Adolescenza e sessualità ai tempi della pandemia

di Giuliana Sarteur

Questi due anni di pandemia hanno sconvolto le vite di tutti e, soprattutto, hanno cambiato il nostro modo intendere e vivere le nostre relazioni interpersonali.
Le conseguenze sono state particolarmente significative per i più giovani per i quali le relazioni sociali e personali rappresentano un elemento indispensabile per la crescita.
E, fra le relazioni, quelle affettive che investono anche la sfera sessuale sono quanto mai fondamentali. E’ per questo che, proprio in questa fase, dobbiamo prestare la massima attenzione a questo tema.
Con questo articolo apriamo quindi una rubrica curata dalla dottoressa Giuliana Sarteur con lo scopo di fornire a tutti noi alcuni spunti di riflessione. [red]

Nella nostra società il sesso è presente ovunque e per i più giovani è sempre più alto il rischio di vivere la sessualità in modo affrettato ed inconsapevole. Le stimolazioni che avvengono attraverso internet, i social, la facile accessibilità alla pornografia difficilmente sono giustamente indirizzate; i giovani sottovalutano i rischi e le famiglie manifestano difficoltà nel gestire questi momenti di crescita spesso invertendo i ruoli educativi.
La sessualità umana si sviluppa nell’infanzia e nella adolescenza, influenzata dalla realtà sociale, culturale e religiosa di ognuno di noi e dal periodo storico in cui ci si trova a vivere; pertanto ciò che valeva per i nostri genitori non è detto che sia un valore anche per le nuove generazioni.

Nel corso della nostra crescita acquisiamo conoscenze, formiamo immagini, valori, competenze riguardanti il corpo umano e le relazioni intime: le fonti principali di questa fase precoce sono quelle informali della famiglia, soprattutto attraverso il loro esempio.
Le esperienze sensoriali dei primi anni di vita incideranno tanto quanto quelle della adolescenza: se il  corpo del bambino sarà amato e coccolato allora sarà in grado di esprimere le proprie emozioni. Gli adolescenti presentano alcune caratteristiche inevitabili e fisiologiche che poco hanno a che fare con gli ormoni, ma molto di più con prove di indipendenza e allontanamento dal nucleo famigliare.

In questo senso non è opportuno favorire comportamenti anche sessuali non consoni all’età. Sessualità è gratificazione, è conferma della propria identità di genere e  biologica, del proprio orientamento sessuale e del ruolo di genere. Per questo sono importanti le informazioni che consentono un atteggiamento positivo e responsabile nei confronti della sessualità per vivere le proprie esperienze in modo appagante e consapevole.

La ricerca del sesso agito senza emozioni non va agevolato né inibito.
Dobbiamo anche insegnare a dare un senso alle parole: fare sesso è la ricerca del piacere fine a se stesso che non tiene conto delle esigenze dell’altro, fare l’amore è emozione, prendersi cura della persona amata, complicità e comunicazione.
Una scarsa o nulla educazione sessuale ed ancor più una insufficiente educazione ai sentimenti ci espongono ai bisogni altrui, creano dipendenza, trasformano l’atto d’amore in una prestazione che apre le porte alla violenza psicologica.

Ci sono molte domande che dovremmo porre ai nostri adolescenti:
– i tuoi bisogni sono stati soddisfatti?
– quale valore metti al primo posto?
– hai imparato ad amare il tuo corpo?
– sai dire NO?
– capisci quando sei a disagio e perché?
– sai cos’è il sexsting?
– sai chiedere aiuto?
– conosci la differenza tra molestia e abuso?
– si parla di sessualità in famiglia e se si chi lo fa?

Dobbiamo vincere il nostro disagio che a volte è fisiologicamente presente di fronte ad alcune specifiche domande  se vogliamo tenere in primo piano la felicità e la serenità di queste giovani e future persone.




Dalla alternanza scuola/lavoro ai PCTO (percorsi per competenze trasversali e per l’orientamento)

di Raimondo Giunta

All’alternanza scuola/lavoro sono subentrati con il comma 785 dell’art. 1 della legge 145 del 30 dicembre 2018 i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento.
Diciamolo.  Nel primo caso ci si trovava di fronte ad una pia illusione, perché di alternanza si può parlare quando i tempi tra attività formative ed esperienze di lavoro si equivalgono; nel secondo caso ci si trova nel campo controverso delle competenze trasversali.
La vecchia formulazione straripava in termini di spazio e di obbligatorietà e finiva per stravolgere in alcuni indirizzi la regolarità delle dovute attività curriculari; il nuovo indirizzo per i tempi più ristretti (per fortuna) non può andare oltre una pratica di orientamento al lavoro e alla cultura del lavoro, dignitosa in sè e non bisognevole dell’ addobbo delle competenze trasversali. Trattasi, infatti, di uno stage, che bisogna sapere organizzare bene dal punto di vista didattico se si vuole che fruttifichi qualcosa.
E a proposito che cosa sono le competenze trasversali? A cosa devono cotanto fascino?

Il fascino indiscreto delle competenze trasversali

A partire dagli anni ’90 le ricerche e i contributi dell’ISFOL hanno fatto emergere, accompagnato e consolidato in Italia la cultura delle competenze e un linguaggio che le significava per gli usi che si incominciavano a fare nelle attività della formazione professionale.  Un ruolo particolare veniva assegnato alle competenze che venivano chiamate trasversali (diagnosticare, relazionarsi, affrontare); le altre venivano distinte in competenze di base e in competenze professionali.

Le hanno proposto come elemento cruciale dell’approccio per competenze, decisive della sua fecondità e necessarietà.
Nel modello ISFOL diagnosticare, relazionarsi, affrontare rappresentano tre macro – categorie di competenze trasversali, caratterizzate da un alto grado di trasferibilità a compiti e contesti diversi e da un ampio spessore, cioè da un’estensione notevole che comprende numerosi elementi subordinati e di dettaglio crescente.
Il modello ISFOL aiuta a comprendere la natura della competenza e a render conto di questa a partire dalla sua logica, che è quella implicita nel concetto di soggetto al lavoro.  Recepisce l’evoluzione del contesto lavorativo che ha spinto a spostare l’attenzione dalle caratteristiche dei compiti alla centralità della persona, in quanto risorsa strategica in contesti ad alta variabilità ed incertezza.  (R.  Frega).
Con le competenze trasversali ci si sposta dall’ambito lavoristico e dalla pratica formativa per e sul lavoro al campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.
“Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione (…),  ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse,  attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere,  delle relazioni che sa instaurare,  dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G.  Di Francesco).
Nell’ambito delle competenze trasversali vengono inserite,  secondo le varie scuole di pensiero: operazioni mentali come comprendere,  dedurre,  coordinare,  applicare,  analizzare,  trasferire,   interpretare,  valutare;  saper-fare metodologici come prender nota,  strutturare un discorso,  manipolare dei concetti,  padroneggiare dei processi d’astrazione;  attitudini del sapere essere come collaborare,  partecipare,  realizzare progetti personali e/0 professionali,  sapere ascoltare e dialogare,  parlare in pubblico,   sapersi destreggiare.
In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta.  Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite.

Trasversalità delle competenze o competenze trasversali?

La cura delle attitudini al sapere-essere e al sapere agire,  in cui confluiscono le competenze non legate ad una particolare area professionale,  sollecita ad avere uno sguardo diverso sull’attività di insegnamento,  sui contenuti del curriculum,  ma non alla costituzione di uno specifico settore di insegnamento.  Uno studioso come B.  Rey,  che sulle competenze trasversali ha scritto pagine fondamentali,  afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare,  a comparare,  a pensare,  a dedurre,  ad adottare delle strategie riflessive etc,  etc.  Che essi apprendano,  piuttosto, un po’ di matematica,  un po’ di letteratura,  un po’ di storia,  un po’ di biologia,  un po’ di lingue straniere etc”.
Si rischia non solo lo svuotamento dei contenuti e della scuola, ma anche in alcuni ambiti l’indottrinamento e la manipolazione.
La formazione delle competenze del sapere-essere(le soft-skills), senza la dovuta consapevolezza critica,  rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione del lavoro nel mondo delle aziende.  In questo caso non avremmo con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.
Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.
A proposito di un possibile autonomo spazio delle competenze trasversali bisogna vedere in che cosa consista e per prudenza è opportuno prendere in considerazione gli avvertimenti di Le Boterf : “La competenza si realizza nell’azione.  Non gli preesiste (. . .  ) Non c’è competenza se non nella competenza in atto.  Non può funzionare a vuoto, al di fuori di ogni atto, che non si limita ad esprimerla, ma che la fa esistere”.
Se questo vale per le competenze che chiamiamo di base o professionale, vale soprattutto per le competenze trasversali.
“La competenza risiede nella mobilitazione delle risorse dell’individuo (sapere teorico e procedurale, esperienziale e sociale) e non nelle risorse stesse.” Come dire che tutte le competenze sono competenze perché sono traversali e che si ha trasversalità, perché c’è mobilitazione delle risorse dell’individuo.
La mobilitazione non appartiene alla categoria dell’applicazione, ma a quella della costruzione delle soluzioni.  “Mobilitare non è soltanto utilizzare o applicare, ma anche adattare, differenziare, integrare, generalizzare o specificare, combinare, orchestrare, coordinare;  in breve condurre un insieme di operazioni mentali complesse che,  quando le si connette alle situazioni,  trasformano le conoscenze, piuttosto che limitarsi a spostarle e trasferirle”(Ph.  Perrenoud).
Secondo questo autore la metafora della mobilitazione delle risorse cognitive è più feconda di quella del trasferimento delle conoscenze.
“Il concetto di mobilitazione prende in conto tutti i funzionamenti cognitivi all’opera nell’identificazione e risoluzione dei problemi”.  Il suo inquadramento concettuale,  però,  non è un’operazione semplice e sono molti e rilevanti i problemi che ancora restano aperti.
B.  Rey parla di intenzione trasversale più che di competenza trasversale, mettendo in questo modo in evidenza l’esercizio cognitivo del volere.
Il concetto di intenzione trasversale tende a superare quello di competenza, come possesso di procedure automatizzate, perché il soggetto non è una rete di automatismi, ma potere di scelta nell’attenzione alle cose.  L’intenzione non è un sapere, ma uno stile di inquadratura delle situazioni, una delimitazione di ciò che è degno di interesse, un principio di selezione.  La capacità di trasferire appartiene all’intenzione trasversale, alla soggettività volente e significante.
Solo l’intenzione è per natura trasversale, il motore della mobilitazione.
“Non basta che l’allievo apprenda competenze intellettuali, procedure, operazioni logiche, regole d’ogni tipo; bisogna anche che decida di vedere il mondo sotto una certa angolatura e precisamente nell’ottica in cui esso appare come possibile ambito di applicazione di queste competenze.  E’ questa a nostro avviso la condizione fondamentale affinchè ci sia trasversalità”(B.  Rey).
E altrove: “E’ più importante il significato che il soggetto dà agli oggetti, alle situazioni,  e alle proprie attività,  piuttosto che i meccanismi mentali oggettivi che la scienza esplora”.
E’ allora inutile fare un discorso specifico sulle competenze trasversali?  Non proprio.  E’ vero che per definire le competenze ci sono più metafore che concetti, che ci si muove in un campo segnato dalla complessità e dalla provvisorietà; è vero anche che non ci si muove nel vuoto e che gran parte delle operazioni e dei processi di pensiero sottostanti alla mobilitazione delle risorse delle competenze o all’intenzione trasversale, di cui parla Rey, sono identificabili per poterci lavorare sopra.
La trasversalità, ad ogni buon conto, è qualcosa di più di un desiderio dei pedagogisti.  L’esperienza ci dice che essa si realizza sia nel campo specifico delle attività professionali, sia nei diversi ambiti dell’agire umano.
La difficoltà di una sua concettualizzazione comune a tante altre usate nozioni pedagogiche non contraddice la percezione che ne abbiamo di fronte a comportamenti improntati sia alla sicurezza del sapere specifico, sia alla fertilità delle soluzioni trovate di fronte a situazioni inedite.
“La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche.  Non è attributo delle” cose”(le competenze), ma del soggetto.  Messa in discussione come attributo delle competenze,  è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R.  Frega).  Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico, irriflessa ripetizione di procedure d’azione.
Se tutto quello che è stato detto ha un senso, questo ci porta a dire che il punto di partenza per la formazione di competenze pregiate e raffinate come sono quelle trasversali è sempre il possesso articolato, profondo, problematico dei saperi, la consapevolezza dei loro rapporti con la realtà delle esperienze umane oltre che della loro specifica storia.
“L’insistenza esclusiva sulla trasversalità, nel senso dell’interdisciplinarietà o della non-disciplinarietà impoverisce considerevolmente l’approccio per competenze.  (. . .  ) La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale.  (. . .  ) Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare” (Ph.  Perrenoud).




Competenze non cognitive: un passo verso la separazione dell’istruzione dall’educazione

di Simonetta Fasoli

La proposta di legge sull’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi scolastici e formativi, approvata dalla Camera l’11 gennaio scorso, è approdata al Senato (disegno di legge n. 2493).
All’indomani dell’approvazione, scrissi un breve post dal tono ironico, che non intendeva certo minimizzare la questione, ma al contrario dire: “attenzione, qui c’è un problema!”.
Poiché l’iter legislativo prosegue, e come succede in questi casi è destinato, al suo compimento, a produrre effetti, sarà il caso di andare oltre la prima reazione e fare qualche affondo di merito. Partendo dalla messa in questione della materia stessa dell’iniziativa parlamentare e domandandosi anzitutto se sia fondato parlare di “competenza non cognitiva”.
Del resto, lo stesso testo del disegno di legge già all’esordio (art. 1, c.1) pone come finalità quella di “promuovere la cultura della competenza”. Affermazione che va presa sul serio.

Nei contesti di studio e di formazione in cui mi trovo ad operare, mi piace sottolineare (e argomentare) un assunto: che sia possibile e anzi auspicabile sostenere un’accezione pedagogica della nozione di competenza; nozione che, per sé presa, più parti del mondo della scuola e degli addetti ai lavori vedrebbero inficiata irrimediabilmente dalla sua origine nell’universo del lavoro e della catena produttiva. Confortata, in questa intenzione, dal fatto che il termine stesso sia stato da oltre un ventennio “sdoganato” ed acquisito nell’ambito dell’istruzione e formazione, a partire dalle norme sull’autonomia per arrivare a rilevanti documenti europei (le Raccomandazioni del 2006 e 2018 concernenti le competenze chiave di cittadinanza).
A livello di studi e di ricerche, mi piace richiamare spesso, in quei miei contesti di lavoro, una delle definizioni a mio parere più illuminanti della nozione di competenza, che suona così: “una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, affettive e evolutive, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. (Michele Pellerey, 2004).
I caratteri cubitali sono miei, utilizzati nell’ambito di questo mio intervento, con lo scopo di sottolineare quello che ora mi preme sostenere: la dimensione strutturalmente cognitiva di ogni costrutto di competenza. Dunque, a mio parere, l’ossimoro, o se si vuole, la contraddizione in termini di una formulazione come quella su cui è basato l’intero impianto del disegno di legge.
Del resto, le stesse Raccomandazioni europee, con una formula a mio avviso più generica, parlano delle competenze come di un mix di conoscenze, abilità e atteggiamenti. Giusto. Si tratta di vedere COME stanno insieme e come agiscono e interagiscono questi elementi: la definizione che ho appena citata ce ne dà un’immagine dinamica e integrata, non semplicemente giustapposta. Ma quello che qui conta è decostruire il senso della “competenza non cognitiva” e mostrarne l’infondatezza. Tutto il resto del disegno di legge di cui si sta parlando, poggiato su un presupposto errato, va radicalmente discusso e revocato in dubbio.
Ma, una volta sgomberato il campo da questo vizio di fondo, resta in piedi l’interrogativo sul significato politico-culturale dell’operazione sottostante all’iniziativa di legge. Questione non meno decisiva di quella fin qui esaminata.
Detto che nessuna norma è in sé neutrale, qual è il retroterra su cui si innesta questa di cui parliamo? Come anticipo nel titolo, si tratta di “culture politiche”, che, come vediamo dai nominativi dei primi firmatari, sono trasversali a diverse formazioni partitiche, e ben riconoscibili.
Senza peccare di dietrologia, ci sono nel testo di legge alcuni passaggi che fanno luce sul tema. Già nell’articolo 1, comma 2 ne possiamo rintracciare uno. Infatti, vi si prevede (terminata la fase sperimentale) l’emanazione, con decreto ministeriale, di “linee guida (…) che individuano (…) SPECIFICI TRAGUARDI PER LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE E OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO, in coerenza con le Indicazioni nazionali per il curricolo (…) e con le Indicazioni nazionali per i licei e le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali vigenti.”
Dunque, ci troviamo di fronte all’ipotesi di una vera e propria PROGETTAZIONE CURRICOLARE PARALLELA: “in coerenza”, ma distinta da quelle vigenti, e addirittura legittimata da un provvedimento formale quali sono le Linee guida ministeriali.
Ecco che prende forma, a mio avviso, un’IDEA DI SCUOLA, basata su un presupposto preciso e dal mio punto di vista discutibile: la netta separazione dell’educazione dall’istruzione, quelle due dimensioni che la scuola pubblica, come istituzione, tiene e deve tenere insieme nel suo stesso agire.
Non basta. Se incrociamo questo dispositivo con quello contemplato nell’articolo 4, comma 3, punto c, si palesa un elemento che getta ulteriore luce sull’operazione politico-culturale nel suo senso complessivo. Vi si parla, infatti, a proposito della prevista sperimentazione, di “percorsi formativi innovativi (…) di “recupero motivazionale degli studenti”, al fine di “contrastare la dispersione scolastica sia esplicita sia implicita, anche attraverso percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento o PROGETTI DI PARTENARIATO CON ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE E DEL VOLONTARIATO” .
Sono miei i caratteri cubitali inseriti nel testo: stanno a segnalare la comparsa di soggetti che sono tradizionalmente sostenuti da alcune di queste culture politiche. E segnalano un rischio che, in combinato disposto con la netta separazione tra istruzione ed educazione di cui ho detto, appare come qualcosa di ben diverso da una semplice ipotesi da verificare.
In conclusione: quale idea di scuola si fa avanti, in una fase per di più di grande fragilità della scuola stessa, per le note vicende della pandemia e per i modi del tutto inadeguati con cui la stanno affrontando i decisori politici?
Quali insidie politiche e culturali si annidano dentro un’iniziativa che, a questo punto, mi sembra ben più gravida di conseguenze di una maldestra operazione di restyling pedagogico-didattico?
Cosa ne è della scuola pubblica, della scuola come bene comune, fattore di emancipazione e di uguaglianza sociale secondo Costituzione? Ci troviamo di fronte a una scuola che porterebbe in sé il germe della separazione tra educazione e istruzione (entrambe scotomizzate, in quanto artificiosamente separate), tra emozione e conoscenza (come se fosse possibile separare l’una dall’altra nei processi reali di apprendimento…). Una scuola che venisse meno alla sua stessa natura istituzionale, lasciando ad altri soggetti il campo di una parte sostanziale del suo mandato, insieme ad una dimensione fondamentale del suo curricolo.
Il compito della scuola è “tenere insieme”: l’unitarietà del suo sistema, la coerenza della sua azione, le professionalità che vi si esplicano, ma soprattutto le vite e le storie di chi cresce.
Pensiamoci, facciamo vigilanza attiva, anche in tempi difficili. O forse proprio per questo.




Vademecum sugli appalti


In questo ricco e ampio vademecum, Antonella Mongiardo. dirigente scolastica a Decollatura (CZ)  ha raccolto materiali di grande interesse sul problema della gestione degli appalti nella scuola,
Un utile strumento di lavoro per dirigenti, DSGA e collaboratori dei DS.
Clicca qui per scaricare il documento




Case ricche, cuori vuoti

di Diego Palma
presidente dell’associazione La Voce della Scuola

Siamo stati rapiti e trasformati dal progresso, circondati, coccolati e viziati dalle comodità.
Abbiamo sostituito il nostro intuito, con il continuo chiedere agli altri come fare e cosa dire, abbiamo perso le nostre personalità vivendo tutti giorni in vetrina appesi al giudizio altrui.
Sovvertito i ruoli, soppresso le sane abitudini, il senso critico è offuscato da quello che ci propinano.
Siamo diventati incapaci di amare, di riconoscere l’amore.
Cerchiamo di proteggere ed aiutare chi ne ha bisogno per essere poi essere trattati con indifferenza. Non c’è più una coscienza politica, un ideale, un qualcosa a cui credere, per cui combattere.
La scuola che costruisce la sua apologia, mentre nel frattempo lo stato distrugge la sua sovranità, il ruolo di docente e di discente, vengono messi in discussione nelle poche righe di un contratto che gioca al ribasso, come mercanzia i diritti vengono ridotti ad imposizione, intanto ci saranno le elezioni e le promesse vengono lanciate come ancora di salvezza di una categoria che ha macchiato in maniera indelebile la parola di “onorevole” – “politico”.
Ci distraggono, costantemente con tutti i mezzi e strumenti che ci hanno fatto passare per indispensabili, smartphone, pc, tv ci allontanano. Il mondo ama condividere, mettere like ma non cerca più il confronto il dialogo …
Ribadisco siamo, perché nessuno è escluso compreso me !!!
Spero un giorno non dover vivere nel mondo di Matrix, imprigionato nel mio cyber profilo, condividendo byte di informazioni, per avere un like per considerarmi vivo.
Io continuerò, finché posso a pensare che il mondo sia sano ed io il matto, quel matto che ogni giorno il sistema vuole curare …

Oggi ringrazio Jonathan, perché mi ha fatto comprendere che non devo guarire dal mio essere io, e ringrazio Dio per tutti gli errori, per il cammino tortuoso, e perché mi ha dato il dono di vedere oltre l’apparenza, che non solo inganna ma uccide !!!

 




Registro elettronico, tutto ciò che c’è da sapere

di Antonella Mongiardo

Da diversi anni nelle scuole italiane è entrato in uso il registro elettronico, ma diversi aspetti di questo strumento vanno chiariti.
Intanto è bene precisare che il R.E. non è obbligatorio, ma fortemente consigliato, perché sostituisce efficacemente il registro del docente, per la registrazione dei voti e di ogni altro aspetto dell’attività didattica, nonché per le comunicazioni tra scuola e famiglia.

Sulla questione se il R.E. possa soppiantare anche il giornale di Classe, si può dire che, in presenza di una dematerializzazione non perfetta, la firma elettronica del docente è giuridicamente valida, ma non equivalente a quella autografa (anche in considerazione del fatto che si può apporre accedere al R.E. e apporre la spunta di frequenza da qualsiasi postazione) e il suo valore probatorio è liberamente valutabile in tribunale, nel senso che, in caso di contenzioso di qualsiasi natura, la decisione ultima spetterebbe al giudice.
Per questa ragione, ogni scuola adotta una politica propria.

Di questo e molto altro si parla nel vademecum realizzato da Antonella Mongiardo, dirigente scolastica presso l’IIS “L. Costanzo” di Decollatura (CZ).

Clicca qui per scaricare il vademecum sul registro elettronico




Il valore educativo del dialogo

di Raimondo Giunta

La scuola per certi aspetti è un luogo strano, dove chi sa fa le domande e chiede conto e ragione a chi non sa; ma dovrebbe essere il contrario e se lo fosse sarebbe, come affermava molti anni fa Guido Calogero, la scuola ideale, perché avremmo alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
Diceva Dewey che ogni lezione dovrebbe essere la risposta ad una domanda. E’ proprio questo intreccio di domande e risposte il dialogo; è l’ascolto reciproco la buona educazione.
Si domanda per apprendere, si domanda per insegnare e a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande, se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica.
La scuola, come dice B.Rey, dovrebbe essere il luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di chi la pronuncia.
“Le verità non derivano da un’autorità testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello di educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica” (J.Bruner).
Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica e richiede l’attribuzione del potere di pronunciarla; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo.
“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”(Pascal).

Ma le domande che hanno senso non si pongono a caso.
Bisogna educare a porre e a porsi domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare strumenti per potere discutere e dialogare ,per diventare capaci di resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Bisogna educare a problematizzare.
Per non accontentarsi delle prime e rassicuranti risposte e andare oltre, in profondità su ogni questione, su ogni dato, su ogni fatto, su ogni notizia, su ogni nuova conoscenza.
Bisogna allora contrastare con energia la tendenza a insegnare saperi, trascurando di fare capire e conoscere i problemi che li hanno generati.
Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali.
L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. La responsabilità educativa si realizza nel riconoscimento e nella valorizzazione dell’alterità dell’alunno come fondamento del dovere di attenzione alla sua soggettività, del dovere di cura del suo sviluppo integrale e armonioso.
“Educare è comunicare profondamente con un giovane per aiutarlo a comunicare con se stesso” (A. De Peretti).
Chiedeva ai suoi uditori di porgli domande; così le sue lezioni erano piuttosto confuse e non mancavano di divagazioni”(Porfirio-Vita di Plotino).
Puo’ succedere che il dialogo sfugga di mano e si crei un po’ di disordine in classe, ma non bisogna averne paura, perché per certi aspetti è vita.
Non esiste una scuola del silenzio che sia anche scuola di partecipazione.
Educare è accettare di discutere e il centro dell’attività didattica non può essere sempre la cattedra; si deve spostare verso il centro dell’aula per fare in modo che la classe diventi una comunità dialogante, di partecipazione.
Il dialogo come mezzo e come fine dell’educazione esige un’etica comunitaria convintamente vissuta da docenti e alunni ;ognuno deve fare la propria parte, mettersi a disposizione dell’altro, sentirsi parte di una comunità, in cui con diverse funzioni, insieme si apprende e si vuole andare avanti. Ma il dialogo non è un metodo, è il modo e non solo a scuola di dare valore e significato morale all’altrui presenza.
Il dialogo è confidenza tra gli allievi e tra gli allievi e gli insegnanti; è piacere di appartenere ad una comunità, che porta avanti insieme il progetto educativo.
Il dialogo non ha fretta; è per le pari opportunità; non esclude, non stigmatizza; non è competitivo, ma cooperativo. Il dialogo non è solo tra i presenti, ma si estende, va fuori dell’aula, incontra la società, incontra il passato.
E con tutti e con tutto invita a discutere, a parlare e ad ascoltare, perché è desiderio di apprendere e di comprendere il mondo.
Il dialogo è l’antidoto per sottrarre la scuola alle seduzioni tecnologiche che la stanno immiserendo e sterilizzando, perché pone la centralità della parola viva nella relazione educativa e perché solo nella parola viva si incontrano le persone che hanno qualcosa da dirsi.
Nel dialogo i giovani imparano a parlare e ad esprimersi, incominciano a gustare il piacere di potere comunicare il mondo delle proprie esperienze, del proprio vissuto.
Il primato del dialogo impedisce alla scuola di essere una caserma, di trasformarsi in una spuria azienda di formazione professionale; invita ad andarvi e a frequentarla senza angoscia, perché scaccia la sofferenza e la noia; allontana la sottomissione e incentiva l’autonomia, combatte l’insuccesso e le gerarchie e non nega cittadinanza all’errore e alle differenze.