La pedagogia Freinet di Marcel Thorel

Marcel Thorel  ha conosciuto la pedagogia Freinet quando nel 1970 frequentava la Scuola Normale (la scuola della formazione inziale dei futuri maestri).
Lì conobbe un maestro, François Pâques, che aveva insegnato a Vence insieme a Célestin Freinet e sua moglie Elise  negli ultimi anni di vita del maestro francese.
E’ stato lui a presentare a Marcel e ai suoi compagni i testi liberi, le ricerche matematiche, le opere d’arte. Marcel ha dunque iniziato  a lavorare con la pedagogia Freinet appena uscito dalla Scuola Normale.
Ha sempre fatto parte del gruppo di dipartimento di Pas de Calais e dell’ICEM nazionale (è stato membro del Consiglio Amministrazione dell’ICEM).

Nel 2002 Marcel e sua moglie Danielle, insieme ad altri colleghi e con il sostegno dell’Amministrazione scolastica, hanno fondato la scuola sperimentale Freinet de Mons-en-Barœul situata nella periferia di Lille.

Dopo il loro pensionamento dall’insegnamento operano in Francia, in Belgio e in Africa.

Marcel è Presidente di un’Associazione che si occupa della formazione di insegnanti in pedagogia Freinet in Togo e in Rwanda che lavora in collaborazione con il  MOUVEN (Movimento di insegnanti innovatori) e il movimento Freinet del Togo.
In Belgio Marcel e Danielle Thorel hanno contribuito a creare un’Associazione (Centro di ricerca  che promuove la pedagogia Freinet.
A questa Associazione fanno riferimento le scuole Freinet di Liegi.
Anita Ruiz è la coordinatrice del Centro di Ricerca.




La rivoluzione pedagogica di Andrea Canevaro

di Maria Teresa Roda

La passione per gli alberi genealogici è sempre stata di casa nel Movimento di Cooperazione educativa: Mai abbandonare le radici, rafforzare il tronco, lasciare che i rami si espandano. A volte usavamo anche l’immagine rovesciata per rappresentare l’albero a testa in giù come lo aveva ipotizzato Platone o come lo si era pensato nel Medio Evo, le radici che tendono al cielo.
Gli anni ’50, per la scuola, per il pensiero pedagogico, per la crescita socio-economica hanno rappresentato il lento ma tenace lavoro delle radici.
L’energia e gli umori nutritizi venivano anzitutto dalla volontà di voltar pagina. La guerra agita fatta di morti confuse seminate da nemici ed alleati, di distruzioni, era comunque finita.
Giovanna Legatti, Giuseppe Tamagnini, Mario Lodi e quel pugno di maestri e maestre innovatori ed innnovatrici, per nulla al mondo avrebbero rinunciato alla domanda su come si poteva cambiare la scuola.
La strada delle tecniche divenne la via che più tardi la Pedagogia Istituzionale avrebbe chiamato “dei materiali mediatori” e della mediazione pedagogica; proprio Andrea Canevaro, saprà come reimpostare paradigmi, concezioni ed assetti del corpo compatto della scuola introducendo i principi lella Pedagogia istituzionale (Vasquesz e Oury).
Gli anni ’60 tolsero il velo al pionierismo, allargarono le sperimentazioni e lo svecchiamento, contribuirono a portare aria fresca dentro alle aule assieme a terrari, erbari, a volte animali ed arnesi disparati.
La tipografia fu davvero come la scoperta della stampa cinquecentesca. Sancì la libertà e la circolazione del pensiero, l’apertura ad altre classi. L’esclusione dei ceti più deprivati che portava il segno della negazione di tutto quanto riguardasse la materialità della vita quotidiana, assumeva, risignificandosi, la connotazione di sapere e trovava spazio dentro alla sacralità dell’aula .
Il sapere delle stagioni, dei bachi e della loro metamorfosi, della statistica dei giorni piovosi o sereni era finalmente compreso e fatto convivere con il sapere dei libri . Tutto questo è descritto con dovizia di particolari da Mario Lodi in “C’è speranza se questo accade al Vho”. Dice bene Mario; è apparsa una fetta di luce che filtra proiettandosi sul pavimento, quando si socchiude la porta. Rodari osserva le luci e le ombre delle nuove pratiche, ne riconosce l’enorme spinta simbolica, la possibilità che, passando per un tocco di surrealismo, si potesse leggere il reale scherzandoci su, ironizzando, rovesciando sensi e giocando con le parole, spingendo l’azzardo fino ad una nuova concezione etica del vivere e dell’organizzazione sociale. Facendo quello che Calvino fece, in modo più amaro e disincantato, con i racconti sui Marcovaldi che si perdevano nella finzione dell’abbondanza a portata di mano.
La scuola si sprovincializza, ci sono fermenti che la scuotono, che la attraversano, che la rinnovano, che mettono ferocemente in discussione il suo carattere selettivo ed autoreferenziale. Il testo collettivo delle nuove metodologie Freinet serve a don Milani che aveva accettato la lezione ed era entrato in questo corto circuito, per mettere a punto “Lettera ad una professoressa”, una invettiva senza peli sulle responsabilità di un’Istituzione che perde molti, troppi/e, per strada.
Un “j’accuse” politico perfettamente intonato ai tempi e ad una coscienza nuova dei diritti fondamentali. La pedagogia traballò come disciplina, l’Istituzione scuola fece argine e contenne il fiume in piena.
Nacque la scuola media unica. Ma ragazzi e ragazze continuarono e continuano a perdersi nel bosco.
Lo ha capito bene Andrea Canevaro. Lo hanno capito molti insegnanti animati dal migliore degli spiriti innovatori ma avversati dalla sindrome del Don Chisciotte.
Lo hanno vissuto molte famiglie che avevano gioito per lo statuto dei lavoratori (1970) ma dovevano lasciare i loro figli in scuole speciali o ancora nascosti in casa perché la scuola non ha potuto accoglierli, in quanto diversi, fino al 1975, anno del primo esito/pubblicazione del documento Falcucci e poi il 1977 con la 517 che sancì la possibilità di frequenza scolastica a tutti gli alunni con disabilità.
Una conquista normativa enorme ma costellata di innumerevoli difficoltà. Fu una seconda rivoluzione copernicana ed Andrea Canevaro divenne per il mondo della scuola e per il Movimento di Cooperazione educativa uno dei punti di riferimento imprescindibili assieme alla sua facoltà, ai suoi collaboratori, al Ceis di Rimini, al lavoro di ricerca sull’autismo e sulle infinite gamme di problemi che assommiamo dentro la parola “diversità” o handicap. Con l’ingresso degli alunni ed alunne con (dis) abilità, non era la normalità che imprimeva i ritmi alla diversità ma era la diversità che chiedeva che cambiasse la collaborazione tra alunni ed alunne, il modo di fare i gruppi di lavoro, di disporre i banchi, di sistemare l’ aula, di distribuire i tempi. Fu necessario che gli strumenti venissero ridiscussi, moltiplicati, riadattati. Forse, in nome della prima rivoluzione delle tecniche, questa rivoluzione, controversa, è passata più in sordina, accompagnata da un dibattito spesso leguleio sul ruolo dell’insegante di sostegno.
L’Istituzione ha continuato ad essere una casamatta, un baluardo che per riprodursi ha dovuto in parte conservare le sue regole totalizzanti e rigide e con queste le stanze a sé per momenti di eccessivi e spesso prolungati esilii di alunni ed alunne in difficoltà e/o socialmente svantaggiati.
Del resto ancor oggi la ricreazione suona alla stessa ora nelle 19 regioni italiane e la scansione oraria segna il ritmo del tempo a dispetto di tutti gli orologi solari che alunni ed alunne hanno studiato e progettato e a dispetto della naturalità dei ritmi biologici.
Alla cosichiamata “resilienza”, termine a me molto inviso, la scuola ha sempre risposto con una parte di limite roccioso di irriformabilità.
Questo limite, questa muraglia è stata spesso oggetto di analisi e di studio tra noi ed Andrea tanto da spingere Andrea a riflessioni estreme sugli universi concentrazionari per capire come la memoria offesa dei campi di concentramento possa essa stessa divenire forza di resistenza, di re-esistenza.
Andrea ha offerto al Movimento un aiuto costante.
Nel 1992, ero in Segreteria nazionale ed avevo l’esonero da scuola. A dicembre avremmo celebrato il convegno nazionale di Siena che avrebbe dovuto segnare una svolta ed un rilancio del Movimento: “Dalla pedagogia popolare nasce un progetto educativo per una società interculturale e multietnica”.
Non saprei ricontare le ore che spendemmo per fabbricare questo titolo. So che erano arrivati anche se non in forma massiccia, i primi alunni stranieri e ci stavamo preparando ad una crescita del fenomeno migratorio e ci eravamo seriamente posti il problema di come conciliare il concetto di “popolare” con altre culture. L’allora segretario Natale Scolaro (morto molto giovane), tuonava che ci saremmo giocati, in quel convegno tutto il nostro lustro pedagogico.
A me venne affidata la relazione di apertura ma anche una parte del coordinamento dei relatori, cosa da far tremare le vene ed i polsi. Poi mi disse che l’intero impianto andava mostrato ad Andrea che era nel Comitato scientifico assieme a Fiorenzo Alfieri, Paola Falteri ed altri.
Ottenemmo il patrocinio del Presidente del Senato, allora Spadolini. Mi pare fosse settembre del ’92, Andrea ci dette un appuntamento a Bologna. Ero molto ansiosa, come andare ad un esame. Cercai di tranquillizzarmi pensando che avrei lasciato parlare Natale. In realtà Andrea ci venne incontro con un sorriso così conciliante che mi sparirono tutte le paure, andammo a prendere qualcosa ad un bar e lì discutemmo un’oretta,
Andrea ci rassicurò molto e si sarebbe incaricato, se non ricordo male, di fare alcune telefonate. Fu un incontro come pochi, anche gli ostacoli più rilevanti sembrarono rimpicciolirsi. Nei mesi successivi misi insieme, limandolo mille volte lo scritto e battendolo in un mac 128k poco più grande del formato cartolina. Andai da Luisa Tosi, una capostipite della scuola trevigiana, con mac a seguito e le chiesi se potesse andar bene quanto scritto, mi rispose laconica , come era Luisa: “Dignitoso”. Perché, non crediate, ma anche dentro il MCE gli esami non finivano mai !
Fu così che affrontai Siena con lo spirito aleggiante dei due angeli custodi (Andrea e Luisa) anche se nulla mi impedì dopo la relazione di sciogliermi in bagno in un buon pianto liberatorio. La figura di Andrea era stata tuttavia, una sorta di talismano a cui ricorrevo quando la difficoltà mi pareva insormontabile, perché il carattere di Andrea era così, e per prima cosa ti chiedeva come stavi non dimenticando nulla dei racconti passati e di chi eri.
Il pacioso parlare di Andrea non ci può far ingannare sulla seconda rivoluzione dell’innovazione pedagogica, quella che parte dalla diversità.
Se Tamagnini, Legatti, Nora Giacobini, Lodi, Rodari, Tonucci e molti altri, sono stati gli esploratori della prima ora , non possiamo disgiungere il secondo passo di cui Andrea Canevaro è stato artefice seminando in Italia e nel mondo principi e riflessioni psicopedagogiche che hanno consentito di dire: “C’è speranza se questo è successo in Italia nella scuola, nelle cooperative, ad opera di un uomo discreto instancabile e profondamente umano tanto da fare dell’umanità la scienza dell’inclusione ”




Il paese sbagliato, per ricordare Mario Lodi chiediamoci che scuola vogliamo

Stefanel

di Giovanni Fioravanti

Non c’era solo Mario Lodi nel paese sbagliato, ma anche Bruno Ciari maestro a Certaldo e Albino Bernardini maestro nella borgata romana di Pietralata.

Poi c’eravamo anche noi, giovani maestri vincitori di concorso a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Mandati a insegnare nelle classi di “risulta”, quelle “difficili” con 35 alunni tutti ripetenti, adolescenti condannati alle elementari.

Il primo giorno che arrivai a Comacchio, la sede che mi fu assegnata ai primi di dicembre del ’69, mi trovai di fronte una madre venuta a protestare perché la supplente aveva tirato la cimosa contro un alunno il quale per tutta risposta aveva lanciato una seggiola alla volta dell’insegnante, fortunatamente senza colpirla.

Il giorno dopo per raggiungere la mia classe confinata nella sala mensa dell’ECA (l’allora Ente di Assistenza Comunale, sede del Patronato Scolastico), passai davanti ad un’aula buia, pensando che fosse vuota, così avrei potuto trasferirmi lì con i miei alunni, accesi la luce e mi ritrovai di fronte a trenta alunni lasciati tutti in ginocchio, alla mia domanda cosa facessero in quella posizione la risposta fu che erano in punizione e che la loro maestra era dal direttore.

Non è che la scuola elementare ai Cappuccini di Comacchio fosse un’ eccezione, era la normalità del massimo oscurantismo educativo che aveva trovato la sua espressione pedagogica nei programmi Ermini del 1955, con l’insegnamento della religione cattolica a “fondamento e coronamento” di tutta l’educazione impartita dalla scuola pubblica.

Venivo dalle lezioni di Guido Petter sul Piaget, recuperato vent’anni dopo che nel 1945 era fallito, per via dei problemi economici del nostro paese, il tentativo dello Washburne di mandare alcune maestre e maestri all’università di Ginevra per apprendere la lezione dello psicologo di Neuchâtel.

Questo era il paese sbagliato dove ho incominciato a insegnare, dove l’insofferenza per cattedre, banchi, lavagne, per quelle giovani vite impacchettate nei grandi scatoloni delle nostre aule mi portò a studiare, a ricercare fino a scoprire la pedagogia popolare di Célestin Freinet, la cooperazione educativa, il Movimento di Cooperazione Educativa, maestri come Lodi, Ciari, Bernardini le cui esperienze erano da leggere e imitare, perché avrebbero cambiato “il mestiere del maestro” come scriverà nel 1974 un altro compagno di strada: Fiorenzo Alfieri.

Si trattava di contrapporre a una pedagogia reazionaria che sprigionava ancora miasmi di idealismo fascista, una pedagogia rispettosa della centralità e particolarità di ogni bambina e bambino, ragazza e ragazzo. Di applicare nella didattica quotidiana le tecniche didattiche di cui scriveva Bruno Ciari, le esperienze del giornalino “Insieme” di Mario Lodi, la sua biblioteca scolastica, con l’abolizione dei voti, dei libri di testo, la scrittura dei testi liberi e la tipografia per stamparli, il calcolo vivente. La conoscenza di un’infanzia “operatoria” come ce l’aveva descritta il Piaget, lo strutturalismo pedagogico di Jerome Bruner, tutta una cultura di attrezzi pedagogici a cui la scuola italiana contrapponeva ignoranza e resistenza.
Era anche una battaglia politica che facevamo contrapponendo ad una scuola autoritaria e antidemocratica i principi di una pedagogia socialista ispirata agli studi di Dina Bertoni Jovine, al Poema Pedagogico di Makarenko, a Giuseppe Lombardo Radice, alla Riforma della Scuola, pubblicata dagli Editori Riuniti.

Se oggi la nostra scuola primaria può essere presa a modello lo dobbiamo a loro: Mario Lodi, Bruno Ciari, Albino Bernardini, alle tante maestre e ai tanti maestri del Movimento di Cooperazione Educativa come Franco Lorenzoni, che hanno posto giorno dopo giorno uno sopra l’altro i mattoni dell’ innovazione didattica e attraverso essa della liberazione dell’infanzia dall’oppressione scolastica.
È una battaglia che non è finita, che richiede una vigilanza quotidiana contro i tentativi di restaurazione.
Ora tutti corrono a celebrare la figura di Mario Lodi straordinario maestro e scrittore, ma se vogliamo parlare di Mario evitando le celebrazioni, parliamo della nostra scuola, da dove è partita la strada tracciata dal maestro di Vho di Piadena, come ha attraversato le nostre classi, quali segni ha lasciato. Se nelle nostre aule, nel fare scuola di ogni giorno si riconosce la mano, il pensiero di quel maestro. Dove è arrivato e dove ancora non è arrivato, e perché.

Diversamente evitiamo di ricordare Mario Lodi con le parole, perché abbiamo bisogno che Mario Lodi sia presente ogni giorno, dal nord al sud, da est a ovest nelle aule dove crescono le nostre bimbe e i nostri bimbi. Abbiamo bisogno di aule che brulichino di vita, di fermento pedagogico, di innovazione, di creatività, del fare e dell’inventare. Non abbiamo bisogno di aule con banchi che contengono corpi con i loro grembiuli, di lavagne per dettare i compiti a casa, di sussidiari da studiare da pagina a pagina. Abbiamo bisogno di laboratori attivi, di maestre e maestri operosi, imbevuti di spirito innovativo, di intelligenza pedagogica, capaci di suscitare curiosità, fantasia e sogni di bambine e bambini, di fargli scoprire il mondo non dalle finestre delle aule, neppure dalle finestre dei libri di testo o dagli schermi  dei loro laptop, ma per le strade dei loro paesi e delle loro città, dialogando con pari dignità con gli adulti e il loro mondo.

Nella quarta di copertina della prima edizione, 1970, di “Il Paese Sbagliato” l’editore Einaudi sintetizza l’opera del maestro Lodi con queste parole: “Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si sviluppano…”.

Quattro anni dopo Einaudi pubblica “Insieme” il giornale di una quinta elementare del maestro Lodi. Nell’introduzione scrive il maestro: “A scuola, rifiutare il piccolo potere della cattedra e gli strumenti passivizzanti della scuola autoritaria è già vivere, o essere pronti a vivere, in modo alternativo e coerente; è cambiare se stessi nel profondo e tradurre questo cambiamento nelle scelte quotidiane, in un processo di costruzione della persona che i “rivoluzionari della parola” rifiutano perché costa. […] Non è facile per un maestro rinunciare al ruolo di trasmettitore di un “sapere” in scatola come quello condensato nei libri di testo e mettersi alla pari degli alunni per capirne i problemi e aiutarli a ragionare senza chiusure ideologiche, su quanto accade nel mondo.”

Cinquant’anni dopo quanto di tutto questo costituisce il patrimonio della cultura professionale di chi entra per lavorare nella scuola? Quanto è praticato nelle scuole di ogni angolo del paese, da quelle dei piccoli a quelle dei grandi, dalla primaria all’ultimo grado della secondaria?

Il modo migliore per ricordare Mario Lodi, insegnante di bambine e bambini, è interrogarsi onestamente e realisticamente, senza inventarci giustificazioni, alibi e argomentazioni, su che scuola siamo, dalla primaria alla secondaria superiore, su che scuola vogliamo diventare, se ne abbiamo maturato un’idea, masticando di Lodi e Montessori, o ancora se siamo destinati ad arrabattarci in una scuola sbagliata di un paese sbagliato.




Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.


L’integrazione è una parola ‘grossa’ ed impegnativa che ha impiegato molto tempo per realizzarsi. Ha ricevuto pieno riconoscimento dalla L.104/1992 la quale ha promosso l’integrazione per tutti e per ogni ciclo, compresa l’Università. E’ stata questa legge a far intravedere la diversità come valore – a dire il vero già i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 avevano sottolineato che le ‘diversità andavano valorizzate, a patto che non fossero a rischio di ‘disuguaglianza’- ed inoltre aveva anche fatto la sua comparsa la necessità che ogni soggetto con disabilità diventasse protagonista della propria vita.

L’INCLUSIONE

La grande novità però è avvenuta con le ‘Linee guida’ sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (4/8/2009). Compare qui infatti il termine INCLUSIONE. Si afferma, a proposito del ruolo del dirigente scolastico, che la riorganizzazione del sistema in funzione di tale finalità rappresenti un’occasione di crescita per ‘tutti’. L’inclusione diventa perciò un valore fondativo, un nuovo assunto culturale. Tralasciamo quelle che sono state le sollecitazioni che sono scaturite da tale importante documento (ICF, progetto di vita, coinvolgimento di tutta la scuola non solo dell’’insegnante di sostegno, ecc) da cui sono scaturite a cascata le altre disposizioni legislative successive(L.170, BES, formazione referente BES, attivazione PAI, ecc).
Il senso profondo del processo di ‘inclusione’ ha fatto man mano però fatica ad affermarsi secondo le intenzioni del legislatore.
Affinchè i processi di tale aspetto valoriale diventassero modalità in grado coinvolgere tutta la comunità educativa del contesto, definita da Coleman ‘capitale sociale’ (famiglie, EELL, associazioni culturali del territorio, ecc) dovevano essere presenti alcune condizioni che vedremo un po’ alla volta invece evaporare.
Si pensava infatti che i processi di inclusione autentica, caratterizzati da una didattica considerata terreno fertile, in grado di far crescere uno spazio di vera e propria educazione alle differenze, valorizzazione solidale e incentivo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i sensi, potesse trasformare, attraverso cerchi concentrici, tutti gli altri sistemi sociali a partire dal sistema scuola (Brofenbrenner). [1]
Proprio qui invece il sistema ha dovuto incontrare molte difficoltà.
Non mi soffermo sull’aumento abnorme delle certificazioni e dei posti di sostegno, sulla progressiva medicalizzazione delle difficoltà di apprendimento di cui molti si sono già occupati in modo egregio. Desidero affrontare il problema delle ‘derive sociali’ che hanno cominciato a depotenziare la spinta verso l’inclusione ed anzi hanno dato il via a strategie di stampo furbesco, diseducative e, direi, soprattutto regressive.

L’individuo senza passioni

Così recita un famoso testo di Elena Pulcini [2] ,la filosofa fiorentina mancata prematuramente, portata via dal Covid. Una delle derive sociali, cui facevo riferimento, è infatti un diffuso individualismo regalatoci inopinatamente da una sbornia di neoliberismo che ci sta affiggendo da quasi trent’anni. Naturalmente questo sfacciato individualismo, accompagnato da altrettanta dilatata indifferenza verso l’altro, non può che portare a ripiegarsi su se stessi, attraverso un autocompiacimento definito narcisismo, come hanno dichiarato recentemente sia Canevaro che Iosa. Per non parlare dell’aumento dell’intolleranza, del razzismo e dell’omofobia. Ce n’è abbastanza per connotare una società di cui tutto possiamo dire tranne che sia benevola, solidale e in grado di stemperare le disuguaglianze, portandoci verso quella che ci stavamo augurando fosse la direzione di una sana inclusione.
Pensavamo che la scuola potesse diffondere all’esterno i suoi valori costituzionali e sta avvenendo invece il contrario. Le derive sociali stanno permeando la scuola che non è più in grado di frapporre una diga, dei filtri, per depennare la responsabilità educativa degli adulti tutti, chiamati in causa senza scusanti . Tutti : genitori e docenti, dirigenti scolastici e tecnici. La responsabilità è di tutti. A partire dai vertici che procedono come se in periferia la situazione corrispondesse alle norme varate. Poi di chi avrebbe il compito ‘istituzionale ed intenzionale’ di educare le giovani generazioni ai valori costituzionali (magari sono gli stessi che in classe predicano l’educazione civica!).
Nessuno può far finta di non sapere che, alla faccia dell’inclusione, sono tornate le classi di serie A e di serie B (per le quali negli anni 60/70 ci siamo battuti tanto!). E non ditemi che non è vero: Dirigenti che si vantano che nei loro Istituti non frequentano né stranieri né disabili! Tutti sanno che la scuola ormai è ritornata una scuola di classe [3] e non solo a partire dall’Orientamento. A partire dall’Inclusione tradita.
Troppo difficile? Certamente. Nessuno ha mai promesso e certificato che fare l’insegnante oggi sia una professione facile. E’ una professione molto difficile ma vivificante. Chi la intraprende deve saperlo. Alcuni tutor universitari, che seguono i docenti per la formazione al sostegno, garantiscono che questi escono preparati a puntino per lavorare per l’Inclusione….Sono gli altri che, contrariamente a quello che ci si aspetta da anni, non hanno ricevuto la formazione iniziale ed in servizio adeguata ad accompagnare questa innovazione .
Che accade infatti? Si afferma che Il sistema si pone come uno schiacciasassi che rimane inesorabilmente impermeabile. Tranne qualche eccezione che per fortuna esiste e che però fatica a poter perseverare ..
Dario Janes, che da sempre si interessa di inclusione, afferma che bisognerebbe rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule…Nemmeno con l’autonomia didattica, approvata nel 2000, calata nella realtà di un sistema scuola con scarsa presenza della cultura progettuale e senza una seria formazione di tutti i docenti, è cambiato molto. L’inclusione dei disabili rimane una cosa separata. Il PAI è accanto al PTOF. La normativa è rimasta solo illusoriamente inclusiva, nei fatti è rimasto un sistema duale, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello ‘in perenne sperimentazione’ per gli alunni con disabilità. Avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione, perché, aggiunge Janes, “spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe”. Qualche volta per sopravvivere.

[1] Brofenbrenner U.,(1979)Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino.
[2] Pulcini E., (2001)L’individuo senza passioni. Individualismo moderno
[3] Romito M., (2016)Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianze nelle transizioni scolastiche,Guerini Scientifiche.




Quando la tipografia era una tecnologia avanzata. Célestin Freinet e le scuole in rete.

di Giovanni Fioravanti

Ho voluto dare questo titolo per indicare la grande modernità del pensiero di Freinet. La riflessione pedagogica di Célestin Freinet si sviluppa tra le due guerre. Sono gli anni delle tre grandi crisi: quella della prima guerra mondiale, la crisi economica e sociale del 1929 e la seconda guerra mondiale.

Sono anche gli anni del grande fermento pedagogico che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso, un fermento pedagogico che non si ripeterà più, e da cui l’Italia è tagliata fuori per via del fascismo, un ritardo che pagheremo a lungo e che ancora paghiamo.

Un fermento pedagogico che nasce dalla convinzione che l’educazione è alla base della formazione di cittadini attivi, responsabili e consapevoli.

A partire da John Dewey e il suo Credo Pedagogico, da Scuola e Società, Democrazia e educazione fino a Come pensiamo, un’opera su cui Freinet rifletterà a lungo per scrivere i suoi “Essai de psychologie sensible appliquée à l’éducation

Mentre John Dewey ha la sua originalità in quanto si colloca nel contesto statunitense, diverso da quello europeo, un contesto culturale dominato dal pragmatismo, dal funzionalismo e dal comportamentismo, in Europa domina l’idealismo, la crisi profonda del positivismo, l’influenza del marxismo, la diffusione delle scoperte della psicanalisi, la fenomenologia di Husserl, l’elan vital di Bergson nonché, in Francia, lo sviluppo di una scuola etnologica e antropologica critica (Lévy-Bruhl e Marcel Mauss).

Sono gli anni dell’École nouvelle, della scuola di Ginevra, degli svizzeri Adolphe Ferrière e Edouard Claparède, Robert Dottrens, il belga Ovide Decroly, l’italiana Maria Montessori, il francese Roger Cousinet. A cui Freinet partecipa intensamente, ma da cui prende le distanze. Perché da una parte abbiamo la scuola del metodo, dall’altra la scuola delle tecniche. Per Freinet la scuola del metodo è una scuola borghese, con materiale costoso, non adatto alle scuole povere di campagna.

 La formazione di Freinet

L’esperienza della vita militare e della guerra segna profondamente Célestin Freinet.
L’esperienza della guerra è uno degli elementi che conducono Freinet a ricercare una alternativa alla società e alla scuola tradizionale.
Nel 1920 si lega in amicizia con lo scrittore francese pacifista, giornalista, attivista politico, comunista Henri Barbusse. Barbusse costituisce il nodo qualificante della cultura francese degli anni venti, più di Marcel Proust, di André Gide e di André Malraux.
Freinet collabora alla rivista Clarté della III internazionale di sinistra, a cui collabora anche Anatole France.
Nel 1920 è incoraggiato da Romain Rolland, grande figura nazionale, partigiano della non violenza. Scrittore e drammaturgo francese, dedica la sua opera e la sua vita alla diffusione di un credo umanitario di pace e di fraternità.

Freinet inizia la sua attività di maestro, di “instituteur primaire” il 1° gennaio 1920 a Bar sur Loup, in Provenza, ha ventiquattro anni, nato in una famiglia contadina, quinto di otto figli. È reduce dalla Grande Guerra.
La scuola è quella delle leggi di Jule Ferry, 1882, ministro della pubblica istruzione nella Terza Repubblica. L’insegnamento primario è pubblico e gratuito, l’istruzione primaria da 6 a 13 anni è obbligatoria, e impone un insegnamento laico. La legge prevede l’obbligo di istruzione, non l’obbligo scolastico, l’articolo 4 stabilisce che l’istruzione può essere impartita negli stabilimenti di istruzione, le scuole pubbliche o libere o dalle famiglie.

La scuola in quanto tale non è mai stata obbligatoria. Da qui si può presumere che solo i poveri andavano alla scuola pubblica i cui ingredienti sono: disciplina, ripetizione meccanica, copiatura, in particolare si leggono e si ripetono a memoria le gesta du roi Charle Magne, su un cartellone alle spalle della cattedra.
Nel 1916 è stato ferito gravemente a un polmone, ciò lo costringerà ad una lunga convalescenza e sconsiglierebbe chiunque di intraprendere la carriera di maestro nelle condizioni ambientali di quegli anni.

Ma quella di un Freinet maestro a Bar sur Loup, nelle Alpi Marittime, che pensa le tecniche didattiche, perché può parlare poco, per far fronte alla sua debolezza fisica è pura agiografia che Élise Freinet, la moglie, ci racconta in Nascita di una pedagogia popolare.
L’esperienza di Freinet si presta ad essere romanzata. Nel 1949 viene girato un film, che trovate su You Tube L’ École Buissonniere 

 L’École Emancipée

L’École Emancipée è la rivista del sindacalismo internazionalista, è la rivista bimestrale di sindacalisti e pedagogisti all’interno della Federazione sindacale unitaria. L’École émancipée è anticapitalista, femminista, antimilitarista. Vuole cambiare la scuola per renderla cooperativa, egalitaria, solidale. Tutti i bambini e adolescenti devono beneficiare della stessa educazione, nella stessa scuola. Una scuola laica che si oppone ad ogni influenza della religione sulla scuola e sugli allievi.
Nel 1920 Freinet vi pubblica un articolo, La Cultura del capitalismo, che è la traduzione dall’ esperanto di un articolo del tedesco Adolphe Röchl.

Si denuncia il carattere classista della cultura per il capitalismo, cultura che deve essere accumulata come il denaro, il cui possesso discrimina socialmente le persone.
È difesa l’idea di una pedagogia socialista. Fare solamente del socialismo senza modificare i modi di insegnamento, perpetua la pedagogia capitalista, che tratta il sapere come il denaro, invitando ciascuno ad accumularne la più grande quantità possibile.

Il 23 ottobre 1920 scrive: “Senza il cambiamento della scuola, ogni rivoluzione politica ed economica non sarà che effimera.”
Per sostenere l’orientamento di una simile rivoluzione pedagogica Freinet prende come riferimento il contenuto del Congresso degli insegnanti socialisti che fu tenuto a Gotha dal 2 al 4 ottobre 1920. Egli sostiene in particolare che l’insegnamento deve accordare il più grande spazio alla spontaneità degli allievi, solo così si formeranno dei cittadini adatti alla società che dovrà seguire alla rivoluzione.

In un articolo del 1921 Freinet precisa che la pedagogia socialista che egli vuole sviluppare non si propone di inquadrare gli alunni, né arruolarli, ma piuttosto è la proposta di pratiche democratiche che intendono formare dei cittadini.
Già nel 1921 l’essenziale dell’orientamento rivoluzionario di Freinet è disegnato. Nell’estate del 1922 visita le scuole primarie di Amburgo, note come scuole libertarie di Amburgo, sono quattro comunità scolastiche che dal 1919 al 1930 sperimentano una pedagogia antiautoritaria, create sotto la repubblica di Weimar.

È la pédagogie des « maîtres-camarades », il postulato è che bisogna “partire dal fanciullo”.

Rigettano l’idea che uno stato o una religione possano decidere quello che i fanciulli devono apprendere, rifiutano la stessa nozione di “finalità dell’educazione”. La scuola non è il mezzo per preparare alla vita, ma il luogo della vita stessa. La “gemeinschaftschule”. Una scuola solidarista, scuola comunitaria, scuola comunità, come la definì Adolphe Ferrière.

Negli stessi anni, nel 1921, prendeva l’avvio un’altra esperienza libertaria in Inghilterra la Summerhill School di Alexander Sutherland Neill.
Freinet non trova queste esperienze radicali convincenti sul piano pedagogico, troppo individualiste e troppo poco organizzate.

Nel settembre del 1925 va in URSS e conosce la moglie di Lenin, allora ministro dell’istruzione insieme ad Anton Makarenko, pedagogista e educatore ucraino.

Un’altra idea di scuola

Freinet propone un’altra idea di scuola, a partire dalla necessità di riorganizzare l’ambiente di apprendimento, diremmo oggi, per allora si trattava solo di riorganizzare l’aula, cosa per nulla facile. L’esperienza di Freinet, maestro alle prime armi, è raccontata dalla moglie Élise nelle pagine di Nascita di una pedagogia popolare:
L’aula scolastica ove Freinet entra per la prima volta è l’aula tradizionale delle scuole pubbliche: banchi disposti in file rigide, predella per il maestro, attaccapanni fissati al muro, lavagna a cavalletto…Le finestre che si aprono sulla rustica piazza del vecchio castello,..

Ne ritroviamo eco, a circa mezzo secolo di distanza, nella Lettera a Katia con cui Mario Lodi apre Il paese sbagliato:

Eccomi dunque in mezzo all’aula. Vi dovrebbero stare, oltre all’armadio, alla predella su cui troneggia la cattedra, alla lavagna girevole e alla stufa a gas, i tavolini individuali con i relativi seggiolini, un tavolo e un mobiletto guardaroba per i bambini.

 Freinet chiama la sua pratica pedagogica “moderne”, la sua scuola è “l’École moderne”.
Non le New schools, le Scuole nuove, la Nouvelle école, ma la scuola moderna.
Il termine moderno, modernità non è così antico all’epoca di Freinet. Modernità è termine coniato da Charles Baudelaire, per indicare la vita nelle metropoli. Deriva dal latino “modus”.

Le scuole possono essere nuove, ma continuare ad essere vecchie nella concezione della loro funzione. La scuola su misura, la scuola funzionale, la scuola attiva presentano metodi per coinvolgere l’alunno in una scuola che resta quella dell’adattamento, del conformismo, dell’insegnamento.
“Moderna” perché è nuovo il modo di vivere la scuola e il ruolo della scuola al servizio di uomini nuovi per una società nuova.

Nella propria classe Freinet pone l’accento sull’attrezzatura scolastica che resterà la cura di tutta la sua vita. (Si vedano L’Education du travail e Essai de psychologie sensible, scritti vent’anni più tardi).
Freinet espone in un articolo su L’imprimerie à l’école la messa a punto della sua tecnica e l’aspetto nuovo della lettura globale con il metodo naturale. Conia il termine “pedotecnica”.
Qui si pone la differenza tra METODO e TECNICHE, la pedagogia delle tecniche. Quando parliamo di metodo facciamo riferimento ai loro autori: Decroly, Montessori, il piano Dalton, il piano Winnetka. Per Freinet i metodi sono al servizio dell’insegnamento, le tecniche sono al servizio dell’apprendimento, del libero sviluppo del fanciullo.

Le tecniche Freinet sono: la tipografia, il testo libero, il disegno libero, il giornale, la corrispondenza interscolastica, la biblioteca di lavoro, il libro della vita, che gli scolari chiamano il libro delle viti perché tenuto insieme da bulloni. Lo schedario scolastico cooperativo, la grammatica e il calcolo vivente, lo schedario autocorrettivo per l’insegnamento dell’aritmetica, lo schedario autocorrettivo ortografico.

Non più manuali scolastici! Non più lezioni! È il processo di apprendimento che occupa il primo posto.
Freinet trova una argomentazione favorevole alla Repubblica dei fanciulli, alla cooperazione scolastica in L’autonomie des  écoliers, l’art de former des citoyens pour la nation e pour l’humanité che Adolphe Ferrière pubblica nel 1921.

Nel 1923 scrive su l’Ecole Emancipée «L’autonomie des  écoliers  è un libro necessario ai compagni che vogliono far evolvere le loro classi verso la democrazia, per lo sviluppo sociale e umano di tutti i fanciulli».
Per Freinet la relazione maestro allievo è aperta. Le regole comuni non sono il risultato di una azione unilaterale del maestro. È all’interno del consiglio degli allievi che sono prese la maggior parte delle decisioni che permettono la regolare vita della classe.
L’istituzione del consiglio si aggiunge e scandisce la vita della classe.
Non voglio con ciò dire che con la tecnica della tipografia io abbia raggiunto Decroly. È stato lui che, con un lungo giro, ha riportato la scienza pedagogica al suo punto di partenza: il buon senso e la vita.” (C. Freinet, p. 35)

L’istituzione della tipografia scolastica e del giornale portano gli alunni alla lettura critica dei testi, alla loro correzione da parte dell’alunno stesso come dei compagni. Un’abitudine alla riflessione, la nozione di tâtonnement, vale a dire procedere a tastoni, per tentativi.
La pratica collettiva della produzione del giornale di classe o di una enciclopedia scolastica conducono a mettere ogni allievo in un atteggiamento riflessivo. Nella pratica gli alunni sono portati a interrogarsi sul valore di quello che fanno.

Nella scuola di Freinet gli alunni si turnano nel lavoro che li interessa. Questa è una tesi centrale dei Detti di Matteo, che è l’opera teorica di Freinet e che è ben sintetizzata dalla storia del cavallo che non aveva sete.
«Un giovane cittadino voleva rendersi utile nella fattoria dove era ospite e decise di portare il cavallo all’abbeveratoio. Ma il cavallo si rifiutava e voleva condurre il cittadino verso il prato. “Ma da quando in qua i cavalli comandano? Tu verrai a bere, te lo dico io!” e lo tira per la briglia e lo spinge malamente. La bestia avanza verso l’abbeveratoio. “Forse ha paura -pensa il giovanotto- se l’accarezzassi…? Bevi! Prendi…”Nulla da fare e il giovane urla: “Tu bestiaccia berrai ” Il cavallo storce il muso e nitrisce, soffia, ma non beve. Arriva il contadino Matteo e gli dice: “Tu credi che un cavallo si tratti così. Ma lui è meno bestia di qualche uomo, lo sai? Tu puoi ucciderlo, ma lui non berrà. Tempo perduto, povero te!” “Come fare allora?” Si vede bene che non sei un contadino. Non hai capito che il cavallo non ha sete nelle ore mattutine e ha invece bisogno dell’erba medica. Lascialo mangiare a sazietà e dopo avrà sete. Allora lo vedrai galoppare verso l’abbeveratoio. Non aspetterà che tu gli dia il permesso. Non si può cambiare l’ordine delle cose: se si vuol far bere chi non ha sete si sbaglia. “Educatori, siete al bivio. Non ostinatevi nell’errore di una “pedagogia del cavallo che non ha sete”, ma orientatevi coraggiosamente e saggiamente verso “la pedagogia del cavallo che galoppa verso l’erba medica e l’abbeveratoio.  »

Storia che Danilo Dolci doveva conoscere bene quando scrisse Ciascuno cresce solo se sognato:C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

Nel 1944 in L’Ecole Moderne Française Freinet scrive:
«Un fosso che ogni giorno si approfondisce sempre di più, separa la scuola pubblica tradizionale al servizio della democrazia capitalistica dell’inizio del secolo, dai bisogni impellenti di una classe che sente la necessità di formare le generazioni nuove all’immagine di una società di cui si intravedono e quindi iniziano le maestose edificazion

Nel 1926 fonda la Cooperativa della mutualità pedagogica (Coopérative d’entraide  pédagogique) con la rivista L’imprimerie à l’école.
Nel 1927 crea La Gerbe che pubblica una selezione dei testi prodotti dalla corrispondenza scolastica.
Nell’agosto del 1927 durante il congresso delle Federazione unitaria degli insegnanti, che si tiene a Tours, prende parte attiva al Congresso internazionale della tipografia scolastica e partecipa alla creazione della Cooperativa di cooperazione tipografica a scuola. Nello stesso congresso Freinet con Rémy Boyau progettano due cortometraggi e decidono di creare una cooperativa per lo sviluppo di queste attività, con la creazione di una società anonima « Cinémathèque Coopérative de l’Enseignement Laïc »
Nel 1928 si trasferisce a Saint Paul de Vence e fonda la CEL, la Cooperativa dell’insegnamento laico.

Nel febbraio 1932 per la biblioteca di lavoro, Bibliothèque de travail, (BT), inizia le pubblicazioni in proprio. Nell’ottobre del 1932 esce il primo numero di l’Éducateur Prolétarien, nuovo nome dato alla rivista “La tipografia a scuola”.

 L’affaire de Saint-Paul del 1932.

Freinet è ormai conosciuto internazionalmente come un pedagogista, ma non mancano gli oppositori, non solo in seno alla cooperativa della tipografia a scuola.
È il caso di Alain, Émile Auguste Chartier – 1868-1951-, autore di Propos sur l’éducation, che Armando Armando pubblica in Italia nel 1966 con il titolo Una pedagogia di destra insegnata da un uomo di sinistra.
Alain non cita mai Freinet.  Ma non può ignorare l’esperienza di Freinet, soprattutto “L’affaire de Saint Paul de Vence”, tanto più che Simon Weil nel 1933 scrive un articolo per difendere Freinet nella rivista di Alain Libres Propos.
Del resto Freinet conosce l’opera di Alain, in una lettera del 29 marzo 1940 alla moglie Élise, chiede di inviargli al più presto i libri di Alain, il che vuol dire che già li possiede.
Alain attacca la pedotecnica di Freinet. Freinet riprende le sue parole in L’education du travail mettendole in bocca a Monsieur Long, maestro che difende come pedagogia moderna la tradizione, dialogando con Mathieu, il personaggio che personifica Freinet,

Il pensiero di Alain: «L’alunno apprende soprattutto a non pensare. La tecnica è un pensare senza parole, è un pensare delle mani e dell’arnese. È un pensiero che teme il pensiero. Un pensiero delle mani non è ancora un pensiero».
Per Freinet il pensiero di Alain è una tesi che vale la pena di discutere. “L’audacia del pensiero” per Alain è affrontare la disciplina e le difficoltà. Per Freinet è differente, è quella delle idee, delle idee adatte a servire a qualcosa. Solo quando le idee per gli allievi acquistano un valore funzionale suscitano il loro interesse.

A Saint-Paul-de-Vence Freinet è responsabile di una classe di 49 alunni, la scuola è in condizioni pietose e ha diversi scontri con l’amministrazione. Chiede una seconda classe con la speranza che possa essere affidata a Élise.
Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre il paese viene tappezzato da una cinquantina di manifesti che riportano i testi scritti dai suoi allievi. Viene accusato di fare dei suoi allievi dei futuri bolscèvichi. In sostanza è costretto a lasciare l’insegnamento.
Nel 1935, apre a Vence, con l’aiuto della moglie Élise ed il supporto delle organizzazioni operaie locali, l’École Freinet strutturata senza classi, con molti laboratori e soprattutto molto spazio all’aperto: una scuola privata gestita in maniera cooperativa, dove applica le idee ed i metodi di lavoro messi a punto fino ad allora.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale Freinet viene internato nel campo di Saint-Maximin e la sua scuola viene chiusa. Nell’ottobre del 1941 viene liberato; a quel punto si dà alla macchia e partecipa alla resistenza, arrivando a dirigere il maquis della Vallouise.

Finita la guerra, ritorna all’attività di educatore, che continua con impegno ed entusiasmo fino alla morte, che avviene l’8 ottobre 1966.

Occorre dire che lascerà il partito comunista francese, avendolo contro.
La scuola Freinet, de Vence, diviene pubblica nel 1991, ed è classificata come patrimonio dell’Unesco.

Freinet e l’Italia

Nel 1950 Ernesto Codignola invita a Firenze Celestin Fréinet. Il convegno di Firenze è decisivo per i giovani maestri, che entrarono in relazione con il maestro francese e tra di loro, gettando le basi del Movimento di Cooperazione Educativa.
C’era Aldo Pettini, Giuseppe Tamagnini, traduce con Dina Parigi, e scrive l’introduzione all’edizione italiana di “Nascita di una pedagogia Popolare”, edito da La Nuova Italia, la casa editrice fondata da Tristano Codignola.
Giuseppe Tamagnini insegna a Fano, è stato allievo di Giuseppe Lombardo Radice. Fano diventa importante soprattutto perché Tamagnini costruisce lì il materiale per le Tecniche Fréinet, che dal suo laboratorio artigianale viene spedito in tutta Italia ai colleghi che lo richiedono, a partire dalla tipografia per impostare l’apprendimento della lettura e della scrittura. La nascita della Cooperativa “Tipografia e Scuola” (CTS) avviene subito dopo il Convegno di Rimini (2 giugno 1951).
I punti essenziali: organizzare la cooperativa fra gli insegnanti, dotare la propria classe della tipografia, organizzare la corrispondenza interscolastica, raccogliere materiale vario in uno schedario delle materie.
In questi anni si rileva decisivo il contributo di Mario Lodi, Bruno Ciari, Gianni Rodari.
Fu in particolare l’elaborazione di Bruno Ciari e di Giuseppe Tamagnini che contribuì, sia pure parzialmente, sulla cultura del PCI in direzione di una concezione nuova dell’infanzia e dell’educazione.
Nell’estate del 1963 a Barbiana va Mario Lodi e per due giorni lui e don Lorenzo Milani parlano soprattutto dell’arte dello scrivere con i ragazzi. È così che il prete di Barbiana si innamora del testo collettivo e della sua tecnica che il maestro di Vho gli fa conoscere mentre scrivono “Cipì”, la storia costruita con i suoi alunni di quinta.
Si lasciano con l’impegno di scriversi. I primi furono i ragazzi di Vho di Piadena che inviarono una lettera in cui parlano della loro scuola.
I ragazzi di Barbiana rispondono con un testo collettivo che il loro maestro accompagna con una sua lettera. “Lettera ad una professoressa” che Tullio De Mauro considera uno dei capolavori della lingua italiana del novecento, è il frutto anche di questo incontro.
A Bologna l’amministrazione comunale chiama Bruno Ciari a dirigere i servizi educativi, si realizza una sinergia con l’Università dove operano Andrea Canevaro e PieroBertolini, promotori della rivista “Infanzia”.
A Reggio Emilia Loris Malaguzzi realizza un modello di scuole dell’infanzia studiato anche nelle università statunitensi. A Modena Sergio Neri dirige le scuole dell’infanzia e diviene direttore di “L’educatore”.
Torino rappresenta l’elemento di novità. Fiorenzo Alfieri in “Il mestiere di maestro” (1974) descrive il ruolo dell’MCE di Torino nel decennio in cui la scuola italiana farà un salto di qualità decisivo.
Insieme a Daria Ridolfi, Gianni Giardiello, Bartolo Viroglio e Marina Dina, Fiorenzo Alfieri dà vita ad un percorso dove si intrecciarono diversi elementi: la scuola elementare e la media dell’obbligo, l’avvio del Tempo Pieno con l’integrazione dei doposcuola comunali, la ricerca pedagogica e le sperimentazioni promosse in collaborazione con la facoltà di Magistero dell’Università di Torino, dove insegna Francesco De Bartolomeis, di cui molti dei suddetti erano stati allievi, si diffondono le tecniche Fréinet e lo strutturalismo delle discipline introdotto da Jerome Bruner negli USA. Sulla stessa scia Franco Passatore realizza il Teatro-Gioco-Vita e scrive “Io ero l’albero (tu il cavallo)”.

Oggi, Gianfranco Lorenzoni, con la scuola di Giove e l’esperienza raccontata in “I bambini pensano grande”, continua e rinnova l’esperienza freinetiana e del Movimento di Cooperazione Educativa.




Un film storico: L’école buissonière

L’école buissonnière

 Un film di Jean Paul Le Chanois del 1949 documenta i primi passi del maestro Célestin Freinet in un paesino delle Alpi provenzali negli anni 20. Il film è un raro esempio del neorealismo francese, abbastanza simile a quello italiano.

Nel 1926 in un piccolo villaggio in Provenza arriva a sostituire l’anziano maestro in pensione M. Pascal, un giovane maestro che ha combattuto nella prima guerra mondiale. Come educatore l’esperienza della guerra con i milioni di morti gli ha lasciato un forte bisogno di lavorare per preparare un mondo diverso reiniziando con i bambini, che sono essi stessi un inizio.  I suoi alunni però sono abituati a un  metodo autoritario che subiscono passivamente. Pascal-Freinet però li sorprende cambiando radicalmente approccio e basandosi sulla motivazione e sull’ascolto. Ne utilizza così le scoperte, li conduce a compiere osservazioni nella natura, introduce un’organizzazione didattica fondata sulla ricerca, valorizzando così le capacità e gli interessi di ognuno. Riesce così a ottenere la frequenza di Albert, orfano di guerra, un ragazzo pluriripetente che spesso si assentava dalle lezioni, descrittogli dall’autorità comunale come ‘uno scansafatiche presentato tre volte alla licenza elementare, la vergogna del paese’.

Il maestro alla battaglia della Marna è rimasto ferito ad un polmone e non può sostenere  a lungo lezioni nozionistiche, che Freinet definiva ‘la scuola della saliva’.

La metodologia che adotta ha quindi il duplice scopo di fare di un limite una risorsa e di garantire il successo formativo a tutti i suoi alunni.

Fin dal primo approccio ne stimola la curiosità: incontrando un gruppo di bambini che giocano sulla sponda di un torrente a costruire un piccolo mulino, dice loro che sfruttandolo si potrebbe produrre corrente elettrica, suscitando il loro stupore.

L’ambiente non è favorevole alle iniziative del maestro, a cui si chiede di ‘raddrizzare’ i bambini adottando punizioni severe come il maestro precedente: usando la bacchetta, chiudendo in uno sgabuzzino buio. Ci vuole ‘un uomo di polso’.

In consiglio comunale ad ogni richiesta di fondi per la scuola si risponde che ‘la scuola è una voragine in cui si perdono i soldi pubblici.’

Al vecchio maestro che gli parla di disciplina, di testi da imparare a memoria, di braccia conserte e piedi allineati, di venti righe da ricopiare ad ogni infrazione, Pascal risponde che non è con le punizioni che si conoscono i ragazzi, ognuno ha una sua personalità ed è compito dell’insegnante trovarla. Non certo con i colpi di bacchetta.

‘Non si può far bere il cavallo che non ha sete’. Frase che costituisce un passo famoso ne ‘I detti di Matteo’ sulla necessitò di creare motivazione attraverso una pedagogia del lavoro.

Il nuovo maestro non mette voti, non vuole che si reciti la lezione a memoria. Si interroga su come suscitare la sete di conoscenza.

Ogni momento della vita dei bambini è occasione per Pascal per riprendere, farli rielaborare, approfondire: il passaggio di una gara ciclistica è lo spunto per ricerche sulla bicicletta e sulla dinamo; una gara di lumache a cui gli alunni si dedicano prima dell’inizio delle lezioni dà l’avvio, attraverso la trascrizione, alla stesura di testi poetici collettivi e a una ricerca sulle lumache.

Ci saranno dei detective che faranno delle domande, dei giornalisti che scriveranno i risultati, dei disegnatori che faranno dei disegni, delle incisioni’.

Nasce l’idea di una biblioteca costituita da piccole monografie.
Nascono altre proposte, altri argomenti di ricerca: le conchiglie, i fossili, le tradizioni e le leggende popolari. C’è chi si offre di fare il narratore.
Ogni alunno si propone per una ricerca su argomenti della propria vita o che colpiscono la curiosità: la storia della calzatura, il lavoro del falegname, l’elettricità, la fotografia…
Per fare le inchieste la classe esce in passeggiata. L’ambiente offre mille occasioni di osservazione e di ricerca: la capienza di un bacino, l’estensione dei campi, lo stile della chiesa, lo sfruttamento dell’energia idrica…
Di qui il titolo del film: c’è chi in paese definisce sprezzantemente quelle uscite ‘marinare la scuola’.
Il paese si divide in due partiti, i sostenitori del maestro e dei suoi metodi e coloro che difendono privilegi secolari e accusano Pascal di manipolare i bambini instillando in loro idee rivoluzionarie.
Sono i lavoratori a sostenere Pascal: il barbiere, il calzolaio.

Pascal ha anche avviato la corrispondenza con una classe della Bretagna, all’altro capo della Francia. Lo scambio di conoscenze sui due ambienti offre la possibilità di lezioni di geografia e storia vive e incancellabili.

Quando arriva il primo pacco dai corrispondenti di Trégunc, in Bretagna,    contenente una copia del giornalino ‘Il menhir’, le conchiglie (‘che fanno sentire il mare’), le gallette e le crepes  bretoni, l’emozione è forte. Lo stesso postino viene coinvolto. Pascal pronuncia la frase che nella realtà è stata detta da Freinet: ‘Ragazzi miei, non siamo più soli!’.

La classe dei corrispondenti adotta evidentemente la stessa metodologia del maestro provenzale, il maestro ha trovato il contatto attraverso il circuito degli aderenti all’ICEM, il movimento Freinet francese e alla Ecole Moderne di Cannes.  Nel film Pascal accenna a una coppia di insegnanti-evidentemente i Freinet- da cui ha attinto le idee che realizza a scuola e da cui riceve incoraggiamenti e consigli.

Scorrendo il giornalino i ragazzi identificano con orgoglio lo stesso procedimento seguito da loro:  ‘erano libriccini come i nostri, scritti e stampati da tutta la classe, come facciamo noi.’

Il lavoro della classe si fa sempre più articolato grazie all’introduzione della macchina da scrivere, della tipografia, della macchina fotografica, delle tecnologie allora a disposizione.

La possibilità di stampare suggerisce di fare dei libri. Il lavoro dev’essere organizzato. Ognuno ha un compito preciso, dettare, cercare i caratteri, collocarli nel compositoio, controllare la correttezza, incidere su linoleum, inchiostrare, stampare, confezionare le copie, rilegare…

Il proprietario terriero conosciuto come l’innovatore per le migliorie che introduce nei suoi possedimenti, a cui si rivolge Pascal per un aiuto economico, respinge la richiesta: ‘Lei è un apostolo nel suo genere, un mercante di paradiso. Ma io non sono un filantropo, né un credulone. Perché dovrei dare dei soldi per insegnare ai figli dei miei contadini a diventare degli intellettuali? Io ho bisogno di contadini e operai. Un po’ di storia e geografia, le quattro operazioni, altrimenti vogliono diventare tutti dei signori.

Ma la solidarietà popolare consente di superare l’impasse: il barbiere mette a disposizione pacchi di vecchie schede elettorali sul cui retro si può stampare.

Ora in classe molti testi attendono la stampa, e Pascal chiede agli alunni di scegliere i testi da stampare giornalmente, dal momento che non tutti possono essere stampati in una sola volta. La discussione è vivace, non tutti accettano di rinunciare. Si vota.

I ragazzi si affacciano alla vita democratica, fanno esperienza di cittadinanza.

Il primo libretto è pronto e viene venduto, così da potere con il ricavato acquistare carta e inchiostro. La cooperativa della classe è installata con le sue esigenze di rendicontazione, di bilancio, di impiego oculato del denaro.

La diffusione in paese del libretto non passa inosservata ai reazionari, sindaco in testa. Viene proposta la revoca della nomina o il trasferimento di Pascal che sottrae i bambini alle famiglie e-inaudito-‘ li fa votare’.

Pascal, forte dell’appoggio dei genitori contadini e artigiani, chiede di terminare l’anno promettendo che saranno tutti promossi all’esame di licenza compreso Albert, il ‘ribelle’.

Che, sentendosi sostenuto dalla fiducia che il maestro gli dimostra, si guadagna il diploma parlando dei diritti dell’uomo di cui Pascal ha fatto cenno durante dei momenti particolarmente conflittuali con lui.

Albert ora frequenta regolarmente, ma sente su di sé tutto il peso della responsabilità. Lo deve al maestro.

Nel corso dell’esame Albert risponde positivamente a tutte le domande tranne a quelle di storia. In particolare non conosce la data delle battaglie di Azincourt e di Waterloo.  Ma il suo exploit finale sui Diritti dell’uomo, in quanto vissuto direttamente  intensamente, fa cadere le resistenze degli esaminatori (cfr. il testo alla voce ‘Cittadinanza’ in questo alfabetiere della pedagogia Freinet).

Rapporti con allievi particolarmente conflittuali e distruttivi hanno segnato la vita di tante classi, ma il modo in cui il maestro Pascal conquista la fiducia del ragazzo trattandolo come un suo pari, attribuendogli degli incarichi, facendogli avere un ruolo attivo nella classe vince diffidenze e resistenze. A fronte delle molte, troppe segnalazioni di alunni ‘ADHD’ disporre di  strategie pedagogiche  alternative ai sedativi è urgente. E’ urgente riconsegnare la pedagogia agli insegnanti.

Pascal, sospeso dall’insegnamento su pressione delle autorità del paese, grazie all’appoggio di 50 genitori e all’esito favorevole agli esami dell’intera classe,  viene riammesso. Genitori che hanno scoperto un nuovo modo di rendere la scuola attraente e attiva, una scuola del lavoro effettuato con gioia, una scuola che coglie dalla realtà circostante tutto ciò che può consentire di acquisire delle conoscenze in tutti gli ambiti, dalle scienze alla storia alla geografia all’arte, affrontando tutti gli ambiti della conoscenza umana. Una scuola moderna che supera i confini dell’aula e della scuola per avventurarsi nel mondo.

Non è in realtà andata così per Freinet a Bar-sur.Loup dove, minacciato da squadre fasciste, è costretto a fuggire per dedicarsi a costruire una propria scuola a Vence.

Freinet non fu completamente soddisfatto della realizzazione, alcune scene non lo convincevano, nonostante la consulenza e la revisione della sceneggiatura da parte di Elise ci furono tagli e inserimenti, ma considerò comunque che lo scopo era quello di far conoscere e diffondere la scuola moderna in Francia e nel mondo, quindi si trattava di un bene pìù grande a favore dei bambini e delle classi più umili e così rinunciò a rivendicazioni.

Il film, accanto ad altri che successivamente presentano le tecniche Freinet, merita di esser visto ancora oggi così come ‘Il dottor Korczak’ di A. Vajda (1990), ‘ La lengua de las mariposas’ di J. L. Cuerda (1999), ‘Anna dei miracoli’ di A. Penn del 1962, ‘Non uno di meno’ di Zhang Yimou del 1999, ‘Essere e avere’ di N. Philibert (2002), ‘L’attimo fuggente’ di P. Weir (1989), ‘La scuola’ di D. Luchetti (1985) ed altri che hanno consegnato all’opinione pubblica un’immagine dell’importanza dell’educazione e della scuola non banale e stereotipata come purtroppo altri più ‘facili’ hanno fatto.

L’école buissonnière è reperibile presso l’archivio di Rai 3 in edizione francese con sottotitoli in italiano. L’intero copione del film venne tradotto da un gruppo di insegnanti Freinet di diversi paesi durante la XXX Ridef (rencontre internationale des éducateurs Freinet) a Reggio Emilia nel 2014. La traduzione dell’intera sceneggiatura  in italiano a cura di B. Bramini, M. Geninatti, C. Marengo, N. Vretenar (MCE) può essere richiesta a Leonardo Leonetti leonardo.leonetti@tin.it. Per richiedere il numero speciale della rivista dell’associazione dedicata  al  film in occorrenza del cinquantenario della morte di Freinet  (Bulletin des Amis de Freinet et de son mouvement n. 100/2017)  scrivere all’associazione ‘Amis de Freinet’  https://asso-amis-de-freinet.org

NOTA

Célestin Freinet, a partire dagli anni ’20, da giovane maestro nella scuola primaria pubblica francese, cerca di dar vita a una scuola  non  elitaria, non selettiva, non  autoritaria: una scuola per tutti/e, laica, tesa al riscatto socioculturale del popolo.

Introduce in classe la tipografia e la stampa, avvia la corrispondenza e la cooperativa scolastica per stimolare l’autonomia,  l’espressione e la circolazione del pensiero dei bambini e delle bambine, anche  di quelli/e delle classi più umili.

Consolida i rapporti con una cerchia sempre più ampia di insegnanti con cui si confronta e con cui fonda la  cooperativa C.E.L. (Cooperative de l’Einseignement Laic ) che inizia a produrre materiali per  modernizzare la scuola del popolo.

Dà vita alla Bibliothèque de travail (collana di monografie tematiche  per  insegnanti) e fonda una Rivista, ‘L’éducateur prolétarien’.

La sua pedagogia si diffonde anche fuori dalla Francia, ma suscita la reazione delle autorità che decretano per Freinet il  trasferimento d’ufficio.

Il maestro  si  dimette, allora,  dall’insegnamento statale e nel 1935 inaugura, con la moglie Elise, una scuola cooperativa a Vence, sostenuta anche dalla solidarietà di diverse organizzazioni operaie.

 

 

 




Il danno scolastico. Appunti per una possibile recensione

di Marco Campione

Ho finito Il danno scolastico di Ricolfi e Mastrocola. Confermo quanto detto dopo le prime pagine: trasuda disprezzo per chiunque non sia simile agli autori (per percorso di vita, letture, frequentazioni…) e per chi ha provato, fallendo come dirò sotto, a costruire una scuola veramente democratica negli ultimi sessant’anni (dalla scuola media unica in poi, per darsi un riferimento temporale).
Inoltre (e questa è la cosa più grave di tutte) si auto definisce ‘ricerca’, ma di scientifico non ha nulla. È un libro difficile, ma per confutare (scientificamente) i dati buttati lì a caso e spacciati per ricerca si veda ‘Equità e merito nella scuola’ recentemente pubblicato per Franco Angeli da Benadusi e Giancola.
Insomma, un pessimo libro – Il danno scolastico – che spero verrà dimenticato presto.
Ciò detto, leggendo alcune reazioni nella mia bolla, mi vedo costretto a dire una cosa impopolare: la toppa che propongono è peggiore del buco che descrivono, ma alcuni dei loro critici (soprattutto se ‘interni’ alla scuola) negano l’esistenza stessa del buco, che invece non solo esiste, ma è una voragine.
La risposta ai problemi della scuola non può essere quella di Mastrocola e Ricolfi, ma nemmeno la negazione del fatto che la scuola ha molti problemi è una risposta. Il principale? Abbiamo realizzato in cinquant’anni la scuola di massa (oggi si iscrive ahttps://www.amazon.it/Liberare-scuola-M-Campione/dp/8815284419/lle superiori la quasi totalità dei quattordicenni, solo trent’anni fa era il 70%, cinquant’anni fa il 50%), ma non riusciamo a ancora a renderla pienamente democratica, appunto (ogni riferimento a abbandoni, ripetenze e dispersione implicita non è casuale). Anche qui un rimando, che è quello all’introduzione che Berlinguer ha scritto per il libro che ho curato, Liberare la scuola.


I problemi della scuola sono questi, non quelli che molti detrattori del volume di Mastrocola e Ricolfi accampano. In questo sono anche io in sintonia con Roberto Maragliano, per come ne riporta il pensiero Vanessa Roghi in un pezzo (molto condivisibile) scritto a quattro mani con Raimo per Minima et moralia: “questo libro dà voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato e come lo fa? prendendola con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del proprio fallimento didattico”.

Aggiungo però che questo sentimento è presente non solo in chi, nella scuola, concorda più o meno in silenzio con le tesi reazionarie di Mastrocola e Ricolfi.
È anche in molti di quelli che li criticano. Ma che te frega? L’importante è che non concordino con loro. Me ne frega perché questo ambito è uno di quelli dove non vale la regola che basta che il gatto acchiappi il topo.
Trovo, in sintesi, che le tesi del libro e quelle di un certo tipo di detrattori siano in qualche modo speculari: la responsabilità per i problemi della scuola sono per entrambi di tutti e tutto tranne che per responsabilità della scuola stessa (il legislatore, lo spirito del tempo, la scuola democratica per Mastrocola e Ricolfi; il legislatore, lo stipendio basso, l’efficientismo tecnocratico, per gli altri).
E mentre i due gruppi continuano a darsele di santa ragione incolpando il mondo intero tranne loro stessi del fallimento (scolastico) di Martina, Martina subisce le conseguenze dei loro fallimenti (professionali).