Breve storia dell’Italia, a partire dal ’68

di Franco De Anna
(per gentile concessione dell’autore e del sito www.ceredaclaudio.it )

Il ’68 di Scienze.
Quale registro di comunicazione?

Ho accolto con trepidazione l’invito ad aprire questa riunione del nostro ritrovarsi a quarant’anni di distanza.
Quale registro dare alla comunicazione? Come sfuggire al doppio rischio comunicativo del registro del “reduce” oppure del “tutto politica”?
Ma anche del solo ricordo personale (nulla è meno oggettivo della memoria…) o della lettura analitica politico-economico-sociologica, entrambi falsificabili ampiamente da chiunque ascolti, ma anche dallo stesso autore se appena si scosti dal “punto di vista” nel quale si ponga  contingentemente.

Bisognerebbe dichiarare preliminarmente il proprio “posizionamento” per non fare di un intervento di apertura il bersaglio di ogni possibile successiva precisazione o polemica.
Se, come hanno dichiarato i compagni che si sono impegnati nell’organizzazione di questo ritrovarsi, questa occasione potrebbe anche essere l’avvio per un lavoro successivo che mantenga aperto, se non altro, un canale di comunicazione, allora, nell’impostare questo intervento di apertura si può anche andare “sul leggero”, e lasciare a quel possibile ulteriore sviluppo il compito di approfondire ed esplorare tutte le pieghe di una storia che è anche l’intreccio di tante “storie”.
Chiedo preventivamente scusa di tale “leggerezza” che mescola insieme registri diversi, e necessariamente non approfondisce nulla, lasciando solo delle tracce eventualmente da seguire.

Le passioni “tristi”

Riflettevo su tali dilemmi, quando, per via di un piccolo dibattito in corso su uno dei tanti siti che si occupano di scuola, ci siamo ritrovati, io ed un autorevole interlocutore, a parlare di epoca delle “passioni tristi”.
Le “passioni tristi” sono una citazione di Spinosa, ripresa da due psicologi francesi che ne hanno fatto il titolo di un bel libretto nel quale affrontano i malesseri dell’adolescenza e della giovinezza di questa epoca.

Ha fatto eco, dopo, Galimberti con il suo libro sul nichilismo.
In sintesi: la cultura oggi rielaborata nelle diverse forme e strumenti, dal discettare di tanti maitre a pensee, o supposti tali, fino al senso comune disseminato dai mass media è impregnata dalla incapacità di prospettare, e dunque tanto meno di mantenere, la promessa del futuro.

La promessa del futuro è invece l’alimento di quella religione laica (dico religione laica e non religione civile, e spero apprezzerete la differenza sulla quale non vi è tempo di ulteriori spiegazioni…) capace di costruire e ricostruire i significati e il senso alla vita singola e collettiva.
Più si approssimano le condizioni “oggettive”, potenziali, della liberazione dal bisogno, e dunque per l’espansione della libertà singola e collettiva, più le categorie della emancipazione collettiva dal bisogno, il sogno di eguaglianza e di autodeterminazione che hanno nutrito l’idea del “progresso” per una intera e lunga fase storica, si rivelano inadeguate al presente e a mantenere quel ruolo di “religione laica” al quale si affida il sogno di una felicità terrena possibile per tutti, e il compito di disegnare, contemporaneamente e correlatamene il senso e il significato alla vita di tutti.
Se viene meno quella capacità di costruire e ricostruire quella “cornice di senso”, le potenzialità della tecnica, della scienza, della cultura moderna degradano a dominio.

La socialità scompare nella bulimia dell’appropriazione individuale, i diritti diventano contrassegno dell’egoismo individuale elevato a “ragione” dell’esistere, il giusto diventa l’utile, e quest’ultimo trascorre nel superfluo.
Manca l’essenziale, ma si incorpora avidamente il superfluo.
La libertà diventa sopraffazione, e dunque paura del confronto e del dialogo.

Paura, straniamento, autodifesa, rabbia, a volte tanto urlata quanto incapace di far muovere le cose, tengono il posto dello sguardo, che si vorrebbe carico di speranza per chi sta nel viaggio verso l’adultità.
Queste, appunto, sarebbero le “passioni tristi” dell’oggi, che sono prodotte dalla incapacità di mantenere la promessa del futuro.
Sono queste le “passioni tristi”.

…. E le passioni generose

Ma perché ricordarle?
Per contrasto.
Più riflettevo a quella discussione più mi si confermava l’idea di caratterizzare la mia e nostra esperienza del ’68 come l’epoca delle “passioni generose”.

La scelta politica in senso stretto, lo schieramento, lo scontro tra linee e scelte politiche che fu, soprattutto negli anni immediatamente successivi al 68, quasi “maniacale”, nasceva comunque da una opzione di fondo , pre – politica, quella dello schierarsi “dalla parte di…”.
“Degli oppressi” si sarebbe detto con il linguaggio di una volta.

Una generazione si ritrovò a condividere, prima di ogni altra discriminazione “politicante” quella religione laica che interpretava il futuro come processo generale di liberazione, di autodeterminazione, di possibile felicità di eguaglianza.
E per questo voleva battersi ed impegnarsi.
Una scelta pre politica che dava senso a quella politica, ma anche alla vita di ciascuno e di tutti e all’impegno per il futuro.

Una “passione generosa”, così mi pare di poter caratterizzare il nostro essere di quegli anni.

E mi pare questa la prima risposta, essenziale, che dovremmo dare a chi oggi, nell’epoca delle “passioni tristi”, rinfaccia a quella delle “passioni generose” l’essere causa dei “guai” dell’oggi.

In piena epoca della restaurazione, vi era un modo di dire diffuso da “senso comune” popolare, per accennare all’epoca immediatamente precedente, della rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica: “è tutta colpa di Voltaire” si diceva… Così oggi “è tutta colpa del ’68…”
E chi lo dice, o non sa, o è mosso dagli opportunismi, più o meno motivati dalle convenienze e dalle compromissioni personali dell’oggi…
Ma anche da una invidia rancorosa profonda di chi vive le “passioni tristi”, rispetto a alle “passioni generose” dell’epoca.
Ma non voglio correre il rischio apologetico. Perciò aggiungo anche qualche considerazione critica sul come eravamo

Fu merito di chi?

Fu merito nostro, quello delle passioni generose?
Più modestamente direi che “ci ritrovammo” ad uno snodo della storia.
Non posso qui sviluppare analisi complesse. Solo qualche flash.

  1. Eravamo figli del baby boom post bellico: nella piramide della popolazione, le nuove generazioni rappresentavano una parte consistente e in crescita.
    Una condizione oggettiva di potenziale protagonismo sociale, dunque, ed una base di potenziale “eguaglianza”: la condivisione di una condizione giovanile che, anche quantitativamente, risultava rilevante rispetto alla composizione della popolazione del paese.
    Quindici anni dopo, a tassi demografici calanti, i giovani cominciarono a diventare “mercato” ridotto e perciò selezionato e curato con attenzione “mirata”, isolandosi quasi dalla piramide della popolazione.
    Guardate ai caratteri dell’omologazione della condizione giovanile di allora: la musica era chitarra e parole, la moda era di basso prezzo e di qualità “eguale” (dove sono gli eskimo e le false clarck che portavamo?).
    L’investimento psicologico e materiale in “appartenenza giovanile” era ridotto e convergente, su prodotti poveri e consumi di massa.
    Non che non ci fosse (c’è sempre stata ..) l’istanza di omologazione distintiva dei giovani, ma occupava una parte ridotta della nostra testa, della nostra fantasia e del nostro cuore; occupava meno energie che erano disponibili per altri sogni.
    Poi fu la disco music, la moda griffata e differenziata… fino alle tristi sciocchezze dell’oggi (grembiuli come simbolo di sobrietà e eguaglianza? Guardare nei grandi magazzini la pressione selettiva di una offerta selezionata e differenziata: sono griffati anche i grembiuli, con buona pace di governa la scuola…).
    Oggi, per i giovani, un investimento psicologico ed economico rilevante che “sequestra lo spazio” delle speranze e di quella religione laica di allora.
  2. Tra il ‘48 (Costituzione), il ’58 (Mercato Comune Europeo) e il ’68 (vent’anni) il reddito nazionale fu quasi triplicato.
    Un processo di crescita segnato dalle contraddizioni e dai limiti storici ed economici che vennero al pettine negli anni seguenti.
    Ma fu sviluppo, crescita, prospettiva affluente del futuro.
    Da quella stagione arrivavamo.
    Non era questione di consapevolezza costruita attraverso l’analisi economica: era cosa che si respirava con l’aria.
    Il futuro personale di ciascuno si connetteva, nel processo di crescita generale, con il futuro della “città”.
    E ciò rendeva tanto più intollerabili le disuguaglianze, le ingiustizie, le contraddizioni stesse tra le potenzialità che si intravvedevano e la persistenza delle infelicità e delle ingiustizie nella vita di molti
  3. Gli anni di sviluppo di cui eravamo il prodotto avevano anche segnato il paese con la intollerabilità sociale delle sue contraddizioni: lo sradicamento della popolazione delle campagne e l’urbanizzazione accelerata, il Sud spopolato ed abbandonato, uno stato sociale incompleto.
    Pensate che nel 1950 la quota di popolazione impegnata in agricoltura era il 50% oggi siamo al 4-5%. E noi abbiamo attraversato il momento culminate di quel processo storico.
    Ricordo una vacanza in Calabria (in Cinquecento), a Isola di Capo Rizzuto: un deserto con la porta del Municipio che portava i segni dell’incendio dopo l’ultima manifestazione di braccianti….
    E come non ricordare Avola, Battipaglia, con i braccianti morti sotto il fuoco della polizia?
    Ma noi eravamo figli fortunati di quello sviluppo: in quegli anni il passaggio dall’istruzione media inferiore a quella superiore riguardava solo meno della metà dei giovani.
    All’università arrivava non più del 12% delle nuove generazioni.
    Eravamo cioè frutto di una selezione sociale ancora durissima, che era in sé contraddizione evidente con le potenzialità che ci mostrava lo sviluppo precedente, di cui eravamo figli.
    E la pressione selettiva, come sempre, o conduce alla scomparsa di una specie, o è lo strumento per produrre novità più forti e adeguate.
    La “generosità” delle passioni era dunque sia una scelta soggettiva, sia una risposta “fisiologica” a tale pressione.
    Noi ci siamo trovati al vertice di quella parabola che cominciò infatti a declinare negli anni seguenti
    Ci siamo “trovati”, e uso tale parola nel doppio significato: di chi vive una condizione storico sociale che non ha contribuito a determinare, e di chi, in quella situazione si “ritrova” collettivamente, confrontando le medesime passioni e le speranze del futuro.
  4. Infine lo spunto maggiormente critico rispetto al “come eravamo”: la cultura politica, ma se volete la cultura tout court, disponibile per interpretare quel momento non era adeguata né a comprenderne a fondo i problemi, e neppure all’altezza di quelle “passioni generose”.
    Queste ultime, non per caso, investirono proprio i luoghi dell’elaborazione culturale, l’università prima di tutto e poi la scuola, sia perchè in essi ci ritrovammo a vivere accomunati nelle nostre passioni, sia perché se ne rivelava immediatamente la inadeguatezza di elaborazione culturale e scientifica.
    Furono i “baroni”, gli insegnamenti, la didattica, l’ordinamento stesso dell’Università i primi bersagli del movimento.
    In definitiva, declinavamo un background culturale tardo ottocentesco.
    E, se volete, proprio nelle facoltà scientifiche la contraddizione si rivelava in tutta la sua pienezza.
    Se devo esprimerlo ultra sinteticamente: la “critica della scienza e della tecnologia” e la “critica della democrazia” furono i due filoni “culturali” di quell’impegno appassionato, dovendosi inventare per strada gli strumenti interpretativi, o reperendoli nel repertorio del “pensiero disponibile” ma poco praticato nella nostra università, o anch’esso detenuto da elite culturali emarginate.
  5. In particolare appartiene al primissimo ’68 quell’esplorare, anche affannoso, la elaborazione scientifica e culturale che viveva “fuori” delle nostre università..
    Marcuse, la scuola di Francoforte, il pensiero della “crisi”, la psicanalisi, l’analisi sociologica di scuola anglosassone, ma anche le riviste: da “Quaderni Rossi”, al “Quindici”, ai “Quaderni Piacentini”, a “Problemi del socialismo” (e ne dimentico certo qualcuna) fino alle riviste della New Left americana.
    Ma fu un periodo breve: fu una prima ventata, subito tramontata all’orizzonte, o che continuò ad alimentare le consapevolezze singole ma non le rappresentazioni collettive.
    Queste ultime furono invece di fatto “catturate” dalla cultura tradizionale del Movimento Operaio.
    Marx, Lenin, e tutte le “varianti” da Trozky (sto parlando nel luogo che fu “insediamento iniziale” di Avanguardia Operaia…), per tacere (per carità verso di noi tutti) di Stalin, di Mao, del libretto rosso e della rivoluzione culturale.
    Gli autori classici della cultura del Movimento Operaio furono compulsati, interrogati per rintracciare senso e strumenti per interpretare la realtà.
    E significativamente se ne interrogarono (al meglio…) gli aspetti problematici e critici (che dire delle faticose citazioni dei Grundrisse che vennero di moda allora?).
    Solo più tardi quel cortocircuito sulla cultura tradizionale del Movimento Operaio si allentò: per esempio per ritrovare la psicanalisi si dovette aspettare il movimento femminile. ( e tanto, ma proprio tanto, dobbiamo a quel movimento, sotto il profilo dell’adeguamento culturale)
  6. L’egemonia culturale del Movimento Operaio si affermò presto dando senso e sbocco “politico” al movimento, ma residuando anche le sue insufficienze nel fornire strumenti di comprensione della realtà.
    Da un lato fu il grande merito della Sinistra italiana che consentì la saldatura tra il ’68 studentesco e il ’69 operaio (non accadde così del ’68 di altri paesi. Pensate alla Germania, o allo stesso maggio francese..).
    Non ci fu mai identificazione, ma certo uno spazio dialettico, anche aspro, che fu preservato e presidiato.
    Ma fu, sull’altro lato, anche il limite di quella cultura nel delineare lo sviluppo successivo misurandosi con le contraddizioni che erano alle porte e fecero rapidamente declinare la fase di sviluppo precedente.
    Meriti politici e limiti intrinseci di cultura politica della sinistra dunque e di questo portammo/portiamo il segno.

Cosa accadde dopo

Di nuovo solo flash per tentare un approfondimento.

  1. Se devo indicare un evento che secondo me segna il punto culminante della parabola di quella stagione, indico le elezioni amministrative del 1975.
    Ricordo la nettezza e la semplicità di quel risultato: la sinistra conquistava i Comuni e le Province, il terreno del rapporto più immediato e diretto con la gente ed i suoi problemi quotidiani.
    Ma contemporaneamente la sua cultura economica ed istituzionale si confermava inadeguata ad affrontare la svolta dello sviluppo segnata dalla fine di Bretton Woods, dalle primi crisi finanziarie internazionali, dai ripetuti shock e controshock petroliferi, e dalla rigidità, ma in via di sgretolamento, del bipolarismo mondiale..
    E d’altra parte non poteva essere ciò che emergeva da quei due filoni indicati del pensiero del movimento – la critica della scienza e la critica della democrazia – a rinnovare la cultura del Movimento Operaio, in un paese le cui contraddizioni erano interpretate, in buona sostanza, secondo paradigmi precedenti al neocapitalismo, nel quale era ancora da costruire un modello assennato di welfare, e la cui dialettica politica era mortificata duramente dallo schieramento internazionale.
    Tutti se e ma che non attenuano le responsabilità della cultura della sinistra e le nostre con essa.
  2. In particolare quell’insufficienza di cultura politica segnava uno dei due filoni che ho in precedenza indicato come caratteristici del pensiero critico del ’68: “la critica della democrazia”.
    L’inadeguatezza riguardava in particolare il ruolo dello Stato nello sviluppo economico, le forme e i criteri dell’intervento regolatore tanto dell’economia, quanto della società, nella stagione storica che già segnava l’inizio del tramonto dell’esperienza keynesiana del dopoguerra.
    A partire dal ’68 fu bensì estesa la rete di protezione sociale (dalla sanità alla previdenza, all’istruzione) e si dilatò l’intervento pubblico nell’economia.
    Furono dunque anni nei quali la linea di confine del “compromesso sociale” si spostava in avanti, e con essa il rapporto tra conservazione e progresso, tra interessi individuali e collettivi, tra diritti e bisogni.
    Fu costruito, in quegli anni e anche grazie a quel protagonismo politico, lo Stato sociale italiano.
    Ma quella stessa insufficienza di strumentazione di cultura politica, caratterizzò quel sistema con tutte le sue contraddizioni e inefficienze cvhe conosciamo.
    Con un effetto netto che potrei così sintetizzare: l’integrazione di cittadinanza, la speranza del futuro di eguaglianza, si realizzò esclusivamente con lo strumento della spesa pubblica e del deficit.
    ”Spesa e debito pubblico” come strumenti di integrazione di cittadinanza, non la “produzione di valore”.
    E ciò segna ancora oggi gran parte della nostra cultura politica.
  3. Fino alla fine degli anni ’70 si disegnarono, per ironia della storia, condizioni di bipolarismo reale nello schieramento politico (quello che si pretenderebbe oggi per “semplificare” la politica stessa). Tra DC e PCI stava oltre il 75% dell’elettorato.
    E la sinistra si ritrovò potenzialmente maggioritaria: tra PCI, PSI, eredità dirette del movimento, ed eredi del terzoforzismo azionista vi erano le condizioni per un potenziale schieramento maggioritario; ma non si poteva unire, per moltissime ragioni, tra le quali quella del peso dello schieramento internazionale, ma anche per l’effetto di culture politiche incapaci di definire una comune visione di ciò che era necessario per assicurare un futuro al paese.
    Dunque senza possibilità reali di governo, per la rigidità dello schieramento internazionale, ma anche per l’assenza di una cultura adeguata di governo.
    Da lì partì una stagione politica di progressivo corrompimento dovuto essenzialmente alla impraticabilità di sbocchi positiviLa dialettica politica si fece “complicata”, contraddittoria, senza connessione con la materialità dei processi in corso.
    E infatti si trovò ad armi spuntate di fronte al processo che si aprì con la crisi monetaria internazionale (fine di Bretton Woods e successive crisi petrolifere), e con la lunghissima fase di ristrutturazione dell’economia reale che produsse lentamente la “riconquista” del saggio medio di profitto, rispetto alla dinamica delle retribuzioni e dell’occupazione, che fino ad almeno la metà degli anni ’70 lo avevano conteso e corroso.
  4. Per la “compensazione sociale” in chiave stabilizzatrice si utilizzò scientemente ma sconsideratamente, senza disegno per il futuro, lo strumento della spesa e del deficit pubblico, con un modello del rapporto tra Stato e Economia completamente disadeguato.
    Alla fine degli anni ’70 il rapporto debito-PIL, che oggi strangola il Paese, era allineato al 70%.
    In pochi anni, tra spesa pubblica utilizzata in compensazione sociale, massicci trasferimenti all’economia, libertà di fluttuazione della moneta, svalutazioni competitive, scelte di politica monetaria di corto respiro e al servizio della “riconquista sociale” degli interessi tradizionali del capitalismo italiano, il debito pubblico triplicò.
    E la crescita dell’intervento statale in economia non fu destinata a selezionare ed ammodernare lo stesso capitalismo italiano; altro che critica della scienza e della tecnologia. Si destrutturò l’intero apparato industriale a partire proprio dai settori più avanzati e di maggiore prospettiva futura: dall’elettronica, alla chimica secondaria, all’impiantistica, alla siderurgia di qualità.
    Il segno di quella parabola discendente fu la sconfitta operaia ai cancelli della FIAT.
    Il segno di quell’insufficienza di cultura di governo della sinistra fu la contraddizione tra la grande dignità morale e politica di Enrico Berlinguer e il progressivo isolamento dello stesso Partito Comunista.
  5. Nodi che vengono al pettine oggi, caricati di paradossi
    Ironia della storia (tra tragedia e farsa, come è noto).
    Una sinistra-sinistra che aveva proclamato che “lo Stato si abbatte e non si cambia” finì per consegnare  tale “missione di abbattimento” alla destra che ci si è provata in questi ultimi dieci anni, per ritrovarsi ora a reclamarne il ruolo a protezione degli interessi forti e riproponendo “coperture” ideologiche da “passioni tristi” e segnate dalla paura sociale come “Dio, patria e famiglia”
    (Vedi la “conversione” di un Ministro dell’economia che interpretò pochi anni or sono la finanza creativa con le cartolarizzazioni del patrimonio pubblico e che oggi sembra avere riscoperto, insieme ai problemi dell’economia reale, anche Marx e le funzioni “economiche” dello Stato, ma, appunto, all’insegna di quelle “passioni tristi” e difensive).
    Non abbiamo saputo individuare una strategia più sensata per darci l’obiettivo che “lo Stato si cambia e non si abbatte”.
    E il problema ce lo ritroviamo intatto, ma a condizioni radicalmente mutate, oggi
    .
  6. Da lì è cominciata l’epoca delle “passioni tristi”: le difficoltà dello sviluppo non più affluente, l’inizio della contro offensiva dei “poteri forti” e occulti.
    E non voglio parlare del terrorismo “di sinistra”.
    Ricordo solo il trauma del riconoscimento aperto della esistenza di un terrorismo “di sinistra”.
    Feltrinelli che salta su un traliccio, Lama fischiato e minacciato all’Università di Roma…. Ma ci volle l’assassinio di Guido Rossa per smettere di parlare di “provocatori” o di “compagni che sbagliano”.
    E quello che restava figlio del movimento, ma con altri interpreti, altri linguaggi, altri maestri, “chiedeva” rabbiosamente, ma non “dava” più in passioni capaci di costruire alternative e sviluppo.
    Cominciava l’epoca delle “passioni tristi”.
    E maturò la separazione con il Movimento Operaio.
    Il processo iniziato con il ’68 e che aveva promosso l’esperienza tutta italiana del ricongiungimento tra il ’68 studentesco e la lotta operaia era definitivamente finito.

In sintesi…

Non volevo proporvi una analisi completa ed esauriente.
Si tratta solo alcuni spunti per motivare una caratterizzazione critica del come eravamo.
Le “passioni generose” a confronto con una cultura ed una cultura politica inadeguate a metterle a frutto come “forze produttive” per la trasformazione reale del paese, della sua economia, della sua “formazione sociale”, questo fu il limite della nostra storia e delle nostre storie.

Solo sconfitte?

Si trasformò, è vero, il costume e la cultura di massa.
Sotto questo profilo il Paese non fu più lo stesso, neppure sotto le oscillazioni del pendolo della storia.
Cambiarono i rapporti interpersonali, famigliari, i rapporti tra i sessi, la capacità di coltivare passioni senza appropriazione…
Sul piano della elaborazione di costume la “cultura” del ’68 veniva del resto da più lontano.
C’era stata la stagione della “generosità sociale” giovanile dei soccorsi all’alluvione di Firenze, la dialettica aperta nel mondo cattolico dal Concilio, la battaglia per i diritti civili negli USA, l’Ottobre cubano, il movimento dei non allineati, i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, gli stessi fermenti nel campo sovietico.
E in proposito non si può tacere di una componente importante di quella stagione delle “passioni generose”: quella costituita dal mondo cattolico che, dalla conclusione del Concilio Vaticano II si provò a immettere nella cultura cattolica e nella stessa Chiesa il riflesso di quelle passioni generose.
Del resto Don Milani fu, all’inizio del ’68, altrettanto e forse più importante del richiamo alla cultura del Movimento Operaio…
Chi di voi venne nella tarda estate del ’68 al seminario che organizzammo come movimento di scienze da Davide Turoldo a Sotto Il Monte dovrebbe ricordare la sua attenzione al movimento, ma anche le sue sfuriate di fronte al nostro argomentare “politichese”…. Me lo ricordo gridare, con il suo vocione… “se queste cose me le dicessero i miei minatori del Sud Africa le accetterei, ma non da voi…”.
Dunque cambiò anche il modo di pensare a dio, per chi ci credeva e ci crede.
Di quel melting pot culturale che alimentava le passioni generose ho un ricordo personale che è quasi esemplare, sotto questo profilo
Le conversazioni più usuali prima del ’68, per esempio nell’unico “ritrovo” di Città Studi che era il bar di Fisica, erano su gite, iniziative dei residui goliardici …e così via… pochissima politica se non quella dei rituali delle rappresentanze universitarie come l’UGI, l’Intesa, e solo tra pochi e a disagio, quasi da clandestini .
Ricordo una conversazione con un compagno, un poco più vecchio di noi e arrivato più tardi all’università, allora già iscritto al PCI (mosca rara) che ci ha lasciati qualche anno fa – il compagno Davide Calamari.
Era appena morto Martin Luther King, e gli chiesi cosa ne pensasse. Mi rispose tranchant… “Hanno ammazzato lo zio Tom”…
Ma intanto c’era chi leggeva “Lettera ad una professoressa” e, pochi per la verità, avevano già letto “Lettere pastorali” o la polemica di Don Lorenzo verso i cappellani militari..
Pochi mesi e il crogiuolo del movimento fuse insieme questi filoni, per produrre spirito nuovo, apertura, disponibilità, passione… le “passioni generose”, appunto.

Per concludere: Que reste-t-il de nos amours?

Devo concludere.
Cosa ho imparato e cosa mi è rimasto di quella stagione?
Solo due cose voglio dire in proposito.
La prima è piuttosto personale.
Ho imparato che la cosa più frequente che facciamo nella vita è sbagliare. E anche per questo sono convinto di avere avuto più di quanto ho dato.
Può essere fastidioso vivere pensando di essere in debito.
Ma ritengo sia assolutamente disperante il modo di essere di coloro che pensano costantemente di essere in credito e che la storia debba loro qualche cosa.
La seconda cosa ha un carattere meno personale.
Credo che la “passione generosa” appresa in quegli anni non mi abbia mai lasciato, e credo che ciò valga per tantissimi di noi.
Non abbiamo avuto successo (appunto sbagliare è la cosa più comune…) ma l’abbiamo trasferita nel nostro lavoro, nella vita quotidiana, nell’impegno sia politico che professionale, per il quale non abbiamo mai messo il “cartellino del prezzo”, (e qualche volta forse abbiamo dovuto recriminare sulla nostra stessa disponibilità generosa….)
Sono assolutamente convinto che uno dei costrutti portanti delle “passioni tristi” sia la convinzione che solo ciò che ha un prezzo abbia valore.
Ho, abbiamo, una storia che smentisce questa triste passione del prezzo, e non si tratta di nostalgia.
Sono convinto che per uscire dalla palude nella quale ci stiamo ritrovando, sarà necessaria certo una nuova politica, ma soprattutto una iniezione di “generosità sociale” che vivifichi la politica, la cultura, le nuove passioni.

E la speranza è che questa volta, se insieme alle passioni generose dell’anima, del cuore, della testa, sapremo mettere in campo anche una “buona scienza” potremmo anche riprendere il filo di una storia e delle nostre storie.

 




Il luogo qualunque: propedeutica per un debate

di Marco Guastavigna

Noi di Cinefuffa siamo sempre e da sempre all’avanguardia, non solo educativa, ma anche civile e imprenditoriale.
Ecco perché questa volta proponiamo un filmato autoprodotto, che può essere utile per una metodologia la cui vocazione è rendere a tutti gli effetti gli studenti soggetti attivi e consapevoli di una società della competizione come metodo e dell’individualismo come valore.




Il manifesto per una scuola eugenetica di Galli Della Loggia

di Mario Maviglia

Questo intervento intende sviluppare in modo coerente e organico quanto ha enunciato qualche giorno fa sul Corriere della Sera un noto editorialista che denominerò EGDL per ragioni di economia di caratteri avendo egli un cognome troppo lungo per essere riportato per intero e anche per le ragioni che, in modo subdolo e implicito, verranno esposte nel corso di questo intervento.
In sostanza EGDL sostiene che la scuola italiana funziona male e i risultati scolastici sono quelli che sono perché nelle classi assieme agli “allievi cosiddetti normali” convivono anche “disabili gravi con il loro personale di sostengo (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.”

Questa fotografia di EGDL è ampiamente incompleta: a scuola infatti ci vanno anche rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, sfigati di ogni genere. Tutta questa congerie di soggetti subumani o al limite dell’umanità reca un grave danno a chi invece (gli allievi normali) ha diritto di seguire il corso di studi con profitto e regolarità e a prendere in mano, un domani, la guida del Paese.

EGDL esprime, in modo peraltro non del tutto chiaro ed esplicito (ci vuole coraggio talvolta anche per riconoscersi nelle proprie idee), ciò che probabilmente c’è in tanta parte dell’opinione pubblica italiana, presumibilmente quelli a cui piace “il mondo al contrario”. A lui e alla parte di questa popolazione “normale”, è rivolto questo intervento che ha lo scopo di tradurre in termini più espliciti ciò che il Nostro non ha avuto (ancora) il coraggio di esprimere ma che è una logica e coerente conseguenza delle sue pennellate editoriali.

Si tratta di pochi principi che disegnano un modello di scuola dove finalmente chi ci va viene messo nella condizione di apprendere e di imparare le cose che veramente contano nella vita senza intralci o ritardi causati da ragazzi/e che non hanno voglia di studiare o che, per natura, non sono in grado di frequentare proficuamente la scuola e intraprendere studi seri. Per ragioni espositive i principi vengono presentati sotto forma di decalogo, ma non ci si lasci ingannare da questa scelta stilistica: dietro ogni principio c’è una profonda riflessione sul senso della scuola e, in fondo, sul senso della vita e della convivenza tra gli umani.

  1. Le materie più importanti della scuola così concepita sono italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti). Tutte le altre materie sono subordinate a queste e il curricolo è costruito tenendo conto di questa gerarchia gnoseologica.
  2. Le scuole sono organizzate e classificate secondo il tasso di eccellenza umana che esprimono. Pertanto abbiamo:
    2 a: Scuole A+: riservate a tutti i ragazzi/ biondi e con occhi azzurri (A sta per Ariani) e con QI geniale o alto.
    2 b: Scuole A: riservate a ragazzi/e ariani ma non biondi e senza occhi azzurri e con QI medio-alto.
    2 c: Scuole H: riservate agli handicappati di ogni genere (l’attuale denominazione di “disabili” è mistificante, oltre che demagogica).
    2 d: Scuole S: riservate agli stranieri, ma con qualche eccezione nei confronti dei ragazze/i che potrebbero rientrano nella categoria A+ o A.
    2 e: Scuole B: riservate ai ragazzi/e Bes.
    2 f: Scuole AS: riservati agli altri sfigati oltre ai Bes (rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, ecc.).
  3. Ogni scuola così denominata è distinta dalle altre ed allocata in un edificio a se stante (denominato block). Va da sé che ogni edificio sarà adattato architettonicamente secondo il modello Panopticon, secondo la geniale intuizione di Jeremy Bentham e rivisitato in termini sociologici da Michel Foucault.
  4. Il curricolo completo imperniato su italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti) e sulle altre materie ruotanti intorno a queste, è riservato solo alle scuola di tipo A+ e A (ma in queste ultime non può essere insegnato l’aramaico). In tutte le altre scuole si provvederà a dare un’alfabetizzazione di base di lingua italiana e soprattutto si insegnerà ai ragazzi/e ad apprendere un lavoro (il motto di queste scuole sarà infatti “Il lavoro rende liberi”).
  5. Ad esclusione delle scuole di tipo A+ e A, in tutte le altre scuole ci sarà un curricolo maschile e uno femminile. Infatti i ragazzi saranno avviati ad apprendere un lavoro per mantenere la famiglia, mentre le ragazze si occuperanno soprattutto di lavori domestici, nozioni di puericultura per l’allevamento dei figli, nozioni di economia domestica per fare la spesa e far quadrare i conti della famiglia, nozioni di tecnologia per far funzionare gli elettrodomestici come lavatrice, lavastoviglie et similia.

In sintonia con quanto implicitamente espresso da EGDL, questi semplici principi dovrebbero essere in perfetta sintonia con i valori democratici espressi dalla Costituzione: infatti, è garantito il diritto all’istruzione per tutti (art. 34 cost., comma 2) e nel contempo solo i capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ossia i ragazzi/e frequentanti le scuole A+ e A (art. 34 cost., comma 3).

 

 




Un ricordo di Luigi Berlinguer

Luigi Berlinguer al convegno Tablet School

E’ morto poco fa Luigi Berlinguer.
Pubblichiamo il primo ricordo che ci è arrivato.

di Marco Campione

Con la morte di Luigi Berlinguer se ne va uno degli ultimi esponenti della più grande stagione di riforme in ambito scolastico seconda solo a quella di Giovanni Gentile.
Per questo lo ricorderanno nei prossimi giorni i suoi compagni di partito e qualche avversario. Spero non con lingua biforcuta: non se lo meriterebbe.
Per me però se ne va un secondo padre, un maestro, un mentore. È stata probabilmente la persona, esclusi i legami familiari o di coppia, alla quale mi legava l’affetto più profondo.
Due cose, in particolare, che ho appreso, anzi compreso, da te sono ancora oggi la guida del mio agire politico e tecnico: la scuola è per gli studenti; governare vuol dire trovare soluzioni, risolvere problemi.

Ecco, tecnico e politico: giocavamo ogni tanto su questo mio stare sempre un po’ di qua e un po’ di la della linea che divide questi due miei modi di intendere il lavoro per la scuola. Secondo te è l’unico modo per occuparsi seriamente di scuola essere un po’ tutte e due le cose.
La tua prefazione al libro che ho curato con Emanuele Contu è un esempio, l’ennesimo, di questo e molto altro.
Grazie Luigi per tutto quello che mi hai insegnato, che è molto di più e che tengo per me.
Grazie per aver contributo a fare di me l’uomo che sono.

Mancherai. A me certamente.




Le buone parole della scuola: EFFICACIA ED EFFICIENZA

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola efficace ed efficiente è quello che in un certo momento, dopo le riforme che hanno segnato il mondo dell’istruzione a partire dagli anni sessanta fino a tutti quelli degli anni ottanta del secolo passato, ha incominciato a mietere consensi tra i responsabili delle politiche scolastiche.
In poche parole, dandosi per risolto il problema dell’equità con l’irruzione in massa delle nuove generazioni nelle classi dell’istruzione secondaria e nei corsi dell’ università e ritenendo economicamente ingiustificabile un aumento costante delle spese per l’istruzione, si è cominciato a porre il problema di razionalizzare sia la spesa pubblica per l’istruzione, sia l’organizzazione del sistema scolastico e anche le stesse procedure didattiche per avere a parità di costi e di risorse impiegate migliori risultati.
Si è passati da una situazione in cui si pensava che ci fossero solo obblighi di fornire mezzi e risorse alla scuola per espanderla ed arricchirla ad una situazione in cui si è incominciato a pensare che la scuola debba essere obbligata a dare precise risposte in termini di risultati socialmente apprezzabili, su cui commisurare la bontà dei finanziamenti e delle politiche scolastiche.
Raggiungere i risultati sperati e programmati, utilizzando nel modo migliore i mezzi disponibili, dovrebbe far parte del buon senso e della buona amministrazione. La spesa pubblica dell’istruzione deve essere commisurata ai compiti che gli vengono assegnati e alle sue crescenti e nuove responsabilità; sicuramente non dovrebbe essere ridotta, anche se ragionevolmente può essere modificata nella sua composizione.
Una politica scolastica, d’altronde, concentrata solo sulla razionalizzazione dei costi e dell’impiego delle risorse può incidere negativamente sulla portata e sul significato sia dei problemi educativi, sia dei problemi di democrazia e di giustizia a scuola. Rimanendo solo in un ambito di economia dell’istruzione non è difficile perdere di vista le finalità che deve perseguire il sistema di istruzione; è facile dimenticare che l’istruzione è un bene comune che va tutelato e reso disponibile per tutti.
La spesa per l’istruzione non può essere giustificata solo per il contributo che darebbe alla costituzione e allo sviluppo del capitale umano di cui deve alimentarsi una società proiettata nella competizione mondiale dei mercati. Una considerazione del genere può giustificare l’espansione dei costi dell’istruzione, ma può anche alimentare il convincimento della necessità di una stretta subordinazione del sistema d’istruzione e formazione a quello economico. Una tendenza (mai allontanata…) che ridurrebbe il valore della cultura e del sapere e che comporterebbe una strumentalizzazione dei saperi a danno della ricchezza e varietà delle esigenze di sviluppo e di crescita della persona e della società.
In questo intreccio di problemi si nasconde il rischio che la scuola perda la sua vera autonomia, perché perderebbe il controllo del proprio programma culturale, perchè accetterebbe una logica di adeguamento e di condiscendenza che la priverebbe di molte delle sue necessarie funzioni.
Il sistema di istruzione deve procedere, invece, ad una logica di integrazione con la società e con altri centri e agenzie di formazione; fatto che è reso possibile solo se mantiene la capacità di proporre criteri di riferimento per stabilire la gerarchia dei valori e dei saperi e la capacità di dettare codici di comportamento, di organizzazione delle procedure di apprendimento e le regole proprie di comunicazione.
Dal paradigma riformistico dell’efficacia e dell’efficienza sono scaturite alcune scelte delle amministrazioni degli ultimi anni. Vanno citate la riorganizzazione territoriale del servizio scolastico; la ridefinizione del management delle singole scuole, la razionalizzazione degli indirizzi di studio e dei gradi di istruzione, la razionalizzazione degli obiettivi pedagogici, la misurabilità dei risultati scolastici.
Ognuno di questi argomenti meriterebbe una esposizione, adeguata e separata, ma in questa sede ci si limita a delinearli nei tratti essenziali.

AUTONOMIA SCOLASTICA

L’autonomia scolastica è uno dei cardini del paradigma dell’efficacia/efficienza, ma anche il tema delle maggiori preoccupazioni sulle sorti del sistema d’istruzione. Con l’autonomia si crede di risolvere il problema dell’inefficienza di un’organizzazione che non riesce più a dare prestazioni di servizio di qualità a milioni di persone e ad amministrare centinaia di migliaia di dipendenti, ma anche quello di flessibilizzare i curricoli per dare spazio alle problematiche locali
Con l’autonomia scolastica il territorio non dovrebbe essere più un ambito di colonizzazione culturale da parte di uno stato nazionale che vuole determinare valori e saperi per tutti, ma un partner educativo in quanto spazio specifico di conservazione di culture, di valori, di simboli e di saperi che vanno conosciuti e compresi e non più censurati e sviliti come nel passato, anche perchè determinanti ancora nella condizione e nei vissuti degli alunni.
L’autonomia dovrebbe consentire di mediare tra le esigenze nazionali e le emergenze locali, che possono essere di natura sociale, culturale, economica. La scuola si può arricchire, perchè si possono recuperare gli elementi di continuità e di contiguità col mondo circostante; la scuola può diventare luogo di ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali, può aiutare a fare emergere negli alunni la consapevolezza della propria appartenenza ad una comunità e della propria identità.
L’autonomia è un’idea che funziona, se funziona il rapporto tra singolo istituto, amministrazione centrale ed enti territoriali (Comune e Regione). Allo stato attuale non sempre si è vicini ai risultati sperati sia per le difficoltà che gli enti locali spesso incontrano nella definizione della propria politica scolastica e culturale e nella formulazione delle esigenze di formazione e di istruzione delle comunità amministrate, sia per le difficoltà che incontrano le scuole, anche quando sono in rete, nel costituirsi come partner credibili non solo degli enti locali ma anche delle realtà economiche, sociali e culturali di un territorio.

DIRIGENZA SCOLASTICA

Ad una scuola autonoma si è fatto corrispondere un dirigente scolastico con più poteri e un regolamento di contabilità più flessibile rispetto a quello del passato per rendere più agevole e rapida la realizzazione di una decisione. L’esiguità dei fondi disponibile si è premurata di ridimensionare le ambizioni di questa scelta. L’incongruenza di queste innovazioni sta tutta nell’avere privilegiato gli aspetti generali e amministrativi della funzione direttiva a danno di quelli specifici di controllo epistemologico e pedagogico del curriculum come avveniva con i “dismessi” presidi di un tempo. Succede allora che per un’autonomia che qualcosa concede in termini di integrazione dell’offerta formativa si prefigura un dirigente che può saper fare tutto e non padroneggiare l’ambito culturale e professionale di un curriculum, dei cui risultati sarebbe tenuto a rendere conto. A questa intrinseca debolezza si affianca il fatto che nella scuola le figure intermedie tra dirigente e corpo docente non abbiano un preciso statuto professionale e dipendano dall’aleatorietà o peggio ancora dall’arbitrarietà delle scelte collegiali o dirigenziali.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI INDIRIZZI DI STUDIO E DEI GRADI DI ISTRUZIONE.

E’ stata un’esigenza diffusa nella società e tra gli operatori della scuola che si procedesse, come è stato fatto con i nuovi regolamenti degli ultimi anni sul riordino dell’istruzione secondaria, ad una semplificazione dell’aggrovigliato panorama di indirizzi e di corsi di studio che si era venuto a creare con il DPR 419/74 sulla sperimentazione. Un certo modo di intendere e di praticare il riformismo a scuola di fatto aveva prodotto una crescita costante di ore di lezioni, di discipline e una proliferazione di curricoli e di proposte formative, che a volte avevano fondamento solo nell’immaginazione dei collegi di docenti.
Permane ancora dopo il riaggiustamento delle superiori il problema del ruolo dell’istruzione professionale, costituitasi nel tempo nel sistema statale d’istruzione quando ancora le regioni non esistevano e mantenuta ancora in esso per l’evidente incapacità nel passato di molte amministrazioni regionali di darle respiro, funzionalità, organizzazione e qualità. Nonostante le modifiche curriculari e l’impegno a darle una forte e distinta fisionomia l’istruzione professionale è ancora relativamente diversa rispetto a quella tecnica; non solo, deve anche verificare sempre in modo corretto e funzionale il rapporto che deve avere con la formazione regionale.
A rigore il sistema duale di istruzione e formazione sarebbe più razionale rispetto a quello che si è venuto a costituire in Italia, ma per l’accettazione di questo modello sorgono le obiezioni fondamentali dell’inerzia e dell’incapacità di un bel numero di regioni e la tradizione seria degli istituti tecnici statali, una specificità del sistema scolastico italiano, che dopo la breve parentesi dell’era morattiana nessuno si sente più di cancellare.
Sempre in funzione di questa esigenza di efficienza e di efficacia si è decisi di dare sistematicità all’istruzione terziaria, nè scolarizzata, nè accademica, istituendo gli istituti tecnici superiori, rimodulando gli IFTS.
La preparazione finale dell’istruzione secondaria nel terzo millennio necessariamente si realizza nel livello della professionalità di base, perchè ragionevolmente si assegna al nuovo segmento dell’istruzione terziaria il compito di mettersi in sintonia con i bisogni di competenze del complessivo sistema economico.
Non è ancora risolto, a mio parere, il rapporto tra scuola primaria e secondaria di primo grado; nei fatti per la riduzione della popolazione scolastica le scuole medie autonome sono in via di sparizione, ma ce ne vuole si strada per un curriculum che sia unitario e si differenzi nello stesso tempo per l’età che va dai sei anni ai tredici.

LA RETE SCOLASTICA

E’ in qualche modo un corollario dell’esigenza di razionalizzazione del sistema dell’istruzione che contestualmente si sia proceduto e si continui a procedere ad un riassetto delle sedi scolastiche per potere garantire investimenti adeguati nelle tecnologie e in dotazioni di alto livello (biblioteche, laboratori, spazi aperti, mense etc) e per disporre di un numero sufficiente di alunni per classe e per sede scolastica. L’eccessiva dispersione eleva il costo d’impianto e di gestione, anche se per certi gradi di istruzione la prossimità della sede garantisce un migliore servizio alla persona e tutela il diritto alla formazione meglio di qualsiasi “ricchezza tecnologica”.
Le modalità scelte per razionalizzare la rete scolastica a volte hanno provocato un deterioramento organizzativo e gestionale della vita scolastica e l ‘abbassamento della qualità dei processi di apprendimento e spesso non hanno avuto altra giustificazione se non quella del raggiungimento del parametro numerico per l’assegnazione o il mantenimento dell’autonomia ad un istituto scolastico.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI PEDAGOGICI

A partire dagli anni ’90 è cresciuta nel mondo della scuola un’esigenza di precisione e di efficacia nelle attività formative per potere disporre di risultati d’apprendimento certi e non aleatori. Sia nella pedagogia degli obiettivi che nel più recente approccio per competenze è evidente l’accoglimento della sollecitazione a rendere rigoroso il procedimento di insegnamento, a esplicitare in termini di compiti precisi, accessibili, osservabili i risultati d’apprendimento, a selezionare e a standardizzare gli elementi del sapere congrui con questo scopo e a individuare i modi esatti per valutare la corrispondenza tra ciò che era atteso e ciò che viene accertato. E tutto questo in un quadro rigoroso di contingentamento dei tempi per ogni sequenza d’insegnamento, comunque viene la voglia di nominarla(unità didattica, unità d’apprendimento, modulo, unità formativa capitalizzabile etc.).
Sia la pedagogia per obiettivi, sia l’approccio per competenze delineano un progetto di razionalizzazione dell’organizzazione didattica; la pedagogia degli obiettivi, in particolare, lascia in eredità a qualsiasi altro indirizzo che voglia cimentarsi con il paradigma dell’efficacia e dell’efficienza una teoria generale dell’azione che non propone alcun valore se non quella dell’efficacia operatoria e per questo esalta i valori dell’operazionalità delle mete educative. L’approccio per competenze svolge la sua missione razionalizzatrice ponendosi come funzione di mediazione, come interfaccia tra esigenze del sistema produttivo e istituzioni formative.
Ma è davvero razionale il progetto di potere dominare e controllare l’insieme delle relazioni che si instaurano nel rapporto educativo?
La razionalizzazione completa delle relazioni pedagogiche comporta la cancellazione del faccia a faccia in classe, la disumanizzazione in un mestiere che di più umano non ce n’è. Programmare le azioni educative non è programmare la produzione di un bene industriale; non ci vuol molto a capire che il percorso formativo non è rettilineo, senza scarti e resistenze e che senza questa consapevolezza si rischia di rasentare la follia(D.Hameline).
In pedagogia bisogna rassegnarsi.
“E’ impossibile aprire il registro delle certezze”(Ph.Meirieu).

MISURABILITTA’ DEI RISULTATI SCOLASTICI

Dire qualcosa con certezza sui risultati d’apprendimento è stato l’obiettivo perseguito per decenni dalle varie correnti di docimologia che hanno coltivato il sogno della misura esatta nella valutazione.
Si è cercato di risolvere il giudizio di valore nel giudizio di realtà, ma ridotta a poche o addirittura ad una sola dimensione;si è voluto espellere dalle operazioni di valutazione la dimensione ermeneutica, quantificando ciò che non è assolutamente e sempre ponderabile.
Il raggiungimento di questo obiettivo è ritenuto funzionale per migliorare le decisioni sull’apprendimento degli alunni, per migliorare la qualità dell’insegnamento, per dare garanzie sulla credibilità dei titoli di studio rilasciati. Disporre di valutazioni esatte per potere regolare sia i processi di apprendimento, ma anche per potere regolare il sistema di istruzione nel suo insieme. Un rigoroso e puntuale sistema di accertamento dei risultati di apprendimento viene ritenuto il fondamento necessario di tutte le azioni di politica scolastica; sorregge il bisogno di informazione sul funzionamento del sistema scolastico, ai fini di una considerazione dell’efficacia e dell’efficienza degli investimenti pubblici destinati ad esso. Qualsiasi società non può non chiedersi se un sistema di istruzione funzioni e quale sia il contributo che ha dato e deve dare alla costruzione della società della conoscenza e all’economia della conoscenza. La scuola non è un’azienda, ma senza dubbio è un’organizzazione che deve essere valutata nelle sue procedure e nei suoi risultati.
Con l’autonomia la valutazione delle procedure e dei risultati di ogni singola scuola dovrebbe essere considerata un servizio per tutti: operatori, utenti, istituzioni.
Il modello della scuola efficace ed efficiente viene formalmente condiviso da tutti, ma i costi che comporta non convincono e non vengono accettati da molti.
L’inefficienza, però, del sistema scolastico e formativo con la quale si convive da tempo comporta danni sociali di una certa gravità: costi elevati senza rendimento, modeste opportunità per coltivare e sviluppare le proprie attitudini, incongruenza con le esigenze della società. Bisogna farsene una ragione: l’aggravamento e la durata delle difficoltà e delle inefficienze della scuola rischiano di mettere in discussione l’esistenza dell’istruzione pubblica e rendono incerta la sua difesa e la sua salvaguardia. Evidentemente alla scuola per essere servizio sociale, istituzione pubblica, luogo di trasmissione dei saperi e di formazione della cittadinanza non può bastare l’economia dell’istruzione; ad essa servono idee sul futuro della società e idee sull’umanità che vorremmo per i nostri giovani.
Il fine primario del sistema scolastico, la sua redditività per usare il lessico economico, è la formazione, l’educazione dei giovani nella più ampia e varia accezione del termine.




Grammatica valenziale: di che si tratta?

Una delle attività formative di maggiore interesse fra quelle proposte dalla nostra associazione riguarda la grammatica valenziale.
Di recente la nostra esperta Daniela Moscato ha rilasciato alla rivista DIRE FARE INSEGNARE una intervista in cui spiega le basi di questo approccio ancora poco frequentato, precisandone i vantaggi didattici e alcuni possibili contesti di applicazione.




L’amore per chi resta. Riti di passaggio

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Da tempo volevo cercare di affrontare il tema dei processi che si articolano attorno all’esperienza del lutto e della morte, era nell’aria da mesi, era nei discorsi dei ragazzi, nei disegni dei bambini, nei visi inespressivi di chi mi parlava, esprimendo rassegnazione e senso di precarietà.
Poi ho incontrato Marybel dai dolci sorrisi, che mi chiedeva come preparare i suoi tre bambini alla incombente dipartita della nonna tanto amata, e l’urgenza è diventata necessità, ma una necessità che conteneva anche la chiave di lettura: l’amore per chi resta.
Spesso gli adulti, presi nella morsa del loro dolore e dalla negazione per difendersi da quanto sta accadendo, dimenticano la necessità del bambino di elaborare il proprio lutto.
Per proteggerlo dal dolore e dall’angoscia, cercano di tenerlo all’oscuro, a volte perfino d’ingannarlo su ciò che è accaduto o sta accadendo.
Il bambino può percepire però d’essere stato imbrogliato (A.Marcoli,2014), può imparare a non fidarsi dei grandi e a non mostrare il proprio vero sentire; può costruire teorie bizzarre sulla vita e la morte, a volte altamente patogene. Al contrario, il bambino, la bambina vanno supportati e accompagnati nel tempo e nello spazio per capire, esprimere ogni emozione (stupore, curiosità, dolore, angoscia, paura, rabbia, senso di colpa o d’impotenza…).
A volte possono persino pensare d’esser loro i ‘colpevoli’, allora occorrerà rassicurarli, parlar loro dell’inevitabilità della morte e del fatto che non verranno abbandonati a breve anche dagli altri adulti cari.

Costruire con loro riti di passaggio aiuta a costruire senso! Permettere loro di partecipare ai momenti commemorativi, può aiutarli ad imparare o ricordare che dopo la caduta delle foglie arriva sempre la primavera.
I momenti in cui ci si trova in famiglia, ad elaborare un lutto comune, sono preziosi per la loro forza integrativa nella mente di ognuno (C. De Gregorio 2011).
Rimangono in memoria come momenti tristi, ma, paradossalmente, anche felici. La mancata elaborazione del lutto invece può comportare malessere psichico duraturo e può avere conseguenze pesanti sulla salute mentale della persona e dei suoi discendenti, come risulta da ricerche e psicoterapie (P. Roccato 1995, 2013).
Durante un corso di formazione in ambito bioetico, con immenso dolore, un medico ci raccontò d’essere stato escluso, da bambino, dal poter partecipare al funerale del padre, di aver attribuito questa decisione alla madre e di averla detestata tutta la vita per questo. Con l’aiuto dei compagni di corso ragionammo sull’eventualità che la madre fosse stata mal consigliata e che nel pieno del suo dolore avesse inutilmente cercato di proteggerlo da ciò che già lei, probabilmente stava sentendo come insostenibile. Insieme, tra le lacrime, facemmo pace con quei suoi ricordi che purtroppo avevano condizionato in modo significativo la sua relazione con la madre. Gli augurammo di riuscire a recuperarne almeno una parte.
Favorire l’elaborazione del lutto è dunque fondamentalmente fare prevenzione primaria e ‘preparare un bambino ad affrontare gli avvenimenti dolorosi della vita vuol dire aiutarlo a camminare in modo più leggero verso il futuro’ (A. Marcoli 2014).

Con Marybel siamo arrivate un pochino in ritardo e ora la bimba mezzana sta patendo tutti i processi separativi, problematizza l’andata alla scuola materna, si aggrappa al nonno, è triste ed arrabbiata ma sta cominciando a ricevere alcune risposte dai genitori, guarda il cielo e nelle stelle ritrova la nonna, le sta dedicando un libricino con foto, disegni, ricette che sta raccogliendo insieme alla mamma. Ci vorrà del tempo per far pace con questo evento naturale ma inaspettato e prematuro.
Anche ora, dopo la pandemia servirebbe un rito di chiusura ed elaborazione di quello che abbiamo vissuto per più di due anni, proprio per circostanziare gli eventi nella loro eccezionalità.
Nei primi mesi di quest’anno, all’interno di un progetto a contrasto della dispersione scolastica, ho chiesto ai ragazzi di una scuola media di parlarmi delle loro preoccupazioni. È emersa una grande paura per il futuro imperscrutabile e per la possibilità che vengano a mancare i propri cari.

L’aver preso coscienza della realtà della morte, con immagini e conteggi 24 ore su 24 durante la pandemia, ha strutturato in loro una sorta di angoscioso terrore.
A questo purtroppo si aggiunge anche la ricezione continua di stimoli e informazioni dai social, ad altissima velocità, cui sono esposti, e che accorcia enormemente i tempi del presente e del futuro, sollecitando con urgenza il soddisfacimento dei bisogni e la realizzazione degli obiettivi, con aspettative altissime.

Le ricadute più frequenti però sembrano essere una quasi totale perdita di senso e una caduta energetica vistosa, in alcuni casi persino estrema, come ci indicano i dati crescenti relativi ai suicidi.
A volte, raccontano, scappa il senso dalle giornate, sembra non esserci un buon motivo per muovere un passo, parlare, sorridere. Si sente il bisogno disperato di saper cosa fare per ricominciare, per smettere di sopravvivere ma fuori nulla li attrae o li accende. Spesso si rischia di pensare di non essere amati, ma in realtà non si sta più amando e questo genera distanza sociale. Si dice che per superare le crisi sia necessario attraversarle, guadarle, ma in quei momenti sembrano paludi stagnanti, senza possibilità di movimento. Sembra che nessuno possa aiutarli, passargli il boccaglio con l’ossigeno.

Lo racconta proprio così Federica, giovane neolaureata in cerca di prospettive in questo momento di stagnazione economica.

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Le fronde degli alberi che si muovono cullate dal vento mi regalano sempre una gioia profonda. Questo però durante il giorno. Di notte quel fruscio mi mette inquietudine, come se qualcosa di strano o minaccioso si stesse avvicinando. Un po’ come il Nulla di Fantasia.
Questa metafora non è scontata nel momento in cui mi trovo a fare i conti con un profondo radicamento a terra dei miei piedi, mentre il mio sguardo ha introiettato una visione esterna, periferica, quasi aerea sul mondo. Lucida e a volte disillusa. Preoccupata e un po’ rassegnata. Mi sembra di essermi accorta che viviamo tutti in una finzione o in tante finzioni, che poco valga la pena, che questa vita e questo pianeta poco hanno di definito e sono preda delle coincidenze, del caso, così come lo siamo noi e i nostri destini. Poco è certo, se non che questa vita smetterà di battere, quella dei miei cari anche, spero il più tardi possibile, e anche quella della nostra specie, una tra le tante, del pianeta.

Non sono, non siamo più il centro.
Questo mi fa sentire vagamente persa. Sto cercando di capire il momento in cui si è rotto qualcosa, e cosa sì è rotto. Se quando l’estate scorsa è morta la mia gatta Tigra o già prima, non saprei. Ho perso un po’ di senso e mi sembra di vedere tutto sotto una strana luce ridicola, come se quello che facciamo, costruiamo, viviamo non fosse che una copertura, un nascondere la vera realtà, la finitezza, l’insensatezza, l’incertezza.
Molte cose ancora mi danno benessere: una bella fioritura, gli uccellini, gli affetti e gli amici veri, forse l’unica ragione sensata, la danza ed i piaceri semplici, come la lettura, il sorriso di un’allieva, uno studio ben riuscito, le fragole.
Ma sono tipicamente più triste. Non ho perso la luce negli occhi ma se ne è aggiunta un’altra più spettrale. Nonostante questo continuo a rifugiarmi nella cura del cibo, del corpo, dei miei interessi e dei rapporti, nella preoccupazione sul futuro, sul lavoro…
Definire cosa sia il superfluo, capire se esiste un’essenza. Come si fa a vivere sereni dopo una scoperta così? Come hanno fatto filosofi e poeti? Forse l’accettazione di questa realtà, della malattia, del nonsenso, della povertà, della morte, del non controllo se non futile possono aiutare a vivere meglio…godendo dei piccoli piaceri transitori (se l’agnosticismo non mi inganna), del soddisfacimento di un bisogno proprio o dell’altro, della realizzazione di un compito ben svolto, del mare, dell’amore.
Mentre cerco il pezzo rotto, vorrei provare a soffermarmi di più, a contemplare, registrare immagini e sensazioni, amare più consapevolmente e più profondamente, tenere stretto ciò che posso, vivere; che è l’unica cosa che siamo nati per fare.
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Ho provato a spiegarlo ai ragazzini delle Medie, che si sentono isolati nelle classi, rifiutati, non visti. Spesso, loro stessi, evitano, non vedono, non parlano con i compagni, non permettono agli altri di conoscerli. Abbiamo costruito cartelloni con i loro desideri per il futuro, per una scuola nuova, per un lavoro un po’ più a misura d’uomo. Ora i loro lavori sono in mostra e speriamo contamino un po’ anche gli adulti!
Se notiamo qualcosa che non va, troppa rabbia, silenzio, sonno, apatia nei nostri vicini di vita, anche se purtroppo in questo momento siamo tutti un po’ a corto di energia psichica, proviamo a pensare che si può fare un po’ di staffetta, senza esagerare, ogni tanto prendendo fiato, mentre l’altro, arrancando guadagna qualche metro… Forse in due, in tre… forse insieme possiamo provare, galleggiando, nuotando a pelo d’acqua, a raggiungere l’altra riva, ma insieme, senza perderci troppo di vista.

Come ho consigliato proprio ieri ad una mamma turbata dal cambiamento umorale del figlio, in un contesto di vita connotato da frequenti lutti familiari, possiamo tentare di riempire ancora la nostra storia di vitalità, allargando lo sguardo sugli altri, sul mondo che pulsa.