Salute sessuale: cosa si intende?

di Giuliana Sarteur

La salute sessuale è uno stato di benessere fisico, emotivo e sociale relativo alla sessualità, non consiste nella semplice assenza di malattie, disfunzioni o infermità. La salute sessuale richiede un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e alle relazioni sessuali con la possibilità di fare esperienze piacevoli e sicure, libere da coercizioni.

Nel mondo animale l’istinto riproduttivo e alimentare sono i cardini della sopravvivenza. Per l’uomo e la donna le cose sono più articolate e complesse: è possibile praticare il digiuno come atto rituale e si può rinunciare al sesso come atto di castità, come atto ideale di vita che tende alla sublimazione del suo presunto lato istintuale.

Tuttavia il sesso rappresenta un momento di intenso piacere fisico, la modalità con cui l’individuo esce da se stesso per unirsi ad una dimensione più allargata ove incontra l’altro. Così l’atto sessuale diventa la metafora, la manifestazione del mito androgino dell’uomo-donna uniti in un tutt’uno che simboleggia il superamento degli opposti.
Il sesso è così energia, è fantasia, è vitalità: l’esperienza sessuale prevede l’attivazione del sistema cognitivo, emotivo e comportamentale.

Il cognitivo comprende tutte le conoscenze dovute all’esperienza, le informazioni ricevute ed i valori fondamentali dell’individuo, come cioè si considerano sesso, amore, intimità e convinzioni personali sui ruoli sessuali. Il sistema emotivo racchiude tutte le emozioni e le sensazioni che l’intimità può scatenare ed è fortemente condizionato dal sistema cognitivo. Il sistema comportamentale include le azioni vere e proprie che sono fortemente condizionate dagli altri due sistemi.
Convinzioni negative sulla sessualità o esperienze traumatiche evocheranno così emozioni e comportamenti disfunzionali.
Per attivare in senso positivo questi sistemi è altresì fondamentale la conoscenza del corpo: avere un buon rapporto con lo stesso e capacità di accettazione di pregi e difetti in una società che purtroppo costantemente propone canoni fisici anche a livello più intimo (esempio labioplastica delle piccole labbra vulvari).

La conoscenza di possibili malattie a trasmissione sessuale, la necessità di avere a disposizione una contraccezione sicura eviterà soprattutto da parte dei più giovani comportamenti a rischio che inevitabilmente potrebbero lasciare un segno profondo nel loro vissuto come l’aborto oppure una maternità da adolescenti. Il ruolo delle famiglie, degli educatori e dei sanitari è fondamentale per trasmettere conoscenze, intercettare dubbi e gestire situazioni di disagio che possono compromettere lo sviluppo di individui consapevoli, in grado di fare scelte serene e gratificanti.

Come cambierà la sessualità nel tempo insieme al corpo, maschile e femminile?
– la lubrificazione in menopausa determinerà una risposta più lenta
– l’erezione maschile dopo i 40/60 anni si manifesterà con un tempo diverso
– come calerà il desiderio e quanto sarà rilevante
– quali farmaci potranno influire negativamente sul desiderio
– come la mancanza di desiderio potrà condizionare la vita e la relazione
– quanto è importante a questo proposito privilegiare atteggiamenti salutisti evitando eccessi come fumo ed alcol che agiscono direttamente sulla capacità riproduttiva nella femmina ed erettile nel maschio.




La sfida della scuola: aumentare le conoscenze o migliorare il modo con cui si apprende?

di Raimondo Giunta

“Bisogna legare intrinsecamente sapere e problema, come domanda e risposta (M. Fabre)

Il tempo scolastico non può essere ampliato a piacimento nel tentativo di consentire alla scuola di adeguarsi alla crescita esponenziale delle conoscenze: è insormontabile lo scarto tra il loro sviluppo e ciò che è possibile insegnare.
Ragione per cui dalla fase storica del riformismo scolastico segnato dal costante ampliamento delle discipline e dei contenuti si deve passare a quella della loro selezione, altrimenti la scuola rischia di soffocare per ingordigia.
Se nessuno è in grado di prevedere che ne sarà di questa prodigiosa accumulazione di saperi e quali saranno i futuri scenari della società, chiaramente si impone sulla base di questi dati la necessità di ripensare il mondo dell’istruzione e della formazione.
In questo processo di riorganizzazione culturale della scuola più che a nuovi ed estesi contenuti bisognerebbe dare maggiore spazio alla capacità di apprendere e di comprendere, a quella di sapere oltrepassare ciò che è abituale e familiare; bisognerebbe educare ad appropriarsi delle tecniche di investigazione, a problematizzare e ad analizzare i dati della realtà.
“Apprendere è il nodo essenziale per una società in cambiamento e il desiderio di apprendere è il motore indispensabile. (. . . ) Oggi è importante padroneggiare metodi per pensare, interrogarsi, dialogare, mettere in relazione molteplici domini, sviluppare capacità di problematizzare, di iniziativa, di creatività, di usare creativamente le nuove tecnologie” (A. Giordan)
Apprendere non è memorizzare, accumulare informazioni, ma ristrutturare il proprio sistema di comprensione del mondo e non consiste solo nell’integrare nuovi saperi, ma anche nell’utilizzare meglio e in modo diverso ciò che si conosce già.
Per ottenere questo risultato bisogna coltivare nei giovani il desiderio e il piacere di apprendere; è necessario farglieli diventare un’abitudine, ma informandoli che nella realtà quotidiana per apprendere ci vogliono tempo, rinunce e fatica e che il possesso di un sapere richiede una esigente e costante ricerca.


C’è una responsabilità morale nella crescita intellettuale, alla quale nessuno si dovrebbe sottrarre e che se viene orientata al dialogo e all’ascolto acquista una dimensione sociale. Il desiderio di apprendere, da cui prende inizio il cammino della conoscenza, sboccia se si riesce quotidianamente ad accenderlo nella coscienza dei giovani e questo in classe è possibile dando loro fiducia, rispettando e valorizzando il loro impegno, testimoniando nell’insegnamento e in ogni attività scolastica l’amore per il valore e la bellezza del sapere.
Se apprendere come dice A. Giordan è il nodo essenziale per una società in cambiamento, le resistenze che tanti giovani frappongono all’apprendimento rischiano di estrometterli dalle opportunità che si presentano nel mondo del lavoro; per il loro bene occorre quindi sconfiggere l’indifferenza che si origina, perché non si riesce a individuare un senso nella fatica di apprendere; perché non si vede la ragione di un impegno, perché non si riesce a cogliere il rapporto tra ciò che si impara a scuola e la vita di tutti i giorni . Come non bastasse, nella scuola dei nostri giorni ci si deve confrontare col fatto che i saperi scolastici sono altri rispetto all’ambiente e alla cultura familiare, religiosa, etnica di un numero crescente di studenti.
C’è ancora dell’altro. A volte bisogna far fronte anche ad una specie di paura di apprendere, che come fenomeno è forse più circoscritto rispetto all’indifferenza, ma esiste.
E’ una situazione che si viene a creare all’interno della relazione educativa e interpella innanzitutto il modo in cui si sviluppa il rapporto umano nel processo formativo, il modo in cui si caratterizza la funzione magistrale, il modo in cui il sapere viene posto in relazione non solo con le capacità intellettive, col grado di preparazione di un alunno, ma anche col suo mondo emotivo. La paura d’apprendere può essere originata dai giudizi prevalenti, in ambito familiare, su che cosa sia e quanta valga sia il successo sia l’insuccesso scolastico. Sono problemi con cui bisogna misurarsi, riportandoli alla loro dimensione effettiva, e che possono essere risolti sostenendo e incoraggiando l’alunno nei momenti delle sue difficoltà, apprezzando generosamente i suoi progressi e i suoi sforzi.
Per quelli che sono indifferenti, per quelli hanno paura e per quelli in cui matura il desiderio di apprendere, in ogni caso nell’attività didattica è necessario predisporre situazioni che consentano all’alunno di mettersi in relazione vitale con l’oggetto culturale da possedere, in modo che gli si possa mostrare come un oggetto vivo e sensibile, come una realtà ad un tempo simbolica, affettiva ed esplicativa (D. Nicoli). Presentare agli alunni i saperi nel loro uso possibile è un modo per motivarli, anche se l’uso sociale dei saperi non è sempre facilmente percepibile. Una parte dei saperi infatti non è direttamente utile, almeno a breve termine, ma aiuta a comprendere il mondo e ad allargare la propria esperienza.
Per evitare che l’insegnamento si riduca ad una stantia e noiosa riproposizione di formule, a volte incomprensibili, per sostenere il desiderio e la volontà di conoscere, occorre far capire a quali questioni i saperi, che devono essere posseduti, danno delle risposte.
“Bisogna legare intrinsecamente sapere e problema, come domanda e risposta” (M. Fabre), ma non dimenticando mai di fare comprendere e accettare che la scuola non è il luogo delle situazioni reali.
“La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo; un lavoro che resta coinvolto con quel mondo in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L. ResnicK).

E’ questa è davvero la sfida più difficile.




Educazione sessuale: quando la curiosità del bambino si scontra con il “pudore” dell’adulto

di Giuliana Sarteur

L’educazione sessuale è una materia vasta i cui contenuti variano a mano a
mano che il bambino, crescendo, diventa adolescente e poi giovane adulto.
Può sembrare strano, ma le prime domande vengono poste a tre-quattro
anni e pertanto potremmo pensare a ragione che una corretta educazione sessuale spetti ai genitori.
Nella realtà assistiamo ad un certo imbarazzo nella capacità di trovare le parole giuste, eppure è fondamentale accompagnare i ragazzi nella crescita affettiva affinché il loro atteggiamento verso la sessualità ed i loro comportamenti sessuali li rendano sereni ed autonomi.
La materia è sicuramente delicata e non coinvolge solo i bambini che vogliono capire, ma anche gli impulsi dei genitori, i loro sentimenti e i loro pregiudizi.
Quando parliamo di sessualità intendiamo il piacere che i bambini manifestano sin dalla vita intrauterina; dopo la nascita il contatto diretto con il corpo degli adulti è un piacere tranquillizzante così come il contatto con il capezzolo nell’allattamento o lo sguardo di chi sta
allattando.


I bambini sanno distinguere ciò che crea sofferenza e ciò che la calma: il contatto fisico allenta la sofferenza ed è soprattutto fondamentale nelle prime fasi della vita…potremmo chiamarla sensualità!
La percezione di differenza tra maschile e femminile avviene tra il secondo e terzo anno di vita, confrontandosi con il corpo degli adulti con cui viene a contatto e si sviluppa una curiosità del tutto spontanea verso le differenze anatomiche e le loro funzioni.
Tale curiosità va accolta, è sana, è esplorativa come tutto ciò che il bambino svilupperà verso il mondo.
Le domande quindi sono dettate dal bisogno di conoscenza, ma è possibile che si scontrino con il pudore degli adulti; è questo il momento in cui l’adulto potrebbe comprendere che ha bisogno di aiuto, è il momento importante di accoglienza delle esigenze conoscitive del bambino.
Chi può rispondere a questa esigenza di aiuto?… la propria esperienza interiorizzata, il medico o l’esperto in comunicazione sessuale, ma l’aiuto professionale non deve essere limitato alla presenza di un problema.
L’educazione sessuale non è semplicemente un passaggio di  informazioni e non deve essere limitato alla genitalità, ma consiste piuttosto nella possibilità di acquisizione di abilità e competenze al fine di favorire la maturazione di un proprio e personale modello, un proprio
atteggiamento nei confronti della sessualità che è un processo che durerà tutta la vita e pertanto sarà importante crescere in modo positivo e sano.
Le parole utilizzate sono importanti e devono sempre essere utilizzate in una visione positiva ed adeguata all’età, con un atteggiamento di accoglienza. In questo modo il bambino non avrà mai timore a chiedere e confrontarsi. Il disagio e l’imbarazzo dell’adulto sono le manifestazioni del
proprio vissuto e del proprio percorso di conoscenza.
Se riuscissimo da subito, con parole adeguate all’età, esprimere il nostro desiderio di garantire la felicità e la serenità dei nostri ragazzi sarebbe un percorso utile anche alla consapevolezza degli adulti.
E’ importante che tutte le persone che verranno a contatto con il percorso educativo del bambino abbiano lo stesso atteggiamento sereno ed accogliente non giudicante, pur avendo inevitabilmente posizioni individuali e personali.




Ucraina/Italia, education in wartime

di Raffaele Iosa

Commento qui la fresca nota del 24 marzo scorso di Stefano Versari, Capo dipartimento M.I. dal titolo “Studenti profughi dall’Ucraina. Contributi alla riflessione pedagogica e didattica”.
La nota è accompagnata da un testo di “spunti” psico-pedagogici di riflessione ripresi dai diversi commenti usciti finora, tra i quali trovo analogie con i miei scritti di questo mese. Segue poi una prima sitografia web sull’accoglienza, da cui caldeggio di aprire il web del Ministero Ucraino per conoscere la loro scuola, come funziona, i loro programmi.
Nel sito c’è una parte importante che gli insegnanti italiani accoglienti non possono perdere, titolo “Education in wartime” ,  in cui ci sono molte informazioni su cosa fa l’Ucraina per i suoi studenti al tempo della guerra: le forme virtuali di insegnamento, una piattaforma di lezioni online, le possibili pratiche di Dad interne ed estere, proposte sul piano psico-pedagogico ai paesi europei accoglienti per i loro bambini e ragazzi in questo tempo terribile.

Come ho già scritto, trovo eccezionale come valore civile e pedagogico l’ attenzione ucraina ai loro ragazzi. Soprattutto la loro Dad, che molti insegnanti italiani hanno scoperto con sorpresa funziona già (e con successo) anche da noi con alcune ore al giorno di lezioni-contatto tra insegnanti ucraini e i loro ragazzi, possibile per quasi tutti i loro studenti arrivati da noi. Un contatto quotidiano che ricrea un legame, rende più mite la fuga, crea speranza per il ritorno. La scuola non si ferma davanti alla guerra: è un messaggio importante per loro, ma anche istruttivo per noi su cosa fare per loro. La pedagogia del ritorno.

Ma prima di commentare, mi piace segnalare una notizia giunta dall’Ucraina ieri, a un mese dalla guerra. In un oblast a sud di Kyev hanno riaperto le scuole. L’hanno fatto come possibile, con gli insegnanti rimasti lì, se le scuole sono accessibili, e se non possibile hanno rinforzato la Dad. Grande gioia di bambini e ragazzi. Al vecchio io pedagogo la notizia commuove: la scuola come ritorno alla vita e speranza, come comunità che si reincontra. Strano paese l’ Ucraina che neppure sotto le bombe non molla i suoi piccoli.
Ma anche un po’ sorrido di questa decisione, per un aspetto tipico dei popoli del burian, nelle terre dove i venti artici del sybir soffiano duro in inverno portando temperature polari.
Laggiu nei tempi “normali” se la temperatura va sotto i -18 gradi, con neve a terra, le scuole si chiudono.
E i bambini ucraini (come i vicini del burian) sperano che accada per avere un giorno di vacanza. Tutto il mondo bambino è paese: anche i nostri aspettano la neve, ma quelli del burian ci prendono in giro perché a noi bastano due centimetri.
Ho consolato più volte la rabbia invidiosa dei ragazzini orfani degli internati perchè, con i dormitori dentro la scuola, vanno a lezione lo stesso. La loro forma di “rivolta” alla discriminazione è di andarci in ciabatte. Uno dei tanti modi di dirci la loro voglia di una casa. Le insegnanti capiscono e lasciano correre.

Torniamo alla nota Versari da cui sono partito. Questa nota è sobria, essenziale, riflessiva. Non comanda “istruzioni per l’uso” né procedimenti amministrativi, né impone didattiche come il Ministero in questi 20 anni ci ha abituati esondando con ukaze anti-autonomia. E’ consona alla gravità di questo evento.
La penna che ha scritto sembra condividere la nostra stessa sofferenza per questi bambini e ragazzi che arrivano scappando dalla guerra. Si tratta di “spunti”, di “riflessioni” e di “materiali” per condividere con gli insegnanti una visione dell’evento traumatico della fuga e il senso della nostra comunità educativa. E ci sollecita a comprendere che siamo davanti ad un’ emigrazione del tutto diversa da quella dei migranti economici. Assomiglia per alcuni versi, e per capirci, a quella dei bambini siriani o afgani, verso cui forse (bisogna ammetterlo) abbiamo avuto meno sensibilità.
La riflessione sul desiderio del ritorno come meta intima della loro fuga è centrale per la nostra azione pedagogica e didattica nell’emergenza attuale e anche più avanti. Ogni mamma ucraina è scappata con i suoi figli portando in borsetta tre cose che non può perdere: le chiavi di casa, una foto di tutta la famiglia insieme quando la vita andava, un cellulare per sentire il marito/compagno padre dei bambini rimasto laggiù per combattere.
Nell’accoglierli dobbiamo sapere che a qualche bambino o ragazzo arriverà una telefonata tragica o non arriverà più la telefonata. E per quest’uomo/padre rimasto laggiù neppure un funerale sarà possibile.
Dobbiamo essere consapevoli della loro condizione esistenziale. Nella disperazione della loro fuga li fa sopravvivere la speranza di salvarsi per il ritorno a casa.
Importante, nella nota, aver ricordato la resilienza che sa oltrepassare il dolore. Spesso i bambini hanno la capacità di essere più resilienti di noi adulti. Va valorizzata, accolta con pienezza e serietà. Questi bambini non meritano l’assistenzialismo piagnone di cui siamo spesso capaci, meritano speranza e coraggio.
Per questo la sobrietà, la ponderatezza dei nostri gesti, l’empatia educativa e umana sono architravi del nostro possibile agire. Mi ha colpito in questa nota la frase: “Non tutto quello che a noi pare giusto effettivamente fa il bene dell’altro”. Suggerisce di avere ponderazione nei nostri gesti di presunta “generosità” e ”vicinanza chiassosa” che rischia di passare per compassione e accentuare in loro lo stress, di schiacciarli “amorevolmente” alla condizione di poverini.
Quindi: poche feste, pifferi e tamburi al loro arrivo, poca televisione o racconti autocelebrativi nei siti di quanto sono brave le scuole (non loro). Piuttosto, come cita la nota: empatia vera, soprattutto ascolto, condizione paritaria di amicizia tra bambini (il miglior lenitivo), e ricordarsi anche delle mamme, che forse un incontro tra tutti i genitori sarebbe utile.

La nota definisce in modo generale quelle che sono di fatto le tre possibili tappe della nostra accoglienza.
E’ giusto, infatti avere una prospettiva, per quanto sia possibile a guerra ancora in corso.
La prima, chiamata del tempo lento dell’accoglienza è quella di questi giorni e del loro inserimento. L’idea della lentezza è sacrosanta, parte dalla condizione umana dell’altro, sa attendere, non anticipa, non fa domande invadenti, apre alla socializzazione, offre le prime competenze di italiano, decanta con mitezza e rispetto i traumi, e soprattutto fa il possibile per dare continuità ai percorsi di istruzione interrotto. Elemento questo per me decisivo per garantir loro la speranza del ritorno, in qualsiasi momento verrà.

Qui mi aspettavo una citazione della Dad tra Ucraina e Italia che molti di loro già fanno da noi. La dizione “continuità del percorso di istruzione” rende ovvio favorire per noi in Italia questa Dad, farne anzi un asse strategico di questa sorprendente creatività educativa dei nostri colleghi ucraini sotto le bombe, dentro i rifugi e gli scantinati. Ho capito però il perché, nella nota, della genericità sulla Dad ucraina perché è in corso una condivisione più strutturata della scolarizzazione dei nostri piccoli ospiti ucraini con il loro Ministero e con tutti i paesi d’Europa.

Dovrebbe riguardare non solo come garantire la migliore possibile continuità, ma anche ad esempio come fare gli esami per i ragazzi della classe 9 e della classe 12.
I miracoli del digitale possono darci soluzioni semplici e interessanti. Quindi attendiamo tra poco nuove indicazioni secondo l’accordo, com’è giusto. D’altra parte l’ha anticipato la ministra Gelmini, in un’intervista dove “rivela” che Bianchi lavora all’ accordo, uscita lo stesso giorno della nota Versari. Ricordo comunque che questa fase dura per i prossimi tre mesi, quindi un tempo davvero della lentezza e dell’amicizia.

La seconda parte riguarda l’estate. E cita la relazione tra la scuola e gli enti del territorio per attivare iniziative sociali, sportive, del tempo libero ricche di opportunità, secondo la logica dei patti di comunità già sperimentati nel 2021 ai tempi del COVID.
Mi permetto, a chi serve, di proporre di scaricare (è gratis)  l’e-book “estate educativa” che ho scritto con Massimo Nutini.

Sulla terza fase, detta di integrazione scolastica, la nota Versari rimane giustamente generica. Oggi non abbiamo alcuna certezza di come andrà a finire in Ucraina. Ci penseremo con calma nei prossimi mesi, che però non sono così lontani. Quanti resteranno? Quanto resteranno? Possiamo solo fare ipotesi di una possibile integrazione e rifletterci. Il modello più secco e arido è quello che pare stiano prendendo la Romania e la Polonia (disabituate ai processi inclusivi) che sembrano prevedere una specie di provvisoria scuola ucraina all’estero. L’unica attenuante a questa soluzione è che in quei due paesi i bambini profughi sono di gran lunga più che da noi. Col rischio però di una pedagogia dei separati in casa.
A me piace invece pensare per l’anno scolastico prossimo (anche per la tradizione italiana) una specie di pedagogia del binario. Mi spiego: inclusione nelle classi italiane con il mantenimento parallelo (il binario) della Dad dall’Ucraina o la presenza di un insegnante ucraino come supporto in rete e le altre attività con i compagni italiani.
Un percorso didattico meticcio dove i due binari corrono parallelamente, anzi uno può insegnare qualcosa all’altro. E’ una suggestione pedagogica inclusiva da approfondire. Come è da approfondire cosa voglia dire davvero la pedagogia del ritorno. Non abbiamo esperienze pregresse da seguire, qui dobbiamo creare. E in pedagogia creare il nuovo è la sua essenza umana migliore. Detta in poche parole: una pedagogia che arricchisce tutti (loro e noi), che farà festa quando loro partiranno, che avremo amici per sempre perché nel loro momento più tragico siamo stati vicini senza invadenza, senza scippare la lingua, senza pietismi. Ci diremo grazie reciprocamente, perché ci siamo imparati l’un l’altro.

Ci tengo inoltre a citare e commentare qui la frase finale con cui termina la nota Versari, perché nei contenuti intravedo anche una radicale inversione di rotta del Ministero sugli affari dei bambini che “stanno male”. Quando l’lo letta la prima volta nel cellulare, mi è caduto di mano dalla sorpresa.
“..In conclusione, merita sottolineare ancora una volta l’importanza dell’accoglienza e dell’inclusione degli studenti profughi nelle nostre comunità scolastiche e delle loro famiglie nella società civile. Le ferite del corpo sono visibili e richiamano immediatamente l’ospedale e le cure. Le ferite peggiori, tuttavia, sono quelle che non si vedono ad occhio nudo. La scuola è luogo in cui, attraverso molteplici forme di insegnamento e di relazioni educative, si crescono nuove generazioni e, quando purtroppo occorre, si curano le ferite dell’anima. Non con la medicina, non con la terapia, ma con l’umanità, utilizzando gli strumenti della pedagogia e della didattica..”

La pedagogia e la didattica sono umanità, e le ferite che non si vedono a occhio nudo si curano con l’anima della pedagogia, non con la medicina, non con la terapia. Torna l’I CARE donmilaniano e l’orgoglio della pedagogia. Messaggio chiaro e in netta controtendenza dopo un ventennio di frenetica invenzione di sigle, codici, pdp, dispensativi e compensativi con l’esplosione della medicalizzazione dell’anima dei nostri bambini e ragazzi inquieti, incerti, svogliati, complicati.
Un messaggio contro la perversa iatrogenesi che ad ogni gesto incerto della vita crea l’isolazione della persona in un sintomo, un male, una diagnosi, una cosa che con una “tecnica” pseudo-scientifica si dovrà curare. Una scuola che abbandona il grembiule e adotta il camice. Chi mi conosce sa quanto mi sono battuto contro la medicalizzazione della scuola. Ci volevano i bambini ucraini da noi e una guerra per capire quanto è pericolosa quella strada.

Dulcis in fundo. Ricevo molti messaggi in risposta ai miei testi. E richieste di partecipare ad una qualche riunione di approfondimento. Qui confermo che dirò sempre sì, nei limiti del possibile, e sempre gratis, perché non è tempo di speculare su un così grande dolore. E poi perché, come sanno i mie lettori, c’è un pezzo di cuore che mi è rimasto lì, per la mia esperienza di volontariato verso i cd. bambini di Chernobyl.




Francesco De Bartolomeis, un ebook gratuito per i nostri lettori

Un nuovo ebook arricchisce la nostra collana Scuola è comunità
Si tratta di un testo realizzato da Annamaria Gifuni sulla figura e sulla pedagogia di Francesco De Bartolomeis.
L’ebook può essere scaricato gratuitamente collegandosi alla sezione dedicata alle nostre pubblicazioni.




Un vademecum sul procedimento disciplinare

La materia disciplinare nella scuola è una delle più complesse perché non solo prevede una chiara conoscenza del quadro normativo e contrattuale di riferimento, ma richiede anche specifiche competenze e capacità di naturale gestionale, e perché no relazionale.
Il vademecum che proponiamo, realizzato dalla dirigente scolastica Antonella Mongiardo, ripercorre, più in generale, vari aspetti della responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti e, in particolare, del personale scolastico, dal codice di comportamento al procedimento disciplinare, alla luce delle ultime modifiche introdotte dalla riforma Madia.

Clicca qui per scaricare il vademecum




Bambini ucraini nelle scuole italiane. Accoglienza e solidarietà ma con equilibrio e prudenza

di Raffaele Iosa

Dedicato a Kirill Yatsko, 18 mesi, morto per una bomba a Mariupol; ai suoi genitori Fedor e Maryna un abbraccio fortissimo

Leggo da più parti e ricevo telefonate da scuole e associazioni di volontariato già pronte all’accoglienza di questi bambini ucraini sconvolti dalla guerra nella loro patria e passati in quindici giorni da una vita normale ad un disastro umanitario. L’Italia è un paese generoso, a volte encomiabile anche fino agli eccessi.

Scrivo qui brevemente su alcuni aspetti problematici e rischi educativi-sociali che intravedo per la loro accoglienza, sui quali  i nostri italiani generosi pronti ad agire dovrebbero riflettere. Lo faccio anche sulla base della mia lunga esperienza decennale nel volontariato italiano, anche con ruoli internazionali,  verso i cd. “bambini di Cernobyl”, con circa 50 viaggi in quelle terre e molte esperienze di solidarietà e cooperazione decentrata non sempre facili,  a volte rischiose di ambiguità, ovviamente nel rispetto della buona fede di tutti.

Dunque: avremo forse 10.000 bambini e ragazzi ucraini che arriveranno da noi dopo drammatiche fughe. Effetti collaterali di una scandalosa guerra che sta sfasciando un paese. Il tutto in una decina di giorni, senza alcuna preparazione. Cioè non un progetto né una vacanza, ma un drammatico e dilaniante strappo delle abitudini e delle esperienze di vita. Strappo  che ha soprattutto lasciato in patria i loro babbi a combattere l’orso russo nemico. Dunque bambini profughi di guerra, con il groviglio di angosce, rancori, odio, paura che questo comporta. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Questi bambini arrivano in diverse condizioni: molti con la mamma e i fratelli, altri raggiungono nonne e parenti che lavorano in Italia, altri conoscenti ucraini paesani generosi. Ci sono poi anche gli orfani sociali, se si riuscirà a portarli da noi. Sono accolti in diversi modi: in centri di accoglienza, in famiglie, offrendo loro un appartamento, ecc… Fortunatamente con un contesto sociale italiano attorno a loro (per ora) molto disposto ad aiutarli e comprenderli.
Teniamone conto, però: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Ma c’è di più: vengono da un paese quanto meno complesso già prima della guerra, in cui la transizione post-sovietica è stata scossa da molte turbolenze politiche, crisi economiche, vaso di coccio  geo-politico come paese di mezzo (u-Kraina vuol dire terra del confine), un’emigrazione economica a ovest cospicua,  tre chiese cristiane in guerra (religiosa) tra loro, grandi differenze tra città e campagna come in tutta l’Europa orientale dall’antica  Brest a Vladivostock. Una terra larga, dove le distanze sono dilatate, con vaste campagne, fitti boschi, larghi fiumi  paludi e laghi,  differenze climatiche cospicue, la mobilità faticosa. Ma anche un paese di grande cultura, ricchezze naturali, storia economica, risorse. Sfasciato dalle bombe.
Dunque bambini con la stessa nazionalità, ma con storie diverse, ognuno con un suo contesto culturale e sociale personale. Uniti dal passaporto e dalla fuga, in attesa ansiosa di avere notizie di vita dal padre rimasto laggiù in guerra. Ma anche bambini che vengono da una terra che sembra aver conosciuto, forse per la prima volta così forte,  una nuova identità di patria per merito di un presidente che ha dato loro  l’orgoglio nazionale.  Se fossero stati più grandi, avrebbero voluto restare in patria a combattere.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

E’ troppo presto, comunque, sapere quale sarà il loro destino a breve. Resteranno alcuni mesi? Resteranno anche di più? Resteranno per sempre? Chissà. L’incertezza è naturalmente grande e proprio questo mi obbliga a suggerire comportamenti riflessivi prudenti e non spontaneistici da parte degli italiani, in particolare degli insegnanti e dei servizi sociali del territorio, che siano  di matura saggezza ed equilibrio.
Questi suggerimenti per evitare errori di bontà e generosità che (in buona fede) rischiano di sradicarli dalle loro storie in una condizione esistenziale a rischio apolide. Cioè per amore e rispetto di questi bambini, per un aiuto gratuito senza pretese di “educarli” secondo i nostri stereotipi benevoli. Un aiuto capace di ascolto attento, di rispetto delle loro radici, di tenerezza e di solidità per garantire a loro il superamento del trauma, per la ripresa di un pensiero autonomo sulla speranza del proprio futuro personale.
Dunque, i bambini ucraini arrivano a scuola. Molto bene, il nostro paese ha (dice di avere) una grande tradizione inclusiva. Esce la parte migliore di noi. Siamo pronti. Ma come, con quali attenzioni e cautele?

Ne individuo, per la scuola,  in questa primissima fase, quattro in particolare.

  1. Offrire speciale normalità

Non è momento di far festa, né di attaccar bandierine di saluto,  né salamelecchi iper-affettivi né circondarli di curiosità. Non sono da esibire. Sono di passaggio, questo stanno (giustissimamente) pensando loro. Sperano in un passaggio il più breve possibile perché prima di tutto vogliono tornare (tutti) a casa.
Gentilezza, cortesia, rispetto da parte degli insegnanti e dei compagni. Meglio se sono insieme a connazionali o con lingue simili all’ucraino. Accoglienza soprattutto di conoscenza dell’ambiente scuola, meglio se in presenza di un adulto mediatore linguistico. Poi, piano piano adattamento e inclusione con le attività della classe, anche tarata sulle cose che gli piacciono di più. I primi giorni sarà dura, non scordatelo.
Temono il futuro. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

  1. Conoscere meglio possibile le condizioni di partenza reciproche.

Se hanno la mamma o parenti è indispensabile un colloquio sereno e attivo su cosa potrebbe servire sviluppare nella sua scolarizzazione in Italia. Quindi notizie sulla sua esperienza scolastica in patria, informazioni sulla sua vita sociale, sul “chi è” del bambino/a, i suoi gusti i talenti le difficoltà, e poi individuare  cosa si potrebbe fare a scuola. Creare quindi un patto educativo temporaneo tra insegnanti  e adulti sul che fare in questo periodo, avendo il coraggio di non andare oltre alla fine dell’anno scolastico. Mi spiego bene: qualsiasi sia lo sviluppo della crisi ucraina, è evidente che nella mente del bambino e del ragazzo c’è oggi un unico desiderio: il ritorno a casa. Quindi potremmo favorire una pratica di “continuità” con quello che ha fatto il bambino finora in patria, sviluppare alcune esperienze aggiuntive nuove, ma soprattutto di “andare avanti” con l’apprendimento per non perdere l’anno. Non sembri strano: in Ucraina la scuola è una cosa seria, e lo sperdimento esistenziale del bambino  deve essere diluito dalla certezza che venendo nella nostra scuola non perderà l’anno scolastico, che sarebbe una seconda sconfitta di guerra. Potrebbe sembrare un pensiero banalmente utilitaristico, ma è invece un pezzetto di futuro che si salva.
Dunque la scuola deve condividere con la madre cosa intende fare con lui/lei e condividere le elazioni.

  1. Perdere tempo con l’ascolto

Poi, pian piano, se va meglio, passiamo con lui/lei del tempo a parlare, partendo dalle cose più semplici, anche del quotidiano, ma evitando sempre domande dirette o dando idea di curiosità improprie. Deve essere lui (se si fida) a raccontare del sé, la propria storia, i propri desideri e le proprie paure.
La cura educativa ci impone sobrietà, attenzione anche alle sfumature, feedback positivi sul proprio agire nell’apprendimento e nella relazione con i compagni. Soprattutto non diamogli alcuna idea di aver pena per la sua condizione, ma comprensione. L’ascolto attivo e a-valutativo è un aspetto delicatissimo della relazione educativa. In questa situazione traumatica va svolto con grande equilibrio.

  1. Lavorare in modo attivistico

Ovviamente, più la didattica quotidiana sarà di tipo attivistico, più il bambino/a potrà trovare forme di apprendimento e relazione anche per lui attive e quindi più facilmente collocabili in una rete di relazione tra pari, di cui dovrà sentirsi a volte “più avanti” a volte “più indietro” (secondo la scuola da cui proviene) ma sempre entro una rete di reciprocità e aiuto  che solleva l’anima, riduce la solitudine, crea amicizie.

  1. Progettare in rete

Dunque suggerisco una progettazione a breve che vada fino a giugno per la scuola, ma anche per la prossima estate se resterà tra di noi. Quini conta molto creare patti di comunità territoriali che da subito possano, oltre la scuola, offrire opportunità nel tempo libero e nella vita sociale di aggregazione, amicizie.
A sua scelta, naturalmente, non per seduzione di quanto siamo bravi noi. Sapendo che la solitudine e il pensiero triste sarà sempre presente finchè non si saprà meglio quale sarà il suo futuro più avanti, che è (ricordiamolo sempre) prioritariamente tornare a casa.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che è arrivato da noi. Ma lavoriamo perchè torni a casa sua contento di averci conosciuti e sicuro di non aver perso ma guadagnato qualcosa anche dalla nostra scuola.