Registro elettronico, tutto ciò che c’è da sapere

di Antonella Mongiardo

Da diversi anni nelle scuole italiane è entrato in uso il registro elettronico, ma diversi aspetti di questo strumento vanno chiariti.
Intanto è bene precisare che il R.E. non è obbligatorio, ma fortemente consigliato, perché sostituisce efficacemente il registro del docente, per la registrazione dei voti e di ogni altro aspetto dell’attività didattica, nonché per le comunicazioni tra scuola e famiglia.

Sulla questione se il R.E. possa soppiantare anche il giornale di Classe, si può dire che, in presenza di una dematerializzazione non perfetta, la firma elettronica del docente è giuridicamente valida, ma non equivalente a quella autografa (anche in considerazione del fatto che si può apporre accedere al R.E. e apporre la spunta di frequenza da qualsiasi postazione) e il suo valore probatorio è liberamente valutabile in tribunale, nel senso che, in caso di contenzioso di qualsiasi natura, la decisione ultima spetterebbe al giudice.
Per questa ragione, ogni scuola adotta una politica propria.

Di questo e molto altro si parla nel vademecum realizzato da Antonella Mongiardo, dirigente scolastica presso l’IIS “L. Costanzo” di Decollatura (CZ).

Clicca qui per scaricare il vademecum sul registro elettronico




Il valore educativo del dialogo

di Raimondo Giunta

La scuola per certi aspetti è un luogo strano, dove chi sa fa le domande e chiede conto e ragione a chi non sa; ma dovrebbe essere il contrario e se lo fosse sarebbe, come affermava molti anni fa Guido Calogero, la scuola ideale, perché avremmo alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
Diceva Dewey che ogni lezione dovrebbe essere la risposta ad una domanda. E’ proprio questo intreccio di domande e risposte il dialogo; è l’ascolto reciproco la buona educazione.
Si domanda per apprendere, si domanda per insegnare e a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande, se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica.
La scuola, come dice B.Rey, dovrebbe essere il luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di chi la pronuncia.
“Le verità non derivano da un’autorità testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello di educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica” (J.Bruner).
Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica e richiede l’attribuzione del potere di pronunciarla; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo.
“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”(Pascal).

Ma le domande che hanno senso non si pongono a caso.
Bisogna educare a porre e a porsi domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare strumenti per potere discutere e dialogare ,per diventare capaci di resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Bisogna educare a problematizzare.
Per non accontentarsi delle prime e rassicuranti risposte e andare oltre, in profondità su ogni questione, su ogni dato, su ogni fatto, su ogni notizia, su ogni nuova conoscenza.
Bisogna allora contrastare con energia la tendenza a insegnare saperi, trascurando di fare capire e conoscere i problemi che li hanno generati.
Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali.
L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. La responsabilità educativa si realizza nel riconoscimento e nella valorizzazione dell’alterità dell’alunno come fondamento del dovere di attenzione alla sua soggettività, del dovere di cura del suo sviluppo integrale e armonioso.
“Educare è comunicare profondamente con un giovane per aiutarlo a comunicare con se stesso” (A. De Peretti).
Chiedeva ai suoi uditori di porgli domande; così le sue lezioni erano piuttosto confuse e non mancavano di divagazioni”(Porfirio-Vita di Plotino).
Puo’ succedere che il dialogo sfugga di mano e si crei un po’ di disordine in classe, ma non bisogna averne paura, perché per certi aspetti è vita.
Non esiste una scuola del silenzio che sia anche scuola di partecipazione.
Educare è accettare di discutere e il centro dell’attività didattica non può essere sempre la cattedra; si deve spostare verso il centro dell’aula per fare in modo che la classe diventi una comunità dialogante, di partecipazione.
Il dialogo come mezzo e come fine dell’educazione esige un’etica comunitaria convintamente vissuta da docenti e alunni ;ognuno deve fare la propria parte, mettersi a disposizione dell’altro, sentirsi parte di una comunità, in cui con diverse funzioni, insieme si apprende e si vuole andare avanti. Ma il dialogo non è un metodo, è il modo e non solo a scuola di dare valore e significato morale all’altrui presenza.
Il dialogo è confidenza tra gli allievi e tra gli allievi e gli insegnanti; è piacere di appartenere ad una comunità, che porta avanti insieme il progetto educativo.
Il dialogo non ha fretta; è per le pari opportunità; non esclude, non stigmatizza; non è competitivo, ma cooperativo. Il dialogo non è solo tra i presenti, ma si estende, va fuori dell’aula, incontra la società, incontra il passato.
E con tutti e con tutto invita a discutere, a parlare e ad ascoltare, perché è desiderio di apprendere e di comprendere il mondo.
Il dialogo è l’antidoto per sottrarre la scuola alle seduzioni tecnologiche che la stanno immiserendo e sterilizzando, perché pone la centralità della parola viva nella relazione educativa e perché solo nella parola viva si incontrano le persone che hanno qualcosa da dirsi.
Nel dialogo i giovani imparano a parlare e ad esprimersi, incominciano a gustare il piacere di potere comunicare il mondo delle proprie esperienze, del proprio vissuto.
Il primato del dialogo impedisce alla scuola di essere una caserma, di trasformarsi in una spuria azienda di formazione professionale; invita ad andarvi e a frequentarla senza angoscia, perché scaccia la sofferenza e la noia; allontana la sottomissione e incentiva l’autonomia, combatte l’insuccesso e le gerarchie e non nega cittadinanza all’errore e alle differenze.




Fiorenzo Alfieri: la scuola e la città

4 marzo 2014
Gianni Giardiello e Fiorenzo Alfieri a Drizzona (CR) in occasione del funerale di Mario Lodi

di Gianni Giardiello
(da un intervento al convegno: “Fiorenzo Alfieri amministratore: strategie di cambiamento” – Palazzo Civico, Torino, Sala rossa, 15 dicembre 2021)

  1. La biografia di Fiorenzo maestro è una biografia collettiva

Ho conosciuto Fiorenzo nei primi anni 60 all’Università di Torino. Lui, a 19 anni, era già insegnante di ruolo presso la scuola Nino Costa. Io, di tre anni più anziano, non avevo ancora deciso cosa fare nella vita.

A indirizzarmi dopo la laurea, nel 1964, verso il mestiere di maestro elementare, oltre che il bisogno di trovare una sistemazione stabile e retribuita, fu Fiorenzo che mi fece conoscere il Movimento di Cooperazione Educativa e mi fece vedere cosa stava facendo a scuola con i suoi 34 alunni e le tecniche della pedagogia popolare di Celestin Freinet. Con un gruppo di altri amici neo maestri torinesi era già stato al congresso annuale del MCE a Castiglioncello e aveva conosciuto e letto le esperienze straordinarie di insegnanti come Giovanna Legatti, Anna Fantini, Bruno Ciari, Mario Lodi.

Alla Facoltà di Pedagogia di Torino nell’istituto diretto da Francesco De Bartolomeis, si studiava Dewey e le scuole nuove europee. Fiorenzo, fresco di nomina alla scuola elementare Nino Costa e appena iscritto alla Facoltà, si mise a disposizione di un gruppo di lavoro sulle tecniche didattiche di C. Freinet. Quel piccolo gruppo non solò studio a fondo le tecniche, ma produsse anche dei materiali didattici fra cui un interessante schedario autocorrettivo per l’apprendimento della letto/ scrittura. Il gruppo si espanse abbastanza rapidamente al di fuori dell’Università, divenendo una realtà associativa di insegnanti innovatori e sperimentatori piuttosto importante per la città di Torino e dintorni. Alcuni incontri con i “grandi” del MCE contribuirono ad accrescere l’interesse della scuola torinese per questa nuova realtà associativa.

La mia narrazione di Fiorenzo maestro e uomo di scuola fra i primi anni ’60 e il 1975 non può che essere la biografia di quel magnifico gruppo a testimonianza della prima grande qualità di Fiorenzo Alfieri maestro: la propensione, quasi la necessità, sua a voler lavorare con altri, l’indispensabilità del gruppo per discutere, per fare ricerca e  sperimentazione, per costruire i materiali didattici da utilizzare a scuola, per condividere problemi, successi e, qualche volta anche dispiaceri, per evolvere insieme sul piano professionale e umano. In qualche caso anche solo per stare insieme. Basti pensare al processo di colonizzazione a cui sottoponemmo il paese di Champorcer, in Valle d’Aosta. Avevamo, nel giro di un paio d’anni occupato (ma regolarmente affittato) con consorti, figli e parenti per stare insieme d’estate e per sciare d’inverno, ogni disponibilità di alloggi, case, baite e scantinati di quel paese e delle vicine frazioni. Compensammo gli amici aostani contribuendo alla gestione di alcuni stages per insegnanti della valle.

 Facevamo il mestiere più bello del mondo

Il centro vitale del nostro stare insieme erano le nostre classi, per lo più sparse nei quartieri popolari e periferici della Città e della provincia, e i nostri alunni. Io avevo iniziato il lavoro con una classe terza di 32 alunni maschi del quartiere Lucento a poche centinaia di metri dalla Nino Costa. E capii subito che quello che avevo intrapreso era davvero “il mestiere più bello e appassionante del mondo”, come Fiorenzo racconta in un intervento ad un convegno a Moncalieri del 2004:  “Era una fortuna fare un mestiere del genere per un ragazzo di 19 anni e mi dicevo che avrei dovuto pagare io lo Stato per la gioia che mi permetteva di provare ogni mattina …. E poi aggiungeva sottovoce “non dovrei dirlo, è un pensiero talmente antisindacale che dovetti tenerlo per me e per i miei amici più stretti ….”
“Una gioia che scaturiva dal divertimento personale nello scoprire il mondo insieme a dei bambini interessati a tutto, …. E anche dalla consapevolezza che quell’esperienza educativa avrebbe potuto avere conseguenze positive per la società in cui quei ragazzi si preparavano a svolgere il mestiere di cittadini.
Questi due valori: quello personale e quello sociale erano le due facce di una stessa medaglia per me e per i miei colleghi di allora, e continuano ad esserlo fortunatamente per tante persone impegnate nella scuola torinese ancora oggi.” 

Ma si tratta di un mestiere complicato

Ma fare il maestro era anche un mestiere complesso, un mestiere in progress, si direbbe oggi, che richiede capacità di azione e reazione, che agisce in situazioni fluide, in continua modificazione.

La scuola è in effetti per definizione un “ambiente per l’apprendimento”, in cui l’insegnante ha soprattutto il compito, molto artigianale, di predisporre, organizzare e proporre situazioni, materiali, conoscenze, tecniche e tecnologie ecc.

Un mestiere impegnativo, soprattutto se si voleva farlo bene. Era necessario leggere, discutere, progettare e collaborare con altri e, soprattutto studiare. Sono stati parecchi gli autori e gli esperti di riferimento di quel felice momento di confronto e di dialogo in cui volevamo approfondire non solo l’uso delle tecniche, ma anche, e questo fu un segno distintivo del gruppo MCE di Torino, le aree disciplinari partendo dalle singole epistemologie per le scienze naturali e fisiche, per la lingua, la matematica, le scienze dell’uomo, le discipline artistiche e facendoci aiutare da esperti, negli stage di aggiornamento che facevamo (pagando di tasca nostra) in estate .

Noi leggevamo, studiavamo e discutevamo molto

Rispondendo ad una domanda rivoltagli da un giovane che stava preparando una tesi di dottorato, Fiorenzo sottolineava come in quegli anni avessimo fatto “una bella insalatona di autori mescolando autori europei, Piaget, Freinet De Bartolomeis, e poi Morin e Bateson,, americani da Dewey a Bruner e  Dienes, fino a Gardner, e russi, soprattutto Vygotskij”.

Ma ciascuno di loro ci aveva fornito alcune chiavi importanti per capire e interpretare il nostro mestiere:

“Dewey in “Scuola e società” aveva buttato sul tavolo un macigno: “se tutto quello che si fa nella scuola non ha una ricaduta sulla società è del tutto inutile”.
“Il nostro piccolo Freinet ne ha ricavato la tipografia a scuola: fin dal primo giorno il pensiero più bello che è venuto fuori in classe deve essere stampato e portato immediatamente a casa per farlo leggere ai genitori e ai fratelli. Una tecnica questa che ha dentro di sé un valore sociale straordinario.”

 E insieme un valore educativo fortissimo poiché, come ci aveva detto De Bartolomeis all’Università, promuove e libera un bisogno fondamentale dei bambini: il bisogno di esprimersi e di comunicare con gli altri.

“… e Bruner soprattutto nella “La ricerca del significato” (questo è il libro che venne poi a presentare a Torino), dice che la cultura è negoziazione di significati all’interno di un gruppo, e che si realizza attraverso la narrazione.

 Ma è stato soprattutto Lev Semenovic Vygotskij, avanzando forti dubbi sulla rigidità della “stadizzazione” dello sviluppo infantile proposta da Piaget e criticando il suo concentrarsi su un solo tipo di intelligenza, quella logico matematica, per descrivere i caratteri e la qualità dello sviluppo infantile, a consegnarci una concezione della conoscenza, e del compito dell’insegnante, illuminante:

(…) nel processo di insegnamento apprendimento occorre che la proposta di apprendimento, il “lavoro” o l’attività che si propone ai singoli allievi, si situi  nella zona prossimale  al livello del possibile sviluppo successivo. Questo per poter agganciare e coinvolgere l’interesse e le competenze specifiche di ciascun allievo e, nello stesso tempo, essere in grado di favorirne un ulteriore sviluppo”
Gardner ha completato, con la teoria delle intelligenze multiple, la critica al Piaget  “ (…) l’intelligenza, e tutti noi “bambinologi” lo sappiamo da sempre, presupposta da Piaget era solo una delle intelligenze possibili: quella logico-matematica. E tutte le altre dove le mettiamo? Quanti bambini dimostrano fin dal primo anno di vita di preferire un certo modo “di mettere in forma il mondo” agli altri possibili? ma malgrado questo siamo andati dietro a Piaget quando platealmente negli skreening sottoponeva le sue “cavie” esclusivamente a test di natura logico-matematica. (…)

Insomma, se mettiamo insieme i riferimenti che ho rapidamente richiamato a Vigotskij, a Dewey, a Bruner, a Freinet, nel suo piccolo anche a Gardner (anche lui venne a Torino nel ’97, per l’apertura del convegno che ha chiuso il centenario della nascita di Freinet) viene fuori un sistema concettuale importante sia per la pedagogia, che per la politica, Come certamente sarebbe piaciuto a Gramsci”.

 C’era e ancor più oggi c’è, un gran bisogno di formazione. Ruolo dell’Università nella formazione iniziale e ruolo della amministrazione scolastica in quello in itinere

In effetti ciò di cui oggi ha più bisogno la scuola è di insegnanti preparati sul terreno pedagogico, e su come vanno impostati e governati i processi di insegnamento/e apprendimento ai vari livelli di età per garantire che tutti gli allievi raggiungano un livello di competenze e di conoscenze di alta qualità, cosi come richiesto anche dalla nostra Costituzione.

Di formazione professionale iniziale, l’Università offre assai poco. Di Pedagogia, di metodi e tecniche dell’insegnamento, di come funziona la mente quando si impara, di cosa comporti il farsi del pensiero tra emozione e cognizione, di come elaboriamo le esperienze e di come acquisiamo le conoscenze, si parla assai poco; di queste cose i futuri insegnanti non studiano, non raccontano e non sperimentano pressochè nulla.

E poco o nulla si recupera con la formazione in servizio, che non è un obbligo, ed è fruita solo in modo sporadico e occasionale. Sono peraltro anche venute meno le uniche strutture istituzionali, come gli IRRSAE, in grado forse di promuovere e gestire programmi di formazione organici e per tutti i docenti.

Con Fiorenzo all’IRRSAE Piemonte negli anni 85 /90 promuovemmo un Piano Pluriennale di Formazione sui Nuovi Programmi di studio della scuola elementare emanati nel 1985, che fu seguito da tutti i 30 mila insegnanti piemontesi. Con sussidi audiovisivi, libri, schede didattiche e conduttori appositamente preparati dall’Istituto.

Fiorenzo, formatore MCE Dirigente scolastico e successivamente ricercatore e docente presso scienze della formazione primaria all’Università di Torino, e componente del Consiglio Direttivo nell’IRRSAE Piemonte, ha sempre messo al centro del suo lavoro e delle sue narrazioni, la visione di un scuola impegnativa, esigente e vitale, capace di promuovere, nonostante difficoltà e tagli irresponsabili,  una educazione di qualità  come quella che eravamo riusciti a proporre nelle scuole a Tempo Pieno negli anni ’70/80 e che ancora, per fortuna, caratterizza molte esperienze delle scuole di base del nostro Paese .

E insieme allo studio e all’approfondimento sulla didattica delle discipline, si faceva politica.

Tra il 65 e il 75 abbiamo vissuto un periodo straordinario, ricco di battaglie e di “ciclostilati”. Il nostro lavoro nelle scuole di base infanzia, elementare e media e, soprattutto, la nostra pedagogia viva, concreta che rivoluzionava il rapporto docente-classe per aprirsi ad una progettazione collaborativa, interdisciplinare, di laboratorio e di ricerca, era molto in sintonia con la visione del mondo che si manifestava nella contestazione studentesca, negli scioperi per una diversa organizzazione del lavoro e per il diritto allo studio, per le 150 ore, per lo Statuto dei lavoratori, nelle grandi adunate contro la guerra e contro le discriminazioni razziali, nelle lotte contro le diseguaglianze sociali ed economiche che evidenziavano quanto profondo fosse il malessere sociale. Facemmo manifestazioni e battaglie contro la selezione e la discriminazione sociale nella scuola, il tempo pieno, l’istituzione della scuola dell’infanzia statale, arrivammo a proporre come forma di protesta il voto uguale per tutti gli alunni, chiedemmo e praticammo l’abolizione del libro di testo in favore della costituzione di biblioteche di classe e di scuola proponemmo e praticammo l’integrazione nelle nostre classi dei bimbi con disabilità. E in verità qualche successo istituzionale lo ottenemmo.

Il tempo pieno nasce nelle classi con insegnanti MCE

 Antesignane furono due classi, quella di Fiorenzo e quella di Daria Ridolfi, della Nino Costa. Si trattò in effetti di una rivoluzione del vecchio doposcuola che il Patronato scolastico elargiva per i più poveri. Ottenuta dalla amministrazione comunale (democristiana!) la mensa gratuita per tutti gli allievi, si realizzò già nel 69/70, per tutte le due classi, un tempo scuola di otto ore (dalle 8,30 alle16,30), utilizzando anche gli insegnanti doposcuolisti, E questo prima ancora della emanazione della legge 820 che con l’anno scolastico 1971/ 72 istitutiva il Tempo Pieno, con due insegnanti statali per ogni classe,

L’MCE di Torino aveva proposto il modello Nino Costa alle altre scuole con tranquilla sicurezza pedagogica: La scuola giusta ha bisogno di più tempo: quel tempo pieno propose cioè alla attenzione della città la possibilità di una nuova pedagogia, di alto profilo culturale, aperta al territorio e alle sue risorse, capace di abituare ragazzi e famiglie alla bellezza dello stare e lavorare insieme, alla importanza di leggere buoni libri, di fare o ascoltare buona musica, di organizzarsi per vedere mostre e musei, di fare feste e iniziative nel quartiere.

Fiorenzo in un suo libro “La città che non c’era”, ne sottolinea un aspetto decisivo: “L’ambizione di noi insegnanti fu sempre quella di contrastare il principio secondo cui l’offerta educativa e culturale, se vuole davvero incontrare gli strati più popolari, deve necessariamente abbassare il proprio livello. Cercammo di dimostrare l’esatto contrario e cioè che, lavorando in un certo modo con i bambini e con le loro famiglie, si poteva produrre il “miracolo” di ottenere una qualità pari se non superiore a quella riscontrabile in ambienti socialmente più avvantaggiati.”

 Era, ed è, un’idea forte che nasce dall’esigenza pedagogica di poter svolgere interamente in scuola tutte le attività necessarie ad apprendere, cercando di contrastare in classe le difficoltà e i ritardi dei più fragili e, culturalmente, più indifesi. Il che si coniuga assai bene con le esigenze delle molte famiglie, soprattutto di quelle in cui ambedue i genitori lavorano, che ritengono fondamentale che i loro figli abbiano a scuola il tempo “necessario” per garantire a tutti gli apprendimenti e la conquista degli alfabeti fondamentali, per poter leggere, per poter sperimentare la propria creatività, per riflettere criticamente e fare ricerca, per confrontarsi fra pari, per produrre conoscenza e sviluppare competenze al meglio possibile e soprattutto, per imparare ad esprimersi e a comunicare,

Ce lo ricorda Franco Lorenzoni, in un articolo su Internazionale, riportando la testimonianza di un ex allievo di Fiorenzo giunto alla Nino Costa in quegli anni, come tanti altri, dal Sud: “Non riuscivo a parlare tanto bene. Parlavo in dialetto, non capivo la lingua italiana e scrivevo male. In Puglia mi avevano bocciato due anni anche perché aiutavo mia madre a lavorare. A Torino ho cominciato a capire parlando. Il maestro mi faceva parlare molto, mi ha insegnato pure a discutere, perché io nelle altre classi non ero capace a discutere, non si parlava mai, chi parlava pigliava un 5 o un 4. Qui adesso sono libero di parlare”.

 Il TP diventa la bandiera della scuola torinese

 Quel Tempo Pieno progettato e realizzato alla Nino Costa e in alcune altre scuole della periferia popolare e operaia di Torino dai maestri MCE, divenne la bandiera della scuola torinese e per oltre un decennio, a partire dai primi anni ‘70, la scuola fu al centro delle politiche scolastiche e sociali della città e di molti comuni della provincia. Il sindaco comunista Diego Novelli nel 1975 diceva spesso questa frase: “la città deve investire non solo sulle traversine dei tram e sui mattoni, ma anche sulle coscienze”. E il neo assessore all’istruzione di quegli anni, Gianni Dolino, già direttore didattico molto vicino al MCE, completava cosi quello slogan: “Se vogliamo investire nelle coscienze, se vogliamo formare dei cittadini migliori di noi, allora non possiamo scaricare responsabilità di questa portata tutte sulla scuola. Dobbiamo trasformare la città in una grande scuola: solo così potremo aspettarci che gli alunni di domani siano davvero dei buoni cittadini”.

 L’assessore all’istruzione Gianni Dolino, fino a pochi mesi prima direttore didattico alla Casati, con la complicità di Alfieri, neo assessore alla gioventù, e prendendo in contropiede lo stesso sindaco Novelli, fece passare in giunta una delibera a sorpresa che destinava ai servizi educativi una cifra enorme, mai vista prima di allora.

 La città “educativa”

 Ne derivò – raccontava Fiorenzo, commemorando in questa stessa sala la figura di Gianni Dolino –  un dossier di occasioni culturali di impressionante vastità e varietà, che veniva messo ogni anno a disposizione delle scuole, insieme ad animatori e educatori presenti in tutti i 23 quartieri della Città.  Risorse e disponibilità, che certamente contribuirono a fare della scuola di allora uno strumento essenziale per aggregare, per fare comunità”, per riuscire a compiere quella straordinaria opera di integrazione sociale e culturale che “rimescolò” oltre mezzo milione di nuovi cittadini con l’altro mezzo milione di torinesi d’origine. Una lezione che oggi non dovremmo dimenticare”.

E aggiungeva: “Si parla tanto, infatti, di rompere i ghetti urbani, ma è difficile poi accettare il principio che il modo migliore per farlo stia nel creare in periferia servizi migliori di quelli che si trovano nelle zone considerate privilegiate, fino a indurre i ceti medio-alti a complicarsi la vita pur di mettere a disposizione dei loro figli certi modi di stare insieme e di capire il mondo”.
E quale prezioso contributo Fiorenzo Alfieri, diventato assessore, ma rimasto soprattutto maestro, abbia dato alla realizzazione di questa idea ce lo hanno già chiarito molti degli interventi in occasione di questo convegno a cominciare da quelli degli ex sindaci torinesi Castellani e Chiamparino, che con lui hanno amministrato questa città nei successivi decenni.
Fiorenzo, costruttore culturale, propose e lavorò fin dalle prime esperienze di assessorato (già a partire dal l976), intorno al progetto di una città aperta, dialogante, capace di mettersi al servizio della scuola, cosi come da maestro, aveva praticato una pedagogia e una didattica che faceva della città, delle sue ricchezze ambientali, umane e culturali, ma anche dei suoi problemi e delle sue contraddizioni, una base ineludibile del processo di istruzione della scuola.
Una città “educativa”, in grado cioè di offrire alle scuole luoghi e occasioni perché lo studio e la ricerca possano intrecciarsi con la vita concreta del lavoro, dei mestieri e delle professioni, dei servizi, delle istituzioni culturali, e dei cittadini.

Ma soprattutto una città è “educativa” se è capace di riconoscere e apprezzare il lavoro di istruzione di tutti i cittadini che la scuola pubblica è chiamata a compiere dalla nostra Costituzione, e l’importanza del contributo che essa può dare nei processi di educazione alla cittadinanza, alla convivenza civile e alla democrazia.

Gli insegnanti, i dirigenti, gli operatori scolastici e quindi i ragazzi e le loro famiglie hanno un assoluto bisogno di questa attenzione, condizione essenziale perché la scuola svolga al meglio i suoi compiti cosi come prevede la nostra costituzione, che sappia dare la parola a tutti i piccoli e giovani cittadini che vengono a lei affidati, abituandoli alla bellezza e importanza delle conoscenze, aiutandoli a raccontare ed elaborare criticamente le loro esperienze, dando loro occasioni e strumenti per leggere e studiare, per esprimersi e comunicare, aiutandoli a costruire le loro idee sul mondo attraverso la riflessione critica, la ricerca, e il confronto con gli altri.

 “Bisogna usare la città come grande scuola – diceva Alfieri, ed è un messaggio che, mi auguro, anche sia gli insegnanti che gli amministratori della città saranno capaci di riproporre e perseguire, un eredità preziosa da non disperdere.




PNRR, POVERTA’ EDUCATIVA E DINTORNI

SULLA POVERTA’ EDUCATIVA – di FRANCO DE ANNA

Le scadenze del Pnrr: il rischio di confondere i desideri con la realtà

CONTRASTO ALLA POVERTA’ E ALLA ESCLUSIONE SOCIALE
Unione Europea. Consiglio dell’Unione europea, Raccomandazione del 14 giugno 2021, n. 2021/1004, che istituisce una garanzia europea per l’infanzia

Il 5° Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva approvato dall’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza il 21 maggio 2021.

CNEL – Parere in merito all’atto COM(2021)  “Proposta di raccomandazione del Consiglio relativa all’apprendimento misto per un’istruzione primaria e secondaria di alta qualità e inclusiva”

Commissione Europea
Proposta di RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO relativa all’apprendimento misto per un’istruzione primaria e secondaria di alta qualità e inclusiva

La scuola, la pandemia, il digitale e l’Europa, di Franco De Anna
(si tratta di una “lettura guidata” alla Raccomandazione della Commissione Europea e al relativo parere del CNEL)

Note sul PNRR per la scuola
Documento non recentisssimo, ma le note sono organizzate in modo da rilevare per ogni Missione le parti relative a investimenti e riforme necessarie, indicando i finanziamenti relativi




Best Latin Better half Qualities

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Parole, parole, parole: usarle bene per mettere ordine nel mondo

di Raimondo Giunta

‎La parola ci aiuta a tenere a bada, a regolare la molteplicità delle cose che fanno parte del nostro mondo e delle nostre esperienze . Ci costringe a mettere ordine nelle nostre idee, a dare una direzione alla nostra volontà.
In questo modo crea lo spazio delle nostre relazioni e la possibilità, se lo si vuole, di metterci d’accordo, di comunicare, di dialogare. Nella parola scompare la particolarità, l’individualità della cosa; vi rimane attaccata la sua essenza, l’eidos, come dicevano i greci, l’immagine che ci facciamo della cosa e che per questo diventa il significato del nome che la indica.
La parola “orale” è immediata, fisica, contestuale; si accompagna alle emozioni e le provoca. E’ la parola della conversazione, dell’ascolto, della rabbia, della gioia, del pianto. La sussurri, ma la puoi anche gridare, mettendoci tutta l’anima. la Parola scritta è di suo astratta, riflessiva, malleabile modificabile, reversibile. E’ muta e per questo adatta al dialogo interiore. E’ la parola da leggere, che è nello stesso tempo un vedere e un ascoltare, anche se la pronunci in silenzio; ma richiede tempo, richiede la separatezza del raccoglimento; richiede attenzione: risorse tutte in via di estinzione nell’universo della chiacchiera multimediale e della nostra vita quotidiana.


La funzione normativa della parola si esprime al massimo delle sue possibilità nel diritto, dove serve a inquadrare la fluidità delle azioni e dei comportamenti per ricavarne effetti dal punto di vista giuridico. Ma in questo caso si lascia alla “prudentia” il compito non di dedurre, ma di interpretare il suo vero significato, la sua forza cogente e poi di applicarla, nella consapevolezza che la parola del diritto, RAGGRUPPA, RACCOGLIE, IDENTIFICA, METTE A NORMA LA MOLTEPLICITA’ DEI FATTI, ma non li rappresenta tutti. Consente, infatti, varianti ed eccezioni. La funzione normativa e regolatrice della parola si esalta nella parola scritta, alla quale si deve la possibilità dell’accumulazione e del trasferimento delle esperienze per la sua radicale sinteticità. Non consacra nella tra-dizione l’intera memoria sociale, l’intera nostra storia, perchè non potrebbe farlo, neanche se lo volesse.
Ma quel che la parola scritta può trasmettere lo consegna con sicurezza, e di esso si può fare istruzione, perchè disponibile nei “testi”.
La riproducibilità dei testi fonda la modernità della ricerca individuale, del libero esame, di una soggettività padrona del proprio pensiero. Modifica un costume collettivo rispetto al principio di autorità e al concetto di verità. Ci si istruisce attraverso i testi, ma non si dovrebbe dimenticare mai quanta parte del “mondo dell’esperienza” non vi è più rappresentato, che in essi son date delle risposte a domande che bisogna sempre tenere presenti o recuperare. Senza testi scritti non si può fare scuola. La scuola trasmette saperi e conoscenze perchè il mondo dell’esperienza viene riassunto e recuperato attraverso quanto è stato scritto e riprodotto nelle discipline scolastiche. Il testo a scuola è il sostegno dell’oralità nella trasmissione dei saperi, il punto di partenza della conversazione educativa e del dialogo e non ha alcun senso rinunciarvi (si dovrebbe sempre ricominciare daccapo).
Impone la logica stessa del modo di insegnare.
E’ insegnabile, infatti, tutto ciò che entra nell’ordine del discorso, e può essere ricostruito nella sua identità e struttura. La scrittura deve essere posseduta da tutti per potere partecipare alle pratiche sociali che da essa vengono trasmesse e rappresentate; proprio per questo va salvaguardata dalle pratiche educative che la sottomettono ad altre priorità, che ne misconoscono le potenzialità formatrici. La scrittura stabilizza la nostra esperienza e differisce l’espressione immediata delle nostre reazioni, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, delle nostre intuizioni collocandole nello spazio purificato della riflessione, con la quale diventano risorse del nostro pensiero. La scrittura mezzo di distanziamento e di riflessione nel mondo dell’immediatezza. Per questo è necessario a scuola valorizzare in tutti i modi, tutti i modi della scrittura. L’ingresso nella scrittura è il passaggio obbligato per ogni forma di autonomia intellettuale.




How to get Latinas For the purpose of Marriage

While a man’s looks may pull in Latinas for the purpose of marital life, the woman’s education and specialist knowledge may also make a difference. Many Latinas come from countries with poor education systems, so a man must look into going back to school to obtain an advanced degree and/or operate his discipline. If a man has no college degree, this individual should consider heading back to school and obtaining a higher-level degree. This will make certain that he is keen on her traditions and standard of living.

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Like a man, you must https://alldating4u.com/blog/colombian-dating-culture understand that Latinas are not always comparable to their European counterparts. The majority of European women of all ages are more mature and blonde. Asian women of all ages are generally youthful and have lighter weight skin colors. As opposed, Arab American women are generally white and straight-haired. They are a lot like their Arab brothers and have straight hair. The important thing to remember would be that the right meet is out there; you will find thousands of Latina women awaiting you to arrive and marry them!

Latinas could be beautiful and eloquent. Some would prefer to marry a man of their home country, although some may want to get married to someone via a different region. In either case, the goal is always to have a long-term marriage with a good company. A Latina woman will be content if the man she is getting married to has very good intentions, appearance, and an authentic interest in the girl culture.

While Latinas are generally beautiful and caring, there are numerous differences among Latinas and European girls. Most Eu women happen to be older and also have golden frizzy hair. Asian women of all ages are youthful and have dark skin hues. Arab American ladies are usually white, straight-haired, and show similar to all their Arabic siblings. If you are looking for the perfect match, make sure you are genuine and genuine about your hobbies. There’s no point in aiming to impress somebody you don’t just like.

When Latinas are certainly more traditional than Western women, men looking for a spouse in the Carribbean and Latina America may find a more eye-catching woman. Whilst a few Latinas want to marry a guy from their homeland, others want to marry a guy who can give their as well as culture. If this is the https://www.boundless.com/immigration-resources/k-1-fiancee-visa-explained/ case, you have to consider the customs and lifestyle on the woman you are interested in.

Latinas are gorgeous and have an array of personality types. Some love to marry men off their own nation while others wish to marry a man out of a foreign country. Despite their different skills, Latinas are searching for a long term romantic relationship with a man who stocks and shares their ideals and way of life. Should you be looking for a partner from the Carribbean, make sure you will be respectful and honest.