Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Esami di Stato e prove Invalsi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

E’ difficile sperare che della scuola si possa parlare con giudizio e razionalità sulla base di una adeguata conoscenza della sua realtà, dei suoi meccanismi, della sua cultura, delle sue finalità e anche del suo personale. Ogni occasione è buona per parlarne come di un mondo modesto e bizzarro in balia di se stesso, sempre pronto a scandalizzare per quello che vi succede platee affollate di immancabili censori ora per l’incuria delle sue strutture, ora per la supposta imperizia dei docenti, ora per l’incorreggibilità degli studenti, ora per l’arretratezza dei curricoli, ora per l’avversione al mondo aziendale.
Non può sfuggire in questo genere di letteratura l’occasione offerta annualmente dalla differenza tra i dati emersi nell’ indagine INVALSI e quelli riscontrati negli esami di maturità appena conclusi. Nelle regioni del Sud, nelle quali gli studenti dell’ultimo anno nell’indagine INVALSI avevano denunciato carenze in più discipline, si sono avuti agli Esami di Stato risultati ampiamente diversi e migliori.

E allora ci si chiede quali dati siano davvero affidabili sulla preparazione degli studenti e ancora se un esame che fa tutti promossi dappertutto sia davvero un esame che può darci informazioni sul funzionamento dell’attività didattica delle scuole. Mettere in contrasto i dati INVALSI e quelli degli Esami è un gioco facile e si sa in anticipo come va a finire.

Va a finire con la demonizzazione del lavoro degli insegnanti, con la riprovazione della loro incerta etica professionale, con la perorazione di nuove e più incisive forme di valutazione della scuola e degli insegnanti. Per il bene della scuola, invece, vanno migliorati sia gli scopi e i metodi delle indagini INVALSI, sia soprattutto l’architettura degli Esami di Stato.
Il vizio di fondo degli Esami di Stato, che compromette qualsiasi buona intenzione e che va cancellato, è costituito dalla composizione delle commissioni. Fino a quando le commissioni saranno composte paritariamente tra membri interni e membri esterni; fino a quando i commissari devono essere scelti solo tra gli insegnanti della provincia in cui ha sede un istituto i risultati saranno sempre gli stessi. Tutti promossi e tutti con voti più o meno alti, soprattutto dove è difficile e complicato sottrarsi all’ambizione di potere documentare un ricco palmares della propria scuola e talvolta alle sollecitazioni interessate di autorevoli patrocinatori delle sorti degli alunni.




Ritorna la manfrina dei dati Invalsi

di Cinzia Mion

Premetto subito che non sono tra i detrattori delle prove Invalsi. Anzi. Ho sempre preso sul serio il grido di allarme inoltrato a suo tempo dal linguista Tullio De Mauro sul cosiddetto “analfabetismo funzionale” del 70 % degli italiani adulti, ripreso poi sistematicamente appunto dalle Prove Invalsi, rispetto ai ragazzi a scuola.
Il riferimento è al fatto che i ragazzi a scuola leggono (competenza strumentale) ma fanno fatica a capire il “senso” di ciò che leggono.
Le cause secondo me sono molteplici. Non intendo però affrontare qui l’annoso problema della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, carentissima soprattutto in “psicopedagogia o psicologia dell’apprendimento scolastico”, dopo la soppressione delle SSIS. Mancano inoltre da morire tutti i laboratori, i tirocini, all’interno dei quali sollecitare proprio la formazione professionale del docente ad uscire dalla propria auto-referenzialità. Stupisce che non sia l’Università stessa a richiedere, se fosse in grado per prima di “autovalutare se stessa”, una revisione adeguata dei propri piani di studio finalizzati a rivedere le carenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.

L’affondo che intendo portare avanti ora è nei confronti della sottovalutazione, anche da parte dei detrattori delle Prove Invalsi, di un atteggiamento che dovrebbe essere la spina dorsale della professionalità docente: la consuetudine all’”autovalutazione” che ogni insegnante dovrebbe mantenere sempre vigile. Un’autovalutazione che dovrebbe seguire sempre una semplice ma salutare autointerrogazione: cosa ho trascurato nella mia progettazione, ed attivazione poi della didattica, nei confronti dei processi cognitivi e metacognitivi dei “miei” ragazzi se non sono in grado di affrontare questa prova? Come mai questi sono in difficoltà rispetto alla “comprensione del senso”?

E se i docenti non trovano la risposta bisogna andare subito nel sito Invalsi e cercare nei “Quaderni di approfondimento” la risposta a questa domanda. Ovviamente poi però urge aggiustarsi cercando di adeguare la propria didattica, attraverso, per esempio, una salutare “formazione in servizio” (che non è un’idea blasfema!) in grado di affrontare tale problematica.

Se vogliamo essere più precisi diventa indispensabile rispolverare anche il concetto di “valutazione formativa”-  spesso citato a vanvera, giusto per far vedere che non è dimenticato, sorvolando però sul cuore stesso dello stesso – nel senso che la responsabilità del mancato successo formativo dei ragazzi, da ascriversi in primis alla didattica del docente, deve far scaturire in quest’ultimo uno stringente autofeedback  formativo. Da questa visione della valutazione scopriremo essenziale il sorgere di una “trasformazione adeguata e ineludibile,” pressante e disincantata, scevra da meccanismi di difesa. Una trasformazione salutare a 180 gradi.
Ci si fionda invece sull’attivazione del senso di responsabilità “dell’educando” invitato e sollecitato lui da più parti all’autovalutazione. Intendiamoci: sacrosanta ma… “vivaddio” verrà sempre dopo di quella del docente…O no?

Come fa un docente ad educare al “recupero dell’errore” se lui stesso non lo sa fare su di sé? Che  esempio può dare? Tutti noi sappiamo che si insegna in modo più pregnante con il nostro modo di essere che  penetra più profondamente  di qualsiasi altra sollecitazione verbalistica.

Torniamo a noi: i miei allievi non sono in grado di affrontare una delle prove Invalsi?
E’ la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo, che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, ci sono dei saggi fondamentali che possono essere utilizzati: i testi di Wiggins sulla “teoria” e sulla “pratica” per l’acquisizione della competenza della comprensione significativa e profonda .
A proposito di ciò sottolineo come all’interno della tassonomia indicata da Wiggins spicchi in modo molto forte il passaggio “all’autoconoscenza”, altro modo per sollecitare l’autovalutazione di cui sopra!
Nella fattispecie poi, lungo la linea più pragmatica, segnalo il meno recente saggio dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio .
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” (A.Collins,J.Brown,S.E.Newman) e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per insegnare a cogliere e capire il SENSO di ciò che si legge! (Palincsar-Brown: La comprensione del testo scritto, all’interno “dell’Insegnamento reciproco della lettura”)

Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se  qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al Dito.




TORNIAMO AL VOTO ALLA PRIMARIA? NOI DICIAMO NO

APPELLO

Apprendiamo da fonti giornalistiche che la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti intende chiedere al ministro Valditara di ripristinare il voto numerico alla scuola primaria.
Ricordiamo che le attuali norme sulla valutazione nella primaria sono entrate in vigore nel 2020/21 e ci sembra che prima di cambiare nuovamente il modello sarebbe bene almeno conoscere i risultati di questi tre anni di “sperimentazione”.
Magari sarebbe anche utile sapere cosa ne pensano insegnanti, genitori e dirigenti scolastici che in questi tre anni hanno messo in pratica le nuove regole.
Come spesso accade, invece, si parla di cambiare senza interpellare chi la scuola la fa ogni giorno.
Non entriamo più di tanto nel merito delle motivazioni addotte e in particolare della affermazione secondo la “scuola dei voti” era quella che funzionava da ascensore sociale: basta consultare i dati statistici ufficiali per sapere che negli ’60 e ’70 la scuola dell’obbligo “lasciava indietro” decine e decine di migliaia di alunni provenienti proprio dalle fasce sociali più deboli.
L’attuale modello di valutazione della scuola primaria ha certamente bisogno di una adeguata manutenzione, ma le esperienze che si sono realizzate nella scuola italiana nell’ultimo mezzo secolo non consentono di concludere che tutto si possa risolvere con un semplice “ritorno al voto”.
Ci auguriamo che la scuola faccia sentire la sua voce per scongiurare questo ennesimo tentativo (non richiesto) di tornare a pratiche educative e didattiche di cui non si sente davvero il bisogno.

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L’altra faccia della valutazione

di Pietro Calascibetta

Come per la luna ci sono due “facce”, anche per la valutazione ci sono due “facce”: una che vediamo e che è rappresentata dai voti in decimi che bisogna scrivere per legge sulla pagella e che per questo ci sembra l’unica e l’atra nascosta che non vediamo o non vogliamo vedere, ma che forse è ancora più importante ed è quella che ha più influenza sull’apprendimento e sul lavoro del docente.
Si tratta della valutazione in itinere.
Questo continuo ridurre il dibattito sulla valutazione ad un referendum tra chi è a favore e chi è contrario ai voti in decimi in assoluto confonde tutti, docenti, studenti e famiglie e impedisce di affrontare proprio l’altra “faccia” della valutazione quella più importante per la formazione.
Scorrendo la normativa è chiaro che la “valutazione periodica e annuale” deve essere fatta in decimi, dove per “periodica” si intende quella trimestrale o quadrimestrale e che la “ media” è solo un criterio (giusto o sbagliato, corretto o scorretto che sia) che entra in gioco solo per alcune fasi finali della “valutazione”. Se guardiamo bene la normativa, ci si rende subito conto che queste disposizioni riguardano solo i documenti formali (pagelle) e i criteri di ammissione e di promozione all’esame (di stato).
Lo scopo del mettere voti in decimi ha un obiettivo preciso di sistema. Non voglio discuterne la validità in questa sede perché voglio porre l’attenzione sul processo di valutazione in itinere durante il percorso formativo, diciamo nella quotidianità del far lezione. E’ ciò di cui si parla meno.
Che si tratti di valutazione formativa o sommativa o altro non troviamo dei vincoli normativi su come rappresentare gli esiti di questa “valutazione” che potremmo chiamare meglio misurazione o osservazione e sui criteri da adottare per gestirla in modo operativo da parte dei docenti nella quotidianità.
Vi è pertanto nel processo di valutazione una parte discrezionale (quella nascosta) e una parte normata (quella che si vede nei documenti formali).
Dare un voto in decimi nei compiti in classe, nei compiti a casa , nelle interrogazioni o in quant’altro e fare o non fare la media di questi voti o quale criterio adottare per confrontarli e trarne una sintesi per la valutazione trimestrale o finale non è scritto da nessuna parte. prima di essere giusto sbagliato.
Le modalità e i criteri di questa fase della valutazione sono una responsabilità dei collegi e dei docenti che essi si devono assumere professionalmente senza nascondersi dietro l’obbligatorietà normativa di dare un voto che in realtà non c’è.
Non è scritto da nessuna parte della normativa in che modo utilizzare questa attività di monitoraggio per determinare il voto periodico trimestrale o quadrimestrale in decimi sulla pagella e con quale criterio utilizzare poi tali i voti trimestrali per esprimere il voto finale sempre sulla pagella.
E’ una leggenda metropolitana il fatto che nelle interrogazioni o nei compiti in classe “bisogna” dare un voto in decimi. Chi lo fa, lo fa per una sua scelta anche inconsapevole, un’abitudine consolidata. Non è giusto o sbagliato, ma non è un obbligo.
Questa libertà nel gestire questo aspetto della valutazione non è casuale, perché lo scopo della valutazione in itinere, diciamo quotidiana, operativa è diverso dallo scopo del voto in pagella come giustamente osserva Cristiano Corsini . La valutazione mentre si impara serve allo studente per capire dove sta andando e al docente per capire dove sta portando lo studente, insomma se la direzione è quella giusta.
L’art. 1 c. 4 del DPR 122/99 precisa che “Le verifiche intermedie e le valutazioni periodiche e finali sul rendimento scolastico devono essere coerenti con gli obiettivi di apprendimento previsti dal piano dell’offerta formativa, definito dalle istituzioni scolastiche ai sensi degli articoli 3 e 8 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275” e il comma 5 che “ Il collegio dei docenti definisce modalità e criteri per assicurare omogeneità, equità e trasparenza della valutazione, nel rispetto del principio della libertà di insegnamento. Detti criteri e modalità fanno parte integrante del piano dell’offerta formativa.”
Dirò di più: l’art. 1 c. 2 del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 62, confermando la normativa precedente, dice espressamente che “la valutazione è coerente con l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche, con la personalizzazione dei percorsi e con le Indicazioni Nazionali per il curricolo e le Linee guida di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87, n. 88 e n. 89; è effettuata dai docenti nell’esercizio della propria autonomia professionale, IN CONFORMITÀ CON I CRITERI E LE MODALITÀ DEFINITI DAL COLLEGIO DEI DOCENTI E INSERITI NEL PIANO TRIENNALE DELL’OFFERTA FORMATIVA.”
Il Regolamento dell’autonomia all’art.4 c.4 precisa che ” [Nell’esercizio della autonomia didattica, le istituzioni scolastiche individuano……..] le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale […].
Se le modalità di valutazione in itinere sono normate già che cosa dovrebbero decidere i collegi?
Luigi Berlinguer a chi gli chiedeva cosa si potesse fare e non fare con l’autonomia rispondeva che tutto era permesso tranne ciò che era espressamente vietato.
L’autonomia avrebbe dovuto incoraggiare il pensiero laterale dei docenti e dei dirigenti scolastici e non essere intesa alla vecchia maniera come un mansionario a cui attenersi, ma al contrario essere intesa come una serie di suggerimenti per fare e sperimentare, insomma come una risorsa creativa per cercare nel caso della valutazione il modo migliore per monitorare l’apprendimento. Con la valutazione siamo in una situazione in cui i docenti “sono più realisti” del Ministro. Hanno molto spesso applicato automaticamente una norma che riguarda il risultato finale all’attività di monitoraggio in “cantiere”.
Purtroppo la questione della “valutazione” nell’immaginario collettivo sembra proprio non avere nulla a che fare con l’autonomia e, anzi, sembra creare una sorta di polarizzazione negativa non solo nell’opinione pubblica, ma tra gli stessi docenti perché blocca l’attenzione sulla questione del voto in decimi e sulla “media” senza permettere di vedere tutti gli spazi di autonomia che esistono nel processo di valutazione durante l’insegnamento oltre ai voti in decimi e le “medie”.
La valutazione in itinere quotidiana, è un elemento centrale del patto formativo tra i docenti di un consiglio di classe e i loro studenti in primo luogo e le famiglie.
Il come raccogliere un feedback su ciò che stanno imparando gli studenti in aula ( osservazioni, misurazioni, altro) e come comunicarlo di volta in volta (differenziale semantico- numero-percentuale- giudizio- emoticon – ecc) è una decisione professionale così come individuare il criterio con il quale tradurre questi feedback in voto in decimi per le esigenze “legali” richieste dalla norma.
Nella parte discrezionale la valutazione è tutt’uno con la relazione educativa non a caso il DPR 249/98 (Lo statuto delle studentesse…) dice che “ Lo studente ha inoltre diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che lo conduca a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento.” Il come si valuta influenza la relazione educativa in modo determinante sul piano psicologico e pedagogico. Io andrei a cercare lì le cause di moti abbandoni e della dispersione.
Per concludere credo che per difendere l’autonomia e per rivendicare la propria professionalità i docenti, i dirigenti e il collegio dovrebbero utilizzare appieno gli spazi di autonomia che la stessa normativa lascia sulla valutazione proprio per praticare quella autonomia di ricerca, sviluppo e sperimentazione che altrimenti a cosa servirebbe?
Vi sono diverse esperienze in tal senso nelle scuole tra cui quella dell’Istituto Rinascita di Milano sviluppata alcuni anni fa.




Esame di Stato primo ciclo: come prepararsi serenamente al colloquio

di Annalisa Filipponi[1]

L’esame di stato conclusivo del primo ciclo dell’istruzione torna nella sua veste conosciuta (tre prove scritte e un colloquio orale) prima della pandemia. La Nota ministeriale informativa n° 4155 del 7 febbraio 2023 del Ministero dell’Istruzione del Merito in relazione al colloquio conclusivo recita: “Il colloquio (DM. 741/2017, articolo 10), condotto collegialmente dalla sottocommissione, valuta il livello di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze descritte nel profilo finale dello studente previsto dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, con particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio. Il colloquio accerta anche il livello di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento trasversale di educazione civica.

La prima domanda da porsi è quella relativa all’efficacia del colloquio d’esame della Secondaria di I grado, condotto dagli insegnanti di classe a pochi giorni dalla fine della scuola e come ultimo momento di un ciclo di studi, con una modalità che molto spesso si risolve in una carrellata di contenuti raccolti in una “tesina” o con risposte del discente a domande specifiche dell’insegnante quasi esclusivamente correlate alle singole discipline. Una attenta lettura della nota ministeriale nella parte centrale del suo articolato sul colloquio (“particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio”) apre la possibilità a valutare se vi possono essere altre modalità, oltre a quelle conosciute, per condurre un esame che soddisfi appieno la norma e al tempo stesso costituisca un elemento di novità e un’occasione formativa per gli studenti nell’ultima parte e nel primo esame del loro percorso scolastico nel Primo ciclo d’istruzione.

Per questo l’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli-Venezia Giulia- DeAFVG.APS- ha avviato in due importanti Istituti comprensivi del Friuli-Venezia Giulia delle azioni formative per preparare gli studenti e le studentesse a nuove modalità e nuovi moduli didattici che li conducano con rinnovata motivazione al colloquio d’esame. Una delle due esperienze innovative ha carattere sperimentale e introduce il Debate come modalità facoltativa di svolgimento del colloquio d’esame; l’altra invece si sviluppa in alcuni moduli formativi propedeutici al colloquio, liberamente scelti da allievi e famiglie, e utilizza la metodologia del Dialogo euristico peer to peer in Comunità di ricerca oltre a porre le basi del Public Speaking.

Entrambe le sperimentazioni sono tese verso uno sviluppo problematizzante della dialettica argomentativa per costruire, insieme agli studenti e ai loro insegnanti, una modalità che sposti la comunicazione in sede d’esame dalla sola esposizione ad una argomentazione ragionata. Dunque, la finalità che accomuna le due diverse esperienze è quella di poter osservare e valutare le competenze acquisite da ciascun discente nel processo cognitivo maturato nel corso del triennio della Secondaria di I grado.

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L’attività sperimentale condotta in un Istituto vuole verificare gli effetti della trasformazione del colloquio d’esame attraverso l’utilizzo del
Debate, levando quella prova sia dalla sua forma tradizionale (esposizione di un argomento e poi eventuali domande sulle varie materie di studio), sia da forme sperimentali ma trasmissive (redazione ed illustrazione di tesine, power point, ricerche, ecc.). Si tratta di cercare di spostare il focus del colloquio dalla trasmissione di contenuti all’utilizzo, in quella sede, di abilità analitiche, critiche, argomentative e di vere competenze comunicative anche nell’ambito di diversi contenuti, da presentare e rielaborare per sostenere un colloquio d’esame sereno, divertente ma profondo.
Il Debate possiede tutte le caratteristiche per toccare gli elementi sopra citati, nell’ambito di un apprendimento critico in cui l’argomentazione si costruisce per un’azione comunicativa efficace e approfondita. La sperimentazione trasforma il colloquio d’esame in una forma di innovazione didattica di Debate formativo, che non ha alcun valore agonistico, ma permette allo studente di usare la struttura argomentativa come strumento di comunicazione trasversale di contenuti didattici. Le conoscenze disciplinari saranno utilizzate per rendere solida la ricerca documentale, che costituisce la basa strutturale della prova, dato che l’esame si svolgerà a coppie di studenti e in forma dialettica, all’interno di argomentazioni PRO e CONTRO su una Mozione data. La Mozione, comunicata agli studenti una quindicina di giorni prima dell’esame, sarà formulata dai docenti esaminatori e verterà su argomenti afferenti ai curricoli disciplinari e/o di educazione civica analizzati in classe durante l’anno.

Si tratta, dunque, di un modo innovativo di condurre l’esame di stato, in cui lo studente non deve solo assemblare contenuti e argomenti, ma scegliere quali contenuti e quali argomenti supportano la sua posizione (pro o contro) in rapporto alla Mozione. Si tratta della metodologia del Debate, adattata però ad una funzione non competitiva, ma solamente formativa. Ciascun allievo cercherà di convincere la commissione del livello di competenze acquisite lungo il triennio non attraverso la sola trasmissione di contenuti, ma utilizzando i contenuti come elemento cardine della loro rielaborazione cognitiva, che comunicherà tramite argomentazioni a sostegno o a confutazione di una tesi data.

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La seconda esperienza formativa coinvolge gran parte degli studenti di due Scuole secondarie di un Istituto comprensivo e si fonda su un processo formativo che tocca alcuni elementi del Debate e delle pratiche argomentative più collaudate come la Comunità di ricerca e il Public Speaking. Infatti, i moduli su cui si è sviluppato il percorso preparatorio hanno cercato di produrre un processo di apprendimento significativo, al fine di sviluppare un reale apprendimento cognitivo, con l’analisi e, quindi, lo sviluppo di diversi stili comunicativi dentro contesti plurali, con una base argomentativa preparata per cercare di coinvolgere chi ascolta. Il corso preparatorio è stato strutturato su tre cardini didattici:

 

  1. La Comunità di ricerca per un dialogo euristico tra pari (saper ascoltare, rielaborare un pensiero proprio su un testo dato, imparare a comunicarlo in modo corretto ed efficace).
  2. Saper comunicare in modo efficace: il Public Speaking.
  3. Saper tenere il focus in un colloquio rielaborando alcuni collegamenti interdisciplinari raccordandoli tra loro con i connettivi appropriati.

Gli esiti di queste nuove modalità di approccio al colloquio d’esame conclusivo del Primo ciclo dell’istruzione si potranno analizzare solo al termine dell’anno scolastico, ma fin d’ora si può indicare la metodologia formativa proposta, come esperienza vissuta con vero entusiasmo dai/dalle giovani studenti/studentesse che l’hanno scelta.
Le docenti formatrici esperte esterne sono state affiancate, in entrambe le azioni formative, da un docente tutor facente parte della commissione d’esame. Il tirocinio formativo ha visto alunni ed alunne sperimentare il passaggio dalla trasmissione di contenuti (propria delle interrogazioni, anche delle più problematizzanti) allo sviluppo argomentativo di una tesi, incentrata su un’area tematica di interesse. In questo modo alunni ed alunne si confronteranno con un compagno o una compagna che sta sostenendo le tesi opposte in una delle due scuole; mentre trasformeranno l’esposizione di contenuti in una tesi argomentativa nell’altra scuola. Non si tratta di un esercizio di retorica, ma dello sviluppo della competenza che permette di verificare un argomento da diversi punti di vista. In questo modo si forniscono agli studenti competenze che rendono attivo l’ascolto, che permettono anche nella fase adolescenziale di affrontare questioni complesse, che consentono di esporre le proprie ragioni e ascoltare quelle degli altri interlocutori, ma solo dopo aver analizzato attentamente la Mozione o l’argomento scelto non sull’onda di un’interlocuzione basata sull’improvvisazione emotiva, ma attraverso un approfondimento centrato sul lavoro preparatorio.

L’attività così progettata sposta le potenzialità argomentative da un indistinto luogo libero (in cui ognuno può dire quello che vuole) ad un esame di stato in cui la qualità della propria argomentazione viene valutata nella sua profondità, pertinenza, coerenza logica, anche nello scambio dialogico, dalla commissione d’esame. Si cerca di passare, in questo modo, dall’esposizione di una “tesina” o dall’illustrazione di un power point, ad una prova di dialettica argomentativa dentro una vera prova di realtà qual è l’esame di stato.

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Il colloquio d’esame si trasforma, dunque, in una vera prova esperta, dentro il campo reale dell’argomentazione, cogliendo in pieno il senso della nota ministeriale citata.
Il lavoro è ambizioso, ma collega formazione, innovazione e ricerca didattica al fine di sperimentare le potenzialità del Debate e del Dialogo euristico tra pari in Comunità di ricerca in una logica che sposta l’attenzione dello studente dalla comunicazione trasmissiva (propria della scuola) o istintiva (propria dei social) a quella del discorso connesso ad un’organizzazione preventiva del sapere argomentato da comunicare.

Collocare tutto questo in un esame di stato vuol dire cercare di costruire percorsi di senso dentro una preparazione scolastica che, comunque, attesta la fine di un importantissimo ciclo dell’istruzione.

  1. Docente e formatrice. Presidentessa dell’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli Venezia Giulia e della Sezione Friuli Venezia Giulia della Società Nazionale Debate Italia.