Breve storia dell’Italia, a partire dal ’68
di Franco De Anna
(per gentile concessione dell’autore e del sito www.ceredaclaudio.it )
Il ’68 di Scienze.
Quale registro di comunicazione?
Ho accolto con trepidazione l’invito ad aprire questa riunione del nostro ritrovarsi a quarant’anni di distanza.
Quale registro dare alla comunicazione? Come sfuggire al doppio rischio comunicativo del registro del “reduce” oppure del “tutto politica”?
Ma anche del solo ricordo personale (nulla è meno oggettivo della memoria…) o della lettura analitica politico-economico-sociologica, entrambi falsificabili ampiamente da chiunque ascolti, ma anche dallo stesso autore se appena si scosti dal “punto di vista” nel quale si ponga contingentemente.
Bisognerebbe dichiarare preliminarmente il proprio “posizionamento” per non fare di un intervento di apertura il bersaglio di ogni possibile successiva precisazione o polemica.
Se, come hanno dichiarato i compagni che si sono impegnati nell’organizzazione di questo ritrovarsi, questa occasione potrebbe anche essere l’avvio per un lavoro successivo che mantenga aperto, se non altro, un canale di comunicazione, allora, nell’impostare questo intervento di apertura si può anche andare “sul leggero”, e lasciare a quel possibile ulteriore sviluppo il compito di approfondire ed esplorare tutte le pieghe di una storia che è anche l’intreccio di tante “storie”.
Chiedo preventivamente scusa di tale “leggerezza” che mescola insieme registri diversi, e necessariamente non approfondisce nulla, lasciando solo delle tracce eventualmente da seguire.
Le passioni “tristi”
Riflettevo su tali dilemmi, quando, per via di un piccolo dibattito in corso su uno dei tanti siti che si occupano di scuola, ci siamo ritrovati, io ed un autorevole interlocutore, a parlare di epoca delle “passioni tristi”.
Le “passioni tristi” sono una citazione di Spinosa, ripresa da due psicologi francesi che ne hanno fatto il titolo di un bel libretto nel quale affrontano i malesseri dell’adolescenza e della giovinezza di questa epoca.
Ha fatto eco, dopo, Galimberti con il suo libro sul nichilismo.
In sintesi: la cultura oggi rielaborata nelle diverse forme e strumenti, dal discettare di tanti maitre a pensee, o supposti tali, fino al senso comune disseminato dai mass media è impregnata dalla incapacità di prospettare, e dunque tanto meno di mantenere, la promessa del futuro.
La promessa del futuro è invece l’alimento di quella religione laica (dico religione laica e non religione civile, e spero apprezzerete la differenza sulla quale non vi è tempo di ulteriori spiegazioni…) capace di costruire e ricostruire i significati e il senso alla vita singola e collettiva.
Più si approssimano le condizioni “oggettive”, potenziali, della liberazione dal bisogno, e dunque per l’espansione della libertà singola e collettiva, più le categorie della emancipazione collettiva dal bisogno, il sogno di eguaglianza e di autodeterminazione che hanno nutrito l’idea del “progresso” per una intera e lunga fase storica, si rivelano inadeguate al presente e a mantenere quel ruolo di “religione laica” al quale si affida il sogno di una felicità terrena possibile per tutti, e il compito di disegnare, contemporaneamente e correlatamene il senso e il significato alla vita di tutti.
Se viene meno quella capacità di costruire e ricostruire quella “cornice di senso”, le potenzialità della tecnica, della scienza, della cultura moderna degradano a dominio.
La socialità scompare nella bulimia dell’appropriazione individuale, i diritti diventano contrassegno dell’egoismo individuale elevato a “ragione” dell’esistere, il giusto diventa l’utile, e quest’ultimo trascorre nel superfluo.
Manca l’essenziale, ma si incorpora avidamente il superfluo.
La libertà diventa sopraffazione, e dunque paura del confronto e del dialogo.
Paura, straniamento, autodifesa, rabbia, a volte tanto urlata quanto incapace di far muovere le cose, tengono il posto dello sguardo, che si vorrebbe carico di speranza per chi sta nel viaggio verso l’adultità.
Queste, appunto, sarebbero le “passioni tristi” dell’oggi, che sono prodotte dalla incapacità di mantenere la promessa del futuro.
Sono queste le “passioni tristi”.
…. E le passioni generose
Ma perché ricordarle?
Per contrasto.
Più riflettevo a quella discussione più mi si confermava l’idea di caratterizzare la mia e nostra esperienza del ’68 come l’epoca delle “passioni generose”.
La scelta politica in senso stretto, lo schieramento, lo scontro tra linee e scelte politiche che fu, soprattutto negli anni immediatamente successivi al 68, quasi “maniacale”, nasceva comunque da una opzione di fondo , pre – politica, quella dello schierarsi “dalla parte di…”.
“Degli oppressi” si sarebbe detto con il linguaggio di una volta.
Una generazione si ritrovò a condividere, prima di ogni altra discriminazione “politicante” quella religione laica che interpretava il futuro come processo generale di liberazione, di autodeterminazione, di possibile felicità di eguaglianza.
E per questo voleva battersi ed impegnarsi.
Una scelta pre politica che dava senso a quella politica, ma anche alla vita di ciascuno e di tutti e all’impegno per il futuro.
Una “passione generosa”, così mi pare di poter caratterizzare il nostro essere di quegli anni.
E mi pare questa la prima risposta, essenziale, che dovremmo dare a chi oggi, nell’epoca delle “passioni tristi”, rinfaccia a quella delle “passioni generose” l’essere causa dei “guai” dell’oggi.
In piena epoca della restaurazione, vi era un modo di dire diffuso da “senso comune” popolare, per accennare all’epoca immediatamente precedente, della rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica: “è tutta colpa di Voltaire” si diceva… Così oggi “è tutta colpa del ’68…”
E chi lo dice, o non sa, o è mosso dagli opportunismi, più o meno motivati dalle convenienze e dalle compromissioni personali dell’oggi…
Ma anche da una invidia rancorosa profonda di chi vive le “passioni tristi”, rispetto a alle “passioni generose” dell’epoca.
Ma non voglio correre il rischio apologetico. Perciò aggiungo anche qualche considerazione critica sul come eravamo
Fu merito di chi?
Fu merito nostro, quello delle passioni generose?
Più modestamente direi che “ci ritrovammo” ad uno snodo della storia.
Non posso qui sviluppare analisi complesse. Solo qualche flash.
- Eravamo figli del baby boom post bellico: nella piramide della popolazione, le nuove generazioni rappresentavano una parte consistente e in crescita.
Una condizione oggettiva di potenziale protagonismo sociale, dunque, ed una base di potenziale “eguaglianza”: la condivisione di una condizione giovanile che, anche quantitativamente, risultava rilevante rispetto alla composizione della popolazione del paese.
Quindici anni dopo, a tassi demografici calanti, i giovani cominciarono a diventare “mercato” ridotto e perciò selezionato e curato con attenzione “mirata”, isolandosi quasi dalla piramide della popolazione.
Guardate ai caratteri dell’omologazione della condizione giovanile di allora: la musica era chitarra e parole, la moda era di basso prezzo e di qualità “eguale” (dove sono gli eskimo e le false clarck che portavamo?).
L’investimento psicologico e materiale in “appartenenza giovanile” era ridotto e convergente, su prodotti poveri e consumi di massa.
Non che non ci fosse (c’è sempre stata ..) l’istanza di omologazione distintiva dei giovani, ma occupava una parte ridotta della nostra testa, della nostra fantasia e del nostro cuore; occupava meno energie che erano disponibili per altri sogni.
Poi fu la disco music, la moda griffata e differenziata… fino alle tristi sciocchezze dell’oggi (grembiuli come simbolo di sobrietà e eguaglianza? Guardare nei grandi magazzini la pressione selettiva di una offerta selezionata e differenziata: sono griffati anche i grembiuli, con buona pace di governa la scuola…).
Oggi, per i giovani, un investimento psicologico ed economico rilevante che “sequestra lo spazio” delle speranze e di quella religione laica di allora. - Tra il ‘48 (Costituzione), il ’58 (Mercato Comune Europeo) e il ’68 (vent’anni) il reddito nazionale fu quasi triplicato.
Un processo di crescita segnato dalle contraddizioni e dai limiti storici ed economici che vennero al pettine negli anni seguenti.
Ma fu sviluppo, crescita, prospettiva affluente del futuro.
Da quella stagione arrivavamo.
Non era questione di consapevolezza costruita attraverso l’analisi economica: era cosa che si respirava con l’aria.
Il futuro personale di ciascuno si connetteva, nel processo di crescita generale, con il futuro della “città”.
E ciò rendeva tanto più intollerabili le disuguaglianze, le ingiustizie, le contraddizioni stesse tra le potenzialità che si intravvedevano e la persistenza delle infelicità e delle ingiustizie nella vita di molti - Gli anni di sviluppo di cui eravamo il prodotto avevano anche segnato il paese con la intollerabilità sociale delle sue contraddizioni: lo sradicamento della popolazione delle campagne e l’urbanizzazione accelerata, il Sud spopolato ed abbandonato, uno stato sociale incompleto.
Pensate che nel 1950 la quota di popolazione impegnata in agricoltura era il 50% oggi siamo al 4-5%. E noi abbiamo attraversato il momento culminate di quel processo storico.
Ricordo una vacanza in Calabria (in Cinquecento), a Isola di Capo Rizzuto: un deserto con la porta del Municipio che portava i segni dell’incendio dopo l’ultima manifestazione di braccianti….
E come non ricordare Avola, Battipaglia, con i braccianti morti sotto il fuoco della polizia?
Ma noi eravamo figli fortunati di quello sviluppo: in quegli anni il passaggio dall’istruzione media inferiore a quella superiore riguardava solo meno della metà dei giovani.
All’università arrivava non più del 12% delle nuove generazioni.
Eravamo cioè frutto di una selezione sociale ancora durissima, che era in sé contraddizione evidente con le potenzialità che ci mostrava lo sviluppo precedente, di cui eravamo figli.
E la pressione selettiva, come sempre, o conduce alla scomparsa di una specie, o è lo strumento per produrre novità più forti e adeguate.
La “generosità” delle passioni era dunque sia una scelta soggettiva, sia una risposta “fisiologica” a tale pressione.
Noi ci siamo trovati al vertice di quella parabola che cominciò infatti a declinare negli anni seguenti
Ci siamo “trovati”, e uso tale parola nel doppio significato: di chi vive una condizione storico sociale che non ha contribuito a determinare, e di chi, in quella situazione si “ritrova” collettivamente, confrontando le medesime passioni e le speranze del futuro. - Infine lo spunto maggiormente critico rispetto al “come eravamo”: la cultura politica, ma se volete la cultura tout court, disponibile per interpretare quel momento non era adeguata né a comprenderne a fondo i problemi, e neppure all’altezza di quelle “passioni generose”.
Queste ultime, non per caso, investirono proprio i luoghi dell’elaborazione culturale, l’università prima di tutto e poi la scuola, sia perchè in essi ci ritrovammo a vivere accomunati nelle nostre passioni, sia perché se ne rivelava immediatamente la inadeguatezza di elaborazione culturale e scientifica.
Furono i “baroni”, gli insegnamenti, la didattica, l’ordinamento stesso dell’Università i primi bersagli del movimento.
In definitiva, declinavamo un background culturale tardo ottocentesco.
E, se volete, proprio nelle facoltà scientifiche la contraddizione si rivelava in tutta la sua pienezza.
Se devo esprimerlo ultra sinteticamente: la “critica della scienza e della tecnologia” e la “critica della democrazia” furono i due filoni “culturali” di quell’impegno appassionato, dovendosi inventare per strada gli strumenti interpretativi, o reperendoli nel repertorio del “pensiero disponibile” ma poco praticato nella nostra università, o anch’esso detenuto da elite culturali emarginate. - In particolare appartiene al primissimo ’68 quell’esplorare, anche affannoso, la elaborazione scientifica e culturale che viveva “fuori” delle nostre università..
Marcuse, la scuola di Francoforte, il pensiero della “crisi”, la psicanalisi, l’analisi sociologica di scuola anglosassone, ma anche le riviste: da “Quaderni Rossi”, al “Quindici”, ai “Quaderni Piacentini”, a “Problemi del socialismo” (e ne dimentico certo qualcuna) fino alle riviste della New Left americana.
Ma fu un periodo breve: fu una prima ventata, subito tramontata all’orizzonte, o che continuò ad alimentare le consapevolezze singole ma non le rappresentazioni collettive.
Queste ultime furono invece di fatto “catturate” dalla cultura tradizionale del Movimento Operaio.
Marx, Lenin, e tutte le “varianti” da Trozky (sto parlando nel luogo che fu “insediamento iniziale” di Avanguardia Operaia…), per tacere (per carità verso di noi tutti) di Stalin, di Mao, del libretto rosso e della rivoluzione culturale.
Gli autori classici della cultura del Movimento Operaio furono compulsati, interrogati per rintracciare senso e strumenti per interpretare la realtà.
E significativamente se ne interrogarono (al meglio…) gli aspetti problematici e critici (che dire delle faticose citazioni dei Grundrisse che vennero di moda allora?).
Solo più tardi quel cortocircuito sulla cultura tradizionale del Movimento Operaio si allentò: per esempio per ritrovare la psicanalisi si dovette aspettare il movimento femminile. ( e tanto, ma proprio tanto, dobbiamo a quel movimento, sotto il profilo dell’adeguamento culturale) - L’egemonia culturale del Movimento Operaio si affermò presto dando senso e sbocco “politico” al movimento, ma residuando anche le sue insufficienze nel fornire strumenti di comprensione della realtà.
Da un lato fu il grande merito della Sinistra italiana che consentì la saldatura tra il ’68 studentesco e il ’69 operaio (non accadde così del ’68 di altri paesi. Pensate alla Germania, o allo stesso maggio francese..).
Non ci fu mai identificazione, ma certo uno spazio dialettico, anche aspro, che fu preservato e presidiato.
Ma fu, sull’altro lato, anche il limite di quella cultura nel delineare lo sviluppo successivo misurandosi con le contraddizioni che erano alle porte e fecero rapidamente declinare la fase di sviluppo precedente.
Meriti politici e limiti intrinseci di cultura politica della sinistra dunque e di questo portammo/portiamo il segno.
Cosa accadde dopo
Di nuovo solo flash per tentare un approfondimento.
- Se devo indicare un evento che secondo me segna il punto culminante della parabola di quella stagione, indico le elezioni amministrative del 1975.
Ricordo la nettezza e la semplicità di quel risultato: la sinistra conquistava i Comuni e le Province, il terreno del rapporto più immediato e diretto con la gente ed i suoi problemi quotidiani.
Ma contemporaneamente la sua cultura economica ed istituzionale si confermava inadeguata ad affrontare la svolta dello sviluppo segnata dalla fine di Bretton Woods, dalle primi crisi finanziarie internazionali, dai ripetuti shock e controshock petroliferi, e dalla rigidità, ma in via di sgretolamento, del bipolarismo mondiale..
E d’altra parte non poteva essere ciò che emergeva da quei due filoni indicati del pensiero del movimento – la critica della scienza e la critica della democrazia – a rinnovare la cultura del Movimento Operaio, in un paese le cui contraddizioni erano interpretate, in buona sostanza, secondo paradigmi precedenti al neocapitalismo, nel quale era ancora da costruire un modello assennato di welfare, e la cui dialettica politica era mortificata duramente dallo schieramento internazionale.
Tutti se e ma che non attenuano le responsabilità della cultura della sinistra e le nostre con essa. - In particolare quell’insufficienza di cultura politica segnava uno dei due filoni che ho in precedenza indicato come caratteristici del pensiero critico del ’68: “la critica della democrazia”.
L’inadeguatezza riguardava in particolare il ruolo dello Stato nello sviluppo economico, le forme e i criteri dell’intervento regolatore tanto dell’economia, quanto della società, nella stagione storica che già segnava l’inizio del tramonto dell’esperienza keynesiana del dopoguerra.
A partire dal ’68 fu bensì estesa la rete di protezione sociale (dalla sanità alla previdenza, all’istruzione) e si dilatò l’intervento pubblico nell’economia.
Furono dunque anni nei quali la linea di confine del “compromesso sociale” si spostava in avanti, e con essa il rapporto tra conservazione e progresso, tra interessi individuali e collettivi, tra diritti e bisogni.
Fu costruito, in quegli anni e anche grazie a quel protagonismo politico, lo Stato sociale italiano.
Ma quella stessa insufficienza di strumentazione di cultura politica, caratterizzò quel sistema con tutte le sue contraddizioni e inefficienze cvhe conosciamo.
Con un effetto netto che potrei così sintetizzare: l’integrazione di cittadinanza, la speranza del futuro di eguaglianza, si realizzò esclusivamente con lo strumento della spesa pubblica e del deficit.
”Spesa e debito pubblico” come strumenti di integrazione di cittadinanza, non la “produzione di valore”.
E ciò segna ancora oggi gran parte della nostra cultura politica. - Fino alla fine degli anni ’70 si disegnarono, per ironia della storia, condizioni di bipolarismo reale nello schieramento politico (quello che si pretenderebbe oggi per “semplificare” la politica stessa). Tra DC e PCI stava oltre il 75% dell’elettorato.
E la sinistra si ritrovò potenzialmente maggioritaria: tra PCI, PSI, eredità dirette del movimento, ed eredi del terzoforzismo azionista vi erano le condizioni per un potenziale schieramento maggioritario; ma non si poteva unire, per moltissime ragioni, tra le quali quella del peso dello schieramento internazionale, ma anche per l’effetto di culture politiche incapaci di definire una comune visione di ciò che era necessario per assicurare un futuro al paese.
Dunque senza possibilità reali di governo, per la rigidità dello schieramento internazionale, ma anche per l’assenza di una cultura adeguata di governo.
Da lì partì una stagione politica di progressivo corrompimento dovuto essenzialmente alla impraticabilità di sbocchi positiviLa dialettica politica si fece “complicata”, contraddittoria, senza connessione con la materialità dei processi in corso.
E infatti si trovò ad armi spuntate di fronte al processo che si aprì con la crisi monetaria internazionale (fine di Bretton Woods e successive crisi petrolifere), e con la lunghissima fase di ristrutturazione dell’economia reale che produsse lentamente la “riconquista” del saggio medio di profitto, rispetto alla dinamica delle retribuzioni e dell’occupazione, che fino ad almeno la metà degli anni ’70 lo avevano conteso e corroso. - Per la “compensazione sociale” in chiave stabilizzatrice si utilizzò scientemente ma sconsideratamente, senza disegno per il futuro, lo strumento della spesa e del deficit pubblico, con un modello del rapporto tra Stato e Economia completamente disadeguato.
Alla fine degli anni ’70 il rapporto debito-PIL, che oggi strangola il Paese, era allineato al 70%.
In pochi anni, tra spesa pubblica utilizzata in compensazione sociale, massicci trasferimenti all’economia, libertà di fluttuazione della moneta, svalutazioni competitive, scelte di politica monetaria di corto respiro e al servizio della “riconquista sociale” degli interessi tradizionali del capitalismo italiano, il debito pubblico triplicò.
E la crescita dell’intervento statale in economia non fu destinata a selezionare ed ammodernare lo stesso capitalismo italiano; altro che critica della scienza e della tecnologia. Si destrutturò l’intero apparato industriale a partire proprio dai settori più avanzati e di maggiore prospettiva futura: dall’elettronica, alla chimica secondaria, all’impiantistica, alla siderurgia di qualità.
Il segno di quella parabola discendente fu la sconfitta operaia ai cancelli della FIAT.
Il segno di quell’insufficienza di cultura di governo della sinistra fu la contraddizione tra la grande dignità morale e politica di Enrico Berlinguer e il progressivo isolamento dello stesso Partito Comunista. - Nodi che vengono al pettine oggi, caricati di paradossi
Ironia della storia (tra tragedia e farsa, come è noto).
Una sinistra-sinistra che aveva proclamato che “lo Stato si abbatte e non si cambia” finì per consegnare tale “missione di abbattimento” alla destra che ci si è provata in questi ultimi dieci anni, per ritrovarsi ora a reclamarne il ruolo a protezione degli interessi forti e riproponendo “coperture” ideologiche da “passioni tristi” e segnate dalla paura sociale come “Dio, patria e famiglia”
(Vedi la “conversione” di un Ministro dell’economia che interpretò pochi anni or sono la finanza creativa con le cartolarizzazioni del patrimonio pubblico e che oggi sembra avere riscoperto, insieme ai problemi dell’economia reale, anche Marx e le funzioni “economiche” dello Stato, ma, appunto, all’insegna di quelle “passioni tristi” e difensive).
Non abbiamo saputo individuare una strategia più sensata per darci l’obiettivo che “lo Stato si cambia e non si abbatte”.
E il problema ce lo ritroviamo intatto, ma a condizioni radicalmente mutate, oggi
. - Da lì è cominciata l’epoca delle “passioni tristi”: le difficoltà dello sviluppo non più affluente, l’inizio della contro offensiva dei “poteri forti” e occulti.
E non voglio parlare del terrorismo “di sinistra”.
Ricordo solo il trauma del riconoscimento aperto della esistenza di un terrorismo “di sinistra”.
Feltrinelli che salta su un traliccio, Lama fischiato e minacciato all’Università di Roma…. Ma ci volle l’assassinio di Guido Rossa per smettere di parlare di “provocatori” o di “compagni che sbagliano”.
E quello che restava figlio del movimento, ma con altri interpreti, altri linguaggi, altri maestri, “chiedeva” rabbiosamente, ma non “dava” più in passioni capaci di costruire alternative e sviluppo.
Cominciava l’epoca delle “passioni tristi”.
E maturò la separazione con il Movimento Operaio.
Il processo iniziato con il ’68 e che aveva promosso l’esperienza tutta italiana del ricongiungimento tra il ’68 studentesco e la lotta operaia era definitivamente finito.
In sintesi…
Non volevo proporvi una analisi completa ed esauriente.
Si tratta solo alcuni spunti per motivare una caratterizzazione critica del come eravamo.
Le “passioni generose” a confronto con una cultura ed una cultura politica inadeguate a metterle a frutto come “forze produttive” per la trasformazione reale del paese, della sua economia, della sua “formazione sociale”, questo fu il limite della nostra storia e delle nostre storie.
Solo sconfitte?
Si trasformò, è vero, il costume e la cultura di massa.
Sotto questo profilo il Paese non fu più lo stesso, neppure sotto le oscillazioni del pendolo della storia.
Cambiarono i rapporti interpersonali, famigliari, i rapporti tra i sessi, la capacità di coltivare passioni senza appropriazione…
Sul piano della elaborazione di costume la “cultura” del ’68 veniva del resto da più lontano.
C’era stata la stagione della “generosità sociale” giovanile dei soccorsi all’alluvione di Firenze, la dialettica aperta nel mondo cattolico dal Concilio, la battaglia per i diritti civili negli USA, l’Ottobre cubano, il movimento dei non allineati, i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, gli stessi fermenti nel campo sovietico.
E in proposito non si può tacere di una componente importante di quella stagione delle “passioni generose”: quella costituita dal mondo cattolico che, dalla conclusione del Concilio Vaticano II si provò a immettere nella cultura cattolica e nella stessa Chiesa il riflesso di quelle passioni generose.
Del resto Don Milani fu, all’inizio del ’68, altrettanto e forse più importante del richiamo alla cultura del Movimento Operaio…
Chi di voi venne nella tarda estate del ’68 al seminario che organizzammo come movimento di scienze da Davide Turoldo a Sotto Il Monte dovrebbe ricordare la sua attenzione al movimento, ma anche le sue sfuriate di fronte al nostro argomentare “politichese”…. Me lo ricordo gridare, con il suo vocione… “se queste cose me le dicessero i miei minatori del Sud Africa le accetterei, ma non da voi…”.
Dunque cambiò anche il modo di pensare a dio, per chi ci credeva e ci crede.
Di quel melting pot culturale che alimentava le passioni generose ho un ricordo personale che è quasi esemplare, sotto questo profilo
Le conversazioni più usuali prima del ’68, per esempio nell’unico “ritrovo” di Città Studi che era il bar di Fisica, erano su gite, iniziative dei residui goliardici …e così via… pochissima politica se non quella dei rituali delle rappresentanze universitarie come l’UGI, l’Intesa, e solo tra pochi e a disagio, quasi da clandestini .
Ricordo una conversazione con un compagno, un poco più vecchio di noi e arrivato più tardi all’università, allora già iscritto al PCI (mosca rara) che ci ha lasciati qualche anno fa – il compagno Davide Calamari.
Era appena morto Martin Luther King, e gli chiesi cosa ne pensasse. Mi rispose tranchant… “Hanno ammazzato lo zio Tom”…
Ma intanto c’era chi leggeva “Lettera ad una professoressa” e, pochi per la verità, avevano già letto “Lettere pastorali” o la polemica di Don Lorenzo verso i cappellani militari..
Pochi mesi e il crogiuolo del movimento fuse insieme questi filoni, per produrre spirito nuovo, apertura, disponibilità, passione… le “passioni generose”, appunto.
Per concludere: Que reste-t-il de nos amours?
Devo concludere.
Cosa ho imparato e cosa mi è rimasto di quella stagione?
Solo due cose voglio dire in proposito.
La prima è piuttosto personale.
Ho imparato che la cosa più frequente che facciamo nella vita è sbagliare. E anche per questo sono convinto di avere avuto più di quanto ho dato.
Può essere fastidioso vivere pensando di essere in debito.
Ma ritengo sia assolutamente disperante il modo di essere di coloro che pensano costantemente di essere in credito e che la storia debba loro qualche cosa.
La seconda cosa ha un carattere meno personale.
Credo che la “passione generosa” appresa in quegli anni non mi abbia mai lasciato, e credo che ciò valga per tantissimi di noi.
Non abbiamo avuto successo (appunto sbagliare è la cosa più comune…) ma l’abbiamo trasferita nel nostro lavoro, nella vita quotidiana, nell’impegno sia politico che professionale, per il quale non abbiamo mai messo il “cartellino del prezzo”, (e qualche volta forse abbiamo dovuto recriminare sulla nostra stessa disponibilità generosa….)
Sono assolutamente convinto che uno dei costrutti portanti delle “passioni tristi” sia la convinzione che solo ciò che ha un prezzo abbia valore.
Ho, abbiamo, una storia che smentisce questa triste passione del prezzo, e non si tratta di nostalgia.
Sono convinto che per uscire dalla palude nella quale ci stiamo ritrovando, sarà necessaria certo una nuova politica, ma soprattutto una iniezione di “generosità sociale” che vivifichi la politica, la cultura, le nuove passioni.
E la speranza è che questa volta, se insieme alle passioni generose dell’anima, del cuore, della testa, sapremo mettere in campo anche una “buona scienza” potremmo anche riprendere il filo di una storia e delle nostre storie.