di Giovanni Fioravanti
Non conosco gli estensori del “Manifesto per la nuova scuola” sottoscritto da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.
“Nuova scuola” sta a significare che questa che abbiamo è la “vecchia scuola”, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto.
Le “buone scuole”, “le offerte formative” tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.
Nuova scuola e non “scuola nuova”, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le “scuole nuove”, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di una mondo in rapida trasformazione.
Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.
Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.
Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.
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