Col senno di poi, ovvero Santa Franca (Falcucci)

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Cinzia Mion

A bocce ferme, dopo il tormentone dell’emendamento del governo che prevede alla scuola primaria, dall’anno scolastico prossimo, il cambiamento dei giudizi descrittivi e il ripristino di quelli sintetici (da insufficiente a ottimo) di fatto annullando le Linee Guida del 2020, mi ritrovo a fare alcune considerazioni.
Con la prima desidero ricordare come l’unica riforma che abbia rispettato un primo periodo di applicazione facoltativa sperimentale, con successiva raccolta dei dati e delle osservazioni critiche per poterla aggiustare in itinere, sia stata la famosa L.148/90, meglio nota come la “riforma dei moduli”, firmata dalla Ministra Falcucci! ( con il senno di poi molto rimpianta, com’ è fra l’altro in un certo senso avvenuto con la sua circolare famosa n° 227 del 1975 che ha anticipato i contenuti della L.517 ben due anni prima!)

Io allora ero Direttrice Didattica a Conegliano, 2° circolo e rammento il fermento innovativo e il desiderio di mettersi in gioco di insegnanti che hanno contagiato gli altri di fronte alla sfida di superare la figura del maestro unico!
Ricordo pure che dopo 2 anni sono passati gli ispettori tecnici per intervistare i docenti e raccogliere punti di forza e punti debolezza della riforma che soltanto l’anno successivo è stata resa obbligatoria con i debiti aggiustamenti.
Come mai questa prassi non è più stata ripresa e soprattutto non è stata applicata rispetto al dispositivo di cui stiamo parlando? Forse, con il senno di poi, si sarebbero potute snellire nel tempo certe modalità troppo burocratizzate e vincolanti che hanno affaticato inutilmente gli insegnanti strada facendo, in qualche caso irritandoli. Ho trovato a volte anche da parte nostra, di teorici della scuola e dell’insegnamento, un po’ supponente considerare certi segnali di insofferenza senza dare loro credito. E’ come se, galleggiando sopra ai problemi, in preda all’enfasi scaturita dall’abolizione sacrosanta dei voti numerici, qualche volta pontificassimo evitando di dare dei colpi di sonda dentro alla realtà in sofferenza del corpo docente. Mi metto tra questi con grande rammarico …

Come mai al Ministero non solo non si mette più in atto ma pare che non si conosca nemmeno il termine “sperimentale”, con quel che avrebbe dovuto comportare?
In questo caso poi Le linee guida sono uscite a dicembre e l’applicazione obbligatoria per tutti i docenti della primaria è stata a partire dal primo quadrimestre!!!

La seconda considerazione, direttamente conseguenza della prima è: ma come si fa ad avviare una riforma della valutazione dopo che dal 1977 ad oggi non riesco nemmeno a contare quanti siano stati gli interventi legislativi su questo argomento, senza ottenere mai un radicale cambiamento nella mente dei docenti perché non si tiene conto che nel loro “cervello” sono imbullonati i voti numerici difficili da estirpare, se non con una formazione “trasformativa” e non semplicemente addestrativa. Il riferimento non contiene un cenno offensivo nei confronti dei docenti ma soltanto un richiamo ai “neuroni specchio” che nel corso degli anni hanno  contraddistinto l’esperienza valutativa subita durante tutta la loro esperienza scolastica e universitaria. E’ successo a tutti noi, nessuno escluso. E non solo per la valutazione ma anche, purtroppo, per la didattica trasmissiva!

La terza considerazione riguarda la “valutazione formativa”, l’unica che potrebbe  estirpare questa consuetudine del voto soggiacente ad ogni tipologia di valutazione illusoriamente innovativa.
La domanda essenziale allora che dovremmo farci espressamente è: perché , a partire dalla formazione iniziale dei docenti, tranne qualche volta in quella per la scuola primaria per ragioni comprensibili ma che qui non è il caso di affrontare, non si provvede ad attivare in loro la competenza all’autointerrogazione  e all’autovalutazione? Aspetti questi fondamentali per arrivare ad applicare la valutazione formativa consistente nell’autoaggiustamento del docente della propria strategia metodologico-didattica, in presenza di difficoltà di comprensione e apprendimento dell’allievo. Ovviamente, in un gioco di specchi, ci viene da rispondere che nemmeno l’Università è in grado ( o si rifiuta di farlo?) in questo momento storico di “autovalutare” il proprio lavoro formativo in funzione della  professionalità docente. Da quando è stata chiusa la SSIS chi si cura oggi di offrire ai futuri insegnanti, oltre alle competenze disciplinariste, i fondamentali della psicopedagogia che permetteranno di cogliere la tipologia e la significatività del loro insegnamento in rapporto al tipo di apprendimento sollecitato? Chi si cura di far corrispondere all’apprendimento desiderato le strategie didattiche adeguate? Presso la formazione iniziale dei docenti della secondaria dove sono le attività di tirocinio, i laboratori e le esercitazioni pratiche, all’interno del percorso formativo, che dovrebbero permettere ai docenti universitari di comprendere se le conoscenze apprese dalle “dispense teoriche“, su cui hanno valutato già gli studenti, si sono effettivamente incarnate in competenze? Solo chi  sa applicare su di sé l’autovalutazione potrà insegnare a farlo fare agli altri perché padroneggia le competenze autoriflessive e metacognitive necessarie e le può quindi rendere esplicite attraverso un “apprendistato cognitivo” realizzato allo scopo (metodologia neovigotskiana).

E’ per questo motivo che io sono convinta che prima di sollecitare l’autovalutazione dell’allievo, con dei giustissimi feedback formativi, l’insegnante deve imparare ad autovalutare se stesso ma deve incontrare una Università che glielo insegna.

Conclusioni

E’ dal 1977 che la normativa sollecita la “valutazione formativa” in tutte le salse senza però avere l’opportunità di  riconoscerne l’applicazione nella scuola reale.
Quale migliore occasione allora di ripartire da questa (su cui perciò non esiste purtroppo nessun rischio di implementazione da “neurone-specchio”perché difficilmente ha visto la luce!) per poi individuare il miglior modo più efficace, per l’apprendimento dell’allievo, dell’inevitabile  successiva valutazione sommativa. Quest’ultima è ovvio e naturale che rifiuterà i voti numerici docimologicamente inaccettabili (la formazione universitaria adeguata porterà a queste conclusioni) e suggerirà invece delle modalità agili, comprensibili a tutti ma soprattutto utili all’allievo per migliorarsi. Le modalità terranno in considerazione i progressi avvenuti, quindi il punto di partenza: “criterio” questo che differenzia qualsiasi osservazione “misurativa” dalla vera e propria attività “valutativa” che deve contenere sempre, come esplicita il termine, il risultato di una riflessione ad hoc. Mai quindi  essere un atto solo “riflettente”. Il tutto si accompagnerà con un costante “processo di incoraggiamento”, facendo leva sulle motivazioni intrinseche per incentivare il soggetto a migliorarsi, senza mortificazioni inutili e dannose. A tale proposito ricordiamo la forza trainante “dell’autoefficacia” che avremo cura di far provare a tutti gli alunni attraverso didattiche dapprima individualizzate, per il raggiungimento delle competenze di base, e poi personalizzate.   Ricordiamoci sempre che solo a ridosso delle scadenze delle valutazioni formali (intermedia e finale) saremo costretti a lasciar perdere, nostro malgrado, le sollecitazioni nella “zona di sviluppo potenziale”, per sostenere (scaffolding) l’allievo al livello successivo di competenza, visto che è in procinto di arrivarci.
Per riprendere tale prassi appena possibile. E’ questo il fascino gratificante per tutti, allievi e docenti, della “valutazione formativa”, questa  sconosciuta! Anche se citatissima nei testi legislativi ma trascurata, fraintesa e qualche volta pure presa in giro nella prassi!

E’ questo il cuore pulsante dell’insegnamento in una scuola che aspiri e desideri definirsi “inclusiva”.




Valutazione nella primaria, si cambia: l’idea arriva dal salumiere di Salvini e dalla fiera della polenta taragna

di Mario Maviglia

Com’è noto la luce ha una velocità approssimativa di 299.792 chilometri al secondo. È un dato accettato dalla comunità scientifica, e deriva da una serie di dati, misurazioni, controlli condotti con una certa cura. Ma non è un dato immutatile. Nuovi dati, misurazioni e controlli potrebbero portare a stabilire un nuovo valore, accettato dalla comunità scientifica.

Questo ragionamento, in fondo banale, non ha molto senso se applicato alla politica scolastica. Con un emendamento presentato dal Governo alla Commissione Cultura e Istruzione del Senato del 7 febbraio u.s. (riguardante un DDL sul voto di condotta) si propone il ritorno ai giudizi sintetici, da ottimo a insufficiente nella valutazione degli apprendimenti nella scuola primaria. Spariranno quindi gli attuali livelli di avanzato, intermedio, base e in via di prima acquisizione, introdotti dal decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2020, n. 41, e regolamentati dall’OM 172 del 4 dicembre 2020. Neanche il tempo di abituarsi al nuovo sistema e si cambia nuovamente. Più veloce della luce! Appunto.

Naturalmente il tutto avverrà senza che vi sia alla base una qualche ricerca empirica che evidenzi i motivi a giustificazione di questa decisione; ma in fondo questa ossessione di falsificare le conoscenze esistenti attraverso un approccio scientifico è un retaggio ottocentesco, di stampo positivistico. Vecchiume.
Oggi appaiono molto più pregnanti le sensazioni spannometriche del Ministro dell’Istruzione e del Merito o i commenti raccolti dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che, in effetti, ha sentito dal salumiere sotto casa che la figlia (insegnante) dello stesso salumiere trova complesso e defaticante il sistema di valutazione introdotto con l’OM 172/2020 e che insomma sarebbe ora di cambiare.
Sempre il Ministro delle Infrastrutture (ma il dato non è confermato), durante la sagra della polenta taragna, svoltasi in Val Brembana, avrebbe raccolto lo sfogo di alcune mamme che si lamentavano della difficoltà di capire la valutazione ottenuta dai loro figlioli con il sistema vigente.

Questi elementi appaiono più che sufficienti per mettere mano all’attuale sistema di valutazione, anche perché, sempre più spesso, la politica vuole essere vicina alle esigenze dei cittadini, assumendo decisioni “di pancia”, quelle più autentiche, genuine, senza la zavorra di studi, ricerche, approfondimenti che allontanano sine die la presa di decisioni e rendono la scuola ostaggio  dei tecnici, degli esperti, degli studiosi, e, cosa ancora più grave, la legano pericolosamente al buon senso.

Qualcuno ha fatto notare che dal 1977 ad oggi il sistema di valutazione scolastica è cambiato ben 10 volte in Italia[1], e questo dimostra il grande dinamismo dei nostri governanti su questo specifico aspetto. In effetti, ad ogni cambio di maggioranza o di Ministro scatta questa forma di compulsione che porta il responsabile politico a cambiare strada, anche senza una meta precisa, a cambiare a prescindere, si potrebbe dire. Ciò che conta è cambiare qualcosa, per soddisfare l’impulso irrefrenabile volto al cambiamento.
C’è una visione poetica prim’ancora che politica in tutto ciò, ed è plausibile che il Ministro si ispiri al poeta Antonio Machado in questa ricerca del movimento (del cambiamento): caminante, no hay camino, / se hace camino al andar. Quanta profondità in questo verso! Quanta profondità nella decisione del Ministro! Che sposa in pieno questo anelito al cambiamento per il cambiamento, del cammino per il cammino. “L’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa.”[2]
Si rimane abbagliati dalla profondità del sentire poetico-politico che sta alla base di questo modo di operare, che supera le anguste categorie spazio-temporali e i meschini legami con la realtà empirica, la ricerca, la comparazione dei dati e dei risultati, per librarsi nell’infinita vaghezza del pensiero.

Per la verità c’è un aspetto che non convince in tutto questo: se l’anelito quasi futurista al cambiamento, al movimento, al cammino è così irrefrenabile, perché aspettare i cambi di maggioranza politica o di Ministro per agirlo? Perché non metterlo in pratica anche quando cambia qualche sottosegretario o direttore generale?
Ma addirittura, perché non anche quando cambia l’usciere di viale Trastevere 76/A? Sì, è vero, questa proposta è oltremodo democratica e potrebbe essere tacciata di demagogia perché l’usciere non ha le competenze tecniche per prendere decisioni in tema di valutazione. Quelle competenze così debordanti e diffuse nei piani alti del Palazzo dell’Istruzione da essere quasi impalpabili ed evanescenti.

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/giudizi-sintetici-scuola-primaria-e-pagella-meta-anno-le-superiori-AFIbJkdC
[2] https://www.doppiozero.com/antonio-machado-viandante-non-ce-cammino

 




Valutazione formativa e voto numerico possono convivere

di Roberto Trinchero

Ringrazio gli amici che mi hanno segnalato alcune posizioni critiche sulla valutazione descrittiva in itinere (da alcuni chiamata “valutazione senza voti”). Vediamole in dettaglio, con relativa replica:

P1: “La valutazione descrittiva e formativa da una parte e i voti numerici dall’altra sono un’alternativa inconciliabile”.
R1: Valutazione descrittiva e voti numerici non sono alternative inconciliabili, semplicemente svolgono funzioni diverse: la valutazione descrittiva è utile in itinere per aiutare l’allievo a capire i punti di forza e i punti di debolezza della sua preparazione e i modi per migliorare. Essa rappresenta uno strumento irrinunciabile per una valutazione che possa dirsi realmente “formativa”.
I voti (ma anche i livelli, nel caso delle certificazioni delle competenze) sono utili per far un bilancio finale di quanto acquisito, quindi sono strumenti adeguati per una valutazione “sommativa”. Ciò che è poco sensato è utilizzare uno strumento adeguato per la valutazione sommativa (i voti numerici) pensando che abbia una funzione “formativa”.

P2: “Abolizione dei voti e abolizione del valore legale del titolo di studio sono due questioni legate tra loro”.
R2: Non si vede proprio come possano esserlo. Nessuno propone di abolire il voto numerico come forma di valutazione sommativa, semplicemente se ne sottolinea l’inadeguatezza in un’ottica di valutazione formativa.

P3: “I voti in itinere dicono chiaramente se la direzione in cui sta lavorando va bene oppure no”
R3: Questa informazione la dà anche la valutazione descrittiva, in maniera molto più efficace.

P4: “Quando i docenti oggi danno un voto lo accompagnano sempre con una spiegazione”
R4: La valutazione descrittiva non fa altro che rendere maggiormente sistematica, e soprattutto resa per iscritto, questa spiegazione. E’ per questo che non dovrebbe essere difficile per i docenti passare alla valutazione descrittiva in itinere, dato che non fa altro che formalizzare una prassi ampiamente consolidata.

P5: “E’ difficile passare da una serie di descrizioni a un voto numerico a fine percorso, senza averne mai dati prima”
R5: No, se è chiara la corrispondenza tra obiettivi di apprendimento raggiunti dallo studente e voto finale assegnato. Ciò che non è sensato è assegnare un voto finale come media delle singole prove: le singole prove insistono su obiettivi differenti, quindi fare la media dei voti implicherebbe il sommare grandezze non omogenee tra di loro (detto volgarmente: “sommare le carote con le pere”).

P6: “Abolire i voti numerici in itinere e assegnare poi un voto numerico finale aprirebbe contenziosi”
R6: Qualsiasi voto numerico che non sia “trasparente”, ossia associabile a un insieme preciso di obiettivi di apprendimento raggiunti dallo studente, apre contenziosi, perché non rispetta in maniera palese quanto descritto dal DPR 249/1998, Statuto delle Studentesse e degli Studenti della Scuola Secondaria (art. 2, comma 4). La valutazione descrittiva e la corrispondenza “voto finale – obiettivi di apprendimento raggiunti” renderebbero espliciti i criteri di valutazione (che ovviamente vanno resi noti allo studente fin dall’inizio dell’anno scolastico) e quindi renderebbe molto meno plausibile l’apertura di contenziosi.

P7: “I sostenitori della valutazione formativa vogliono l’abolizione dei voti”
R7: Nessuno chiede l’abolizione dei voti. Semplicemente si chiede di non attribuire ai voti una funzione che non hanno: quella formativa. Se il voto numerico viene utilizzato con presunta funzione formativa (es. “Do 4 all’allievo perché si impegni di più”) si fa un doppio errore: non si aiuta l’allievo a migliorare il proprio modo di apprendere e si corre il rischio di demotivarlo.

P8: “Non si capisce chi dovrebbe definire il livello di rigore dei ‘riscontri descrittivi in itinere’”
R8: Il rigore dei riscontri descrittivi in itinere è definito dalla loro corrispondenza con gli obiettivi di apprendimento definiti, che devono esplicitare con chiarezza le prestazioni cognitive richieste dallo studente e i contenuti su cui lo studente è chiamato a compierle.

P9: “I fautori del passaggio a una valutazione descrittiva in itinere dicono che ‘I voti bloccano l’apprendimento’”
R9: Nessuno dei fautori del passaggio a una valutazione descrittiva in itinere fa affermazioni così radicali. Si sottolinea solamente il fatto che non siano lo strumento giusto per promuoverlo e, dove non sia chiaro allo studente cosa debba fare per migliorare (non basta dire “Deve studiare di più”), lo può portare a demotivazione verso lo studio (il “blocco” va inteso in questo senso, come “blocco emotivo”).

P10: “Gli insegnanti già oggi si prendono sempre l’impegno e la responsabilità di dare indicazioni chiare agli studenti sull’andamento del lavoro e sull’acquisizione di conoscenze”
R10: E’ un’ottima cosa. Non si vede allora perché dovrebbe disturbare il mettere per iscritto queste indicazioni e collegarle in modo esplicito agli obiettivi di apprendimento.

P11: “L’abolizione dei voti in tutti gli ordini di scuola e la loro sostituzione con una certificazione di competenze standardizzata sembra perfettamente funzionale al superamento della scuola della conoscenza che istruisce ed educa attraverso degli importanti contenuti culturali, e alla burocratizzazione della stessa relazione educativa attraverso tabelle di valutazione standardizzate”
R11: E’ esattamente il contrario: il passaggio a una valutazione descrittiva in itinere centrata su obiettivi di apprendimento in cui siano chiari i contenuti da apprendere e processi di pensiero da applicare su di essi intende rafforzare sia la conoscenza dei contenuti sia l’esercizio di processi di pensiero che portino a comprensioni approfondite, capacità di applicazione e trasferibilità dei saperi in vari contesti.

P12: “La feticizzazione del voto che si osserva potrebbe essere la conseguenza di proiezioni esterne alla vita di una classe”
R12: Qualunque sia la causa della “feticizzazione” del voto, il rimedio è riportare il voto a ciò che è: né più né meno che una sintesi numerica che esprime gli esiti di apprendimento raggiunti in un periodo di studio e formazione. La valutazione descrittiva non fa altro che sottolineare che quello che conta non è la sintesi numerica ma gli esiti di apprendimento, e per farlo li descrive con precisione basandosi sugli obiettivi di apprendimento. Il problema è quando lo studente (e la famiglia) punta al raggiungimento del voto senza chiedersi quali sono gli esiti di apprendimento effettivamente raggiunti, ossia cosa sa fare realmente, al di là del numero che gli viene assegnato.

P13: “La capacità di gestire la valutazione in una prospettiva davvero formativa non è affatto garantita da sistemi alternativi al voto”
R13: Ovviamente no. Servono sistemi ben progettati e con evidenze che li supportino, non improvvisati. Ciò che si può affermare senza timore di smentita è che il voto numerico in sé non ha una funzione formativa, laddove manchi una corrispondenza precisa tra voto numerico e obiettivi di apprendimento raggiunti.

P14: “L’assegnazione di un voto può rappresentare un momento di conoscenza, di verità, di disillusione o di soddisfazione narcisistica che passa necessariamente attraverso l’incontro di sguardi e parole tra due persone: in questo attimo relazionale è possibile rafforzare la soddisfazione narcisisticamente sana per un risultato positivo, oppure rendere più digeribile la disillusione facendone strumento per il miglioramento e per l’accrescimento dell’autostima”
R14: Non mi è chiaro su quale base scientifica vengono fatte queste affermazioni. Qualcuno può portare evidenze al riguardo?

P15: “Il voto ben spiegato permette allo studente di capire con maggiore chiarezza dove egli si trovi in un determinato momento”
R15: La differenza la fa proprio quel “ben spiegato”: va sistematizzato e reso esplicito, trasparente e controllabile.

Ovviamente altre segnalazioni sono ben accette…




Niente voti, niente valutazione? Non è così

di Roberto Trinchero

Mettiamo in chiaro alcune cose:
1 – Non esprimere la valutazione con un voto numerico non significa “Non valutare”
2 – Il voto numerico non è uno stimolo a fare meglio: quando un allievo ha preso il suo “6” può tranquillamente “sedersi sugli allori”
3 – Neanche il “3” è uno stimolo a fare meglio: l’allievo potrebbe semplicemente non sapere cosa fare per poter fare meglio
4 – Dare un “3” a un allievo che avrebbe le potenzialità ma non si impegna, sperando che questo lo convinca a impegnarsi è una chimera: se ha già deciso di non farlo non lo farà, e che il suo andamento scolastico sia pessimo lo ha già capito da solo (ha le potenzialità…)
5 – Non dare il voto sulle singole prove significa dare una valutazione descrittiva, quindi più completa, dettagliata e orientata al miglioramento, quindi non si valuta meno di prima, si valuta PIÙ di prima
6 – Dare un giudizio descrittivo sulla base di criteri precisi e noti fin da subito agli studenti significa avere poi tutti gli elementi per dare un significato al voto finale, nei casi in cui la normativa ne prevede la presenza
7 – Non si vede proprio come si possa dare un voto senza avere criteri precisi di corrispondenza tra voto e obiettivi di apprendimento raggiunti. Ma se è così, perché serve il voto? Non basta una valutazione descrittiva basata su quei criteri?




Un voto non si nega a nessuno

di Stefanio Stefanel

Ha fatto molto scalpore in questi giorni la questione del Liceo Morgani di Roma, dove il Collegio docenti con una votazione pressoché paritaria (37 a 36), ha eliminato la sezione “senza voti” operativa da anni.
Personalmente ritengo un grave errore aver portato una simile questione in collegio docenti, visto che stava già nel PTOF che si chiude il 31 agosto 2025 e, inoltre, non andava ad intaccare la valutazione finale che deve per legge essere numerica.
Rimane il messaggio molto esplicito che questa scelta ha trasmesso, cui credo abbia molto nuociuto l’esposizione mediatica data alla sperimentazione in una sola sezione, che ha trasformato, per l’opinione pubblica, tutto il Liceo Morgani di Roma in una scuola senza voti, creando, dunque, una presa di posizione avversa dei docenti che non condividevano la scelta fatta da quella sezione.

La querelle sul Liceo Morgani fa, però, il paio con le varie prese di posizione di esponenti politici della destra, che da tempo vogliono il ritorno dei voti numerici anche nelle scuole primarie, aboliti dall’Ordinanza Ministeriale 172 del 2020, andata a regime nell’ambito di una grande azione formativa del Ministero conclusasi da poco.

Ci sono poi vari personaggi pubblici apertamente conservatori come Paola Mastrocola o apparentemente progressisti come Viola Ardone che lodano il “2” e la sua potenza salvifica e benefica.
Diciamo che le truppe dei donmilaniani sono ben agguerrite, ma in palese fase di ritirata più o meno strategica.
Reginaldo Palermo in un simpatico intervento (Ci vuole una regola chiara: si usa il voto quando governa il centro-destra e il giudizio con il centro-sinistra, 2 novembre 2023, su “Tecnica della scuola”) ha scritto che, quando governa il centro sinistra nelle scuole primarie si valuta con i giudizi, quando governa il centro destra con voti.

Chi propugna una scuola senza voti (ad esempio Valentina Grion, Cristiano Corsini, Vincenzo Caico) vorrebbe una scuola in cui la trasparenza del giudizio prevalga sull’opacità del voto, anche perché il voto tende a misurare un prodotto (compito in classe, interrogazione, test), mentre il giudizio descrittivo deve addentrarsi nel problema dell’apprendimento.
Faccio notare un piccolo paradosso: molti studenti con voti negativi vengono ammessi alla classe successiva nel secondo ciclo attraverso il così detto “voto di consiglio” (la materia è insufficiente, ma il consiglio decidendo la promozione, autorizza perciò la trasformazione del voto in positivo, magari con un asterisco che indichi l’”aiuto”).
È logico tutto questo? Direi proprio di no: io penso sarebbe più semplice e serio promuovere lo studente, sostituendo quel voto falso (“6 per voto di consiglio”), con una descrizione precisa delle lacune rimaste e da colmare, che mostri palesemente come l’alunno sia stato promosso nell’ambito di una valutazione generale che nulla ha a che vedere con una singola materia.

Questa descrizione c’è, ma è svogliata, e soprattutto non la legge nessuno, perché, messo in tasca il 6, uno guarda solo avanti e non indietro. Tra l’altro questo aprirebbe anche la questione, che è connessa al concetto di didattica orientativa, sull’opportunità di mantenere la struttura di apprendimento tuttologica anche per studenti che si sono già orientati in maniera definitiva (sia verso il mondo del lavoro, sia verso il mondo universitario, sia verso il nuovo e grezzo mondo degli ITS).

Personalmente ritengo che gli argomenti per uscire dalla logica dei voti e trasferirsi in quella di una valutazione complessiva delle materie generaliste, di quelle di indirizzo, dell’educazione civica e del comportamento, dei PCTO, delle progettualità, degli Erasmus, dei corsi per l’ampliamento dell’offerta formativa, dell’orientamento, dovrebbe avere una chiara organizzazione descrittiva ed arrivare ad una trasformazione in crediti al solo fine dell’esame di stato conclusivo.
Il voto di diploma dovrebbe essere integrato da una descrizione completa dello studente, non da una statica e non letta certificazione delle competenze. La valutazione senza voti è destinata a modificare la scuola italiana, che così non può più andare avanti, ma non nei prossimi anni: questo, però, avverrà solo quando sarà chiaro che il sistema della valutazione numerica produce dispersione e non la combatte, condiziona gli studenti verso il voto e non verso l’apprendimento, non aggiunge conoscenza sugli studenti e il loro percorso, ma solo appiccica numeri nel registro elettronico. A quel punto il “2” terapeutico e l’esame di stato nozionistico potranno anche essere sostituiti da prove di resistenza e maturità, sullo stile di quello che fanno i marines nell’addestramento. Prove che forgiano, ma poi l’apprendimento, anche per i marines, è altro. Faccio per dire, ovviamente, perché al giorno d’oggi bisogna stare attenti: si è presi sul serio anche quando si esagera per farsi capire meglio.

Una domanda, alla fine, me la devo porre: ma se è così chiaro che il voto e le modalità con cui viene assegnato producono più danni che altro e poiché le motivazioni di chi propone una scuola senza voti sono più che convincenti, perché si rafforza l’idea che il voto è oggettivo, migliore, utile, chiaro? Se l’attuale governo ripristinerà i voti nella scuola primaria (magari lasciando intatti gli obiettivi: sarebbe un vero capolavoro di astrattismo cubistico) io credo che i genitori degli scolari delle primarie saranno quasi tutti contenti, i commentatori che hanno spazio nei giornali e nelle televisioni plauderanno, molte maestre e qualche maestro (sono molti meno) tireranno un sospiro di sollievo. C’è dunque qualcosa che sfugge a chi ritiene che la pedagogia sia una cosa seria, che l’apprendimento non coincida con l’insegnamento, che la valutazione non sia misurazione. Anche perché l’opinione pubblica ha potere sulle professioni quando le professioni sono deboli, lo si è visto sui vaccini anti-Covid, ma lo si vede anche in altri settori: chi discuterebbe su come si costruisce un grattacielo mettendo sullo stesso piano il gradimento popolare e la progettazione dell’opera? Nella scuola sta avvenendo questo: i progettisti e costruttori di grattacieli (l’apprendimento di bambini e ragazzi) sono messi sullo stesso piano di coloro che in quei grattacieli vorrebbero essere al sicuro da crolli e pericoli senza però sapere nulla di ingegneria (genitori, opinione pubblica, commentatori, politici).
E allora cosa succede realmente? Succede che è il mondo della scuola a volere i voti, ad agognare le verifiche, a godere dei compiti in classe, ad appassionarsi alle interrogazioni dove a domanda si risponde come vuole chi ha fatto la domanda.

Tutto questo avviene – in questo caso ne sono certo, quindi non scrivo: a mio parere – perché la gran parte dei docenti senza voto non sa proprio come fare. Non come fare a valutare, perché ogni docente sa valutare i suoi studenti con una sufficiente profondità, ma proprio come fare: come fare tutto. Senza voto un numero enorme di docenti non saprebbe come e cosa insegnare, come vivere in classe, come verificare, come valutare in maniera trasparente, come correggere, come correggersi, come formarsi, come aggiornarsi. Il voto, soprattutto negativo, certifica che l’insegnante è in grado di vedere il fallo, e certifica anche il suo potere, attraverso voti negativi disciplinari, di poter decidere il futuro dello studente (promosso o bocciato). I docenti ritengono che la loro professione alla fine debba avere un confine e questo confine è proprio il voto, pena l’ingovernabilità del sistema. Il voto è complicato e per questo piace ai docenti, perché è un rapporto personale che non descrive nulla, riferito a standard personali ed esoterici, dentro criteri d’istituto per lo più inutili perché permettono davanti alla medesima prova di assegnare sia “4” che “7” (come Corsini ha dimostrato nel disinteresse generale della scuola).

Su questa questione si è poi innestata la propaganda sul merito non descritto come giusto riconoscimento di chi è bravo (cui il sistema non da nulla di diverso da chi bravo non è), ma come contraltare al “demerito”, per cui “il sei te lo devi meritare” diventa una frase emblematica di una scuola dove si deve studiare per avere i voti non per apprendere e dove anche se apprendi questo non vale nulla finché al tuo apprendimento non viene appiccicato un voto. Tra l’altro per molti docenti insegnare la propria materia è una missione e, come ogni missionario (Pizarro incluso), ritengono che, se non si riesce ad insegnare con le buone le cattive vanno benissimo (da lì i “2” salvifici, che aprirebbero la conversione allo studio di tutti quelli che li prendono).

Dunque, che fare in questo caos? Direi lavorare molto e tacere ancora di più: lavorare nelle scuole con coscienza e saggezza, cercando di fare emergere su giornali, televisioni, social niente o quasi, come avviene per gli ingegneri che non pubblicano sui social i progetti dei grattacieli che progettano e che poi ditte specializzate costruiscono nel silenzio mediatico più assoluto.




Psicopatologia del voto

di Giovanni Fioravanti

C’era il professore di fisica che l’aveva interrogato sulla puleggia, ma lo studente aveva fatto scena muta e quindi era stato rimandato al posto con due. Eppure conosceva tutto sulle carrucole, ma non sapeva che puleggia e carrucola fossero la stessa cosa.
Da questo aneddoto molti anni fa, erano gli anni novanta del secolo scorso, prendeva l’avvio uno dei primi libri, pubblicati nel nostro paese, sulla valutazione scolastica del docimologo Gaetano Domenici. Docimologia è la scienza degli esami, termine introdotto dallo psicologo francese Henry Piéron, quando iniziò le sue prime ricerche sugli esami di licenza elementare nel lontano 1922.
Si  poneva così la questione della valutazione scolastica e della sua affidabilità sulla base della quale docenti e responsabili del governo della scuola avrebbero dovuto strutturare le loro decisioni.

È che la valutazione come consapevolezza dei processi d’apprendimento e dei loro risultati ha sempre faticato a trovare cittadinanza nello spirito delle nostre scuole e del nostro insegnamento, timorosi d’essere contaminati dal germe dell’aziendalismo, tanto che ancora troppi sono i docenti, e non solo, che guardano con sospetto, quando non con ostilità, ai dati forniti di anno in anno dai test Ocse Pisa e da quelli dell’ Invalsi.

In compenso resistono i voti, con i loro ingredienti di soggettività ed emotività, di giudizi morali, di effetti pigmalione che nulla c’entrano  con la misurazione degli apprendimenti e dei processi scolastici. I voti per cui, se sei anche un campione in fisica, ti abbasso il voto perché la tua condotta scolastica lascia a desiderare.
Ora il voto è imputato di produrre ansia e stress ed ogni discorso sulla validità e finalità delle valutazioni scolastiche passa in secondo piano.
Dalla scuola del merito all’ansia da prestazione degli studenti, al burnout degli insegnanti. La nostra scuola sempre più si avvia ad essere una maionese impazzita. Da un lato un ministro che ripristina lo spirito di competizione, dall’altro studenti e docenti che non reggono, che denunciano tutta la loro fragilità.

Studenti stressati dall’essere valutati,  insegnanti, sempre più immiseriti nel loro ruolo,  che, perdendo lo strumento del voto, temono di vedere ancora più svilita la loro funzione, dall’altra parte i genitori restii a rinunciare al voto che resta comunque l’indicatore prioritario per esercitare il controllo sull’andamento scolastico dei figli.

Psicopatologie, dunque, stati d’animo, stress dei protagonisti come se il teatro e il testo della commedia da mettere in scena ogni giorno poco contassero.
Dopo la pandemia da Covid il voto è divenuto l’imputato numero uno delle psicopatologie di tanti studenti, tale da indurre taluni istituti a relegarli esclusivamente al termine dell’anno scolastico.
Una sorta di tregua sul campo di battaglia che resta la scuola, una cura psicoterapica per consentire all’adolescenza di riprendersi dai traumi scolastici.

Curioso, perché nel frattempo l’antico ministero della pubblica istruzione ha perso l’aggettivo “pubblica” per recuperare il sostantivo “merito”.
Questo vezzo tutto italiano di affrontare i problemi del sistema scolastico a spizzichi e bocconi, tipo il liceo quadriennale sperimentale, ora la sospensione di voti e quadrimestri, lasciando inalterato tutto il resto come se ogni parte non fosse funzionale al tutto, come se si fosse potuto fare a meno di voti e quadrimestri o trimestri anche prima. E allora perché non si è provveduto per tempo? Perché alcuni sì ed altri no? Perché nascondere i voti per un intero anno scolastico per poi farli ricomparire al termine di esso? Farli ricomparire all’esame di stato?

Altroché psicopatologia del voto, qui siamo di fronte alla schizofrenia scolastica.
Preoccupa la cultura nelle cui mani è oggi posta la nostra scuola, dal ministro ai dirigenti, agli insegnanti.
Ma siete proprio onestamente convinti che siano i voti la vera causa del disagio di tanti studenti? Ci credete davvero? Le alte percentuali di abbandono e di dispersione scolastica non riescono a suggerirvi altro? È davvero preoccupante, perché significa che la nostra scuola non è nelle mani giuste.
Dovrebbe essere chiaro da anni che il problema dei voti è solo un aspetto, un sintomo di una crisi più vasta del nostro sistema formativo, con il suo seguito di modello docente prevalente, di  cattedre, di interrogazioni, pagelle ed esami ed altro ancora. Tutto coerente con la filosofia persistente dell’ organizzazione gentiliana del nostro sistema scolastico, che ci si ostina a voler mantenere, quando da alcuni addirittura non si pretenderebbe di ripristinarne l’antico splendore, a dispetto  dell’usura dei tempo.

Una struttura scolastica che ancora fa degli esami, anche questi di emanazione gentiliana, non solo il momento finale del processo, ma un fattore di condizionamento di tutto il processo, una motivazione che si sovrappone ad ogni altra motivazione, una gara che esalta il clima competitivo della vita scolastica e l’individualismo conseguente.
Un modello di insegnante che, essendo l’emanazione di questa struttura scolastica, finisce col subordinare alla funzione giudicatrice ogni altra funzione, collocando in essa la sostanziale motivazione dell’insegnamento, quando non la sua gratificazione.
Allora il disagio degli studenti è il sintomo di una contaminazione, di una infezione prodotta da una scuola disagiata e a sua volta disagiante, è l’espressione più eclatante della crisi della sua funzione, quella che dovrebbe essere oggi, rispetto ai bisogni formativi qui e ora, e non quella di ieri, di epoche che non ci sono più.




Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.