento di una parte di studenti. Quando si parla di personalizzazione nessuno sa bene di cosa si sta parlando e troppi sono legati all’idea della lezione privata. Se però si affacciasse in qualcuno il dubbio per cui è il “mio” metodo che porta sia in alto che in basso, allora forse si comincerebbe a parlare di pedagogia, lasciando perdere l’enfasi sugli errori degli studenti e cominciando seriamente a cercare di correggerli.

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Da questo punto di vista va letta la decisione ministeriale di far cadere su molte scuole 500 milioni di euro (con assegnazioni di circa 250.000 euro a scuola), basandosi in modo piuttosto oscuro sui dati Invalsi e sui dati della dispersione. Se alle scuole che hanno “prodotto” dispersione con metodologie didattiche e valutative sbagliate si danno tanti soldi chi dice che non perpetreranno ulteriori errori aumentando e non diminuendo la dispersione? Perché i soldi non sono vincolati ad un controllo tutto esterno degli esiti e delle situazioni di partenza? Perché chi boccia più studenti deve avere più soldi se non ha mai messo in campo alcuna metodologi attiva e verificabile per diminuire le bocciature?

Qui si annida l’idea italiana che le bocciature (dei figli degli altri ovviamente) siano una buona cosa e che chi non studia non debba andare avanti, senza mai chiedersi perché costui non studia e non si impegna, e perché non ascolta rapito le conferenze di conferenzieri che non troverebbero uno spettatore se si mettessero sul mercato. Direi che è ora di finirla con la pedagogia svilita a conferenza trasmessa in diretta e che si debba andare a fondo del problema degli apprendimenti e del problema ancor maggiore della loro valutazione, senza inventarsi soluzioni progettuali che non esistono, ma analizzando studente per studente i motivi dei suoi fallimenti.

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Insomma, due parole, d’estate.

 

 




Perché è difficile riformare il nostro sistema scolastico? Il futuro possibile secondo Damiano Previtali

di Stefano Stefanel

“I grandi investimenti, e con essi l’approccio economico del ricavo immediato e della sua quantificazione, richiedono risultati a breve termine, mentre l’approccio educativo, come risaputo, necessita di tempi lunghi, in alcuni casi di ricambi generazionali”.
Basterebbe questa frase, che fotografa perfettamente la difficoltà di riformare il sistema scolastico italiano, per dedicarsi alla lettura di “La scuola mediterranea” di Damiano Previtali, uscito da pochi giorni per l’editore Il Mulino.
Damiano Previtali è un dirigente scolastico attualmente in forza al Ministero dell’Istruzione dove dirige l’Ufficio Valutazione del sistema nazionale di istruzione e valutazione. È un grande conoscitore di scuola, ma è anche un grande appassionato della scuola e del suo complicato sistema organizzativo. Uno dei più grossi passi avanti fatti dalla scuola italiana nell’ultimo periodo è stato quello di dotarsi di un coerente e completo Sistema Nazionale di Valutazione, che pur generalmente osteggiato in maniera pretestuosa e poco convincente, comunque ha dato un taglio nuovo alla progettazione generale di sistema, alla valutazione, alla rendicontazione. Come a tutti noto, il Sistema Nazionale di Valutazione è stato pensato e organizzato proprio da Damiano Previtali.

Scoprire un Damiano Previtali ottimista dentro il grande pessimismo dei dati in nostro possesso aiuta a comprendere come le letture del sistema scolastico italiano possano avere molti lati e molti punti di vista. Il Sistema Nazionale di Valutazione così come l’Invalsi, così come le indagini internazionali ci trasmettono dati che sconsigliano di continuare nella strada che stiamo percorrendo. L’osservazione di quanto sta avvenendo invece dice che il sistema scolastico italiano non solo non intende cambiare, ma è fortemente orientato verso la piena restaurazione di quanto già in crisi prima della pandemia. Alla base del pensiero di Previtali c’è un’idea “mediterranea” di scuola, dentro un profondo realismo che gli fa definire come assolutamente insensata questa corsa folle ad una parificazione nazionale tra contesti diversi.
La corsa del Sud per raggiungere il Nord e quella del Nord per diventare ancora più competitivo si dimostrano chimere prive di valore, dentro obiettivi sempre irraggiungibili e sempre nascosti dentro dati letti in forma molto personale e mai condivisa.
Il concetto viene espresso in forma molto chiara da Previtali: “Le situazioni di svantaggio sociale non favoriscono i prerequisiti per l’apprendimento scolastico: proprio per questi motivi dobbiamo dotare le scuole, insediate in questi contesti, delle migliori risorse, mentre purtroppo avviene l’inverso.”
Tutto questo lo si è visto chiaramente nelle modalità con cui sono stati attuati i Progetti PON, che hanno privilegiato le scuole più forti, con segreterie efficienti, docenti motivati, mezzi a disposizione e collaborazione degli enti locali, che da “ricche” sono diventate ancora “più ricche”, mentre le scuole che più avrebbero avuto bisogni di quei fondi hanno arrancato accumulando ritardi e rinunce.
Nel libro di Previtali il rapporto tra dato noto a tutti e sua lettura costituisce la spina dorsale del ragionamento e ciò permette di smascherare quanto di falso viene fatto circolare presso l’opinione pubblica. D’altronde tutto questo è suffragato da un’evidenza molto banale: tutti dicono e tutti spiegano che il sistema scolastico italiano è in difficoltà, che abbiamo la più alta dispersione scolastica d’Europa, che due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, che la scuola ha cessato di essere “ascensore sociale”, ma è impossibile trovare una scuola (dico una) che non magnifichi sé stessa e i suoi risultati.
C’è qualcosa che non va: il sistema è in crisi, ma le 8.000 autonomie scolastiche godono di ottima salute. Tutti (anche chi scrive) trasmettiamo i nostri dati e i nostri progetti all’opinione pubblica certi di fare bene e correttamente il nostro lavoro, cerchiamo prospettive di lungo periodo, ma ci accasciamo sui problemi quotidiani. Siamo tutti convinti, insomma, che, se il sistema non funziona, è colpa di qualcun altro.
Come scrive Previtali: “Ne consegue una governance paralizzata dal quotidiano senza attenzione ai processi innovativi in atto.” Dirò anche qualcosa di più: l’innovazione è vista con sospetto e interesse, come un qualcosa che si attiverà quando ci sarà tempo, ben sapendo che il tempo non ci sarà mai. Così gli innovatori vengono guardati con poca comprensione perché sono fuori da quel mondo quotidiano che fa privilegiare un mantenimento dello status quo, non per scelta, ma per necessità. Tutto questo sembrava dovesse dissolversi con la pandemia e la grande innovazione didattica, digitale ed ecologica portata dagli eventi e non dalla ricerca, ma, invece, l’uscita dalla pandemia ha solo portato un grande desiderio di riportare indietro le lancette (neppure, però al 2019, ma direi addirittura al 1999).
Dunque un disastro senza prospettiva? Niente di tutto questo: in Previtali c’è un sano realismo collegato ad un ottimismo di prospettiva molto chiaro e ben argomentato. È necessario agire su una reale revisione della didattica e degli obiettivi, per comprendere come il trasferimento dal “pieno” (la mente dell’insegnante) al “vuoto” (la testa dello studente”) non ha alcuna possibilità di produrre alcunché di utile e al passo con le esigenze dei tempi. Previtali invita a dare alle cose il loro giusto valore: le nozioni sono nozioni, le informazioni sono informazioni ma la loro trasformazione in conoscenze come base di competenze durature necessita di un processo didattico complesso, ma non complicato, quindi richiede l’uscita da schemi ormai obsoleti che producono noia e deboli risultati. Previtali indica la strada di una scuola mediterranea ed attiva, che parta dal nostro essere Italia, che conosca il mondo ma non necessariamente voglia somigliare a lui. Chiede un attivismo diverso, una progettualità calata sull’alunno, una personalizzazione fortissima, che permetta ad ognuno di raggiungere gli obiettivi che sono alla sua portata.
“Nelle scuole permane il problema del passaggio dal piano di studi generale (collegato all’indirizzo) al piano di studi personalizzato (collegato al singolo studente)” : da qui si deve partire, da una revisione del rapporto didattico per calare la progettualità sulle esigenze e le possibilità dello studente e non su quelle delle discipline così come si sono formate nel secolo scorso. Per fare questo abbiamo bisogno di nuova conoscenza di soggetti poco esplorati dalla scuola, ma ormai diventati preponderanti: la scuola come organizzazione a legami deboli di cui parlava Piero Romei, la scuola come idea di comunità su cui si è sempre speso Giancarlo Cerini, la scuola come raccordo con la realtà e luogo in cui quella realtà viene conosciuta e letta, senza alcuna disconnessione tra le cognitive skills e le non cognitive skills.
Se mi si chiedesse se “La scuola mediterranea” è un bel libro risponderei che più che bello è un libro proprio necessario. Indica quello che dobbiamo fare e indica anche da dove iniziare per capire bene qual è la strada da prendere.
“L’utilizzo dei dati rischia di avallare le rappresentazioni sociali diffuse, ma l’ignoranza sui dati rischia di non considerare le differenze dove le differenze esistono.” Dobbiamo essere realisti e capire che il nostro sistema scolastico è legato alla nostra storia, ma anche ottimisti per combattere il pessimismo aggressivo di chi invita a non farsi imbrogliare dalle idee innovative, perché il vero cambiamento è non cambiare mai nulla. Un bel libro, speriamo per un bel futuro.




L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali

di Stefano Stefanel

L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.

Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro.
Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno.
Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi  su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).

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Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.