VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI: UN VADEMECUM PER IL 1° E IL 2° CICLO

La valutazione degli studenti, periodica e finale, costituisce una delle principali responsabilità delle scuole, anche rispetto all’efficacia delle comunicazioni alle famiglie, pertanto deve rispondere a criteri di coerenza, trasparenza, motivazione e documentabilità.
A tal proposito si richiama l’art.1 del Regolamento sulla valutazione, secondo cui l’allievo ha diritto ad una valutazione trasparente e tempestiva.
Proponiamo in proposito un vademecum realizzato dalla dirigente Antonella Mongiardo.




Due o tre cose su Invalsi, 100 e lode, competenze e dintorni

di Stefano Stefanel

L’estate porta sempre con sé il dibattito sui risultati Invalsi e sugli esiti degli esami di Stato facendo emergere l’inesistente cultura della valutazione italiana propria dell’opinione pubblica e di troppe componenti della scuola. Inoltre l’estate fa emergere anche la stucchevole polemica sulle competenze, sui voti alti, sulla scuola figlia e vittima del sessantotto. Il tutto visionato da un punto di vista solo liceale, con commentatori che boccerebbero tutti gli studenti che non scelgono di studiare a fondo greco e latino. Poiché, però, l’indignazione non serve a nulla provo qui con “due parole”, ammesso che queste, invece, possano servire in una società e in un mondo che brucia tutto con la velocità di Instagram.

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Con grande voluttà e gran spregio del senso del ridicolo vengono messe in estate in correlazione alcune considerazioni che nascono da contesti diversi:

  • i dati Invalsi fotografano un sud in ritardo rispetto al nord e mostrano i dati Invalsi in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa;
  • all’esame finale del secondo ciclo (che qualcuno ancora si ostina a chiamare “maturità” anche se con la maturità delle persone con c’entra nulla) non viene bocciato nessuno o quasi;
  • al sud fioccano 100 e 100 e lode in controtendenza rispetto ai risultati Invalsi.

Alcuni colleghi dirigenti del nord (con una certa malcelata tendenza allo sciacallaggio) si buttano estivamente sui dati per rimarcare la serietà delle scuole del nord di fronte alla leggerezza di quelle del sud. Le scuole del sud, per lo più compostamente, si sottraggono a questo dibattito estivo e poi tutto torna come prima.

Dal punto di vista scientifico (che non interessa praticamente a nessuno) la commistione di questi dati è assurda: al sud ci sono molti studenti molto bravi che giustamente sono licenziati con voti molti alti. Cosa c’entra tutto questo coi dati Invalsi negativi per il sud?
I 100 e 100 e lode mica vengono assegnati agli studenti deboli o debolissimi: quelli al massimo escono dall’esame di stato con 60 o 61, al nord come al sud. La cosa, inoltre, che fa inorridire è che l’argomento è “brandito” da commentatori per lo più in pensione che conoscono la scuola italiana perché sessant’anni fa l’hanno frequentata, o da dirigenti che di solito guidano licei del nord di prestigio frequentati dai migliori studenti in circolazione. Questa caotica sovrapposizione di dati, che non c’entrano tra loro, viene poi trasformata in autorevoli opinioni e tutto non può che fermarsi lì.

Se proprio vogliamo incrociare i due dati sarebbe interessante sapere quanti studenti sia al nord che al sud con valutazioni basse nell’Invalsi hanno preso 100 o 100 e lode all’esame di stato. Non conosco questi dati ma propendo per lo zero per cento o poco più. Se ho ragione allora chiedo di cosa si parla? Confrontare i dati deboli di un sistema scolastico con gli esiti dei migliori studenti dello stesso sistema è segno di una grande incompetenza valutativa, ma anche di smemoratezze assolute: a cominciare da quella basilare che ci fa individuare sempre e dovunque e facilmente il “migliore della classe”. Se una classe è debole al miglior e diamo voti bassi o quelli che si merita? L’esame di stato è dentro la stessa logica: se uno è bravo deve avere il voto alto anche se il contesto in cui studia è modesto.

Decisamente autolesionista è poi la manifestata voluttà con cui molti esprimono il desiderio che all’esame di stato ci siano bocciati. Gli stessi, però, non desidererebbero mai che ci fossero bocciati alle tesi di laurea, perché la fine di un percorso lungo deve essere accompagnata, non messa davanti ad una prova concorsuale. Anche perché abbiamo la dispersione scolastica (leggi soprattutto bocciature) più alta d’Europa. Magari qualche bocciato in più potrebbe esserci, invece, nei concorsi a cattedra, dove partecipano solo i laureati e dove molti commissari sono professori universitari. Ma questo è un altro discorso.

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C’è poi, sempre attiva ma d’estate un po’ di più, la critica al lassismo, ai voti alti, alle competenze da eliminare a favore delle vecchie e amate conoscenze, alla lotta contro le “non cognitive skills”, anche se tutte le aziende e tutta la società della conoscenza quelle cercano dentro un sistema ordinato di “cognitive skills” (che molto spesso sono trascurate proprio dalle università da cui vengono i commentatori più appassionati del sapere trasmissivo, cartaceo, statico).

Le competenze sono nient’altro che il saper utilizzare conoscenze e abilità in ogni contesto e non solo in quello scolastico. Una competenza si poggia sempre su conoscenze e non esiste mai in senso generico. Non si può però valutare una competenza con compiti e interrogazioni standard, perché la sua valutazione è più complessa. Questa idea del “docente trasmettitore” che imbonisce le piccole folle a lui assegnate come un muezzin, forte di una cultura tradizionale, statica e ben definita è alla base della disastrosa situazione italiana (non solo scolastica) dove tutti vogliono parlare e   nessuno vuole ascoltare. Abbiamo tanti conferenzieri e pochi pedagogisti, abbiamo tanti che proclamano e declamano e molti di meno che sanno insegnare. Quando poi si valuta tutto cade nel grigio in cui ogni colore si confonde: si valuta, di solito, attraverso misurazioni standard (compiti e interrogazioni) autodefinite dal docente che poi misura decidendo la scala numerica e che e trasforma i voti attraverso le medie in valutazioni. Percorso completamente sbagliato che limita la conoscenza dei progressi dei migliori, ripete all’infinito le performance dei medi e affossa quelli in difficoltà, che con questi metodi di valutazione sono nella stessa situazione di chi, non sapendo nuotare, viene gettato in acqua con addosso uno zaino di sassi.

Circola poi anche la “malsana” idea che per gli studenti in difficoltà sia necessario far più scuola e non migliorare gli strumenti pedagogici e selezionare i saperi da insegnare, come se il soggetto più debole potesse essere aiutato dall’aumento di carico (quando ero alpino se un mulo era “debole” si diminuiva il suo carico, non lo si aumentava: così, per dire). In questo ci mette del suo anche l’Invalsi che misura i ritardi in periodi (“in certe zone del paese si è indietro di un anno”, ecc.), senza mai curarsi del problema principale, che non è quanto si sta a scuola, ma come si sta a scuola, che non è quanto si studia ma come si studia. Parole al vento, lo so, legate all’altro grande equivoco su cui nessuno vuole mai entrare: i docenti con le loro metodologie ottengono con la gran maggioranza degli studenti risultati sufficienti, buoni o ottimi. Le stesse metodologie con una parte degli studenti producono risultati pessimi. Si assiste però a questa considerazione: se lo studente va bene a scuola è merito del docente, se va male è demerito dello studente. Vecchio vizio italiano: privatizzare i ricavi e socializzare le perdite. Forse sarebbe il caso di capire che le metodologie vincenti per la maggioranza sono spesso quelle che distruggono le potenzialità di apprendimento di una parte di studenti. Quando si parla di personalizzazione nessuno sa bene di cosa si sta parlando e troppi sono legati all’idea della lezione privata. Se però si affacciasse in qualcuno il dubbio per cui è il “mio” metodo che porta sia in alto che in basso, allora forse si comincerebbe a parlare di pedagogia, lasciando perdere l’enfasi sugli errori degli studenti e cominciando seriamente a cercare di correggerli.

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Da questo punto di vista va letta la decisione ministeriale di far cadere su molte scuole 500 milioni di euro (con assegnazioni di circa 250.000 euro a scuola), basandosi in modo piuttosto oscuro sui dati Invalsi e sui dati della dispersione. Se alle scuole che hanno “prodotto” dispersione con metodologie didattiche e valutative sbagliate si danno tanti soldi chi dice che non perpetreranno ulteriori errori aumentando e non diminuendo la dispersione? Perché i soldi non sono vincolati ad un controllo tutto esterno degli esiti e delle situazioni di partenza? Perché chi boccia più studenti deve avere più soldi se non ha mai messo in campo alcuna metodologi attiva e verificabile per diminuire le bocciature?

Qui si annida l’idea italiana che le bocciature (dei figli degli altri ovviamente) siano una buona cosa e che chi non studia non debba andare avanti, senza mai chiedersi perché costui non studia e non si impegna, e perché non ascolta rapito le conferenze di conferenzieri che non troverebbero uno spettatore se si mettessero sul mercato. Direi che è ora di finirla con la pedagogia svilita a conferenza trasmessa in diretta e che si debba andare a fondo del problema degli apprendimenti e del problema ancor maggiore della loro valutazione, senza inventarsi soluzioni progettuali che non esistono, ma analizzando studente per studente i motivi dei suoi fallimenti.

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Insomma, due parole, d’estate.

 

 




Perché è difficile riformare il nostro sistema scolastico? Il futuro possibile secondo Damiano Previtali

di Stefano Stefanel

“I grandi investimenti, e con essi l’approccio economico del ricavo immediato e della sua quantificazione, richiedono risultati a breve termine, mentre l’approccio educativo, come risaputo, necessita di tempi lunghi, in alcuni casi di ricambi generazionali”.
Basterebbe questa frase, che fotografa perfettamente la difficoltà di riformare il sistema scolastico italiano, per dedicarsi alla lettura di “La scuola mediterranea” di Damiano Previtali, uscito da pochi giorni per l’editore Il Mulino.
Damiano Previtali è un dirigente scolastico attualmente in forza al Ministero dell’Istruzione dove dirige l’Ufficio Valutazione del sistema nazionale di istruzione e valutazione. È un grande conoscitore di scuola, ma è anche un grande appassionato della scuola e del suo complicato sistema organizzativo. Uno dei più grossi passi avanti fatti dalla scuola italiana nell’ultimo periodo è stato quello di dotarsi di un coerente e completo Sistema Nazionale di Valutazione, che pur generalmente osteggiato in maniera pretestuosa e poco convincente, comunque ha dato un taglio nuovo alla progettazione generale di sistema, alla valutazione, alla rendicontazione. Come a tutti noto, il Sistema Nazionale di Valutazione è stato pensato e organizzato proprio da Damiano Previtali.

Scoprire un Damiano Previtali ottimista dentro il grande pessimismo dei dati in nostro possesso aiuta a comprendere come le letture del sistema scolastico italiano possano avere molti lati e molti punti di vista. Il Sistema Nazionale di Valutazione così come l’Invalsi, così come le indagini internazionali ci trasmettono dati che sconsigliano di continuare nella strada che stiamo percorrendo. L’osservazione di quanto sta avvenendo invece dice che il sistema scolastico italiano non solo non intende cambiare, ma è fortemente orientato verso la piena restaurazione di quanto già in crisi prima della pandemia. Alla base del pensiero di Previtali c’è un’idea “mediterranea” di scuola, dentro un profondo realismo che gli fa definire come assolutamente insensata questa corsa folle ad una parificazione nazionale tra contesti diversi.
La corsa del Sud per raggiungere il Nord e quella del Nord per diventare ancora più competitivo si dimostrano chimere prive di valore, dentro obiettivi sempre irraggiungibili e sempre nascosti dentro dati letti in forma molto personale e mai condivisa.
Il concetto viene espresso in forma molto chiara da Previtali: “Le situazioni di svantaggio sociale non favoriscono i prerequisiti per l’apprendimento scolastico: proprio per questi motivi dobbiamo dotare le scuole, insediate in questi contesti, delle migliori risorse, mentre purtroppo avviene l’inverso.”
Tutto questo lo si è visto chiaramente nelle modalità con cui sono stati attuati i Progetti PON, che hanno privilegiato le scuole più forti, con segreterie efficienti, docenti motivati, mezzi a disposizione e collaborazione degli enti locali, che da “ricche” sono diventate ancora “più ricche”, mentre le scuole che più avrebbero avuto bisogni di quei fondi hanno arrancato accumulando ritardi e rinunce.
Nel libro di Previtali il rapporto tra dato noto a tutti e sua lettura costituisce la spina dorsale del ragionamento e ciò permette di smascherare quanto di falso viene fatto circolare presso l’opinione pubblica. D’altronde tutto questo è suffragato da un’evidenza molto banale: tutti dicono e tutti spiegano che il sistema scolastico italiano è in difficoltà, che abbiamo la più alta dispersione scolastica d’Europa, che due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, che la scuola ha cessato di essere “ascensore sociale”, ma è impossibile trovare una scuola (dico una) che non magnifichi sé stessa e i suoi risultati.
C’è qualcosa che non va: il sistema è in crisi, ma le 8.000 autonomie scolastiche godono di ottima salute. Tutti (anche chi scrive) trasmettiamo i nostri dati e i nostri progetti all’opinione pubblica certi di fare bene e correttamente il nostro lavoro, cerchiamo prospettive di lungo periodo, ma ci accasciamo sui problemi quotidiani. Siamo tutti convinti, insomma, che, se il sistema non funziona, è colpa di qualcun altro.
Come scrive Previtali: “Ne consegue una governance paralizzata dal quotidiano senza attenzione ai processi innovativi in atto.” Dirò anche qualcosa di più: l’innovazione è vista con sospetto e interesse, come un qualcosa che si attiverà quando ci sarà tempo, ben sapendo che il tempo non ci sarà mai. Così gli innovatori vengono guardati con poca comprensione perché sono fuori da quel mondo quotidiano che fa privilegiare un mantenimento dello status quo, non per scelta, ma per necessità. Tutto questo sembrava dovesse dissolversi con la pandemia e la grande innovazione didattica, digitale ed ecologica portata dagli eventi e non dalla ricerca, ma, invece, l’uscita dalla pandemia ha solo portato un grande desiderio di riportare indietro le lancette (neppure, però al 2019, ma direi addirittura al 1999).
Dunque un disastro senza prospettiva? Niente di tutto questo: in Previtali c’è un sano realismo collegato ad un ottimismo di prospettiva molto chiaro e ben argomentato. È necessario agire su una reale revisione della didattica e degli obiettivi, per comprendere come il trasferimento dal “pieno” (la mente dell’insegnante) al “vuoto” (la testa dello studente”) non ha alcuna possibilità di produrre alcunché di utile e al passo con le esigenze dei tempi. Previtali invita a dare alle cose il loro giusto valore: le nozioni sono nozioni, le informazioni sono informazioni ma la loro trasformazione in conoscenze come base di competenze durature necessita di un processo didattico complesso, ma non complicato, quindi richiede l’uscita da schemi ormai obsoleti che producono noia e deboli risultati. Previtali indica la strada di una scuola mediterranea ed attiva, che parta dal nostro essere Italia, che conosca il mondo ma non necessariamente voglia somigliare a lui. Chiede un attivismo diverso, una progettualità calata sull’alunno, una personalizzazione fortissima, che permetta ad ognuno di raggiungere gli obiettivi che sono alla sua portata.
“Nelle scuole permane il problema del passaggio dal piano di studi generale (collegato all’indirizzo) al piano di studi personalizzato (collegato al singolo studente)” : da qui si deve partire, da una revisione del rapporto didattico per calare la progettualità sulle esigenze e le possibilità dello studente e non su quelle delle discipline così come si sono formate nel secolo scorso. Per fare questo abbiamo bisogno di nuova conoscenza di soggetti poco esplorati dalla scuola, ma ormai diventati preponderanti: la scuola come organizzazione a legami deboli di cui parlava Piero Romei, la scuola come idea di comunità su cui si è sempre speso Giancarlo Cerini, la scuola come raccordo con la realtà e luogo in cui quella realtà viene conosciuta e letta, senza alcuna disconnessione tra le cognitive skills e le non cognitive skills.
Se mi si chiedesse se “La scuola mediterranea” è un bel libro risponderei che più che bello è un libro proprio necessario. Indica quello che dobbiamo fare e indica anche da dove iniziare per capire bene qual è la strada da prendere.
“L’utilizzo dei dati rischia di avallare le rappresentazioni sociali diffuse, ma l’ignoranza sui dati rischia di non considerare le differenze dove le differenze esistono.” Dobbiamo essere realisti e capire che il nostro sistema scolastico è legato alla nostra storia, ma anche ottimisti per combattere il pessimismo aggressivo di chi invita a non farsi imbrogliare dalle idee innovative, perché il vero cambiamento è non cambiare mai nulla. Un bel libro, speriamo per un bel futuro.




L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali

di Stefano Stefanel

L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.

Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro.
Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno.
Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi  su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).

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Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.




Qualche regola per gli scrutini finali

di Raimondo Giunta

In ogni fase della valutazione e soprattutto in quella finale l’insegnante assume diverse responsabilità, che vanno affrontate con professionalità e con sensibilità civica, riscoprendo il significato e l’importanza della propria funzione pubblica (valuta e certifica per gli alunni e la società) e della propria funzione educativa (valuta per il bene degli alunni e nel senso della giustizia).
La valutazione è un’operazione che trova fondamento e significato nell’insieme dei principi pedagogici che regolano l’attività formativa e che non può essere affidata alla libera interpretazione dell’insegnante, se certificazioni e titoli di studio vogliono avere ancora una valenza pubblica.
In questo caso bisogna tenere conto dei vincoli posti dalle norme che presidiano questo campo dell’attività di formazione. La valutazione degli alunni non è un affare privato delle singole scuole e dei singoli insegnanti: si fa come è stabilito e nei termini e nei tempi in cui è stabilito.
All’insegnante resta il compito importante di difendere e far valere gli aspetti educativi della valutazione (equità nei giudizi, valorizzazione dell’impegno e dei progressi, sviluppo personale e autonomia dell’alunno, partecipazione al dialogo educativo); di misurare su questa base il significato dei vincoli di natura pubblicistica e di convalidare la legittimità dei criteri di valutazione adottati. Non bisogna dimenticare che la valutazione e in modo particolare quella finale mette spesso in opposizione alunni e docenti, docenti e famiglie ed è per questo che va svolta con rigore ed equità.
Valutare non significa aprire il tribunale delle pene e delle condanne. E’ sempre un’operazione che va incardinata nelle complessive finalità educative che ogni sistema scolastico si dà. Per evitare conflitti, in cui si gioca la rispettabilità della scuola, è necessario informare correttamente alunni e famiglie e in tempi utili sui risultati di apprendimento.
Operazione che va fatta in modo che sia comprensibile.
Questo significa che l’intera impostazione del processo di valutazione deve essere nota all’interno e all’esterno della scuola.


Degli apprendimenti degli alunni dovrebbero avere cura non solo gli insegnanti e le famiglie, ma anche le istituzioni per la parte di responsabilità che loro compete nella costruzione del migliore ambiente possibile per la vita scolastica degli alunni.
Per una buona valutazione finale suggerirei poche regole, ma sensate:

1) E’ necessario tenersi lontani da qualsiasi forma di arbitrarietà. Non si può e non si deve utilizzare la valutazione come strumento di affermazione o di conferma del potere dell’insegnante e come strumento disciplinare.Si deve, quindi, procedere nella valutazione rispettando i criteri che si è dichiarato pubblicamente di volere seguire. Il nodo da sciogliere nella valutazione è quello di sapere comunicare agli alunni ciò che ci si attende da loro e di incitarli a condividere le finalitàdell’educazione (B.Rey), rispettando rigorosamente la coerenza tra presupposti educativi e didattici e procedure e strumenti di valutazione. Quanti sono coinvolti nella valutazione devono essersi appropriati delle sue finalità,dei suoi metodi e dei suoi criteri;
2)La valutazione deve sempre essere funzionale alla crescita degli alunni e al miglioramento dell’insegnamento, di cui è parte integrante. Valutare per insegnare meglio; essere valutato per meglio apprendere.
La valutazione deve integrarsi nel percorso di costruzione del sapere, deve permettere agli alunni di prendere coscienza del proprio modo di apprendere e delle risorse di cui dispongono. La valutazione deve aiutare gli alunni a conoscere le proprie strategie d’azione per guidarle e renderle più efficaci e oltre ai livelli di apprendimento raggiunti deve mettere in evidenza i progressi degli alunni. La semplice misura degli scarti tra risultati e obiettivi fissati non dà i mezzi per migliorare. Non è valutazione, ma controllo (Le Boterf).
L’insegnante in sede di valutazione finale non può ridursi al ruolo di contabile di errori e di punti; è ancora l’accompagnatore del percorso di crescita e di apprendimento degli alunni;
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3)Bisogna sempre tenere presenti le implicazioni sociali della valutazione. Fatte salve le condizioni stabilite dalle norme generali dell’istruzione, messe in atto tutte le strategie di motivazione e di compensazione, disposti tutti i percorsi di recupero e di riorientamento, la formulazione di un giudizio negativo deve essere fondata sull’impossibilità di procedere diversamente. Nelle valutazioni, fino a quando avranno effetti legali, pubblici e sociali, si mette in palio il rapporto di fiducia dei giovani nelle istituzioni e nella legalità e pertanto ci vuole etica professionale e molta prudenza. La scuola e gli insegnanti dovrebbero essere uno degli aspetti più civili e umani del volto delle istituzioni pubbliche presso le nuove generazioni.
La competenza in valutazione è una delle componenti più complesse della professionalità del docente ed una delle più difficili da esercitare. All’insegnante richiede equilibrio, senso delle istituzioni, passione educativa, attenzione al lavoro dell’alunno e cura delle sue sorti. Richiede un’eccellente cultura socio-pedagogica. “Immagino un giorno, in un futuro non lontano, nel quale le prove e la valutazione non saranno considerate con timore e terrore, non saranno separate dall’insegnamento e apprendimento, non saranno usate per punire o per proibire l’accesso a un apprendimento importante e non saranno considerate riti privati o mistici.
Al contrario, valutazione e attività di insegnamento /apprendimento saranno intercambiabili; l’una influenzerà l’altra in modo da crescere entrambe. La valutazione rivelerà non solo che cosa gli studenti sanno e comprendono,ma anche svelerà come questi apprendimenti hanno luogo e determinano una varietà e qualità di lavoro da mostrare la profondità ,l’ampiezza e lo sviluppo del pensiero di ogni studente”(Earl & Cousins-1995)




Valutazione nella scuola primaria: non c’è formazione senza sperimentazione (e viceversa)

di Stefano Stefanel

Quest’anno ho avuto una prima grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Daniela Venturi dall’Ambito 13 della Toscana (Provincia di Lucca) a tenere un corso di formazione sulla valutazione nella scuola primaria, cui hanno partecipato docenti di scuola primaria degli Istituti comprensivi di Porcari, “Piaggia” di Capannori e di Lucca (IC 3 e IC 4): questo corso si è tenuto tra fine maggio e fine giugno a cavallo degli scrutini ed ha permesso di valutare il processo di valutazione prima e dopo la redazione della scheda sperimentale.
Ho avuto poi una seconda grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Martina Guiducci e dalla maestra Alessandra Galvani a tenere un corso di formazione per l’Istituto comprensivo di Montefiorino (Modena), cui hanno partecipato docenti di scuola primaria e una docente di scuola dell’infanzia.
La terza grande fortuna di quest’anno è stata l’assegnazione della reggenza presso l’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine), dove – grazie alla grande collaborazione di tutte le docenti della scuola primaria coinvolte dalle coordinatrici didattiche di sede Elisa Fain, Luisa Del Torre, Anna Barbetti e Valentina Moretti – abbiamo avviato in brevissimo tempo una importante sperimentazione dividendo l’anno scolastico in due periodi disomogenei (dal 16 settembre al 31 ottobre e dal 2 novembre all’11 giugno) e quindi redigendo una sintetica scheda diagnostica che verrà trasmessa ai genitori ai primi di novembre.

Da questo privilegiato punto di vista ho potuto affrontare in modo disteso e approfondito tutte le tematiche connesse alla valutazione per obiettivi, tenendo comunque sempre di vista le Linee guida ministeriali del 4 dicembre 2020 e l’ultimo numero della Rivista dell’Istruzione (2/2021) curato dall’amico Giancarlo Cerini poco prima di lasciarci. I due corsi di formazione e l’attività sperimentale hanno messo in luce alcuni elementi di questa sperimentazione, che non mi pare inutile affrontare in questo intervento di metà autunno.

DALLA SOLITUDINE AL COINVOLGIMENTO

Il primo elemento chiave della sperimentazione della scheda per obiettivi è l’oggettivo pericolo di isolamento che corrono le scuole primarie, compresse tra una scuola dell’infanzia che non riesce a “bucare” la sua posizione (anche se ormai tutti i bambini passano da lì) e una scuola secondaria di primo grado che, sempre di più e sempre più erroneamente, si ritiene prossima al secondo ciclo e non al primo. La valutazione per obiettivi (che dovrebbe essere estesa e in tempi rapidi a tutti gli ordini di scuola) non solo non è compresa, ma molto spesso non è neppure apprezzata dalla scuola secondaria, quasi che la arbitraria docimologia che sta devastando la scuola italiana sia un elemento oggettivo di valutazione e non un “reperto archeologico della misurazione”. Da questa solitudine valutativa la scuola primaria non  ce la farà ad uscire da sola e l’unico soggetto che può spingere l’Istituto comprensivo a ragionare di valutazione in forma ordinata e verticale è il dirigente scolastico.

Dalle esperienze che sto vivendo mi pare di poter, purtroppo, dire che molti dirigenti scolastici si sono già stancati dell’argomento e, dopo una prima fiammata nell’inverno scorso, hanno delegato ai docenti della scuola primaria tutto il processo, senza farsi coinvolgere più di tanto. Senza il supporto diretto e operativo dei dirigenti scolastici scuole dell’infanzia e scuole secondarie non si muoveranno mai da sole e non entreranno in sinergia con la scuola primaria in questo importante processo di verticalizzazione valutativa. Sembra, a volte, che la nostra categoria sia disponibile a presidiare ogni argomento per un paio di mesi, poi non c’è più tempo e pazienza nella speranza che  le cose vadano avanti da sole, mentre, invece, spesso si arenano.

Uno degli elementi nefasti del mancato coinvolgimento di tutto l’istituto è l’effetto lenzuolo che prendono molte schede di valutazione, con un numero di obiettivi così elevato, che qualunque lettura o comprensione da parte dei genitori è minata in partenza. Schede con 30, 40, 50 obiettivi sono nella normalità e nel web se ne trovano anche con più obiettivi. In realtà una qualunque attività didattica, anche riguardante tutte le discipline che si insegnano nella scuola primaria e che non dovrebbero comunque mai essere secondarizzate, cioè divise rigidamente, può essere descritta da 10-15 obiettivi complessivi. Purtroppo le docenti di scuola primaria temono molto di omettere qualcosa e scambiano la scheda di valutazione per una sorta di documento in cui dare conto di tutto quello che fanno. Anche in questo caso è solo il dirigente scolastico colui che può fermare l’effetto lenzuolo, tranquillizzando le docenti e spostando la loro concentrazione sugli obiettivi dell’apprendimento e non su quelli dei minuti passaggi contenutistici. Un interessante elemento di confronto è quello di somministrare semplici questionari a genitori e docenti degli altri ordini di scuola per verificare come la scheda per obiettivi viene compresa e accettata. Le maestre del lucchese lo hanno fatto in maniera egregia e in tre domande sono riuscite a fotografare il sistema (i genitori, nella fattispecie, hanno capito il ruolo della scuola e dichiarato di aver compreso la scheda,  ammettendo però che preferivano i numeri). Questo lavoro di analisi veloce e tabulabile è necessario per capire come andare avanti, ma deve essere veicolato dall’Istituto scolastico non dalle singole maestre.

IL RAPPORTO TRA L’OBIETTIVO E IL CURRICOLO

Il rapporto tra l’obiettivo e il curricolo molto spesso è stravolto perché in molte scuole non si lavora con i curricoli redatti dalle scuole, ma con i vecchi programmi cui fanno ancora riferimento sussidiari e testi di supporto. Con le maestre di Lucca e di Montefiorino abbiamo però condotto un interessante lavoro , analizzando la scheda e i suoi obiettivi e cercando di capire che tipo di didattica si portano dietro. Tre elementi da questo lavoro sono emersi in maniera molto netta:

  • l’obiettivo non deve mai essere un contenuto e non deve mai coincidere con questo (un contenuto si apprende conoscendolo), ma l’obiettivo ha bisogno dei contenuti per poter essere raggiunto;
  • l’obiettivo non deve mai essere descritto con aggettivi che orientano la lettura e che sviano la comprensione; l’uso, ad esempio, di “semplice” o “breve” porta il genitore a credere che la scuola primaria sia facile e che chiunque possa dire la sua: se il contenuto di quanto si apprende nella scuola primaria è “facile”, il processo di apprendimento è “difficile” e questo molti genitori non lo capiscono perché ritengono che il trasferimento di un contenuto dall’adulto al bambino faccia acquisire competenze (invece cementa una retrograda mentalità da quiz): “facile”, “semplice”, “breve”, ma anche “complesso”, “approfondito” sono l’idea dell’adulto, non la descrizione di quello che sta facendo l’alunno. Per uno studente di 6 o 7 anni un testo scritto (anche breve) è difficile quanto lo è un saggio (anche non breve) per un liceale;
  • va chiarito se l’obiettivo è un obiettivo assoluto (correttezza grammaticale ad esempio, che si acquisisce anche da piccoli) o legato all’età e alla specifica didattica della scuola (la competenza linguistica in lingua inglese, ad esempio) per evitare che l’obiettivo sia raggiunto in prima, ma sia “perso” in terza, segno che quello non era un obiettivo, ma solo uno step di passaggio.

Alla base del curricolo d’istituto esistono poi i tempi della sua attuazione. La partizione “tradizionale” in quadrimestri o trimestri in rapporto alla valutazione per obiettivi è sbagliata e non serve a nulla: un obiettivo non si spezza a metà e la sua declinazione intermedia è inutile o addirittura nociva. Quindi bisogna definire obiettivi diversi per tempi diversi legando l’obiettivo al curricolo progettato. Con le maestre dell’Istituto comprensivo di Pasian di Prato stiamo sperimentando la valutazione di un primo periodo diagnostico di un mese e mezzo: questo ha imposto delle schede che abbiano non più di 5-6 obiettivi e che diano conto di come lo studente si è traghettato nel presente anno scolastico. In questa sperimentazione a Pasian di Prato abbiamo redatto tre schede: una per le classi prime, una per le classi dalla seconda alla quinta, una per le classi della scuola primaria con particolari finalità “La Nostra Famiglia”, dipendente dal nostro Istituto e annessa al Centro di Riabilitazione omonimo, che si occupa di disabilità.

Le scuole dell’Ambito lucchese e l’Istituto comprensivo di Montefiorino, in forma distesa, hanno ragionato attorno a questi problemi e la risposta è stata veramente ottima, con le maestre che hanno potuto argomentare con calma su temi molto significativo, anche facendo riferimento a termini di confronto. Una lettura di varie schede tratte da molte e diverse scuole d’Italia, con la “deduzione” del curricolo correlato ad ogni scheda, ha poi permesso di ragionare con senso critico sulla propria scheda e sul proprio curricolo, in uno spazio di approfondimento necessario. Credo che solo una struttura cooperativa produca un sistema di valutazione che dia conto correttamente del processo di apprendimento degli studenti di scuola primaria.

 

 




Errori a scuola e valutazione formativa

di Raimondo Giunta

“Gli errori sono le porte della scoperta”(J.Joyce)
“Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain)
“Lo Spirito scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G.Bachelard)
“Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori, sono anche i soli a poterli correggere”(G.Le Boterf).

Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola non si è riusciti a correggere il convincimento che l’errore sia una colpa di cui si deve rendere conto e di cui si deve pagare la pena, anche se come ci ricorda A.Giordan sono cinque secoli che l’errore è considerato come inevitabile nell’atto di apprendere, come inerente ai suoi processi.
Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare.
Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni.
Si collocano dentro il processo di apprendimento e indicano il progresso concettuale che bisogna ottenere (J.P.Astolfi).

L’ostacolo incontrato e non superato ha lo statuto di indicatore e di analizzatore dei processi intellettuali in giuoco.
L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola.
Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare.

L’errore può essere soltanto l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono. Non bisogna cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto.
In altre parole l’errore è un’informazione, non una colpa e bisognerebbe finirla con le intimidazioni.
Bisogna accettare gli errori come tappe apprezzabili dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli.
Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla conoscenza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse e dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.

Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e   quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, renitenza o rifiuto.
L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare. Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore diventa uno strumento straordinario per insegnare a ragionare.

Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
Se l’errore, d’altra parte, è visto come motivo di sanzione, gli alunni tenderanno certamente di evitarlo col rischio, però, di cercare più le risposte giuste che concentrarsi sull’apprendimento.
Pur nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore a scuola spesso non si fuoriesce dalle pratiche che tengono ancora sugli altari con tutti gli onori del caso la sua severa condanna.

Gioca a favore di questo stato di fatto anche il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, che è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione.

Un certo modo di considerare gli errori è funzionale ad una logica di selezione. La valutazione a scuola non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova; valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia (Ph.Perrenoud).

Gli alunni e anche gli insegnanti hanno il diritto all’errore, a pensarci bene.
Gli insegnanti non sono contabili del giusto punteggio, ma guide del processo di formazione, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti.
Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perchè hanno una storia cognitiva da raccontare.
Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori.
Con accurata strumentazione l’errore diventa un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perchè dà informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento. La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare ,a superare le sue difficoltà e a progredire.

“La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perchè è riuscito in un caso e non in un altro(…).L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(A.De Peretti).
Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico.
La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale. La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenzazione dell’insegnamento per un’educazione su misura.

La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.
Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato,sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore.
Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare,perche danno consistenza al significato della valutazione.

Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione. Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti, e una concezione elitista, formalmente meritocratica, ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società.

La valutazione non dovrebbe servire ad escludere e a stigmatizzare, ma dovrebbe essere un’opportunità per apprendere meglio.
“Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia, permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti.”(G.Le Boterf)
Purtroppo generalmente nelle pratiche di valutazione viene proposta una pedagogia dell’emulazione e della costrizione; raramente una pedagogia della realizzazione e della cooperazione.
Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, l’impegno, la prestazione degli alunni. “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione, a sostegno di una logica premiale o punitiva, a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione”(M.Ambel).
Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno più considerate con timore e terrore?