Ritorno al futuro del tempo pieno nella città educativa

di Ermanno Morello
(per gentile concessione dell’autore e della rivista Insegnare)

 Scrivo di tempo pieno sulla base dell’esperienza personale di insegnante di scuola media che, per sorte fortunata prima e scelta motivata poi, ha sempre lavorato in classi a tempo pieno e prolungato.

Nel cinquantenario della sua istituzione si sta avviando una riflessione articolata da parte di molti soggetti e associazioni: ripercorrerne la storia per individuare principi ispiratori e impianto didattico è fondamentale per riflettere, oggi, sul tempo e sulle modalità per l’ apprendimento, almeno nel primo ciclo di istruzione.

Il rapporto della scuola con la città è fondamentale, sotto il profilo strutturale e culturale (…)  nel tempo pieno si sono gettate le basi per la futura integrazione tra scuola e territorio, che ha portato ad un vero e proprio Progetto Educativo di Territorio. [1]


Data la complessità del fenomeno, in questo contributo proverò a entrare solo nell’aspetto del rapporto tra la scuola e la comunità educativa territoriale, vissuto direttamente a metà degli anni settanta del secolo scorso a Torino, quando lavoravo alla scuola media G.Baretti in Barriera di Milano, quartiere storico della periferia operaia in quegli anni sottoposto all’impatto con una immigrazione massiccia e disordinata dal sud d’Italia, come ancora accade oggi con persone provenienti da altre terre.

Allora avevo l’incarico di atelierista: al Provveditorato di Torino operava una équipe composta da psicologi, assistenti sociali e animatori inviati a sostenere le classi differenziali, che di lì a poco verranno abolite.

Il tempo pieno a Torino, città educativa

Già nella seconda metà degli anni sessanta Bruno Ciari indica con chiarezza che le motivazioni alla base del tempo pieno sono di ordine sociale, politico e pedagogico-culturale […] la scuola a tempo pieno punta a sviluppare complessivamente la personalità dei bambini, non limitando la sua proposta formativa alle sole esperienze disciplinari tradizionalmente intese.[2]  

Su queste basi, a Torino, un gruppo di insegnanti-pionieri appartenenti all’MCE[3]  sperimenta in alcune scuole elementari il nuovo progetto di tempo-scuola marcato dalla scelta pedagogica dell’apprendimento attivo e cooperativo.

E’ il periodo dell’immigrazione massiccia e di una conseguente disordinata espansione urbanistica: in alcuni quartieri periferici la popolazione triplica in pochi anni. L’avvio del tempo pieno coincide dunque con una vera e propria emergenza sociale: doppi turni nelle scuole; genitori lavoratori senza rete parentale a cui affidare i figli; bambini e ragazzi in grande difficoltà con la lingua italiana; nuovi quartieri senza luoghi di socializzazione.

La risposta a questi bisogni non è solo quantitativa e di custodia ma si concretizza in un nuovo modello scolastico, in larga parte ispirato alla pedagogia cooperativa di Freinet.
Dopo un inizio affidato al puro volontariato degli insegnanti, “finalmente nell’anno scolastico ’69-70 ottenemmo dal Comune un’ottantina di insegnanti del patronato scolastico che resero possibile, in altrettante classi di quattro scuole distribuite nelle periferie, la realizzazione di un tempo pieno un po’ meno volontaristico di quello che avevamo praticato negli anni precedenti” ricorda Fiorenzo Alfieri, per decenni uno dei protagonisti dell’innovazione scolastica e culturale della città. Torino, insieme a Bologna e Modena, è una delle prime città in cui si avvia la “rivoluzione” del tempo pieno con una inconsueta commistione di insegnanti comunali e statali.
Qui, sulla spinta della lg 820/71, il tempo pieno si estende velocemente, coinvolgendo anche molte scuole medie, non senza l’opposizione attiva da parte di chi lo considera un attacco al primato educativo delle famiglie: numerosi saranno gli esposti, e in alcuni casi persino le denunce, da parte di gruppi di genitori.

 

clicca qui per continuare a leggere l’articolo 

[1] G.Cerini, “MITICO (?!) TEMPO PIENO… Ragioni e immaginario di un persistente successo”, EDSCUOLA 2003
[2] E. Catarsi, La scuola a tempo pieno in Italia: una grande utopia.  Edizioni del Cerro 2004
[3] MCE: Movimento di Cooperazione Educativa, nato in Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico di Célestin ed Elise Freinet

 




Vi racconto di quando incontrai un Movimento che fu la mia salvezza professionale

di Cinzia Mion

Se mi ritrovo a pensare ai miei primi anni di insegnamento, immediatamente mi viene in mente la sofferenza dell’inizio e le potenzialità  che invece ho intravisto quando durante l’anno 1963 ho incontrato un “movimento” che ha segnato la mia salvezza professionale.
Era il secondo anno che insegnavo come docente di ruolo alla scuola elementare e ricordo che una mattina, mentre stava nevicando con un turbinio di fiocchi stupefacente, sono entrata nella classe della  docente della classe accanto per commentare.

Vidi scritto alla lavagna l’espressione: “La neve vola come api bianche!”
Rimasi colpita dalla sintesi e dalla metafora poetica. Rimasi però ancora più affascinata quando seppi che era una frase appena creata in un “testo libero” da un bambino che in quel momento vidi affaccendato, insieme ad un gruppetto di compagni, intorno ad un oggetto particolare.
Fu così che feci la conoscenza del “limografo”, al quale stavano lavorando quei bambini, intenti a passare un rullo inchiostrato per stampare il famoso giornalino.

La maestra, di cui divenni molto amica – ma che mancò molto giovane dopo pochi anni, colpita da una embolia cerebrale – si chiamava Alda Calzavara e mi introdusse al Movimento di Cooperazione Educativa al quale mi iscrissi subito.

L’MCE

L’incontro con l’MCE costituì nella mia formazione professionale  la scintilla che accese in me una motivazione fortissima alla ricerca continua del miglioramento della mia didattica. Ho scoperto ante litteram cosa significava “una comunità professionale di pratica” insieme al desiderio appassionato ed effettivo di mettermi in gioco per riuscire ad attivare veramente il piacere di apprendere, comprendere e  pensare, in quei bambini che mi venivano affidati e che un po’ alla volta si aprivano al mondo. Erano bambini di campagna, figli di contadini o di operai, molto avidi però di conoscere ed imparare.

Conobbi così le tecniche Freinet (corrispondenza interscolastica, limografo e tipografia, giornalino di classe,  il terrario, la strumentazione per la meteorologia, il calcolo vivente,ecc) e attraverso di esse il significato della pedagogia “popolare” finalizzata alla scuola democratica e a quella che oggi chiameremmo didattica inclusiva.

La formula collaudata di formazione innovativa avveniva durante la cosiddetta scuola estiva del Movimento di Cooperazione Educativa.
La modalità vincente  di formazione era quella di coinvolgere esperti di chiara fama della disciplina scelta, affiancati dalla professoressa Lydia Tornatore dell’Università di Firenze.
Lydia era una notissima docente di psicologia dell’apprendimento che  ci  faceva lavorare in maniera laboratoriale, per tradurre in una didattica accessibile ai bambini della scuola elementare, i concetti disciplinari epistemologicamente corretti ed i nuclei fondanti  delle discipline stesse.
Le idee bruneriane infatti erano allora appena state diffuse all’interno del movimento e noi eravamo tutti presi dal sacro fuoco dell’innovazione. Il clima era caratterizzato da una grande passione e come sempre ci davamo appuntamento nelle varie parti d’Italia, laddove fosse stata organizzata la scuola estiva, ogni volta con il medesimo entusiasmo dei neofiti, spinti dalla fermentativa idea di cambiare la scuola ed insieme il paese…

Durante l’estate del 1963 frequentai appunto una scuola estiva, sempre organizzata dal Movimento, dove conobbi il professor Mauro Tomassini, docente di matematica di un liceo di Pescara, che insieme a  Lydia Tornatore mi inoltrarono, insieme agli altri corsisti venuti da tutte le parti d’Italia, verso una didattica molto innovativa che riguardava la matematica. Ricevetti così le prime conoscenze della cosiddetta matematica moderna che andava sotto il nome di “Insiemistica”.  Mi appassionai subito a tale metodologia  che si reggeva sulla convinzione che bisognava padroneggiare, prima degli algoritmi delle operazioni aritmetiche , che rappresentavano ancora il famoso o famigerato “far di conto”, la comprensione profonda dei concetti matematici e prima di ogni altra cosa dl concetto di NUMERO. Puntavamo soprattutto alla chiarificazione dei processi cognitivi soggiacenti che già Piaget aveva investigato ma che noi affrontavamo dal punto di vista operativo

Nel corso degli incontri pomeridiani a Treviso, che avvenivano con scadenza settimanale, durante  l’anno scolastico  insieme ad Alda Calzavara ho conosciuto subito anche Luisa Tosi, insegnante storica del MCE, recentemente premiata dal Comune di Treviso con il “Riflettore –donna”.
Luisa, insieme ad Alda, è stata la mia mentore . Ci trovavamo presso una stanza in un palazzetto rosa, signorile, di via  Stangade n.14  dove abitava una zia di Alda che ci ha ospitato provvisoriamente nel seminterrato .
Fu lì che conobbi Ines Casanova e Bonetto, due insegnanti all’avanguardia di Santa Maria di Sala che si appoggiarono a lungo al gruppo di Treviso. In quel periodo io insegnavo già a Codognè perché eravamo già nell’anno 1964. La sede successiva dei nostri incontri pomeridiani fu in vicolo Oriani, n.2, in una stanza che ricordo molto disadorna e disagiata, ma l’unica di cui forse potevamo sostenere il modesto affitto.

Progressivamente ho conosciuto anche Maria Marconi, altra insegnante famosa all’interno del Movimento, che è rimasta sempre la custode reale e simbolica della storia del MCE a Treviso. Pervicace, assidua, resiliente
Ricordo le riunioni in questo “bugigattolo” con un misto di nostalgia e di malessere. Erano anni difficili per la mia vita privata e gli incontri con il gruppo erano momenti di grande slancio ideale che mi risarcivano delle sofferenze affettive. Riuscivo ad aspettare con ansia questi incontri, che mi sembravano riunioni carbonare dove ci sentivamo tutti accomunati dalla stessa passione. Avvicinai al Movimento anche Beppa Grava che conobbi andando a far scuola a Codognè, dove ci recavamo in macchina insieme!
Ad un tratto comparvero anche Renata Troncon e Piero Fabris. Rammento un aspetto molto particolare di Renata: lavorava a maglia in continuazione  ma ascoltava tutto con interesse ed interveniva sempre a proposito.
Di Piero ricordo poco. Forse eravamo già verso la fine degli anni 60 ed io mi ero iscritta all’Università insieme a Luisa Tosi e Beppa Grava. La scuola militante, l’università e la figlia da mantenere e di cui aver cura (ero ormai separata) mi fecero diradare gli incontri in vicolo Oriani. Dopo il ‘ 68, fra l’altro,  parte del Movimento prese una piega soprattutto politica su cui in linea di principio ero d’accordo ma non sul piano dell’impegno attivo che per me rimaneva pur sempre la scuola e il rinnovamento della sua didattica. Ormai però avevo integrato profondamente , come un faro interno, gli insegnamenti acquisiti negli anni d’oro della mia militanza.

Ad una  scuola estiva però  avevo già incontrato una docente che teneva un libro come un “breviario”. Era il testo di Bruner “Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture”.
Ne rimasi incantata. Un transfert fortissimo nei confronti di questo autore  che non ho mai elaborato. Una “cotta” intellettuale.

La corrispondenza interscolastica .

Tra le modalità didattiche ispirate alla scuola popolare di Freinet ci fu subito un grande terrario,   che troneggiò in classe per quattro anni , suscitando  immediatamente un grande interesse fermentativo da parte dei  bambini. Poi giunsero anche gli strumenti per la meteoreologia, collocati in cortile: pluviometro, manica a vento per la sua direzione e inoltre un anemometro rudimentale, ecc. Ma fu la corrispondenza interscolastica che , con il senno di poi, mi procurò la più grande soddisfazione. Appena trasferita a Codognè cercai infatti il nominativo di qualche docente che fosse disponibile ad iniziare questa pratica con la propria classe e la “mia” prima  di Codognè – Borgo Chiesa.
Fu così che mi misi in contatto con Andrea Suelzu, insegnante MCE di Aggius in Sardegna, nominativo suggeritomi. All’inizio fu uno scambio di disegni con assegnazione dei vari “compagni di posta”. Non posso dilungarmi su questa tecnica di base Freinet, che in fondo giustifica e legittima la necessità di imparare a scrivere e a leggere per poter scambiare esperienze con i propri corrispondenti. Il motivo per cui ricordo con molta enfasi questa attività, che durò per ben quattro anni, è che recentemente ebbe un seguito mirabolante.
Circa cinque anni fa (vale a dire più di cinquanta anni dopo!!!) ricevetti una telefonata certamente inaspettata (da una mia ex-allieva di quel tempo) che diceva così: “E’ la maestra Cinzia che parla? Io sono Paola Basei, le dice qualcosa questo nome?”
Dopo un attimo di esitazione: “Certo – dico io – scuola di Codognè…”
E lei di rimando: “Sono ad Aggius,  dalla mia corrispondente  Giovanna Spezzigu, che non ho mai dimenticato. Negli anni mi ritornava sempre in mente il suo nome che scrivevo nella busta indirizzata a lei e che ho ritrovato recentemente su FB….Ci siamo risentite ed ora ritrovate, ora sono ad Aggius da lei. Gliela passo!!!”

Provai un’emozione indicibile che veramente non è possibile tradurre in parole. Mi passò davanti in un attimo l’importanza dell’insegnare in un certo modo, della classe che avevo curato aprendola all’esterno e al mondo, che non si era fermata e Paola ne era la testimonianza. La commozione ebbe il sopravvento.

E da lì è partita una storia incredibile che provo a riassumere in poche righe ma che richiederebbe un racconto articolato: Paola, ritornata da Aggius, organizzò una pizza con tutta la classe (quasi tutti aderirono con gioia) ed io reincontrai dopo così tanto tempo i miei ex-alunni diventati uomini e donne con le loro diverse vite, ampiamente vissute e tante storie da raccontare. Fu un incontro memorabile. Non mi soffermo di più per ovvie ragioni. Venne anche mia figlia che allora, all’inizio, aveva quattro anni e via via era cresciuta parallelamente insieme a loro e che tutti avevano conosciuto. A novembre dell’anno successivo raggiunsi Aggius in aereo, invitata dai “compagni di scuola “ compreso il sindaco (che era un ex-allievo del maestro Suelzu).
In quegli anni molte cose erano cambiate anche per Suelzu, diventato  dirigente scolastico come me, ma ammalatosi seriamente e in seguito venuto a mancare.  In suo ricordo il sindaco aveva organizzato una giornata commemorativa alla quale fui invitata, dato l’indimenticabile riavvicinamento attivato da Paola. La rilevanza di questo personaggio nel Paese di Aggius  era fortissima. Era considerato uno dei concittadini più validi e degni di memoria civile e politica. Soprattutto veniva ricordato non solo il suo impegno nella scuola ma anche quello notevole speso per la democrazia e la cultura della sua comunità che amava moltissimo. All’interno del convegno, organizzato per rinnovare la sua memoria,  ho avuto l’onore di parlare e ricordare la memoria di Andrea con la narrazione della corrispondenza interscolastica “Aggius-Codognè”.
Fu così che anche nel paese di Aggius, a livello pubblico e popolare, furono illustrate le tecniche Freinet  e si diffuse l’importanza del Movimento di Cooperazione Educativa anche alla cittadinanza comune, richiamata solo ad onorare un valido concittadino. Ma le persone di scuola presenti, alcune coinvolte anche nel convegno e gli ex-allievi commossi, sapevano bene di cosa si stava trattando.  Fui accolta benissimo, ricevuta in Comune dal Sindaco che mi offrì dei doni caratteristici e simbolici dell’artigianato di Aggius.
Inoltre, aspetto molto significativo, il figlio del Maestro, Leonardo, che custodiva religiosamente tutte le collezioni delle audiocassette del padre fin dai tempi andati, mi regalò una trasposizione in un dischetto di tutti gli scambi audio dei miei alunni che a suo tempo avevo inviato. Risentii la mia voce di allora e quella dei “miei”bambini/e. Mi ritrovai con un groppo in gola.

Dino Zanella 

Conegliano sorge vicino a dove insegnavo (Codognè) e questo mi ha permesso di conoscere presto un altro pilastro del MCE della provincia di Treviso: Dino Zanella[1].
Andavo a casa sua a rifornirmi del materiale utile alle esercitazioni di matematica: numeri in colore del Gattegno, materiale multibase, (inventato durante una scuola estiva a Meina, per questo definito inizialmente materiale meina), quaderni autocorrettivi, schedari di vario tipo. Era tutto materiale inventato da docenti MCE durante le scuole estive, con la supervisione di Lydia Tornatore.
Nel frattempo un componente di un altro gruppo, non ricordo chi sia stato, aveva tradotto dall’inglese,  in una dispensa agile ma molto “casereccia”, un saggio di Karplus per l’avviamento dell’atteggiamento scientifico, partendo dall’osservazione degli “oggetti materiali”, di tipo comune.
A questa primaria osservazione ingenua dovevano essere inseriti, un po’ alla volta, degli “attributi”, la cui presenza era affermata attraverso la comparazione con “criteri semplici”  ( che dovevano essere escogitati dai bambini) ma che dovevano rispondere ad una certa scientificità.(ES: un “oggetto materiale” si può dire “trasparentequando appoggiandolo sopra alla pagina scritta del quaderno si può leggere quello che sta scritto).
La conoscenza di Dino, persona di alto spessore, autodidatta ma coltissimo soprattutto per quel che riguarda gli aspetti scientifici, mi ha permesso di far parte presto di un gruppetto di formatori (insiemistica, scienze, ecc) che sempre con didattiche MCE si spostavano per fare formazione.
Ricordo un viaggio a Pescara, e precisamente a Montesilvano, insieme a Dino, a Giuliana Troncon, a Francesca Bevilacqua ( che venne a mancare giovanissima per una forma grave di diabete). Conservo ancora un ritaglio di giornale con una foto di questa “uscita” formativa.

Il gruppo di Torino

Durante l’anno 1966 un gruppetto di noi docenti trevisani (ricordo che c’era Beppa Grava) ci recammo a Torino ad incontrare il gruppo MCE di quella città per partecipare ad un seminario sulla storia. Conobbi in quell’occasione Fiorenzo Alfieri e Gianni Giardiello. Due persone splendide : con Gianni stabilimmo un accordo sulla storia che si concretizzo poi per me con una ricerca intorno al testo “L’insegnamento della storia secondo le linee di sviluppo” di Montagu V.C.Jeffreys.
Ricordo che impostai successivamente, secondo questo autore, tutto il lavoro di storia con i bambini di Codognè. Intrecciai la didattica delle linee di sviluppo con l’intuizione bruneriana dell’apprendimento per “scoperta” e dell’importanza delle idee strutturali delle discipline. Un bambino, di nome Gastone, (singolare che ricordi perfino il suo nome) un giorno si alzò e andò sotto alle strisce dei cartelloni che raffiguravano tutte le cose che nel tempo erano cambiate, tutte messe in corrispondenza con gli anni, di decina in decina (lavori dei genitori da contadini- mezzadri ad operai, case dotate di elettrodomestici, mezzi di illuminazione, vie di comunicazione, ecc)  ed esclamò:  “E’ stata la Cadore-Mare che ha fatto cambiare tutto!!!” Attraverso un ‘intuizione formidabile aveva colto l’importanza della via di comunicazione per il progresso del Paese, nella fattispecie l’asfaltatura e l’allargamento della strada “Cadore- Mare”, che prima era un argine bianco. Ancora adesso questa è una  via importante che collega le montagne al litorale e che permise a quel tempo lo sviluppo commerciale delle zone dei mobilifici di Codognè-Gaiarine.  Questa è stata l’intuizione  che ha posto il focus su una idea strutturale della  geo-storia ,che permise e permetterà sempre di “andare oltre l’informazione data”.
Con Fiorenzeo Alfieri stabilii un’amicizia che durò fino alla sua scomparsa poco tempo fa.

Tullio de Mauro

Correva l’estate dell’anno 1967. Quell’anno toccava alla linguistica moderna, la sede scelta dal segretario del momento, Dino Zanella, fu Montebelluna, nella terra veneta, generosa di specialità eno-gastronomiche alle quali era possibile attingere anche ricorrendo alla  “strada del vino bianco” che si srotolava tra le colline del trevigiano e che De Mauro potè conoscere ed apprezzare.
Tra i corsisti ricordo che c’era anche Alberto Alberti, diventato poi Ispettore molto noto, allora baldo giovane, entusiasta e romantico.
Aveva pubblicato un libretto di poesie che mi regalò, etichettandolo però come “peccato di gioventù”.
Alberto fu testimone di un episodio (chissà se lo ricorda) che a me  restò impresso nella memoria e che ora desidero rendere noto perché caratterizza l’impegno pedagogico-politico che contrassegnava quel periodo storico e tratteggia un aspetto della personalità di De Mauro: l’ironia.
Eravamo tutti accomunati dal fervore socio-politico della fede incrollabile nel valore della scuola che doveva, come istituzione della Repubblica, rimuovere gli ostacoli (art.3 della Costituzione) che impedivano la realizzazione del senso di cittadinanza in tutti i soggetti che la frequentavano, l’autorealizzazione  e, in definitiva, l’ effettiva attuazione della democrazia. L’ostacolo maggiore nella scuola era l’ignoranza e la non padronanza della lingua italiana,  base fondamentale della comunicazione interpersonale e strumento del pensiero.
Tullio de Mauro trovò perciò terreno fertile per le sue appassionate dissertazioni. Durante una di queste si lanciò in una difesa a spada tratta della importanza dei contenuti della comunicazione aldilà e al di sopra della correttezza grammaticale o sintattica. Ciò che era fondamentale era la possibilità che l’enunciato permettesse il passaggio del “significato” o del “senso” della comunicazione, l’intenzione reale del parlante, decodificabile dal ricevente.
Era chiaro l’obiettivo: dare dignità agli enunciati dei soggetti che ancora non padroneggiavano la lingua per rimandare ad un secondo momento l’apprendimento di altri aspetti e delle altre funzioni linguistiche.
Ad un certo punto fece degli esempi, presi anche dal dialetto. Comparve la frase: ”io ho andato”, usata in Italia centrale, con l’osservazione di de Mauro che questa espressione, alla luce di quanto brevemente appena riassunto, poteva essere accettata.
Io a quel punto, da giovane “maestrina”, sentii una interna ribellione che non potei trattenere. Durante la pausa mi avvicinai all’illustre Maestro e gli rivelai le mie perplessità. Con un fair play ammirevole, Egli mi fissò e consumò la sua dotta “vendetta”: “Ah, sì? Ma lei lo sa che ha una “esse sibilante” che di sicuro non appartiene alla dizione perfetta della lingua italiana…?!!” Assaggiai così la famosa ironia dell’insigne linguista. Rimasi senza parole e mi sentii impropriamente una radical chic, prestata alla scuola elementare. Girai i tacchi ed andai a consolarmi presso gli amici, compreso Alberto, raccontando il fatto ma riflettendo molto sul senso di quell’osservazione  che mi insegnò il decentramento del punto di vista e mi diede sul campo una lezione intorno al senso profondo della valutazione.

Ripescai più volte dalla mia memoria questo episodio non come un banale aneddoto, come potrebbe sembrare a prima vista, ma anche come un segnale dell’importanza sacrosanta del “criterio valutativo” di prendere in considerazione il punto di partenza per calcolare poi i progressi. Ancora oggi invece spesso si fa coincidere la misurazione con la valutazione, senza nessun criterio valutativo esplicitato e  siamo ancora lontani dalla valutazione formativa.

Una decina di anni fa reincontrai Tullio de Mauro a Firenze, alle giornate di studio del MCE presso la Scuola Città Pestalozzi.
Gli ricordai l’episodio e ridemmo insieme con molta leggerezza ma forse anche con un velo di malinconia, ripensando allo slancio utopistico di quei tempi, a quella passione che non ci aveva ancora lasciato ma che col tempo si era temperata alla luce di una consapevolezza che qualcuno chiama “sano realismo”. Cosa siamo riusciti a realizzare di quell’idea di scuola che ci aveva così affascinato, in cui avevamo creduto fino in fondo?
Stiamo tutti oggi ricordando con ammirazione e gratitudine questo grande Maestro di scuola, cultura, vita, democrazia.

[1] In onore di Dino Zanella alcuni anni fa si è attivata, dopo la sua scomparsa, una Associazione dal nome “AMDZ”,(Amici di Dino Zanella), aggregata al MCE, di cui faccio parte, per continuare a diffondere il suo pensiero e i suoi insegnamenti.




La forma della scuola. La didattica a distanza tende a modificarla

ripresa_scuoladi Raimondo Giunta

    • I giorni difficili della pandemia hanno aperto non pochi interrogativi sul destino della scuola, sull’identità e sul significato che debba avere.  Ne è stata causa la necessità di ricorrere alla didattica a distanza per mantenere nei limiti del possibile il rapporto educativo con gli alunni; una necessità che per alcuni si è subito trasformata in una opportunità per pensare di ristrutturare le procedure abituali dell’insegnamento,di riconfigurare con uno sguardo proiettato nel futuro gli ambienti di apprendimento e l’articolazione del rapporto tra alunni e luoghi di formazione.
      Di cambiamenti nel modo di essere scuola se ne sono visti tanti negli ultimi decenni e in qualche modo la scuola è riuscita a reinventarsi rimanendo se stessa, conservando la propria forma.
      Sarà ancora una volta così?
    • La scuola è un’istituzione ancora facilmente identificabile per i luoghi in cui le sue attività si svolgono, per le finalità che deve  o che dovrebbe realizzare, per l’organizzazione complessiva che la distingue da ogni altra istituzione pubblica.
      Fino ad oggi l’insegnamento è ancora distribuito per anni, secondo un criterio di difficoltà e di complessità crescenti, per classi omogenee di  età, che si succedono le une alle altre.

  • La scuola tradizionale  di cui abbiamo ereditato la forma nasce con i Gesuiti (Ratio Studiorum)  e con Comenio (Didactica Magna).
    Quasi inevitabile che nel secolo del Metodo se ne elaborasse qualcuno per la scuola per aiutarla a realizzare i suoi compiti con razionalità.
    “Nascono le classi  e compare il libro di testo;il manuale scolastico incarna la scuola della tradizione.E’ una scuola organizzata al riparo dell’imprevisto e della casualità.L’insegnante deve sapere fino a  quale punto vuole condurre gli allievi in un anno,in un mese,in un giorno,in un’ora e deve ripartire i compiti esattamente in funzione di queste divisioni del tempo” (G.Snyders).
    Fondata sul nesso separatezza  e mondo classico,che incomincerà a sciogliersi in parte coll’avvento della borghesia e con la Rivoluzione Francese, la scuola della tradizione era riservata alla formazione della classe dirigente.Il collegio gesuitico fisicamente assicurava il regolare svolgimento di queste funzioni.
  • Era questo il modo con cui  si credeva di formare l’uomo adatto a dirigere  quella società: si imparava a ubbidire, per sapere domani comandare; separatezza, ma non estraneità alla società.
    Nel tempo la forma della scuola si è dilatata per comprendere nuovi contenuti e nuova popolazione, ma  a pensarci bene non è sostanzialmente cambiata.
    Si sono moltiplicati gli spazi e le aule;si è creato qualche laboratorio, si è diversificata l’enciclopedia dei suoi saperi,ma la sua forma (progressione dei contenuti/classi progressive per età,orari,procedure organizzative,attività) fino ad oggi è rimasta fedele a se stessa.
    I cambiamenti  per moltissimo tempo hanno riguardato i contenuti più che i metodi di lavoro e  questo è potuto avvenire perchè è esistito sempre a suo modo un rapporto tra scuola e società.
  •  A scuola si afferma un procedimento di formazione delle conoscenze  necessariamente capovolto rispetto a  quello naturale delle esperienze di vita.
    Renderlo attraente è stata la preoccupazione dei migliori  educatori,che hanno dovuto imparare a graduare  prove  e difficoltà. Con l’avvento degli stati nazionali per necessità e per scelta l’istruzione diventa un’arma di combattimento, tra le altre disponibili, nella competizione tra le nazioni europee.
  • La scuola viene fatta funzionare come una macchina da guerra contro i dialetti per imporre la lingua nazionale,contro le culture locali a vantaggio di valori comuni, contro i privilegi familiari per permettere in teoria un accesso paritario alle funzioni pubbliche, contro le corporazioni per rinforzare il potere della nazione e della sua amministrazione(Ph.Meirieu )
    Con l’obbligo scolastico, che fa la sua strada molto lentamente fino a metà del secolo passato, si tende a sottrarre il bambino alla famiglia e al prete.
    La scuola fa propri i valori della nazione e nel migliore dei  casi quelli del cittadino-.
  • Oggi si tenta di fare il percorso inverso e si va verso modelli pedagogici transnazionali e l’approccio per competenze e le indagini PISA ne sono i corifei e le truppe d’assalto.
    Ma una scuola che non faccia riferimento alla propria cultura nazionale rischia di diventare solo una scuola senza anima.
    La scuola è fonte di coesione solo se è strumento di  diffusione di valori comuni e di cultura comune.(lingua -storia-cultura -tradizioni).
    Non esiste vera cittadinanza senza partecipazione alla memoria collettiva, che costituisce l’identità della società alla quale si appartiene. Si è avuto con le trasformazioni della società una costante, inarrestabile scolarizzazione dei saperi, di ogni genere di sapere.
    La scuola a poco a poco e fino ad oggi è stata per vocazione o per costrizione l’unico luogo in cui si tramandano cultura ,tradizioni,valori,conoscenze e competenze.
  • I saperi tecnici e professionali sono stati gli ultimi ad entrare nell’enciclopedia dei saperi scolastici e per quanto impegno si sia profuso in questo senso sono rimasti i figli poco desiderati del sistema scolastico.In Italia anche nel tempo delle tecnologie e della società della conoscenza l’istruzione tecnica rimane legata a limitate intenzioni di mobilità sociale.
    L’istruzione professionale e tecnica entrando nella forma scuola incomincia a liberarsi dai legami e dalle funzioni caritatevoli che hanno segnato le sue origini.
    Manterrà per molto tempo e forse  per merito di  molti operatori scolastici  mantiene ancora l’ispirazione di essere scuola del progresso sociale, del riscatto sociale, dell’elevamento morale e sociale di parte considerevole della nostra gioventù.
  • L’istruzione tecnica e professionale non è nata per essere scuola di conformità istituzionale, non è stata garante e guardiana dell’ordine costituito e della riproduzione delle elite. Entrando nella forma scuola l’istruzione tecnica e professionale libera l’allievo dal rapporto carismatico col maestro e si universalizza; rompe il sancta sanctorum del segreto professionale, del segreto del mestiere.
    E’ una novizia che pretende un proprio spazio e che esige necessariamente metodologie attive e realistiche in controtendenza con le tradizioni della scuola.
    La scuola per lunghissimo tempo è stata un auditorium; oggi si richiede che diventi un laboratorio:si vuole e si deve passare dall’ascolto e dalla ripetizione all’attività e alla ricerca.
    L’insegnante da fonte della conoscenza  deve trasformarsi in guida dei processi di apprendimento.
  • La scuola dispensa linguaggi (istruzione), metodi (formazione) e coltiva interessi (educazione).
    Non è stato facile essere sempre fedele a questa consegna e lo diventa ancor di più oggi nella società della conoscenza, che ha visto la modificazione strutturale dei luoghi di apprendimento: saltano i principi tradizionali dell’unicità del tempo, del luogo e dello spazio.
    V.Cesareo parlava, già tanti anni fa,  di policentrismo  formativo, fatto che non mette in discussione solo primati istituzionali, ma il modo di guardare ai processi di diffusione e creazione delle conoscenze con cui si deve sempre confrontare la scuola.
  • La sfida più seria  alla forma scuola proviene dalla necessità di articolarsi con propri compiti nei dispositivi della strategia dell’apprendimento lungo tutto la vita; sfida  che propone l’ impegno di verificare la propria congruenza ed efficacia con la pressante richiesta di valorizzazione degli apprendimenti informali e non formali, che rischia di portare il sistema scuola dal centro del sistema complessivo di formazione alla sua periferia.
    Connessa a questa sfida è la richiesta crescente di modularizzazione del curriculum,ritenuta necessaria per sostenere l’impianto del longlife learning, per garantire la capitalizzazione e la portabilità delle competenze,comunque acquisite,e l’alternanza lavoro/formazione,che pare debba distinguere le attuali condizioni del rapporto di lavoro.
  • La modularizzazione dei curricoli porta al superamento del percorso formativo per classi e anni di corso,inscindibile nelle sue parti e valevole solo nella sua interezza.
    Il superamento del gruppo classe e dell’anno di corso rompe con l’organizzazione tradizionale della scuola,comunemente accettata sia dagli insegnanti,sia dagli alunni,sia dalle famiglie sia per la sua semplicità sia per la sua razionalità.
    Nell’immaginario collettivo classe e anno di corso restano i pilastri della scuola. Il superamento è davvero una sfida eccezionale e potrebbe trasformare l’istruzione pubblica in un servizio a domanda individuale; potrebbe contribuire a smantellare il senso di comunità che i giovani apprendono vivendo insieme nella stessa classe e di cui hanno un grande bisogno.
    Un problema che non si puo’ sottovalutare e che in veste mutata si riproporrebbe con la didattica a distanza, se dovesse diventare una modalità ricorrente o peggio ancora permanente del lavoro scolastico.




I ragazzi di Barbiana: rivoluzionari o riformisti?

barbiana
Siamo nell’autunno del 1967, il libro di Don Milani e dei “ragazzi di Barbiani”, uscito da pochi mesi, stava accendendo il dibattito politico e culturale.

“Lettera ad una professoressa”, diventato poi nel corso degli anni un libro cult non venne accolto in modo favorevole da ogni parte.
Anzi, “a sinistra” le critiche erano anche pesanti.
Ne sono un esempio queste pagine tratte da una rivista ormai introvabile (Nuovo Impegno, 1967 n. 8/9) che siamo riusciti a scovare grazie ai ritrovati amici del Centro di Documentazione di Pistoia.




Bidello o collaboratore scolastico?

bidelloDal sito unaparolaalgiorno riprendiamo una interessante analisi sulla parola bidello.

Intanto iniziamo a dire che, stando al dizionario, la parola bidello indica “chi è addetto a pulizia e custodia dei locali scolastici, anche con compiti di ausilio e assistenza a docenti e alunni”.
Il termine arriverebbe dal latino medievale [bidellus] o dal francese [bedeau]; entrambi i termini deriverebbero però da una ipotetica voce francone [bidal] o [bidil] che significava ‘messaggero, messo giudiziario’.
Ma, nel concreto, quando iniziano a entrare in servizio nelle scuole i primi bidelli?


La storia che si legge nel sito citato è interessante: all’inizio del XII secolo all’Università di Bologna, che era stata fondata dagli studenti stessi alla fine del secolo precedente, incominciano ad arrivare molti studenti francesi.
E potrebbero essere stati proprio loro a portare con sé il bidellus, con cui (l’uso è attestato già alla metà del Millecento) presero a indicare i custodi dei locali delle università.
Da allora il termine è rimasto assolutamente intatto e indica appunto la persona che svolge il mestiere di assistenza e sostegno all’ambiente dell’educazione formale.
Insomma, le origini della parola sono legate con la nascita delle prime università italiane; si tratta di una parola nobile, impegnativa.
Siamo sicuri che sia meglio sostituirla con l’espressione “collaboratore scolastico”?




Le vestali senza tempio

vestalidi Franco De Anna

Nella stagione mitica del 68/69, usci un fondamentale saggio di Barbagli e Dei che riportava i dati di una ricerca sociologica sui docenti italiani. Il titolo era di una efficacia comunicativa che poteva risparmiare i commenti, “Le vestali della classe media” (1969)

Ricordo sempre che ancora più significativo, nel “dibattito progressista” sulla scuola, risultava un lapsus (neanche tanto freudiano) di molti interlocutori che citavano il saggio storpiando il titolo stesso “Le vestali della “scuola” media”.

Con le note che seguono si vorrebbe esplorare (più che sinteticamente…) il cinquantennio che ci separa da quella ricerca per tentare di ricostruire i cambiamenti (se vi sono), le permanenze, i caratteri, le contraddizioni, del “corpo docente” della scuola italiana e, se possibile, anche qualche tratto “dell’anima”.

Clicca qui per leggere la presentazione del “mitico” volume di cui parla Franco De Anna, contenuta nel “risvolto di copertina”

Clicca qui per leggere l’introduzione scritta a suo tempo dagli autori del volume

Vai nel blog di Franco De Anna per leggere tutto l’intervento