Con il PNRR molti soldi per molti progetti, ma manca un progetto

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Nicola Puttilli

Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio.

Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto.
Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc).
Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a  Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola.

Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili.


A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole,  ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato.

Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire.

Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.

  • Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.

A metà degli anni ’70 a Torino, dove vivo e ho lavorato,  furono costruiti alcuni plessi scolastici con caratteristiche molto innovative sulla scorta dell’esperienza della scuola a tempo pieno, nato nel quartiere popolare delle “Vallette”, che cominciava ad avere in città una certa diffusione: pareti delle aule mobili per diversificare gli spazi, buca per il teatro, spazi esterni dedicati agli orti, ecc. Dopo una decina d’anni le pareti erano diventate fisse, la buca per il teatro ricoperta, gli spazi esterni restituiti alla libera ricreazione. Spazi innovativi di apprendimento rischiano di essere una spesa inutile se non affiancati da un serio piano di formazione.

  • La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà  più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.

Un serio e qualificato piano di formazione, inserito in un progetto di rinnovamento partecipato e credibile, potrebbe anche essere motivante per il personale docente ma comporterebbe nuovi carichi lavorativi e comporterebbe il superamento degli attuali vincoli contrattuali, si tratterebbe realisticamente di porre in essere un altro contestuale e massiccio intervento.

  • Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.

Molti altri sono evidentemente i problemi irrisolti della scuola italiana ma quelli sopra delineati sono passaggi obbligati se si vuole tentare seriamente di recuperare il “gap” con i paesi europei più evoluti. I ritardi accumulati sono enormi ma non esistono alternative anche se, al punto in cui siamo, i costi potrebbero sembrare proibitivi. Ancora una volta sono decisive la “capacità di visione” e la volontà della politica, quelle che sono mancate negli ultimi decenni e che sembrano oggi più che mai assenti se è vero che, nel Paese con il maggior tasso di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale, il governo in carica si preoccupa di inserire il merito nella propria intestazione istituzionale. Si inseguono la cronaca e il facile consenso inserendo le ore di educazione civica se il bullismo diventa argomento televisivo, l’orientatore se il tema del giorno è il disallineamento tra l’offerta formativa e il mercato del lavoro e già si prospettano le ore di contrasto al femminicidio, mentre il problema reale è l’innalzamento generale delle competenze dei nostri ragazzi, tutti i nostri ragazzi, in quanto cittadini attivi e responsabili in primo luogo e in quanto lavoratori  adeguatamente inseriti nel processo di crescita del Paese.

Lavorare a un grande e condiviso progetto per il raggiungimento di questi fondamentali obiettivi potrebbe contribuire a dare un senso e una visione anche all’azione quotidiana dei nostri insegnanti e dei nostri dirigenti scolastici. Per la classe politica si tratterebbe di una scelta strategica sulla quale far convergere risorse in buona misura provenienti dalla scuola stessa, dal PNRR a quelle, ancora più ingenti, derivanti dal calo demografico, fino a raggiungere gradualmente  una quota di PIL destinata al sistema di formazione paragonabile a quella degli anni ’90, in linea con quella dei paesi europei. Si tratterebbe, senza dubbio, di un grande impegno e di un grande investimento, inevitabile se si vuole evitare l’ulteriore declino della nostra scuola e, a stretto giro di posta, dell’intero Paese.




Bruno Ciari e le tecniche Freinet

di Giancarlo Cavinato

Nel 2023 ricorre l’anniversario del centenario della nascita di Bruno Ciari che il MCE è impegnato a ricordare e a diffonderne il pensiero e l’azione.
Un comitato si è costituito per predisporre iniziative e strumenti di presentazione della figura e dell’opera del maestro di Certaldo. Accanto a convegni e ad incontri in alcune delle città dove maggiormente ha inciso la presenza di Bruno e del MCE- Bologna, Firenze, Torino, Roma, sono stati messi a punto alcuni materiali per consentire di offrire  uno sguardo a tutto campo e una documentazione del contesto in cui ha operato Bruno e degli esiti del suo intervento accanto ai compagni del Movimento: una mostra sul giornalino scolastico; dei reprint dedicati agli aspetti centrali del suo pensiero, con una selezione di scritti organizzati per temi: il pensiero scientifico, la didattica della matematica, l’educazione linguistica, il rapporto metodo-contenuti/tecniche e valori, il progetto di scuola unitaria, l’espressione del fanciullo.
Sono estratti da articoli che Ciari scrisse per Cooperazione educativa e per Riforma della scuola, e dalle sue opere, ‘Le nuove tecniche didattiche’, ‘I modi dell’insegnare’, ‘La grande disadattata’ (queste ultime due a cura di Alberto Alberti). Sono materiali pensati per la diffusione all’interno del movimento con la proposta del comitato Ciari di organizzare dei gruppi di lettura da parte dei gruppi territoriali MCE così da acquisire chiavi di lettura e di analisi utilizzabili nella scuola di oggi.

In una società in costante evoluzione Ciari intendeva formare nei propri alunni uno spirito civico e una sensibilità democratica e solidale in controtendenza con le prospettive che si andavano affermando nell’epoca del consumismo e dell’individualismo. Per stimolare la formazione di atteggiamenti aperti e critici e non assuefazione e conformismo Ciari si avvaleva degli strumenti concreti, operativi, di una didattica della manualità, dell’interezza, dell’autodisciplina. Formando al senso del valore di appartenere a una comunità, piccola ma centrale nel periodo della crescita, la classe.

L’organizzazione della classe è uno dei fondamentali delle tecniche Freinet.  Nella classe cooperativa esse trovano spazio e significatività, dal piano di lavoro al calcolo vivente, dalla discussione alla messa a punto collettiva dei testi alla corrispondenza al giornale scolastico. Sono questi gli strumenti della ‘scuola del fare’  freinetiana, che consentono a ciascuno/a di acquisire uno status, un ruolo, di espletare delle funzioni in un contesto dinamico, di proiettarsi nelle attività con le procedure che queste richiedono e che si articolano in fasi che richiedono consapevolezza e previsione.

Ciari afferma la profonda incidenza nello sviluppo di atteggiamenti cooperativi e prosociali delle tecniche Freinet, che “non hanno il loro valore essenziale nel procedimento, ma nelle motivazioni profonde che promuovono, negli slanci di vita che accendono nelle classi, nelle possibilità che esse possiedono di creare una comunità organica… in esse si attua una serie di valori umani che il fanciullo non possiede di per sé e che può assimilare […] col realizzare un complesso di rapporti sociali che implicano una determinata concezione del mondo.” (Ciari, I modi dell’insegnare, Editori Riuniti).

L’uso degli strumenti della comunicazione sottende precise scelte etiche, valori pedagogici che la comunità condivide. Si tratta della destinazione sociale del pensiero, del circuito espressione-comunicazione che attraverso precisi dispositivi si attivano e si potenziano reciprocamente. Non c’è un parlare astratto ma diversi momenti e diversi livelli di impegno, personale, di gruppo, collettivo in una classe così organizzata con spazi tempi ritmi adeguati alle attività, sperimentandone l’efficacia, modificandone le modalità ove necessario. Una scuola per la vita, rivolta al futuro.
Non a caso le tecniche di base, alla portata di ognuno, sono tecniche inclusive, che non emarginano nessuno, a cui tutti possono contribuire secondo le loro capacità e le loro propensioni; tecniche, appunto, ‘di vita’. Ben diverse dalle ‘prove autentiche’ cui oggi spesso si fa riferimento nel pur lodevole intento di attribuire significato alle attività svolte dagli alunni.

Attraverso la proposta dei 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione (strumenti di democrazia, ricerca, classi aperte e laboratori, valutazione formativa) il MCE è impegnato a valorizzare un tale impianto organizzativo nella sua composizione modulare che va adattata alle esigenze dei singoli contesti e ad attualizzare per l’oggi le tecniche e i loro supporti tecnologici. Mantenendo la forza e le potenzialità delle esperienze che esse sottendono: il discutere e decidere insieme, l’appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, il fare ricerca, il senso di autorealizzazione, la possibilità dio maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, il collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  il veder nascere e svilupparsi un prodotto come il giornale il libro il video…

C’è un futuro per la pedagogia attiva nel solco di maestri come Ciari, Lodi, Alberti, Maviglia, don Milani.




Calendari e Ministri cheerleader…

di Mario Maviglia

Immaginate un sistema scolastico che ha un bel po’ di problemi da risolvere: una dispersione scolastica tra le più alte d’Europa, un livello di NEET (Not in Education, Employment or Training) decisamente oltre ogni ragionevole soglia, una media degli stipendi dei docenti significativamente sotto la media UE, un’alta percentuale di edifici scolastici non a norma sia sul piano della sicurezza che dell’accessibilità, un analfabetismo di ritorno preoccupante, e altri dati non proprio entusiasmanti.
Cosa vi aspettereste da un Ministro dell’Istruzione davanti a una situazione di questo tipo? (Considerando che l’attuale Ministro ha una prospettiva di governo almeno quinquennale, se non addirittura decennale, tenendo conto dello stato comatoso dell’attuale opposizione politica).
Probabilmente (e ragionevolmente) vi aspettereste che il Sig. Ministro del Merito indicasse un piano pluriennale per risolvere questi e gli altri problemi sul tappeto, individuando le tappe intermedie da raggiungere, la azioni da mettere in atto, le risorse da impiegare  e i soggetti da mobilitare. Insomma, dato 100 come risultato finale, ci si aspetterebbe che il Ministro del Merito definisse delle trappe intermedie per avvicinarsi il più possibile a quel traguardo finale (probabilmente mai raggiungibile nella sua totalità).

Ma questo vostro modo di pensare nasconde una visione romantica e astratta della realtà, che non tiene conto degli aspetti psicodinamici che contraddistinguono la vita dell’istituzione e, nella fattispecie, dello stesso Ministro. E infatti, cosa fa il nostro Ministro del Merito? Si dedica a produrre un calendario commemorativo dei Ministri dell’Istruzione (della Destra Storica, e solo della Destra) dalla nascita del Ministero fino al 1923. Naturalmente è da salutare con grande rispetto ed entusiasmo un’operazione di tal fatta, anche se – del tutto marginalmente e en passant – si potrebbe far notare che non si comprende perché dedicare questa hit parade (presumibilmente realizzata con fondi pubblici, e dunque con i soldi di tutti i contribuenti) solo a Ministri della Destra. Forse perché i Ministri della Sinistra non sono abbastanza “meritevoli”, o forse perché i Ministri della Destra Storica sono più vicini ideologicamente all’attuale Ministro del Merito. O per altre imperscrutabili psicoragioni a noi ignote. Eppure, credevamo che il Sig. Ministro fosse al servizio di tutto il Paese, e non di una parte politica, soprattutto quando usa fondi pubblici.

Qualche anno fa veniva attribuita all’on. Andreotti la frase: “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”; nel caso del Ministro del Merito vien da pensare che questo suo attivismo nel lanciare pensieri e prese di posizioni di carattere sociologico o pedagogico, sull’umiliazione, sugli stipendi differenziati, sui lavori socialmente utili per gli studenti, e adesso sul calendario dedicato ai Ministri della Destra Storica, voglia nascondere la grande difficoltà o incapacità nell’affrontare i problemi enunciati in apertura.
Fa sempre comodo trovare un motivo o un nemico esterno per giustificare l’incapacità a trovare soluzioni adeguate alle varie questioni (in un altro campo, può tornare comodo perfino un manipolo di anarchici pur di non affrontare i problemi seri della giustizia in Italia). Peraltro, questo barcamenarsi tra problemi tutto sommato alquanto futili, procura al Ministro del Merito un altro invidiabile vantaggio, quello di parlare comunque di lui, sviando l’attenzione dai problemi del suo mandato (“There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about”, Oscar Wilde. “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé”).

Dopo i Ministri cheerleader (della Destra Storica, ça va sans dire) sarebbe interessante sapere come il Ministro del Merito intenda affrontare i problemi enunciati in apertura, ammesso che per il Ministro (del Merito) costituiscano dei problemi; infatti potremmo anche suppore che il contrasto alla dispersione scolastica non costituisca una questione meritevole di attenzione per l’attuale dicastero, in quanto la scuola non può far altro che registrare le naturali differenze che esistono tra le persone, per nascita, censo, disposizioni naturali et similia. Ecco, questo sarebbe un bel programma di lavoro per la scuola del futuro, con la benedizione e l’autorevolezza dei Ministri della Destra Storica, of course.




Settanta anni fa moriva Maria Montessori: ma sulle monete troveremo Raffaella Carrà

di Alvaro Belardinelli
(articolo pubblicato per concessione dell’autore e del giornale dell’Unicobas)

Notizia del 6 settembre 2022: a rappresentare l’Italia in Europa e nel mondo, nel 2023 la Zecca dello Stato italiano conierà le monete da due euro con l’effigie di Raffaella Carrà (che RaiNews trionfalmente definisce “regina della TV” e “regina del tuca tuca”).
Brava persona, Raffaella Carrà: nulla da eccepire sulla sua professionalità di ballerina e cantante, nonché presentatrice televisiva e donna intelligente. Tuttavia, con tutto il rispetto per donne come lei, se ripensiamo ai tempi (dal 1990 al 1998) in cui le banconote da £ 1.000 riportavano l’immagine di Maria Montessori, qualche perplessità è inevitabile.
Sotto i ponti del Tevere, del Po e del Piave l’acqua continua a scorrere velocemente malgrado la siccità, e i risultati si vedono nella cultura e nella weltanschauung dello Stivale, i cui orizzonti si fanno sempre più angusti e pedestri.
Su monete e banconote della vecchia lira in centoquarant’anni abbiamo avuto i grandi della nostra Storia: Giuseppe Verdi, Maria Montessori, Camillo Benso conte di Cavour, Cristoforo Colombo, Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Giulio Cesare, Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti, Marco Polo, Vincenzo Bellini, Alessandro Volta, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Galileo Galilei, Guglielmo Marconi, Antonello da Messina, Tiziano Vecellio, Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Manzoni.
Nomi e immagini che fanno l’identità di una nazione, la memoria storica di un popolo. Di un popolo che legga, s’intende, e che conosca il proprio passato. Di un popolo che abbia frequentato con successo la Scuola, e che della Scuola abbia compreso, con gratitudine, l’importanza.

La filosofa che educò a un “mondo nuovo” e senza confini

La Scuola, appunto: cui il nome di Maria Montessori è indissolubilmente legato. Filosofa, educatrice, neuropsichiatra infantile, medico, pedagogista, scienziata: Maria Montessori a quarant’anni era già una celebrità mondiale. “The most interesting woman of Europe” fu la definizione che ne diede il New York Tribune nel 1913 quando sbarcò negli U.S.A., accolta con rispetto e considerazione.
Molti sono da allora i personaggi celebri e celeberrimi allevati secondo il “metodo Montessori”. Gabriel García Márquez aveva studiato secondo i dettami della scienziata. Così anche Anna Frank, e molti altri. Come Friedensreich Hundertwasser, architetto, ecologista, pittore e scultore austriaco; Taylor Swift, attrice, cantante, cantautrice statunitense; Yo-Yo Ma, celeberrimo violoncellista d’origine cinese (Maria Montessori considerava la musica fondamentale per la crescita del bambino); Jimmy Wales, imprenditore, fondatore di Wikipedia; Beyoncé Knowles, attrice, ballerina, cantautrice; George Clooney, attore, regista e sceneggiatore, impegnato socialmente e per la pace.
Moltissime sono oggi le scuole Montessori nel mondo: una ogni dodicimila abitanti in Irlanda; una ogni cinquantottomila in Svezia; una ogni sessantottomila negli U.S.A.; una ogni settantunomila in Germania; una ogni settantaseimila in Olanda (paese ove la scienziata morì). Fanalino di coda (come spesso accade quando si parla di istruzione) l’Italia — dove il metodo nacque — con una scuola Montessori ogni quattrocentotrentamila abitanti.
Maria Montessori voleva educare i bambini a un “mondo nuovo” e senza confini: un mondo in cui ognuno si sentisse parte di un corpo unico, quello dell’umanità intera, che è sano se ogni sua parte è sana. Un concetto da medico: Montessori fu infatti una delle prime donne italiane laureate in medicina.
L’educazione montessoriana tende all’autonomia del bambino: perché «insegnare a un bambino a mangiare, a lavarsi, a vestirsi, è lavoro ben più lungo, difficile e paziente che imboccarlo, lavarlo, vestirlo». Educare è creare le basi di un’umanità nuova, perché «il bambino è insieme una speranza e una promessa per l’umanità». Promessa che si mantiene con l’amore: «Più dell’elettricità, che fa luce nelle tenebre, più delle onde eteree, che permettono alla nostra voce di attraversare lo spazio, più di qualunque energia che l’uomo abbia scoperto e sfruttato, conta l’amore: di tutte le cose esso è la più importante». Concetto che ritroviamo anche nella pedagogia libertaria del pedagogista scozzese Alexander Sutherland Neill (1883-1973).

L’educazione fondata sulla libertà

Partendo dallo studio dei bimbi con disabilità psichiche, Maria Montessori arrivò ad elaborare un pensiero pedagogico valido per tutti i bambini. Mirando all’educazione dell’autonomia del fanciullo, il suo metodo segue le inclinazioni del fanciullo stesso, assecondandole. Viene favorita e aiutata la concentrazione della volontà del bambino su uno scopo, mediante esercizi metodici per insegnare a dirigere la volontà stessa. Educazione motoria e intellettuale vanno insieme, conducendo l’individuo ad una crescita armoniosa. La disciplina comportamentale, dunque, non viene più imposta come fine a se stessa, ma diventa una scelta dell’individuo, cresciuto nella libertà ed allenato nella volontà.
Nata nel 1870 presso Ancona da una famiglia di solide tradizioni liberali e risorgimentali (il padre era mazziniano e massone, la madre ancora più progressista), Maria si trasferì molto piccola a Roma con i genitori. Fin da giovanissima mostrò spiccato interesse per le scienze e per la medicina. Si iscrisse a un istituto tecnico (scuola considerata allora inadatta al gentil sesso), e nel successivo percorso universitario dovette studiare tra l’ostilità e lo scetticismo di un ambiente accademico tutto al maschile. Nel 1890 si iscrisse alla facoltà di fisica e matematica, ma nel 1892 passò a medicina. Affinché questa scelta le fosse consentita, dovette prendere posizione il ministro dell’istruzione Guido Baccelli, precedentemente contrario a femminilizzare la professione medica.
Caparbia, emancipata, di idee femministe, Maria non si arrendeva davanti a nessun ostacolo per far quanto riteneva giusto.

Quando si credeva che una donna non può essere un genio

Capì che malattie come la tubercolosi e la malaria erano favorite dall’emarginazione sociale, e che pertanto la lotta contro di esse era compito dello Stato. Nel 1896 si laureò: terza donna italiana con laurea in medicina, fu la prima in Italia a esercitare la professione medica. Si dedicò ai malati psichiatrici (soprattutto bambini) in un’epoca in cui soprattutto la psichiatria era territorio maschile. Vedeva “una fiammella d’intelligenza” in ognuno dei suoi piccoli pazienti.
Conseguì quindi una seconda laurea in filosofia. Maria era la prova vivente di cosa la cultura può fare di una donna intelligente. Colpiva tutti la sua capacità di resistere come un uomo alla fatica, al ribrezzo, alle emozioni violente della pratica clinica; nonché la sua fattiva intelligenza di ragazza sola, in mezzo a tanti luminari della medicina: tutti uomini, e tutti convinti che non possano esistere donne di genio.
Giuseppe Sergi, fondatore della Scuola antropologica romana, nel 1893 (quando Maria aveva 23 anni) scrisse perentorio che non esistono “donne di genio”, perché la donna ha come tratto dominante l’”infantilità”. Una donna può al massimo partorire un genio, ma non esserlo lei stessa. Gli scienziati dell’epoca erano scientificamente convinti di tale sciocchezza.
Montessori fu tra le prime a chiamare, con grandissimo coraggio, simili castronerie “cattiva scienza”, e a confutarle proprio dal punto di vista scientifico, mediante argomentazioni tecniche aggiornate ed inoppugnabili: come per esempio il fatto che il “cervello più piccolo” delle donne è in proporzione alla minore massa del corpo, rispetto alla quale il cervello stesso femminile risulta addirittura maggiore di quello maschile!
Maria aveva ventisette anni quando s’innamorò del collega, ricercatore, psichiatra e psicologo Giuseppe Ferruccio Maria Montesano, di due anni più anziano, promessa della psichiatria infantile. Nel 1898 ebbe da lui il figlio Mario, che fu tenuto segreto — perché “illegittimo” — e affidato ad un’umile famiglia di Vicovaro, paesino presso Roma. Successivamente, però, Montesano accettò di sposare un’altra donna impostagli dalla propria madre. A quel punto Maria vestì a lutto e lo lasciò per sempre, provvedendo da lontano — autonomamente — al mantenimento di Mario, che avrebbe poi ripreso con sé quattordicenne, alla morte dell’affidataria, senza mai rivelargli — se non nel testamento — di esser la sua madre vera. Da questa sua esperienza nasceranno (nel 1904) le sue idee sul tema della maternità sociale e sulla necessità che siano le donne a scegliere il proprio compagno, nell’interesse dell’umanità futura.

115 anni fa il “metodo Montessori”

Il 1907 è un anno chiave: a trentasette anni, Maria Montessori apre la prima “Casa dei Bambini” nel quartiere operaio di San Lorenzo nella capitale, per bimbi dai 2 ai 6 anni. Nasce così il “metodo Montessori”, il cui ambiente è studiato per stimolare l’attività del bambino, libero di scegliere il lavoro che meglio risponda ai suoi bisogni del momento. In questo ambiente tutti i bambini sono liberi di muoversi per compiere i propri esercizi, senza disturbarsi a vicenda: la libertà diviene terreno di crescita, base indispensabile della realizzazione umana.
In seguito Maria comprende che il suo metodo può essere applicato anche ai ragazzi più grandi, e lavora per diffonderlo. Viene invitata in tutto il mondo per spiegarne l’essenza, e viaggia ovunque, mentre i suoi libri vengono tradotti in decine di lingue.
È a quel punto che entra in scena Benito Mussolini: il quale si incarica di valorizzare l’“italianissimo metodo” montessoriano, conferendo alla scienziata la tessera del Partito Nazionale Fascista nel 1926 come “membro onorario”. Seppur estranea al fascismo, Maria viene strumentalizzata come simbolo della “rivoluzione” fascista. Col Regio Decreto 781 del 5 febbraio 1928 nasce la Règia Scuola di Metodo Montessori per insegnanti, con sede provvisoria nel nuovissimo quartiere “Della Vittoria” in via Monte Zebio, nella scuola governatoriale “Ermenegildo Pistelli” (dedicata al noto filologo classico morto l’anno prima).
Presto però il Duce fiuta nella libertà insegnata da Montessori qualcosa di totalmente estraneo alla teoria fascista del “libro e moschetto”. Il controllo sulla Règia Scuola si fa asfissiante e sospettoso. Alcune insegnanti sono accusate di antifascismo. Inoltre, in aperta sfida col fascismo, nel 1932 a Ginevra Maria Montessori si esprime in favore dell’educazione alla pace, con parole (“un mondo nuovo per un Uomo nuovo”) certo non gradite al futuro “fondatore dell’impero”.
Nel 1933 Maria e il figlio Mario (ormai trentacinquenne, presentato sempre come “nipote” e anch’egli pedagogista) si dimettono dalla Règia Scuola, rompono col fascio e l’anno dopo riparano in Spagna. Mentre le scuole Montessori in Italia vengono chiuse, scoppia la guerra civile spagnola, e nel 1936 Mario imbraccia il fucile insieme a Nello Rosselli per difendere la Repubblica spagnola. Maria, già sessantaseienne, si rifugia in Olanda. Spostatasi successivamente in India, nel 1940 viene internata dagli inglesi perché di nazionalità nemica. Torna in Europa dopo la guerra, onorata ovunque fino alla sua morte nel 1952.

A settant’anni dalla morte di Maria Montessori, onoriamo la Carrà

Settant’anni dopo, la Zecca italiana sceglie di dedicare una moneta a Raffaella Carrà. Quanto conta nell’Italia di oggi la Scuola? Quanto la pedagogia? Quale visione del mondo, dell’umanità, della società, del futuro alberga nelle menti e nei cuori delle nostrane classi dirigenti? O meglio, esiste una tale visione? Esistono questi cuori e queste menti?
Come pedagogia sembra esistere solo quella sociale implicita: implicita nel fatto che gli insegnanti, considerati impiegati di serie C, vengono retribuiti come operatori ecologici (i quali, con tutto il rispetto, svolgono mansioni nobilissime, ma senza le responsabilità civili e penali degli insegnanti, e senza dover studiare molto per svolgerle). Una “pedagogia sociale”, quella dello Stato neoliberista italiota del 2022, il cui messaggio subliminale è: lo studio, l’impegno, gli ideali non servono a nulla. Lasciate ogni speranza o voi che studiate, che credete, che vi impegnate in qualcosa. Lasciate che a guidarvi, a governarvi, a comandarvi, siano quelli di sempre. Sarete ricompensati con spettacoli luminescenti, pieni di ballerine, cantanti, ricchi premi (disvalori, preconcetti, stereotipi, sponsor) e cotillon. I divi che più vi incanteranno saranno glorificati, santificati, iconizzati su monete, banconote, francobolli e monumenti. Perché molti servigi avranno reso alla Patria: primo fra tutti, quello di rendere il popolo bue ancora più bue.




“Scuola media unica”: sessant’anni portati male

di Giovanni Fioravanti

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.
Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”.

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita.
Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.
Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.
Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti.
Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese.
C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.
Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.
Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio.
O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica.
E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.
Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.
La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.
Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni.

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.
E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?
Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.
Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.




Clotilde Pontecorvo, studiosa di psicologia dell’educazione

di Pietro Netti

Qualche giorno fa ci ha lasciati Clotilde Pontecorvo, maestra, studiosa e ricercatrice, tra le più importanti esperte italiane ed internazionali di psicologia dell’educazione e di processi di apprendimento.
Nata a Roma, scampata bambina alle persecuzioni nazifasciste, nel 1959 aveva conseguito la Laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi sul liberalismo politico di Benjamin Constant.
Professore emerito dell’Università Sapienza di Roma dal novembre 2009.
Fino ad allora era stata Professore di Psicologia dell’alfabetizzazione e di Psicologia dell’interazione discorsiva presso il medesimo ateneo.
Dal 1998 Ordinario di Pedagogia all’Università di Salerno e di Roma, dal 1976 al 1983 di Psicologia dell’Educazione.
Dal 1984 al 1997 è stata, nei due trienni 1983/1985 e 1997/2000, Direttore del Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.
E’ stata coordinatrice dell’ESF Network on Writing and Written Language.
Promotrice infaticabile della collaborazione tra università, insegnanti e scuole, ha ispirato la migliore politica scolastica degli ultimi 40 anni, esaltando in particolare la scuola dell’infanzia e la primaria.
Fondamentale il suo apporto ai lavori della commissione ministeriale che ha redatto gli indimenticabili e per molti versi insuperati Orientamenti per la Scuola dell’Infanzia del 1991.
Tra i molti temi di cui si è occupata nei suoi studi le modalità di acquisizione della lingua scritta, lo sviluppo di concetti sociali attraverso la discussione, i rapporti tra argomentazione e pensiero in contesti educativi, familiari e scolastici, il curricolo e lo sviluppo cognitivo in diverse aree, sulla formazione degli insegnanti, sulla continuità educativa.
Numerosi i libri e le pubblicazioni di cui è stata autrice. Tra gli altri: “La scuola come contesto. Prospettive psicologico-culturali” (Carocci), “Famiglie all’italiana. Parlare a tavola” (Carocci), “Psicologia dell’educazione” (Giunti), oltre a più di 200 articoli in svariate riviste internazionali e nazionali, capitoli in testi collettanei e circa 30 monografie.




Quando c’erano gli istituti magistrali

di Libero Tassella

Gli Istituti magistrali soppressi da Luigi Berlinguer erano corsi finalizzati all’insegnamento con una serie di materie caratterizzanti (filosofia, pedagogia, tirocinio).
Inoltre le maestre, in funzione dei concorsi ordinari che sostenevano tutte, affinavano in un secondo momento la loro preparazione tecnica; i corsi di preparazione erano gestiti da Direttori Didattici e da Ispettori che allora erano persone di una vasta cultura, poi nella pratica d’insegnamento acquisivano sempre maggiori conoscenze attraverso corsi di aggiornamento e si abbonavano a riviste come Scuola Italiana Moderna con i suoi vasti apparati didattici dell’editrice La Scuola (quelle cattoliche e democristiane) o come Scuola e Città della casa editrice la Nuova Italia (quelle socialiste e comuniste).

Comunque in ambedue i casi l’insegnamento era visto come una continua ricerca per lo meno un’avanguardia così lo considerava e si trascinava le altre e gli altri con una qualità medio-alta di insegnamento, nasceva in Italia la ricerca educativa e un dibattito sulla nuova didattica; è in questo clima che nacque l’integrazione dei disabili e si crearono le premesse per la legge 517 del 1977; il modo di fare scuola cambiava ma con la consapevolezza di formare il cittadino del futuro e un preciso riferimento alla Costituzione Repubblicana con una forte tensione etica.
Questa scuola che ha formato generazioni di italiani oggi è scomparsa.