Emergenza coronavirus. Un anno scolastico da valutare

votidi Cosimo Quero, dirigente tecnico

Un recente mio contributo “Per una teoria della valutazione”, sul Forum “Don Milani”, ha proposto una riflessione sulla valutazione “in itinere”, formativa, sottolineandone la funzione di verifica e guida nei percorsi di apprendimento e contemporaneamente di insegnamento.

Ora si tratta di considerare la fase sommativa, conclusiva della valutazione, di bilancio finale di un anno scolastico o di un intero ciclo.
Nel Paese e tra gli addetti ai lavori si dibattono alcuni problemi.
Va subito detto che la recente nota n. 388 del 17.3.2020 del Miur non aiuta in termini di orientamenti chiari sulla situazione dell’anno scolastico 2019-2020.
Non è proponibile nessun dubbio sulla “validità giuridica” dell’anno scolastico dato che l’interruzione del medesimo non è da addebitare a responsabilità degli utenti. La lunga “pausa didattica” in presenza, tuttavia pone problemi di completamento dei programmi e di modalità della valutazione sommativa finale.


Si argomenta sulla “didattica on-line” sulla scuola a distanza. E’ da considerare che buona parte dell’utenza (più o meno il 25% degli studenti) non è in condizione di usufruirne. La stessa didattica on-line spesso si esaurisce nell’assegnazione di “compiti” sul registro elettronico. Interrogazioni, verifiche e conseguenti voti (colloqui ed interazioni docenti\allievi) non diventano possibili per tutti. Non sempre sono chiare le nuove forme di valutazione che la didattica on-line pone: elaborati scritti, dialoghi orali, test e video; restituzione dei giudizi alle famiglie descrittivi sull’andamento del lavoro a distanza, voti, ecc. Tutto ciò può essere attribuito al lavoro personale di ciascuno studente o a contributi di altri protagonisti?

Oltre tutto, occorre distinguere tra valutazione finale delle classi intermedie e valutazione delle classi finali di ciclo.
Per le classi intermedie la valutazione è a carico responsabile dei consigli di classe e riguarda attività e programmi comunque svolti, in presenza o a distanza.
Eventuali interruzioni dei programmi ministeriali vanno compensate l’anno successivo.
Non si tratta di debiti ma di adattamenti strutturali delle discipline (problemi fondamentali, nodi concettuali, strutture essenziali delle discipline). I passaggi di classe possono trovare quantificazione di voto in relazione ad impegno e profitto nel corso delle attività in presenza.
Non è nemmeno opinabile il dubbio sullo scorrimento in alto delle annualità scolastiche. Per le classi terminali di maturità non guasterebbe un rapporto di continuità formativa con le Università. Tuttavia, è chiaro che si tratta di un bilancio finale di ciclo e di sistema, da affidare con serenità ai protagonisti della formazione, commissari interni: occorre giudicare l’impegno e i risultati ottenuti nell’arco dei cinque anni. Chiedere agli studenti di compilare tesi sulle materie studiate? Si può fare, ma con tutti i dubbi e attendibilità sugli autori del lavoro!
Si tratta di ricercare modalità proponibili di scritti e orali on-line. Intanto sino alla data degli esami, è possibile proporre agli studenti lo studio dei nodi principali (le strutture portanti) delle singole discipline. In questo caso, la didattica on-line deve essere proposta ad ogni singolo studente e deve essere possibile raggiungere tutti, anche con le tecnologie adeguate.
In ogni modo, l’interazione docente\allievo deve ripristinarsi, non deve essere interrotto il rapporto (empatico?) tra docenti e allievi. Non è in questione, in alcun modo, la validità giuridica dell’anno scolastico. Si propone comunque l’obbligo del recupero. La didattica on-line per le classi terminali deve poter completare i punti fondamentali dei programmi di studio nazionali.
Certo, si pone all’intero sistema scuola italiano il problema dello svantaggio e del ritardo degli alunni appartenenti alle classi sociali più povere.




Emoticon invece di voti: una rivoluzione?

votidi Enrico Bottero
https://www.enricobottero.com

In ogni attività umana la valutazione è una necessità. Senza una valutazione, implicita o esplicita, non si può progredire. Il problema è che la nostra società è stata colta da una vera e propria frenesia valutativa.

Si parla di valutazione nei sistemi educativi, nelle imprese, nelle agenzie governative e nelle amministrazioni, nelle organizzazioni internazionali. Il dovere di valutare si sta trasformando in un vero e proprio delirio valutativo. Nella scuola la febbre della valutazione impone l’onnipresenza di valutazioni e controlli, spesso con esiti di classificazione attraverso voti o “crediti formativi”.
Paulo Freire l’aveva chiamata pedagogia bancaria.
Nello stesso tempo nella scuola continuano pratiche antiche come il voto, i cui limiti sono stati già ampiamente dimostrati. Ci si adegua ad una modernità ma non si abbandonano le vecchie pratiche selettive. È la soluzione migliore per conquistare il consenso. Nell’epoca della sondocrazia cercare continuamente il consenso è diventata l’ossessione delle elites politiche.
Se è così si devono salutare positivamente tutti i tentativi delle scuole di sperimentare nuove modalità di valutazione.
È il caso dell’istituto comprensivo Rodari di Modena che, a quanto leggo, utilizzerebbe in alcune classi schede autovalutative. In queste schede i bambini esprimerebbero un’autovalutazione attraverso un emoticon.

 La notizia è rimbalzata sui media proprio per l’utilizzo degli emoticon, una scelta che avvicinerebbe la valutazione al mondo dei ragazzi di oggi. Dalle informazioni in mio possesso non sono in grado di esprimere una valutazione sull’esperienza.
Non so, infatti, in che misura e in che modo la sperimentazione coinvolga la valutazione formativa (in itinere) e/o la valutazione sommativa /certificativa (il documento di valutazione, quello che i media, evidentemente mal informati, continuano a chiamare “pagella”).
Se, come pare, coinvolgesse anche la valutazione certificativa sarebbe interessante sapere come è stato superato l’obbligo del voto numerico attualmente previsto dalla legge.
Non conosciamo molto neppure sul merito dell’esperienza. Sui media si parla infatti, di uno strumento, e non del processo che sta dietro di esso: come si definiscono le attese? Le attese sono individualizzate (almeno nei tempi brevi) o sono uguali per tutti? I bambini vengono coinvolti nella loro definizione? Come viene svolta l’osservazione? Gli insegnanti utilizzano indicatori e criteri di osservazione? Possiamo però dire che è positiva l’intenzione di percorrere vie alternative al voto coinvolgendo i bambini stessi nella valutazione.
La funzione principale della valutazione, infatti, è quella formativa ed autoregolativa.
Si tratta di un’attività che può essere svolta solo con la partecipazione diretta da parte degli allievi. Dagli articoli pubblicati sappiamo che nelle schede dell’Istituto di Modena le domande poste ai bambini sarebbero “mi piace” e “so fare”. Qui c’è un po’ di confusione: una cosa che piace non necessariamente si è in grado di farla. Essere in grado di farla, poi, non significa che si sia appreso (si può fare bene un’attività senza aver appreso nulla).
Si deve anche ricordare che l’autovalutazione espressa con queste modalità non è affatto una novità.
L’autovalutazione da parte dei ragazzi è da molto tempo uno dei cardini della pedagogia Freinet, tutta centrata sulla costruzione dell’autonomia individuale. In un testo del 1948 dedicato al tema Célestin Freinet racconta come avesse previsto nel quadro orario un tempo quotidiano dedicato al piano di lavoro individualizzato. In queste ore ogni allievo svolgeva alcune attività da lui scelte insieme all’insegnante a inizio settimana. A fine settimana si faceva il punto delle attività svolte attraverso un’autovalutazione e una valutazione dell’insegnante.
Le due valutazioni venivano poi messe a confronto al fine di promuovere l’autoregolazione degli apprendimenti.
Per ogni attività l’autovalutazione era espressa attraverso giudizi in scala ordinale: molto bene, bene, abbastanza bene, passabile, male, molto male. Si costruiva anche un grafico che univa i livelli raggiunti in ciascuna attività da parte di ogni alunno.
Nelle classi a pedagogia Freinet il piano di lavoro continua ad essere utilizzato come dispositivo fondamentale. Sono naturalmente state introdotte variazioni, una delle quali è appunto l’utilizzo di emoticon per esprimere la valutazione. Nelle classi Freinet la valutazione sommativa non avviene attraverso una scala ma con l’utilizzo di “unità di valore” non compensabili tra loro.
Mi riferisco ai brevetti e alle cinture. I ragazzi decidono se e quando passare un brevetto che corrisponde ad alcune competenze. È un sistema semplice e rigoroso (ci lavorano anche insegnanti italiani) che lascia spazio a diverse possibilità di organizzazione didattica. Mi chiedo perché nessuno ci abbia mai pensato a livello istituzionale.

Ben vengano, dunque, le iniziative di sperimentazione sulla valutazione, purché siano rigorose, documentate e realmente innovative. In questo senso, credo che l’informazione superficiale condotta dai media su questi argomenti non faccia loro bene. L’attenzione nei confronti di nuove pratiche valutative ci ricorda poi quanto sia urgente una formazione degli insegnanti sulla valutazione. Lo strabismo di un Istituzione che centra sempre più i suoi processi su valutazioni istituzionali ma non si impegna a formare gli insegnanti ad una corretta valutazione pedagogica potrebbe costarci caro.




Perchè sono contraria al registro elettronico (che peraltro non è obbligatorio)

voti
di Cinzia Mion

Voglio comunicare al docente Andrea Scano di Cagliari (su cui ho letto sulla Repubblica  il fatto che è stato “punito” per essersi ribellato al registro elettronico) e arrivare anche a tutti gli altri insegnanti interessati, che recentemente è uscita una sentenza della Cassazione Penale, sezione V, sentenza del 21/11/2019 n°47241 che afferma che IL REGISTRO ELETTRONICO NON E’ OBBLIGATORIO.

Personalmente sono molto soddisfatta per questo esito in quanto ho sempre considerato questo dispositivo “pericoloso” perchè a rischio fortissimo di indurre i docenti ad applicare la famigerata “media aritmetica” considerata, non soltanto da me, un “obbrobrio docimologico”.
Le ragioni le troverete espresse su Internet cercando la sentenza. Non si entra giustamente nel merito PSICOPEDAGOGICO, ma si valutano le condizioni di relizzabilità non esistenti. Spero caldamente che anche nel momento in cui il processo di dematerializzazione venga concluso non venga reso obbligatorio questo strumento, utile più a parare eventuali ricorsi dei genitori che ad aiutare in modo intelligente ed appropriato i docenti nel delicato compito professionale della VALUTAZIONE.

Mi sono sempre stupita del fatto che i Dirigenti Scolastici abbiano applicato a tappeto questa norma, apprendendo oggi ad arrivare perfino a punire, chi ragionevolmente cercava di opporsi e a non prendere i considerazione le ragioni di NON OPPORTUNITA’ APPENA ESPRESSE e MI SONO SEMPRE ALTRESì STUPITA DELLA SUDDITANZA DEI COLLEGI.

Ogni volta che mi sono triovata a fare formazione ho sempre detto che il registro elettronico non era obbligatorio, ben prima di leggere la Sentenza NON POTEVA ESSERLO! Ho sempre attribuito la fortuna di tale dispositivo alla paura di “sbagliare” che caratterizza i D.S. oggi .
Ma questa è la responsabilità del MIUR che perferisce non avere grane piuttosto di avere Dirigenti caratterizzati da una sana LEADERSHIP PER L’APPRENDIMENTO.




FIRMA ANCHE TU PER ELIMINARE IL VOTO NUMERICO

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L’associazione Gessetti Colorati aderisce alla campagna VOTI A PERDERE promossa dal Movimento di Cooperazione educativa e volta a chiedere l’abolizione dell’obbligo dell’uso del voto numerico.

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Nella pagina VOTI A PERDERE i commenti di alcuni dei nostri lettori




I dati preoccupanti delle rilevazioni sulla scuola: chi interessano?

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di Antonio Valentino

0. Un’Italia sempre in fondo
Poche settimane fa (intorno al 15 ottobre) sono stati pubblicati i dati INVALSI sulla dispersione scolastica. La media nazionale: 22%. Che significa che più di un giovane su cinque lascia la scuola prima di concluderne i cicli previsti con un bagaglio culturale assolutamente insufficiente per affrontare la complessità del mondo in cui dovrà inserirsi. Con conseguenze probabili in termini di disagi e marginalità sociale.

Quest’estate, al termine degli Esami di stato – più o meno a metà luglio – giornali, televisione e social network, per un paio di giorni, hanno dato un discreto rilievo ad una notizia che non raccontava niente di nuovo, ma che metteva il dito su una piaga antica e non proprio indolore. Si trattava della rilevazione dell’INVALSI sui risultati delle prove degli Esami , nella quale si evidenziava che il 34% dei nostri studenti non capisce quello che legge (’’analfabetismo funzionale’) e che la maggior parte di questo 34% si concentra al Sud.
Mettendo così sotto i riflettori, se ce ne fosse ancora bisogno, la persistenza di una questione meridionale anche per la scuola (evidenziata ancora dai dati INVALSI sulla dispersione, che in provincia di Trento si attesta sul 9.6%; mentre in Calabria, Sicilia e Sardegna oscilla tra il 34 e il 37%!).
I commentatori più attenti di tali risultati hanno ripreso dati di altre fonti e periodi, comunque recenti, che raccontavano cose analoghe. Tra questi, i numeri dell’ultima ricerca TREELLLE (marzo scorso) che, evidenziavano come nell’UE gli “analfabeti funzionali” non superano il 15% della popolazione scolastica. 15% contro il nostro 34!

E, sempre in tale occasione, abbiamo ‘ripassato’, grazie a giornalisti informati e attenti e ai commenti di esperti, i risultati dell’indagine OCSE – P.i.s.a. dell’anno scorso, a proposito di competenze linguistiche, e anche di quelle logico-matematiche dei nostri quindicenni. Anche qui il dato, ugualmente impressionante, anche se meno fresco, è che i nostri quindicenni, nella classifica dei Paesi OCSE, si collocano sotto la media dei coetanei di ben 80 Paesi. Praticamente tra gli ultimi o quasi.
Dopo il fuoco dei media per un paio di giorni, silenzio
Nelle analisi e nelle riflessioni di quei giorni emergeva, e si sottolineava spesso, che questi dati – e altri simili riguardanti l’insieme della popolazione nazionale – erano un segnale preoccupante per la tenuta democratica del nostro Paese. In quanto evidenziavano fragilità, se non proprio mancanza diffusa, nei nostri studenti, di competenze di base per pensare e riflettere con spirito critico.
E mettevano in risalto che incultura e sottoculture sono veleni per la democrazia di un paese, perché producono manipolazione e sudditanza e indeboliscono la sua capacità di esprimere una classe dirigente all’altezza dei problemi.[1]

  1. Tra disattenzione e sottovalutazione. Chi è senza peccato …

Come spiegare questa sottovalutazione della questione? A cosa è riconducibile?

1.1 Certamente ci sono la mancanza di visione e l’opacità del nostro ceto politico e di una classe dirigente incapaci di farsi carico della pesantezza dei dati che fotografano lo stato di salute civica della nostra scuola (e della nostra società) e della domanda che esprimono.
Qualcuno chiama in causa al riguardo anche la nostra arretratezza culturale rispetto agli altri paesi europei, dovuta a fattori storici (i ‘ritardi’ dell’unificazione), ma anche a storie e culture territoriali della nostra penisola, molto diverse tra loro e fortemente disomogenee: sia tra nord e sud, sia all’interno delle due macroaree.

1.2 Comunque è difficile capire le ragioni di tale sottovalutazione da parte di gran parte del mondo della scuola e dell’università. Ma anche di fette consistenti del Sindacato.
Non si vuole qui focalizzare l’attenzione sulle responsabilità di questi mondi che certamente non mancano; e interrogarci, ad esempio, su quanto dell’analfabetismo culturale va addebitato ad un insegnamento disattento e/o incompetente, e quanto anche ad una cultura professionale non sempre all’altezza dei compiti istituzionali. Che ha responsabili a diversi livelli.

  1. E la cultura professionale più diffusa?

2.1 Qui preme piuttosto partire – per cercare di capire i possibili terreni di intervento – dalla percezione, già avvertita e studiata, tra i primi, da Piero Romei[2], che a caratterizzare in negativo i comportamenti prevalenti degli insegnanti sia, tra l’altro, una cultura professionale che, nelle pratiche didattiche ed educative, si nutre soprattutto di autoreferenzialità e individualismo: della tendenza cioè a considerare il proprio lavoro, almeno nella secondaria, separato da quello degli altri colleghi che pure insistono sullo stesso gruppo classe e a cui si dovrebbero comunque sentirsi legati da uno stesso progetto educativo.
È questo tipo di cultura che porta – credo – 1. a guardare ancora con fastidio e supponenza al lavoro cooperativo e alla costruzione di scelte condivise; 2. a ‘saltare’ ogni responsabilità ‘professionale’ rispetto agli esiti formativi attesi e ai processi che si attivano; ma anche 3. a snobbare le varie forme di rendicontazione non formale e 4. a vivere con fastidio il rapporto col mondo esterno (persino coi genitori).

E che è favorito (il tipo di cultura) da politiche scolastiche strette tra logiche riassumibili nel classico: “ti do poco, in termini retributivi, ma ti chiedo anche poco” (oggi, tra l’altro, non più vero) e un’idea di scuola come valvola di sfogo della questione occupazionale del paese.

2.2 Ci sono anche altri aspetti della cultura professionale, anch’essi ancora prevalenti almeno nella secondaria, che certamente vanno chiamati in causa.
Andrebbe citato tra i primi il primato assoluto dei contenuti disciplinari che impedisce il loro ancoraggio ad un progetto formativo complessivo; e raramente sviluppa una cultura, “che permetta di capire la nostra condizione e di aiutarci a vivere … (e) a pensare in modo aperto e libero” [3].
Condizionando così ancora in misura diffusa il lavoro d’aula e contribuendo spesso a creare nei giovani la sensazione che la scuola che frequentano non serve. E non serve, anche perché non sa renderli protagonisti del loro processo di crescita. Che rischia così di svolgersi ‘fuori’, con tutti i rischi connessi.

2.3 C’è anche un terzo fattore con cui non si riesce a fare i conti se non in modo approssimativo: l’idea diffusamente ‘distratta’ di Formazione e Fare Formazione, che è un po’ il centro del lavoro a scuola. E che si dà per scontata. Ma che, a considerarla da vicino, rivela crepe e debolezze con cui la cultura prevalente di docenti e ds non riesce ancora a fare completamente i conti[4].

3. Il ruolo opaco dell’opinione pubblica

C’è da chiedersi infine perché l’opinione pubblica non si senta allertata rispetto alla pesantezza dei dati su cui stiamo riflettendo, che toccano tutti.
Ci sarebbe però da chiedersi prima cosa arriva sulla scuola ai genitori e al cittadino in genere. E cosa fa breccia e crea interesse. Certamente i dati delle rilevazioni come quelli prima riportati sono roba da “mordi e fuggi”. Si ‘consumano’ normalmente nel giro di un giorno o due. Migliore fortuna hanno le notizie che interessano nell’immediato l’opinione pubblica (l’avvio delle lezioni perennemente incasinato, una edilizia scolastica con molti e gravi problemi, la scelta delle scuole nel periodo delle iscrizioni; o anche fenomeni come il bullismo che lo scorso anno ha occupato spesso le prima pagine di giornali, telegiornali e media in genere.
Può essere però sufficiente dire che tale sottovalutazione è il frutto di una sensibilità diffusa che tende a non considerare la scuola una istituzione vitale per il paese e la cultura uno strumento fondamentale di emancipazione sociale? E non interrogarci anche: a. sugli aspetti che più hanno mortificato in negativo la vita della scuola con gli ultimi governi (le reggenze, l’accanimento burocratico e un neocentralismo senza prospettive condivise con chi è chiamato a darle gambe …) e b. sulle difficoltà delle scuole a farsi vivere non come un corpo a sé, ma come una realtà viva del territorio e con esso dialogante?

  1. Una prospettiva da considerare, con l’associazionismo come leva

I problemi che evidenziano i dati proposti sono indubbiamente enormi e richiedono – ovvio – un progetto politico all’altezza e di non breve durata; e un ceto politico che ci creda e abbia la cultura e la forza e il coraggio di dargli gambe.
L’idea però di un progetto che a. riprenda le questioni della cultura professionale e delle sue forme, b. ne evidenzi il loro rapporto con il tipo di scuola che sottendono e c. faccia emergere i modelli, da discutere approfondire e sperimentare, più in linea con obiettivi che rappresentino / siano risposta ai problemi che i dati proposti pongono, può ben diventare la strategia che fette del mondo della scuola si danno in questa fase
Un progetto con queste finalità potrebbe contare tra l’altro su esperienze di tante scuole che producono qualità ed eccellenza al pari delle migliori performance di molti paesi europei.
Ritengo – e in questo si è in tanti – che un ruolo importante su questi terreni, prioritari per dare credibilità al sistema, possa essere giocato soprattutto in questa fase dal tessuto associativo (le tante associazioni culturali e professionali, le molte reti di scopo e territoriali ….) che ha a riferimento il mondo della scuola e che è fortemente ramificato. E questo perché l’associazionismo diffuso, pur con le sue carenze e problematicità, ha saputo esprimere, ed esprime ancora, una grande riserva di esperienze e risorse e buone speranze di futuro. Se solo però se ne recuperasse con più convinzione la consapevolezza delle sue potenzialità e se ne riattivassero, con maggiore consapevolezza, energie per progetti motivanti e spendibili.
E tra le varie forme di associazionismo, ritengo debba essere il primo a battere un colpo, in questa fase, soprattutto quello professionale, che aggrega le diverse figure che gravitano attorno al pianeta scuola. Superando separatezze tradizionali e aprendosi alle collaborazioni possibili.
Tentativi in questo senso, tra l’altro, sono già in atto. Veneto e Toscana docent. E forse non sono i soli.
L’ottimismo …. della ragione (perché no!) dovrebbe suggerire all’articolato mondo dell’associazionismo di guardare con interesse – per una prospettiva come quella suggerita – anche a quelle parti del ceto politico e intellettuale e del mondo sindacale che possono essere risorse probabilmente utili per fare riguadagnare terreno a tale prospettiva.
In prima battuta, riprendere il discorso sull’associazionismo professionale e approfondirlo anche in termini operativi in questa prospettiva dovrebbe diventare un obiettivo mobilitante della fase. Anche perché, questo dell’associazionismo è un terreno di impegno che si inscrive, nella maggior parte dei casi, dentro un’idea di scuola che tende a privilegiare – come si è già detto prima, parlando di autoreferenzialità e individualismo – a. un ascolto attivo e proficuo tra i diversi attori della relazione educativa (nella quale il memento primo rimane sempre la centralità degli studenti), b. pratiche cooperative a più livelli.
O no?

[1] V. al riguardo il saggio di Tullio De Mauro, in La cultura degli Italiani (a cura di F. Erbani), Editori Laterza
[2] Soprattutto in Guarire dal mal di scuola, La Nuova Italia, 1999.
[3] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, p. 3, Cortina editore, 2000.
[4] Pier Luigi Quaglino, Fare formazione, Cortina editore, 2005




Eduscopio, scelte e bocciature

matitadi Stefano Stefanel

Anche quest’anno le valutazioni di Eduscopio (il portale sulle scuole superiori gestito dalla Fondazione Agnelli) premiano il Liceo Marinelli di Udine, scuola che io dirigo dal 2012, in quella che è una rilevazione cruciale per gli studi liceali: i risultati all’Università. Da quando vengono pubblicate le rilevazioni di Eduscopio il Liceo Marinelli si è sempre trovato nella “parte alta della classifica” beneficiando di titoli sui giornali e di un certo risalto mediatico che comunque (e giustamente) si spegne dopo un po’ di clamore.
Ritengo sia necessario a questo punto chiarire la mia posizione in merito alle rilevazioni di Eduscopio, che sarebbe la stessa anche se il Liceo che dirigo non fosse in cima alle rilevazioni, ma che assume forse un carattere più intenso vista la “posizione in classifica”. Le rilevazioni di Eduscopio hanno una grande incidenza mediatica soprattutto perché il Ministero non intende pubblicare niente di simile e anche i dati Invalsi (che riguardano comunque un altro tipo di contesto) non sono pubblici e – soprattutto – “non fanno classifica”.
Personalmente ritengo questa scelta fortemente sbagliata, perché l’opinione pubblica ha dimostrato di tenere conto di queste rilevazioni ritenendole istituzionali, anche se derivano da un soggetto privato.
Pur interessato ai risultati di Eduscopio non sono favorevole a questa classifica pubblica, che vede il Liceo Marinelli ai primi posti di in una gara che non c’è. La scuola come le altre scuole che si occupano di preparare gli studenti per l’Università (Licei, ma anche Istituti Tecnici e Professionali) hanno contesti di riferimento, numeri di studenti, storie e problematiche troppo diverse e troppo complesse per essere inserite in una semplicistica classifica.
Accade poi che molti studenti non rispondano per motivi personali alle attese maturate nel percorso superiore o che si perdano in percorsi personali o che rallentino gli studi universitari per problematiche che nascono in itinere nel loro vissuto privato. L’Università non è la vita, ma solo una parte importante della formazione personale. Dunque io e il Liceo Marinelli siamo felice dell’indice raggiunto, che conferma quanto emerso negli anni precedenti, ma notiamo come alla base della ricerca ci sia una sorta di “infantilismo universitario” che fa iniziare e finire il mondo con gli studi universitari, quasi che la vita precedente fosse una “breve attesa” e quella successiva un “lungo addio”.
Direi che un’analisi più matura e più complessa forse farebbe meglio alla scuola, ma la Fondazione Agnelli è un soggetto privato che meritoriamente mette a disposizione di tutti i dati così come li ha raccolti e valutati. Il problema è che improvvisamente questa posizione privata è diventata monopolistica.
Noto, invece, con grande piacere che da quest’anno la rilevazione Eduscopio evidenzia anche un ulteriore dato, molto interessante: quello relativo alla percentuale dei “diplomati regolari”, cioè di quegli studenti che non sono mai stati bocciati.
In questo caso il divario tra il Liceo Marinelli e le altre scuole di confronto è molto alto e questo è un dato molto oggettivo. Se l’indice di Eduscopio è di 80 non vedo grosse differenze né con 85, né con 70 o 75: dipende dagli anni, dalle contingenze, dalla storia di quell’annata. Diverso è se quell’80 (o 75 o 85) si collega ad un 80% o ad un 50%. Nel caso del Liceo Marinelli si collega ad un 80% e questo, invece, fa la differenza. Il tasso di “bocciature” nel Liceo che dirigo va dallo 0,84% all’1,50% (a seconda delle annate) negli ormai sette anni della mia direzione e questo si collega con i dati che riceviamo dalle Università e che ci confermano in una convinzione assoluta: non sono le bocciature che alzano il livello della scuola.
Anche in questo caso penso sia necessario essere moderati, ma non può sfuggire che la tesi che bocciando molto si alza il livello della scuola non pare sia un dato confermato da Eduscopio, che un certo successo universitario oggettivamente lo monitora. Un dato che, invece, non emerge da Eduscopio è il numero dei diplomati annuali: nel Liceo Marinelli sono da 300 a 350 l’anno corca, anche perché nel Liceo Marinelli c’è il numero chiuso per le iscrizioni e dunque oltre 350 diplomati non si può andare.
Inoltre il Liceo Marinelli è un Liceo scientifico puro, senza altri indirizzi istituzionali, ma solo con opzioni aggiuntive di carattere didattico. E un Liceo scientifico con 60 classi senza indirizzi aggiuntivi è piuttosto raro da trovare e quindi anche da confrontare. Nell’ambito dunque delle considerazioni sopra esposte e di una notevole cautela su dati eccellenti, ma comunque legati ad una rilevazione e classificazione troppo aggressiva, faccio notare come essere attenti agli studenti migliori cercando di limitare al minimo la dispersione scolastica è una strada che vale la pena percorrere.
Il Liceo Marinelli, pur applicando una didattica che tende a recuperare il maggior numero di studenti, punta soprattutto ad innalzare il livello degli studenti di alto e altissimo livello attraverso un’offerta formativa e culturale ampia e completa che permette a tutti gli studenti di realizzare le loro potenzialità.
L’investimento principale è per alzare il livello in alto, dando aiuto a chi ha problemi con la scuola, ma senza farne né un dramma, né un vessillo. Potrei dire che lo slogan è: cerchiamo di risolvere i problemi degli studenti alzando il livello dell’offerta formativa. E certamente il modello scolastico che negli anni abbiamo elaborato ci raffoza nella nostra idea.
In conclusione il Liceo Marinelli è soddisfatto dei risultati di Eduscopio, ma invita a considerarli in maniera moderata e contestualizzata.




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Segnaliamo un importante convegno in programma presso l’Università Bicocca di Milano il 28 ottobre prossimo

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