Per una nuova scuola che guarda al futuro. Un documento da sottoscrivere

StefanelNel dibattito culturale e politico sul nostro sistema formativo ritorna periodicamente la nostalgia della scuola passata di quando cioè “gli studenti studiavano davvero” e “gli insegnanti facevano belle lezioni seduti alla cattedra”.

Talora i nostalgici fanno analisi del tutto ragionevoli. Negli ultimi decenni il nostro sistema ha conosciuto una deriva “produttivistica” indulgendo eccessivamente ad alcune parole chiave non ben esplicitate o volutamente fraintese (competenze e valutazione, per esempio).
Tuttavia, secondo noi, i “nostalgici” sbagliano (e anche tanto) se pensano che il problema si possa risolvere con il ritorno a lezioni trasmissive fatte da docenti ben preparati nel loro ambito disciplinare.

Il problema principale della scuola, a nostro parere, non è l’insegnamento, ma l’apprendimento e pertanto il punto cruciale della questione cambia radicalmente. Si tratta di riappropriarsi – da parte della scuola – del proprio specifico ambito che è quello della pedagogia.

Ambito che non si riduce alla semplice trasmissione di contenuti, per quanto importanti, o alle procedure didattiche ma che in primo luogo storicizza e demistifica una “forma scolastica” che si ritiene immutata e immutabile perché “naturale” mentre è invece solo espressione del ritorno alla logica gentiliana cui vengono aggiunte corpose venature di taylorismo.
Noi riteniamo che la logica “gentiliana” possa e debba essere contrastata proponendo un modello scolastico che faccia riferimento alla migliore tradizione pedagogica attivistica del secolo scorso.
Il tema è complesso e viene esplicitato nel documento allegato nel quale, non a caso, si ricorda che nel 2021 ricorre il centesimo anniversario della nascita della Lega  dell’Educazione Nuova, che – per impulso di Adolphe Ferrière e altri educatori dell’epoca, si riunì a Congresso per la prima volta a Calais, in Francia.

Il documento che proponiamo verrà presentato e discusso ufficialmente nel corso di un incontro on line che si terrà il prossimo 16 giugno alle 17.30.
Chi lo desidera può sottoscriverlo fin da ora compilando il form disponibile nel sito; nello stesso form è possibile anche prenotarsi per l’incontro del giorno 16.

ALLE ORE 11 DEL GIORNO 16 ABBIAMO INVIATO A TUTTI GLI ISCRITTI ALL’INCONTRO IL LINK DA UTILIZZARE.

TUTTI GLI ISCRITTI DOPO QUESTO ORARIO RICEVERANNO IL LINK VERSO LE ORE 16.30

Primi firmatari del documento
Bellino Roberta
Bottero Enrico
Iosa Raffaele
Lancellotti Maria Grazia
Maviglia Mario
Nutini Massimo
Palermo Reginaldo
Stefanel Stefano
Tosolini Aluisi

Tra gli altri hanno firmato anche: FEDERICO BATINI – DANIELE BRUZZONE – ANDREA CANEVARO – GIANCARLO CAVINATO – CRISTIANO CORSINI  – FRANCESCO DEBARTOLOMEIS – VANNA GHIRARDI – GIANNI GIARDIELLO – DARIO IANES – NICOLETTA LANCIANO – ROBERTO MARAGLIANO – DARIO MISSAGLIA – ELISABETTA NIGRIS – STEFANO PENGE – RINALDO RIZZI – ANTONIO VIGILANTE – PAOLO VITTORIA

Il Manifesto per la Nuova Scuola al quale facciamo riferimento e che critichiamo nel nostro documento è disponibile qui.




Cambiamo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci vada per imparare”

di Giovanni Fioravanti

 La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati.
Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.


Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico.

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”.

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita.

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.




Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema

di Pietro Calascibetta

 

Perché uno   status specifico per le  figure di sistema?

L’articolo di Antonio Valentino Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i
conti”
, del 17 maggio scorso è un utilissimo contributo per il dibattito che per fortuna, anche se con fatica, si fa strada rispetto all’opportunità o meno di assegnare un vero e proprio status giuridico e una tutela contrattuale ad alcune figure già presenti nell’organigramma delle scuole e variamente definite (di sistema, obiettivo, strumentali, referenti ecc.) che   svolgono negli istituti oltre all’insegnamento un lavoro di coordinamento o di organizzazione.

L’articolo è una sintesi delle proposte, dei punti vista e delle questioni sul tappeto e può ben definire il perimetro entro cui aprire una discussione.
Perché non rimanga però solo un dibattito o uno scontro astratto tra opinioni è bene a mio parere entrare un po’ più nel merito della questione per capire se ciò di cui stiamo parlando riguarda solo il personale scolastico ed è quindi una questione sindacale, un interesse di categoria come tanti, seppur legittimo, o riguarda anche e soprattutto la qualità del servizio scolastico e il futuro degli studenti in presenza di un evidente problema di funzionamento della scuola testimoniato dall’alto tasso di dispersione ed è quindi anche un interesse collettivo che impone di superare certe rigidità.

In altre parole dobbiamo capire se e come  l’assegnazione di uno status giuridico e di una tutela contrattuale a queste figure con una rivisitazione del profilo professionale può effettivamente contribuire a migliorare il funzionamento delle scuole rendendo l’azione educativa più efficace di quanto sia ora e  migliorare le condizioni di lavoro di tutti i docenti.
Se il vantaggio fosse questo, diventerebbe un obbligo morale e politico per tutti trovare una mediazione per introdurre questa innovazione al più presto al di là delle posizioni di principio e sarebbe un investimento strategico per la società tutta.
Si tratta allora di partire dal problema e impostare il discorso in modo diverso guardando cosa non funziona nelle modalità di lavoro a cui sono costretti i docenti.

Ci provo prendendo spunto dalla  sperimentazione didattico strutturale dell’Istituto Rinascita A.Livi , scuola media ad indirizzo musicale di Milano, a cui ho partecipato. Lo faccio perché stiamo parlando di innovazione strutturale di cui Rinascita si è occupata fin dal primo decreto ministeriale del 1974 che aveva non a caso come mission di “individuare una struttura organizzativa della scuola e delle pratiche professionali dei docenti funzionali “ alla gestione un contesto di apprendimento caratterizzato da una didattica attiva e di gruppo, potremmo dire  ora  funzionali all’autonomia scolastica.

Nessun insegnante è solo in cattedra

Qual è l’evidenza  che ciascun docente  e dirigente può toccare con mano nel funzionamento di una scuola a quasi cinquanta anni dall’introduzione degli organi collegiali e a venti dall’autonomia scolastica?
La didattica non è più un faccenda individuale del singolo docente, sono stati introdotti degli ambiti di lavoro collegiali  preposti espressamente dalla normativa alla progettazione collettiva,   al monitoraggio e alla verifica dell’attività didattica, azioni ben precise da cui dipende non solo  la stesura del PTOF, ma  la sua trasposizione nei curricoli delle singole classi  in  coerenza con le Indicazioni nazionali, nonché la personalizzazione e individualizzazione dell’azione didattica ed educativa in aula.

A definire  le modalità con cui  implementare il PTOF non è  quindi  il singolo docente, ma sono  proprio questi organismi intermedi.
Parlo dei consigli di classe, dei dipartimenti, delle commissioni progettuali del collegio. Questi organismi sono dei gruppi di lavoro su compito e rappresentano di fatto il livello organizzativo intermedio tra il dirigente scolastico, il collegio e il singolo docente in aula. Per usare un termine di attualità, sono delle “cabine di regia”  che rendono   possibile  ed efficace il lavoro dei  singoli docenti sul campo,  ciascuna con un compito specifico.
Chi si occupa del funzionamento di questi gruppi e di tutte quelle  attività logistiche  presenti di fatto in tutte le scuole che permettono l’effettivo funzionamento di ciascun istituto?

Sono i coordinatori di classe, di dipartimento, delle  commissioni di collegio e   i docenti che si occupano della gestione di taluni snodi organizzativi funzionali alle attività come il coordinatore della commissione formazione classi e orario, il referente di plesso, il vicario, il referente per i DSA ecc. Incarichi che troviamo in modo uniforme in ogni istituto.  Addirittura alcuni di questi incarichi sono richiesti per tutte le scuole dalla normativa stessa,  come il recente referente per il Covid.

Allora qual è il problema?

 Sia dal punto di vista normativo,  che nel senso comune questo ambito di lavoro intermedio dei docenti non è visto come una vera e propria  struttura interconnessa che va letteralmente gestita con una visione di insieme  per garantirne l’efficienza e l’efficacia.   Non è considerato  il cuore dell’organizzazione del lavoro e neppure la leva attraverso la quale il  dirigente scolastico può sostenere e stimolare  l’attività  dei docenti.
In realtà è  una rete, cruciale per il funzionamento della scuola, che il dirigente può coordinare in modo adeguato  solo se alla sua gestione è posto del personale specificatamente formato ai compiti che deve svolgere. Le associazioni professionali dei dirigenti  sanno  bene  che l’efficienza di questo livello permette al dirigente di raggiungere gli obiettivi per i quali è valutato.
Limitiamoci  ora ad osservare più da vicino i problemi dei gruppi  e dei loro coordinatori.

Se ripassiamo mentalmente le varie riforme che si sono susseguite negli anni, fino alle più recenti, tutte hanno assegnato stringenti compiti di progettazione e monitoraggio agli organismi collegiali dei docenti, in particolare al consiglio di classe, ma anche ai dipartimenti disciplinari e allo stesso collegio.
I gruppi di lavoro a norma di legge sono così  diventati lo snodo critico di tutto il sistema perché dal loro funzionamento dipende l’efficacia dell’implementazione della didattica e, si badi bene,  l’attuazione delle diverse riforme,  nonché il loro successo (se a qualcuno ancora importa!).

Non solo,  è  attraverso la qualità del lavoro dei  consigli di classe e dei dipartimenti che il dirigente può garantire una direzione unitaria, può valorizzare il personale, può contribuire al miglioramento dei processi didattici.
Sulla base dell’esperienza acquisita negli anni di sperimentazione di una nuova struttura organizzativa funzionale all’autonomia,  ho compreso che due sono le variabili che incidono in modo determinante sull’efficienza e sull’efficacia del lavoro dei gruppi: il tempo a disposizione per poter lavorare collegialmente e la  loro gestione, cioè le modalità con cui vengono preparate e gestite le riunioni e il monitoraggio di come vengono attuate le decisioni prese. Due variabili indispensabili perché le riunioni siano dei momenti realmente produttivi rispetto ai loro compiti e quindi anche gratificanti per chi vi partecipa creando quel senso di appartenenza presente in una vera comunità professionale.

Un Middle Management per  migliorare la qualità del lavoro dei docenti

Ora, coordinare una riunione perché diventi efficace, valorizzare i contributi di tutti i membri, aiutare il gruppo a realizzare un progetto comune, predisporre  un piano di lavoro  unitario, un PDP richiede non poche competenze e un adeguato tempo a disposizione.
Sulle modalità di coordinamento delle riunioni dei dipartimenti e soprattutto dei consigli di classe, si entra nel vivo del discorso sull’opportunità di individuare un Middle Management.
Valentino dice chiaramente che sono proprio le figure di coordinamento che hanno un ruolo principale nella gestione intermedia nella scuola.
Per migliorare il funzionamento degli organismi di lavoro collegiali o addirittura per rendere possibile che gli organismi di progettazione e di monitoraggio possano realmente operare nelle scuole in base ai compiti che la legge attribuisce loro è necessario che al loro funzionamento sia dedicata un’attenzione specifica e che i docenti che si occupano di gestirne i lavori siano messi in grado di operare professionalmente nel modo migliore.

Assegnare quindi ai docenti che si occupano della gestione intermedia uno status particolare è un atto dovuto prima di tutto agli utenti perché ha una ricaduta diretta sul modo di poter approntare contesti che siano realmente favorevoli all’apprendimento e di seguire gli studenti in itinere ed è un atto dovuto nei riguardi dei docenti.
Invece di mettere toppe alla dispersione scolastica con iniziative che finiscono per essere solo di pronto soccorso, perché non si mette ordine in casa  e si migliora prima l’organizzazione interna della scuola?

Ho approfondito nel dettaglio questo aspetto analizzando in particolare il ruolo del coordinatore di classe nel numero 1 del 2021 della RIVISTA DELL’ISTRUZIONE, qui mi preme sottolineare come alla definizione di uno status particolare per le funzioni di sistema si debba accompagnare una modifica sostanziale del loro  profilo professionale, dell’orario di cattedra e delle modalità con cui sono messi in grado di operare e di conseguenza dell’assetto organizzativo  facendo finalmente della gestione intermedia il motore del funzionamento dell’istituto.

Un nuovo status in funzione  dei compiti da svolgere e non in astratto

L’argomento è complesso sotto il profilo normativo e sindacale, ma alcune questioni possono essere messe sul tappeto per poter formulare alla fine una proposta concreta.
Per quanto riguarda la modalità di individuazione di queste figure non è possibile che si basino ancora sull’adesione volontaria dei docenti. Una scuola e un dirigente potrebbe in pratica non avere la disponibilità  di nessun docente  per coordinare una classe o per fare il referente di questo o di quello. Il fatto è che la norma non riconosce formalmente il fatto che alcune figure debbano essere presenti strutturalmente in un istituto. Questo ne indebolisce il ruolo e mette in difficoltà lo stesso dirigente nel momento in cui deve cercare di individuare il docente a cui assegnare l’incarico.

E’ prematuro proporre ora una soluzione, ma sicuramente va formalizzato un organico di istituto di figure che obbligatoriamente devono essere presenti in una scuola scelte tra quelle di fatto comuni  a tutti gli istituti  e una procedura di selezione specifica anche interna. Ad esempio una simile a quella prevista dal CCNL 1998-2001 all’art.28 per le Funzioni Obiettivo e misteriosamente cassata nel contratto successivo. Potrebbe funzionare perché basata sull’accertamento del possesso delle competenze necessarie a svolgere i compiti a cui la funzione viene preposta, vedrebbe il collegio coinvolto, ma attraverso una procedura che salvaguardi la qualità dell’individuazione. Per quanto riguarda le figure organizzative (leggi anche  l’attuale staff, ma non solo) potrebbe  essere dato   comunque un  ruolo discrezionale   al dirigente, fatta salva  l’individuazione  trasparente delle competenze  dei candidati.

Il possesso delle  competenze per  svolgere questi ruoli potrebbe  essere preso in considerazione nei   trasferimenti dei docenti  come titolo di precedenza nel caso di vuoti nell’organico del Middle Management di istituto. Con le competenze tocchiamo però  uno degli ostacoli che impediscono di andare avanti nell’affrontare la questione.

Oltre gli stereotipi e  le posizioni di principio

E’ del tutto farisaico immaginare che tutti i docenti abbiano tutte le competenze per svolgere tutti i compiti necessari alla gestione di una scuola. E’ giusto che così sia per l’insegnamento, non è tollerabile che ci siano docenti di serie A e di serie B, ma qui parliamo di altri compiti che non hanno nulla a che fare direttamente con l’insegnamento e che richiedono il possesso di competenze, anche se presenti nel profilo contrattuale del docente, necessariamente potenziate e ampliate da una specifica formazione svolta o da svolgersi eventualmente con un patto da sottoscriversi nell’ottica dello sviluppo professionale. Non si può chiedere a tutti i docenti di svolgere un ruolo di project leader ricorrendo ad esempio   a  quelle modalità pseudodemocratiche come la  rotazione o l’anzianità.
Parlando di atteggiamento farisaico penso anche a quanti docenti con 6 o 9 classi sono oggi coordinatori di classe e come nella pratica si  crei una  discriminazione comunque senza nessun beneficio!

Trattandosi di compiti da cui dipende l’implementazione della didattica e quindi lo stesso  funzionamento   strutturale della scuola non possono essere affidati in modo casuale a “figure” che si accendono e spengono come stelle nel firmamento, pescando nell’universo collegiale, ma a personale già in possesso di competenze anche se poi può, come scrivevo, anche approfondirle e svilupparle ulteriormente. Lasciamo che gli insegnanti che vogliono solo insegnare  insegnino e non siano costretti a svolgere un’attività per la quale non hanno alcun interesse e che vivono come un peso a volte insopportabile.

Considerare che uno valga uno e pretendere   che tutti  facciano tutto non importa come  è una responsabilità che ci si assume nei confronti delle famiglie e dell’intera società impedendo alla scuola di poter assolvere in modo adeguato il proprio compito.

Parlavo anche di tempo da dedicare a questo lavoro di coordinamento. Gestire un gruppo di lavoro non è come presiedere  una riunione. Spesso si confonde l’aspetto formale di un organo collegiale e i relativi adempimenti burocratici con il lavoro collegiale di ricerca,  sviluppo ed elaborazione che l’organo deve svolgere professionalmente nell’implementazione della didattica. Un distacco dall’insegnamento per un numero adeguato di ore e l’utilizzo di ore di cattedra per tale lavoro di coordinamento  oltre alle ore  delle riunioni che sono un impegno comune a tutti i docenti può permettere a questa figura di per poter svolgere appieno  il proprio lavoro. Chi pensa alla semplice elargizione di un qualche incentivo non fa i conti con il fatto che gestire un livello organizzativo intermedio di questo tipo richiede anche una concentrazione e un impegno non irrilevante che non può essere condiviso con altri incarichi di responsabilità  come l’insegnamento a tempo pieno.  Offrire un piatto di lenticchie oltre a lasciare le cose immutate, sarebbe una beffa per i docenti!

Non solo  di Middle Management ha bisogno la scuola

Siamo partiti dal problema di come permettere agli organismi intermedi di poter funzionare come ambiti di  sviluppo  della progettualità  così come sono stati concepiti e che l’individuazione di un Middle Management potrebbe essere la pre-condizione di base per affrontare la questione, ma non è l’unica. Come ho scritto sopra la seconda variabile riguarda il tempo a disposizione degli organismi  e gruppi per il lavoro collegiale.
Domandiamoci quante ore hanno a disposizione in un anno i consigli di classe oltre agli scrutini  per un reale lavoro di progettazione, monitoraggio e verifica per tutti i compiti attribuiti dalle stesse norme. Quante ore hanno disposizione per il lavoro di individualizzazione e personalizzazione del curricolo? Per progettare e valutare l’alternanza scuola-lavoro? Quante ore per definire e monitorare in  itinere  i PEI e i PDP, la cui stesura  spesso viene delegata in toto al docente di sostegno lusingandolo con il fatto che lui sarebbe l’esperto?

Come docenti sappiamo bene che qualsiasi alunno si sente parte di un gruppo solo se ha partecipato al lavoro di quel gruppo e se ha contribuito fattivamente a realizzare insieme ai compagni un prodotto comune in cui potersi identificare. Il gruppo è un dispositivo per l’apprendimento. Perché dovrebbe essere diverso per i docenti?
Quante ore ha a disposizione un docente con 6 o 9 classi per essere parte attiva della comunità di pratiche di una singola  classe?  Questo non è un problema secondario. In questi anni si è fatto finta di niente, lasciando i docenti  a fare “nozze con i fichi secchi”, in altre parole a pretendere la progettazione e l’efficacia lasciando trovare  loro le modalità per farlo arrangiandosi come meglio potevano ( taglia e incolla, delega   ai docenti con meno classi , ecc. creando di fatto docenti di serie A e di serie B).Non c’è comunità di pratiche se non c’è la possibilità di lavorare insieme a dei prodotti concreti confrontandosi reciprocamente.

Valentino giustamente pone l’accento sulla “demotivazione di gran parte dei docenti” che non trova gratificante coltivare le proprie competenze o “vivere positivamente la dimensione collegiale del proprio lavoro” o che stenta ad entusiasmarsi per la “ricerca, sperimentazione e sviluppo”.

Il motivo del fatto che i docenti nonostante la libertà concessa dall’autonomia si presentino così demotivati nasce dal fatto che il lavoro collegiale invece di essere per i docenti un momento di valorizzazione delle proprie competenze, di creatività e di sviluppo professionale è diventato di fatto un lavoro impiegatizio perché il poco tempo a disposizione è dedicato in gran parte alla compilazione degli  atti burocratici dovuti. Una demotivazione che non ha origine nella cattiva volontà dei docenti, ma nelle condizioni alienanti in cui la struttura organizzativa attuale costringe il lavoro collegiale relegato ad incombenza.
La scuola come comunità professionale finirà per rimanere uno slogan ed essere ripudiata dagli stessi docenti perché diventa un miraggio irraggiungibile e frustrante  se non si creeranno realmente le condizioni per cui i docenti possano realmente lavorare insieme. E’ una “dimenticanza” non da poco  dopo il varo dell’autonomia. Ora siamo ad un bivio. La scuola non dovrà più essere come prima si dice!  Cominciamo dal Middle Management  e dall’organizzazione del lavoro, non è mai troppo tardi.  Altrimenti meglio  cavarsela da soli  in aula, risparmiare fatica e puntare sulla “centralità dell’ora di lezione” e viva la libertà di insegnamento (individuale!) buttando a mare l’autonomia come ormai  il “fuoco amico”  degli irriducibili vorrebbe.

 




I progetti finanziati con i fondi PON

Il Ministero dell’Istruzione ha resi noti i dati relativi ai progetti presentati nell’ambito del Piano Estate.
Questa una nostra rielaborazione dei dati che riguarda i progetti finanziati con i 320 milioni dei PON




La libera espressione

di Giancarlo Cavinato

Il concetto di ‘libera espressione’ ha avuto varie interpretazioni nella pedagogia attiva a seconda dei diversi autori, Steiner, Bettelheim, Rogers, Neill, Korczak, le teorie della creatività (Guilford), Munari…

Il Movimento di cooperazione educativa ha introdotto le pratiche di liberazione attraverso le proposte di Rodari e le esperienze dei suoi maestri e maestre, Mario Lodi, Nora Giacobini, Idana Pescioli, Aldo Pettini fra i tanti.
Negli anni 70 l’incontro con Franco Passatore e il Teatro Gioco Vita con le proposte di animazione teatrale (il teatro dei ragazzi)  ha dato origine a una varietà di esperienze confluite poi nella proposta ‘a scuola con il corpo’.

Nell’accezione di Freinet, la libera espressione corrisponde a un progetto di interezza degli individui, che non va interrotta nel percorso scolastico settorializzando le diverse aree della personalità infantile. .
Per Freinet il bambino  non è un soggetto passivo, ma neppure una creta  modellata per intervento dell’ adulto: sin dalla nascita è dotato di un potenziale di vita. Freinet usa, per esemplificare il bisogno di  potenza, la metafora del torrente che scende impetuosamente verso la pianura.

‘Dobbiamo convincerci del fatto che il bambino non è affatto una terra vergine che attende le sue maestranze, ma un complesso di una vita ricca e tumultuosa, un torrente che non è che alla sua origine, ma che reca in sé tutte le promesse del suo avvenire.’( C. Freinet, Les bases psychologiques des Techniques Freinet, Techniques de vie, ottobre 1959)
Le conoscenze per Freinet  possono essere acquisite seguendo lo stesso processo naturale che permette al bambino di imparare a camminare, a parlare, a svolgere le fondamentali attività funzionali.  Il processo naturale si regge sullo slancio vitale che fa sì che il  bambino sia curioso, ricercatore e sperimentatore, procedendo per tâtonnement. Ogni essere vivente è animato da un bisogno di crescere, di progredire.

Per non ostacolare la maturazione della personalità del bambino, bisogna consentirgli di esprimersi in libertà e manifestarsi all’insegnante così com’è, affinché egli possa, conoscendolo, guidarlo a realizzare il suo progetto di vita. E’ una pedagogia vitalista, nel quadro di ‘un’ottimistica fiducia nella vita’ (C. Freinet, ‘Le invarianti’)
Il bambino arriva a scuola con un suo bagaglio di esperienze, con un suo patrimonio di conoscenze e con una sua personalità. Il maestro non deve distribuire un cibo per il quale l’alunno non ha appetito e che digerirà molto difficilmente (‘non si deve far bere il cavallo che non ha sete…cambiate l’acqua’) , ma deve far leva sulle conoscenze presenti in nuce nei suoi alunni e organizzare il contesto così che esse emergano, vengano poste a confronto, si incontrino con buone proposte stimolanti. Rodari proponeva una pedagogia dello stimolo in luogo di un insegnamento basato su modelli.

Il primo passo è quello di creare le condizioni psicologico-​ambientali per  motivare a partecipare attivamente. Nel MCE si coglie tale suggerimento attraverso la pratica della pedagogia dell’ascolto.
Bisogna lasciar parlare i bambini liberamente, ascoltando attentamente quel che hanno da dire, e cercare di cogliere il motivo intorno al quale si polarizza l’interesse della maggior parte di essi.
La valorizzazione degli interessi reali del bambino, la soddisfazione dei suoi bisogni di creazione, di espressione e di attività costituiscono l’impianto  della pedagogia freinetiana. L’espressione, spiega Freinet, presenta due dimensioni: una di esternazione di vissuti, l’altra di comprensione del mondo circostante. Nel corso della sua vita e, in particolare, durante l’infanzia, l’individuo riceve una quantità di aggressioni dal mondo esterno e ciò turba il suo mondo interiore. Ciascun bambino, pertanto, tende spontaneamente ad esprimersi poiché ha bisogno di ripercuotere all’esterno di sé quel che si porta dentro, quel che lo angoscia.

La seconda dimensione dell’espressione si esercita molto presto nella vita. La funzione della comprensione si manifesta, a livello dei bambini, in una costante formulazione di ipotesi scientifiche, linguistiche, matematiche, filosofiche, come hanno dimostrato i lavori dei gruppi MCE infanzia e educazione e psicanalisi.  La rivoluzione freinetiana consiste proprio nel fare di queste ipotesi ‘fantastiche’ l’origine  del sapere dell’individuo, così da  mettere il bambino, la sua cultura,  al centro dell’azione educativa.

Un’altra dominante della pedagogia freinetiana è la comunicazione che moltiplica i vantaggi dell’espressione. Comunicare con l’altro obbliga a organizzare il proprio pensiero in modo che l’altro lo possa comprendere. Permette, inoltre, di conoscere l’altro, di accordagli il diritto di esistere nella diversità, aumentando così la possibilità di una comprensione reciproca.

Il desiderio di raccontare e di raccontarsi si realizza attraverso il testo libero, espressione profonda e spontanea del bambino. Tale tecnica libera il pensiero del bambino, facilita la sua creatività, produce una varietà di testi, diari, poesie, articoli, narrazioni.
Nel testo libero il bambino si esprime; e per esprimersi utilizza la memoria e l’immaginazione. Tale strumento  utilizza le esperienze passate integrandole  nel presente e stimolando la capacità di ipotizzarne delle nuove, cioè  la capacità di progettazione del futuro, oggi quanto mai necessaria alla luce delle nuove emergenze. Il testo libero nasce da  un interesse vivo, sostituisce il tema tradizionale in cui l’alunno è costretto a svolgere un enunciato scelto dall’insegnante (Rodari ipostatizzerà tale pratica nella sua filastrocca ‘Tema; la mia mucca’).
Tuttavia, il bambino scrive spontaneamente solo se ha qualcosa da dire. Il testo libero deve essere, pertanto, veramente libero: il bambino scriverà soltanto quando avvertirà il bisogno di esprimersi. Paul Le Bohec, maestro collaboratore e prosecutore del lavoro di Freinet, attivo diffusore del metodo naturale di apprendimento, scriverà al riguardo il suo ‘Le texte libre… libre’).

Freinet avverte di non confondere il testo libero con la composizione a soggetto libero; quest’ultima si ha, infatti, quando l’insegnante impone ai suoi alunni di scrivere in classe qualcosa a piacere, in un determinato momento prefissato. Il testo libero deve rispecchiare il mondo e la personalità del bambino, non può essere legato a nessuno svolgimento programmatico: deve riflettersi in esso la vita reale del ragazzo con la sua varietà di stimoli e di interessi.
Le Bohec racconta uno dei primi testi emersi nella sua classe e che il maestro trascrive su un cartellone perché tutti possano ritrovarlo, confrontare con le proprie esperienze.
Una bambina racconta che giocando con la sua bambola, mentre le cambiava il golfino, le è rimasta in mano la testa. E che alla sera, mentre la mamma, per spogliarla e metterla a letto, le stava togliendo il maglione, lei l’ha fermata dicendo: -No, mamma, faccio da sola.-
Mentre nella scuola tradizionale la composizione é destinata solo alla correzione del maestro e, rimanendo un lavoro strettamente scolastico, non può diventare un mezzo di comunicazione, nelle classi Freinet si trascrivono in una prima fase e poi si stampano i testi liberi prodotti  dai ragazzi  realizzando così il giornalino scolastico, valorizzando i testi letti e stampati e facendoli apprezzare dai compagni, dai genitori, dai corrispondenti. La composizione diviene, così, un mezzo di autentica espressione del pensiero di ciascun allievo;  chi scrive lo fa per essere letto ed avere risposte, così come chi parla lo fa per essere ascoltato ed avere riscontri.

Il testo libero rappresenta  un momento espressivo individuale, ma la sua destinazione è sociale: il bambino parla o scrive per comunicare ad altri il suo pensiero. Il momento individuale dà avvio a una socializzazione e a un pensiero riflessivo (diceva Le Bohec che solo scrivendo ci si apre al pensiero). Il bambino si apre a una nuova dimensione, quella dell’organizzazione del pensiero nello schema logico del discorso, dell’espressione, ossia la dimensione sociale.
Ciascun bambino scrive per far giungere il proprio pensiero a qualcun altro; si impegna per gli altri (lettori) e assieme agli altri (compagni). È il giornale scolastico, accanto al libro di vita della classe, che motiva la composizione libera e che la rende uno strumento di stimolo alla scrittura.
‘I bambini hanno bisogno del vostro sguardo, della vostra voce, del vostro pensiero. Essi hanno bisogno di parlare a qualcuno che li ascolti, di scrivere a qualcuno che li legga e li capisca, di produrre qualcosa di utile e di bello che è l’espressione di tutto quello che di generoso e di superiore portano in se stessi.’ (C. Freinet, ‘I detti di Matteo’)
Per trovare il proprio equilibrio l’individuo sente il necessario bisogno di “ripercuotere” all’esterno ciò che lo ha colpito interiormente. Lo si può fare con la parola e con la scrittura, ma anche con il disegno, il canto, l’espressione corporea, la musica, il teatro. Svolgendo tali attività il bambino acquisisce fiducia in sé e migliora le proprie capacità intellettuali e morali. ‘La scuola riparatrice dei destini’ è il testo in cui Le Bohec rilegge le proprie pratiche liberatorie e che in Italia è stato tradotto con il titolo ‘Quando la scuola ti salva’ (ed. Junior).
Elise Freinet si è dedicata in particolare all’’art enfantin’ esplorando una pluralità di tecniche e pubblicando in varie riviste le produzioni delle classi.
Il disegno, una delle manifestazioni dello slancio vitale presente in ciascuno, è una delle migliori risorse di cui il bambino dispone per esprimersi. Il disegno, però, deve nascere spontaneamente. Ciascun allievo disegna soltanto quando lo desidera. Non è necessario che il bambino sappia disegnare bene. Così come non conta saper scrivere bene, ma saper scrivere di cose vere, profonde, che toccano il cuore, che frenano l’impulso alla reazione immediata per una elaborazione differita, più pacata.  L’obiettivo finale non deve essere l’immagine corretta, ma la concretizzazione chiara e coerente di un’idea infantile.

Molti ritengono che il bambino non può disegnare, realizzare un’opera personale solo nel momento in cui conoscerà le regole della rappresentazione e della prospettiva. E lui si convince a tal punto del fatto che non è in grado di produrre niente di valido da inibire  il suo gusto naturale per il disegno. Esiste, certo, un metodo di insegnamento tradizionale, basato su alcune regole che ogni disegnatore dovrebbe conoscere. Effettivamente, quando gli alunni hanno appreso tali regole, sono in grado di rappresentare gli oggetti conformemente alle leggi loro insegnate, ma i disegni sono privi di senso e di personalità; non sono l’ espressione intima della vita.
Attraverso la creazione libera, invece, il bambino si dirige verso una comprensione personale e profonda della natura, a cui non potrebbe pervenire  se la natura gli viene presentata come un modello da copiare.
Lasciamo disegnare il bambino; lasciamo che commenti i suoi disegni, lasciamo che parli. Del resto, «se non ascoltassimo il bambino, cosa sapremmo di lui? » (Elise Freinet).

Le Bohec ha centrato il suo insegnamento sulle ‘creazioni’ che descrive per quanto riguarda l’espressione grafica ne ‘I disegni di Patrick’, ma anche nell’ambito delle creazioni matematiche (cfr. ‘Il metodo naturale di matematica’ nella collana on line RicercAzione MCE) , linguistiche, musicali, plastiche, coreografiche….
A volte una conoscenza o un’introduzione superficiale della libera espressione ha fatto sì che la pedagogia Freinet e del MCE venisse additata come spontaneista, poco scientifica, in qualche modo retaggio di una visione ‘romantica’ del bambino.
In realtà, è frutto di decenni di studi, approfondimenti, esperienze che nulla hanno di spontaneistico e che lasciano negli alunni tracce profonde che li accompagneranno nella vita.
(parte delle considerazioni sul testo libero sono  ricavate dall’articolo di Gemma Errico in ‘Dialegesthai’ che si ringrazia)




Piano estate, non c’è nessuna valutazione degli alunni

di Marco Bollettino

Lo scorso 29 aprile, in contemporanea con la presentazione del Piano Estate del Ministero di Istruzione, tutte le Istituzioni Scolastiche hanno ricevuto una circolare, firmata dal Capo Dipartimento Stefano Versari, nel cui testo le parole “valutazione” e “valutare” ricorrevano ben sei volte.
“Ma come – si chiederanno in tanti – anche nelle lezioni estive gli alunni verranno bombardati con verifiche e interrogazioni?”
Fortunatamente no, ma è significativo che, quando si parla di valutazione, i più pensino subito ed irrimediabilmente al voto.
Parafrasando Boniperti verrebbe da dire che “il voto non è importante, è l’unica cosa che conta”.
Nel caso del Piano Estate il voto c’è ma è solo il punto di partenza, nemmeno il più importante, per la progettazione degli interventi.
Piuttosto, scrive Versari, dovremo «dialogare con i ragazzi, scartando modalità standardizzate o schematiche [perché] mai come in questo caso la personalizzazione dell’insegnamento è fondamentale e questa chiede di conoscerli».
Il dialogo continuo tra docente e discente e l’utilizzo continuo del feedback per modificare e migliorare la didattica è uno dei capisaldi della cosiddetta valutazione per l’apprendimento (assessment for learning).
La parola chiave è quel “per” che modifica totalmente il significato dalla valutazione tradizionale. Non si tratta più solo di verificare il possesso, o meno, di conoscenze e competenze ma anche (e piuttosto) di ricevere un feedback dagli studenti che ci consenta di migliorare la nostra didattica.
Spesso, imprigionati dalla burocrazia e alla ricerca costante del “congruo numero di verifiche” perdiamo comprensibilmente di vista questo importante aspetto della valutazione.
Liberati dalle catene del voto, è auspicabile che, almeno per le fasi I e III del Piano Estate riscopriremo le potenzialità di tutti gli altri aspetti del processo valutativo.




Piano estate: ma davvero i compensi sono esigui?

di Paolo Fasce

Devo ricordare a me stesso che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce, quindi leggere questi post ideologici contro la scuola estiva che ci vincola al ruolo di badantato perché “la scuola seria istruisce e non diverte” mi infastidisce e non poco.
Detto questo, corre l’obbligo precisare alcune cose.
Una parte delle obiezioni focalizza l’attenzione sulle cifre nette percepite da ciascuno che, naturalmente, vengono ridicolizzate. E’ certo vero che vedere 70 euro l’ora trasformarsi in 34,98 netti (per chi ha un’aliquota del 27%, perché con quella del 38 diventano un pelo meno) e quella di 30, per i tutor, diventare 14,99, fa impressione. Ma occorre parimenti ricordare almeno due cose: in tale potatura, una parte contribuisce a tenere in piedi i servizi dello Stato (“pagare le tasse è bellissimo” diceva qualcuno e io sono d’accordo!), un’altra supporta la propria pensione, giacché vige un sistema contributivo (“bisogna pensarci prima” diceva mio nonno!).


Chi si lamenta, legittimamente, di buchi pensionistici per i contratti al 30 giugno dovrebbe pensarci. Chi è così fortunato da non averli, dovrebbe comunque pensarci (la mia generazione NON avrà le ricche pensioni che hanno avuto i nostri genitori!).

Ciò che fa male è pensare che ci sia chi fa queste affermazioni (le cifre guadagnate sono risibili) dall’alto delle cifre nette guadagnate con le ripetizioni private che sono un cancro della scuola che non si fa carico delle debolezze e una vergogna della categoria, quando non sono dichiarate all’erario (oltre allo scrivente, conosco solo un’altra persona che in vita sua l’abbia fatto).
Sempre sull’esiguità della cifra, io farei fare un giro nel mondo reale a queste persone. Regalerei una partita IVA per sei mesi, per fare capire quanto tali cifre siano preziose. Nessuno dà niente per niente e questo scherno per l’esiguità della cifra si traduce in un assunto: chi la esprime sta bene di suo.
Non conosco persona con mutuo, figli da sfamare, monoreddito e senza le spalle scoperte che disdegnerebbe tale salario accessorio. Certo, se hai genitori/nonni che ti foraggiano, consorte che guadagna quanto o più di te, mezzi di altra natura, allora tutto ti fa schifo e ti puoi consentire di disdegnarlo. Ma in questo caso, il tuo non è un mestiere, ma un hobby. Sarebbe dignitoso tacere. Poi, naturalmente, c’è chi fa legittimi bilanci: una baby sitter mi può costare quanto quello che guadagno. Non ne vale la pena. Ma allora scrivi: “per me, nel mio caso, non ne vale la pena”.

Larga è la schiera dei critici che legittimamente fanno bilanci. Un giorno, questi signori, ci spiegano che gli/le insegnanti hanno 32 giorni di ferie l’anno, come tutti gli altri, un altro giorno ci spiegano che non vale la pena per quattro lire rinunciare ad andarsene al mare, mostrando palesemente quanto penoso sia il bluff della prima versione. A questi raccomanderei moderazione, perché il resto del mondo che non gode né di uno stipendio fisso (e quando c’è è spesso più basso), né di una certezza di entrata (e in questi ultimi quindici mesi vediamo bene cosa può voler dire), e sfoggiare “due mesi di ferie di fatto” non è elegante. Di certo non aiuta a costruire un’immagine di credito sociale.
Queste persone non fanno un favore alla maggioranza silenziosa dei docenti dell’ora et labora. Vabbé, magari non sempre maggioranza, ma gruppi numerosi di questo tipo ci sono in ogni scuola e le fanno funzionare. Mi fermo qui perché devo lavorare.