Niente voti, niente valutazione? Non è così

di Roberto Trinchero

Mettiamo in chiaro alcune cose:
1 – Non esprimere la valutazione con un voto numerico non significa “Non valutare”
2 – Il voto numerico non è uno stimolo a fare meglio: quando un allievo ha preso il suo “6” può tranquillamente “sedersi sugli allori”
3 – Neanche il “3” è uno stimolo a fare meglio: l’allievo potrebbe semplicemente non sapere cosa fare per poter fare meglio
4 – Dare un “3” a un allievo che avrebbe le potenzialità ma non si impegna, sperando che questo lo convinca a impegnarsi è una chimera: se ha già deciso di non farlo non lo farà, e che il suo andamento scolastico sia pessimo lo ha già capito da solo (ha le potenzialità…)
5 – Non dare il voto sulle singole prove significa dare una valutazione descrittiva, quindi più completa, dettagliata e orientata al miglioramento, quindi non si valuta meno di prima, si valuta PIÙ di prima
6 – Dare un giudizio descrittivo sulla base di criteri precisi e noti fin da subito agli studenti significa avere poi tutti gli elementi per dare un significato al voto finale, nei casi in cui la normativa ne prevede la presenza
7 – Non si vede proprio come si possa dare un voto senza avere criteri precisi di corrispondenza tra voto e obiettivi di apprendimento raggiunti. Ma se è così, perché serve il voto? Non basta una valutazione descrittiva basata su quei criteri?




Un voto non si nega a nessuno

di Stefanio Stefanel

Ha fatto molto scalpore in questi giorni la questione del Liceo Morgani di Roma, dove il Collegio docenti con una votazione pressoché paritaria (37 a 36), ha eliminato la sezione “senza voti” operativa da anni.
Personalmente ritengo un grave errore aver portato una simile questione in collegio docenti, visto che stava già nel PTOF che si chiude il 31 agosto 2025 e, inoltre, non andava ad intaccare la valutazione finale che deve per legge essere numerica.
Rimane il messaggio molto esplicito che questa scelta ha trasmesso, cui credo abbia molto nuociuto l’esposizione mediatica data alla sperimentazione in una sola sezione, che ha trasformato, per l’opinione pubblica, tutto il Liceo Morgani di Roma in una scuola senza voti, creando, dunque, una presa di posizione avversa dei docenti che non condividevano la scelta fatta da quella sezione.

La querelle sul Liceo Morgani fa, però, il paio con le varie prese di posizione di esponenti politici della destra, che da tempo vogliono il ritorno dei voti numerici anche nelle scuole primarie, aboliti dall’Ordinanza Ministeriale 172 del 2020, andata a regime nell’ambito di una grande azione formativa del Ministero conclusasi da poco.

Ci sono poi vari personaggi pubblici apertamente conservatori come Paola Mastrocola o apparentemente progressisti come Viola Ardone che lodano il “2” e la sua potenza salvifica e benefica.
Diciamo che le truppe dei donmilaniani sono ben agguerrite, ma in palese fase di ritirata più o meno strategica.
Reginaldo Palermo in un simpatico intervento (Ci vuole una regola chiara: si usa il voto quando governa il centro-destra e il giudizio con il centro-sinistra, 2 novembre 2023, su “Tecnica della scuola”) ha scritto che, quando governa il centro sinistra nelle scuole primarie si valuta con i giudizi, quando governa il centro destra con voti.

Chi propugna una scuola senza voti (ad esempio Valentina Grion, Cristiano Corsini, Vincenzo Caico) vorrebbe una scuola in cui la trasparenza del giudizio prevalga sull’opacità del voto, anche perché il voto tende a misurare un prodotto (compito in classe, interrogazione, test), mentre il giudizio descrittivo deve addentrarsi nel problema dell’apprendimento.
Faccio notare un piccolo paradosso: molti studenti con voti negativi vengono ammessi alla classe successiva nel secondo ciclo attraverso il così detto “voto di consiglio” (la materia è insufficiente, ma il consiglio decidendo la promozione, autorizza perciò la trasformazione del voto in positivo, magari con un asterisco che indichi l’”aiuto”).
È logico tutto questo? Direi proprio di no: io penso sarebbe più semplice e serio promuovere lo studente, sostituendo quel voto falso (“6 per voto di consiglio”), con una descrizione precisa delle lacune rimaste e da colmare, che mostri palesemente come l’alunno sia stato promosso nell’ambito di una valutazione generale che nulla ha a che vedere con una singola materia.

Questa descrizione c’è, ma è svogliata, e soprattutto non la legge nessuno, perché, messo in tasca il 6, uno guarda solo avanti e non indietro. Tra l’altro questo aprirebbe anche la questione, che è connessa al concetto di didattica orientativa, sull’opportunità di mantenere la struttura di apprendimento tuttologica anche per studenti che si sono già orientati in maniera definitiva (sia verso il mondo del lavoro, sia verso il mondo universitario, sia verso il nuovo e grezzo mondo degli ITS).

Personalmente ritengo che gli argomenti per uscire dalla logica dei voti e trasferirsi in quella di una valutazione complessiva delle materie generaliste, di quelle di indirizzo, dell’educazione civica e del comportamento, dei PCTO, delle progettualità, degli Erasmus, dei corsi per l’ampliamento dell’offerta formativa, dell’orientamento, dovrebbe avere una chiara organizzazione descrittiva ed arrivare ad una trasformazione in crediti al solo fine dell’esame di stato conclusivo.
Il voto di diploma dovrebbe essere integrato da una descrizione completa dello studente, non da una statica e non letta certificazione delle competenze. La valutazione senza voti è destinata a modificare la scuola italiana, che così non può più andare avanti, ma non nei prossimi anni: questo, però, avverrà solo quando sarà chiaro che il sistema della valutazione numerica produce dispersione e non la combatte, condiziona gli studenti verso il voto e non verso l’apprendimento, non aggiunge conoscenza sugli studenti e il loro percorso, ma solo appiccica numeri nel registro elettronico. A quel punto il “2” terapeutico e l’esame di stato nozionistico potranno anche essere sostituiti da prove di resistenza e maturità, sullo stile di quello che fanno i marines nell’addestramento. Prove che forgiano, ma poi l’apprendimento, anche per i marines, è altro. Faccio per dire, ovviamente, perché al giorno d’oggi bisogna stare attenti: si è presi sul serio anche quando si esagera per farsi capire meglio.

Una domanda, alla fine, me la devo porre: ma se è così chiaro che il voto e le modalità con cui viene assegnato producono più danni che altro e poiché le motivazioni di chi propone una scuola senza voti sono più che convincenti, perché si rafforza l’idea che il voto è oggettivo, migliore, utile, chiaro? Se l’attuale governo ripristinerà i voti nella scuola primaria (magari lasciando intatti gli obiettivi: sarebbe un vero capolavoro di astrattismo cubistico) io credo che i genitori degli scolari delle primarie saranno quasi tutti contenti, i commentatori che hanno spazio nei giornali e nelle televisioni plauderanno, molte maestre e qualche maestro (sono molti meno) tireranno un sospiro di sollievo. C’è dunque qualcosa che sfugge a chi ritiene che la pedagogia sia una cosa seria, che l’apprendimento non coincida con l’insegnamento, che la valutazione non sia misurazione. Anche perché l’opinione pubblica ha potere sulle professioni quando le professioni sono deboli, lo si è visto sui vaccini anti-Covid, ma lo si vede anche in altri settori: chi discuterebbe su come si costruisce un grattacielo mettendo sullo stesso piano il gradimento popolare e la progettazione dell’opera? Nella scuola sta avvenendo questo: i progettisti e costruttori di grattacieli (l’apprendimento di bambini e ragazzi) sono messi sullo stesso piano di coloro che in quei grattacieli vorrebbero essere al sicuro da crolli e pericoli senza però sapere nulla di ingegneria (genitori, opinione pubblica, commentatori, politici).
E allora cosa succede realmente? Succede che è il mondo della scuola a volere i voti, ad agognare le verifiche, a godere dei compiti in classe, ad appassionarsi alle interrogazioni dove a domanda si risponde come vuole chi ha fatto la domanda.

Tutto questo avviene – in questo caso ne sono certo, quindi non scrivo: a mio parere – perché la gran parte dei docenti senza voto non sa proprio come fare. Non come fare a valutare, perché ogni docente sa valutare i suoi studenti con una sufficiente profondità, ma proprio come fare: come fare tutto. Senza voto un numero enorme di docenti non saprebbe come e cosa insegnare, come vivere in classe, come verificare, come valutare in maniera trasparente, come correggere, come correggersi, come formarsi, come aggiornarsi. Il voto, soprattutto negativo, certifica che l’insegnante è in grado di vedere il fallo, e certifica anche il suo potere, attraverso voti negativi disciplinari, di poter decidere il futuro dello studente (promosso o bocciato). I docenti ritengono che la loro professione alla fine debba avere un confine e questo confine è proprio il voto, pena l’ingovernabilità del sistema. Il voto è complicato e per questo piace ai docenti, perché è un rapporto personale che non descrive nulla, riferito a standard personali ed esoterici, dentro criteri d’istituto per lo più inutili perché permettono davanti alla medesima prova di assegnare sia “4” che “7” (come Corsini ha dimostrato nel disinteresse generale della scuola).

Su questa questione si è poi innestata la propaganda sul merito non descritto come giusto riconoscimento di chi è bravo (cui il sistema non da nulla di diverso da chi bravo non è), ma come contraltare al “demerito”, per cui “il sei te lo devi meritare” diventa una frase emblematica di una scuola dove si deve studiare per avere i voti non per apprendere e dove anche se apprendi questo non vale nulla finché al tuo apprendimento non viene appiccicato un voto. Tra l’altro per molti docenti insegnare la propria materia è una missione e, come ogni missionario (Pizarro incluso), ritengono che, se non si riesce ad insegnare con le buone le cattive vanno benissimo (da lì i “2” salvifici, che aprirebbero la conversione allo studio di tutti quelli che li prendono).

Dunque, che fare in questo caos? Direi lavorare molto e tacere ancora di più: lavorare nelle scuole con coscienza e saggezza, cercando di fare emergere su giornali, televisioni, social niente o quasi, come avviene per gli ingegneri che non pubblicano sui social i progetti dei grattacieli che progettano e che poi ditte specializzate costruiscono nel silenzio mediatico più assoluto.




Psicopatologia del voto

di Giovanni Fioravanti

C’era il professore di fisica che l’aveva interrogato sulla puleggia, ma lo studente aveva fatto scena muta e quindi era stato rimandato al posto con due. Eppure conosceva tutto sulle carrucole, ma non sapeva che puleggia e carrucola fossero la stessa cosa.
Da questo aneddoto molti anni fa, erano gli anni novanta del secolo scorso, prendeva l’avvio uno dei primi libri, pubblicati nel nostro paese, sulla valutazione scolastica del docimologo Gaetano Domenici. Docimologia è la scienza degli esami, termine introdotto dallo psicologo francese Henry Piéron, quando iniziò le sue prime ricerche sugli esami di licenza elementare nel lontano 1922.
Si  poneva così la questione della valutazione scolastica e della sua affidabilità sulla base della quale docenti e responsabili del governo della scuola avrebbero dovuto strutturare le loro decisioni.

È che la valutazione come consapevolezza dei processi d’apprendimento e dei loro risultati ha sempre faticato a trovare cittadinanza nello spirito delle nostre scuole e del nostro insegnamento, timorosi d’essere contaminati dal germe dell’aziendalismo, tanto che ancora troppi sono i docenti, e non solo, che guardano con sospetto, quando non con ostilità, ai dati forniti di anno in anno dai test Ocse Pisa e da quelli dell’ Invalsi.

In compenso resistono i voti, con i loro ingredienti di soggettività ed emotività, di giudizi morali, di effetti pigmalione che nulla c’entrano  con la misurazione degli apprendimenti e dei processi scolastici. I voti per cui, se sei anche un campione in fisica, ti abbasso il voto perché la tua condotta scolastica lascia a desiderare.
Ora il voto è imputato di produrre ansia e stress ed ogni discorso sulla validità e finalità delle valutazioni scolastiche passa in secondo piano.
Dalla scuola del merito all’ansia da prestazione degli studenti, al burnout degli insegnanti. La nostra scuola sempre più si avvia ad essere una maionese impazzita. Da un lato un ministro che ripristina lo spirito di competizione, dall’altro studenti e docenti che non reggono, che denunciano tutta la loro fragilità.

Studenti stressati dall’essere valutati,  insegnanti, sempre più immiseriti nel loro ruolo,  che, perdendo lo strumento del voto, temono di vedere ancora più svilita la loro funzione, dall’altra parte i genitori restii a rinunciare al voto che resta comunque l’indicatore prioritario per esercitare il controllo sull’andamento scolastico dei figli.

Psicopatologie, dunque, stati d’animo, stress dei protagonisti come se il teatro e il testo della commedia da mettere in scena ogni giorno poco contassero.
Dopo la pandemia da Covid il voto è divenuto l’imputato numero uno delle psicopatologie di tanti studenti, tale da indurre taluni istituti a relegarli esclusivamente al termine dell’anno scolastico.
Una sorta di tregua sul campo di battaglia che resta la scuola, una cura psicoterapica per consentire all’adolescenza di riprendersi dai traumi scolastici.

Curioso, perché nel frattempo l’antico ministero della pubblica istruzione ha perso l’aggettivo “pubblica” per recuperare il sostantivo “merito”.
Questo vezzo tutto italiano di affrontare i problemi del sistema scolastico a spizzichi e bocconi, tipo il liceo quadriennale sperimentale, ora la sospensione di voti e quadrimestri, lasciando inalterato tutto il resto come se ogni parte non fosse funzionale al tutto, come se si fosse potuto fare a meno di voti e quadrimestri o trimestri anche prima. E allora perché non si è provveduto per tempo? Perché alcuni sì ed altri no? Perché nascondere i voti per un intero anno scolastico per poi farli ricomparire al termine di esso? Farli ricomparire all’esame di stato?

Altroché psicopatologia del voto, qui siamo di fronte alla schizofrenia scolastica.
Preoccupa la cultura nelle cui mani è oggi posta la nostra scuola, dal ministro ai dirigenti, agli insegnanti.
Ma siete proprio onestamente convinti che siano i voti la vera causa del disagio di tanti studenti? Ci credete davvero? Le alte percentuali di abbandono e di dispersione scolastica non riescono a suggerirvi altro? È davvero preoccupante, perché significa che la nostra scuola non è nelle mani giuste.
Dovrebbe essere chiaro da anni che il problema dei voti è solo un aspetto, un sintomo di una crisi più vasta del nostro sistema formativo, con il suo seguito di modello docente prevalente, di  cattedre, di interrogazioni, pagelle ed esami ed altro ancora. Tutto coerente con la filosofia persistente dell’ organizzazione gentiliana del nostro sistema scolastico, che ci si ostina a voler mantenere, quando da alcuni addirittura non si pretenderebbe di ripristinarne l’antico splendore, a dispetto  dell’usura dei tempo.

Una struttura scolastica che ancora fa degli esami, anche questi di emanazione gentiliana, non solo il momento finale del processo, ma un fattore di condizionamento di tutto il processo, una motivazione che si sovrappone ad ogni altra motivazione, una gara che esalta il clima competitivo della vita scolastica e l’individualismo conseguente.
Un modello di insegnante che, essendo l’emanazione di questa struttura scolastica, finisce col subordinare alla funzione giudicatrice ogni altra funzione, collocando in essa la sostanziale motivazione dell’insegnamento, quando non la sua gratificazione.
Allora il disagio degli studenti è il sintomo di una contaminazione, di una infezione prodotta da una scuola disagiata e a sua volta disagiante, è l’espressione più eclatante della crisi della sua funzione, quella che dovrebbe essere oggi, rispetto ai bisogni formativi qui e ora, e non quella di ieri, di epoche che non ci sono più.




Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Esami di Stato e prove Invalsi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

E’ difficile sperare che della scuola si possa parlare con giudizio e razionalità sulla base di una adeguata conoscenza della sua realtà, dei suoi meccanismi, della sua cultura, delle sue finalità e anche del suo personale. Ogni occasione è buona per parlarne come di un mondo modesto e bizzarro in balia di se stesso, sempre pronto a scandalizzare per quello che vi succede platee affollate di immancabili censori ora per l’incuria delle sue strutture, ora per la supposta imperizia dei docenti, ora per l’incorreggibilità degli studenti, ora per l’arretratezza dei curricoli, ora per l’avversione al mondo aziendale.
Non può sfuggire in questo genere di letteratura l’occasione offerta annualmente dalla differenza tra i dati emersi nell’ indagine INVALSI e quelli riscontrati negli esami di maturità appena conclusi. Nelle regioni del Sud, nelle quali gli studenti dell’ultimo anno nell’indagine INVALSI avevano denunciato carenze in più discipline, si sono avuti agli Esami di Stato risultati ampiamente diversi e migliori.

E allora ci si chiede quali dati siano davvero affidabili sulla preparazione degli studenti e ancora se un esame che fa tutti promossi dappertutto sia davvero un esame che può darci informazioni sul funzionamento dell’attività didattica delle scuole. Mettere in contrasto i dati INVALSI e quelli degli Esami è un gioco facile e si sa in anticipo come va a finire.

Va a finire con la demonizzazione del lavoro degli insegnanti, con la riprovazione della loro incerta etica professionale, con la perorazione di nuove e più incisive forme di valutazione della scuola e degli insegnanti. Per il bene della scuola, invece, vanno migliorati sia gli scopi e i metodi delle indagini INVALSI, sia soprattutto l’architettura degli Esami di Stato.
Il vizio di fondo degli Esami di Stato, che compromette qualsiasi buona intenzione e che va cancellato, è costituito dalla composizione delle commissioni. Fino a quando le commissioni saranno composte paritariamente tra membri interni e membri esterni; fino a quando i commissari devono essere scelti solo tra gli insegnanti della provincia in cui ha sede un istituto i risultati saranno sempre gli stessi. Tutti promossi e tutti con voti più o meno alti, soprattutto dove è difficile e complicato sottrarsi all’ambizione di potere documentare un ricco palmares della propria scuola e talvolta alle sollecitazioni interessate di autorevoli patrocinatori delle sorti degli alunni.




Ritorna la manfrina dei dati Invalsi

di Cinzia Mion

Premetto subito che non sono tra i detrattori delle prove Invalsi. Anzi. Ho sempre preso sul serio il grido di allarme inoltrato a suo tempo dal linguista Tullio De Mauro sul cosiddetto “analfabetismo funzionale” del 70 % degli italiani adulti, ripreso poi sistematicamente appunto dalle Prove Invalsi, rispetto ai ragazzi a scuola.
Il riferimento è al fatto che i ragazzi a scuola leggono (competenza strumentale) ma fanno fatica a capire il “senso” di ciò che leggono.
Le cause secondo me sono molteplici. Non intendo però affrontare qui l’annoso problema della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, carentissima soprattutto in “psicopedagogia o psicologia dell’apprendimento scolastico”, dopo la soppressione delle SSIS. Mancano inoltre da morire tutti i laboratori, i tirocini, all’interno dei quali sollecitare proprio la formazione professionale del docente ad uscire dalla propria auto-referenzialità. Stupisce che non sia l’Università stessa a richiedere, se fosse in grado per prima di “autovalutare se stessa”, una revisione adeguata dei propri piani di studio finalizzati a rivedere le carenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.

L’affondo che intendo portare avanti ora è nei confronti della sottovalutazione, anche da parte dei detrattori delle Prove Invalsi, di un atteggiamento che dovrebbe essere la spina dorsale della professionalità docente: la consuetudine all’”autovalutazione” che ogni insegnante dovrebbe mantenere sempre vigile. Un’autovalutazione che dovrebbe seguire sempre una semplice ma salutare autointerrogazione: cosa ho trascurato nella mia progettazione, ed attivazione poi della didattica, nei confronti dei processi cognitivi e metacognitivi dei “miei” ragazzi se non sono in grado di affrontare questa prova? Come mai questi sono in difficoltà rispetto alla “comprensione del senso”?

E se i docenti non trovano la risposta bisogna andare subito nel sito Invalsi e cercare nei “Quaderni di approfondimento” la risposta a questa domanda. Ovviamente poi però urge aggiustarsi cercando di adeguare la propria didattica, attraverso, per esempio, una salutare “formazione in servizio” (che non è un’idea blasfema!) in grado di affrontare tale problematica.

Se vogliamo essere più precisi diventa indispensabile rispolverare anche il concetto di “valutazione formativa”-  spesso citato a vanvera, giusto per far vedere che non è dimenticato, sorvolando però sul cuore stesso dello stesso – nel senso che la responsabilità del mancato successo formativo dei ragazzi, da ascriversi in primis alla didattica del docente, deve far scaturire in quest’ultimo uno stringente autofeedback  formativo. Da questa visione della valutazione scopriremo essenziale il sorgere di una “trasformazione adeguata e ineludibile,” pressante e disincantata, scevra da meccanismi di difesa. Una trasformazione salutare a 180 gradi.
Ci si fionda invece sull’attivazione del senso di responsabilità “dell’educando” invitato e sollecitato lui da più parti all’autovalutazione. Intendiamoci: sacrosanta ma… “vivaddio” verrà sempre dopo di quella del docente…O no?

Come fa un docente ad educare al “recupero dell’errore” se lui stesso non lo sa fare su di sé? Che  esempio può dare? Tutti noi sappiamo che si insegna in modo più pregnante con il nostro modo di essere che  penetra più profondamente  di qualsiasi altra sollecitazione verbalistica.

Torniamo a noi: i miei allievi non sono in grado di affrontare una delle prove Invalsi?
E’ la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo, che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, ci sono dei saggi fondamentali che possono essere utilizzati: i testi di Wiggins sulla “teoria” e sulla “pratica” per l’acquisizione della competenza della comprensione significativa e profonda .
A proposito di ciò sottolineo come all’interno della tassonomia indicata da Wiggins spicchi in modo molto forte il passaggio “all’autoconoscenza”, altro modo per sollecitare l’autovalutazione di cui sopra!
Nella fattispecie poi, lungo la linea più pragmatica, segnalo il meno recente saggio dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio .
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” (A.Collins,J.Brown,S.E.Newman) e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per insegnare a cogliere e capire il SENSO di ciò che si legge! (Palincsar-Brown: La comprensione del testo scritto, all’interno “dell’Insegnamento reciproco della lettura”)

Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se  qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al Dito.