Il manifesto per una scuola eugenetica di Galli Della Loggia

di Mario Maviglia

Questo intervento intende sviluppare in modo coerente e organico quanto ha enunciato qualche giorno fa sul Corriere della Sera un noto editorialista che denominerò EGDL per ragioni di economia di caratteri avendo egli un cognome troppo lungo per essere riportato per intero e anche per le ragioni che, in modo subdolo e implicito, verranno esposte nel corso di questo intervento.
In sostanza EGDL sostiene che la scuola italiana funziona male e i risultati scolastici sono quelli che sono perché nelle classi assieme agli “allievi cosiddetti normali” convivono anche “disabili gravi con il loro personale di sostengo (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.”

Questa fotografia di EGDL è ampiamente incompleta: a scuola infatti ci vanno anche rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, sfigati di ogni genere. Tutta questa congerie di soggetti subumani o al limite dell’umanità reca un grave danno a chi invece (gli allievi normali) ha diritto di seguire il corso di studi con profitto e regolarità e a prendere in mano, un domani, la guida del Paese.

EGDL esprime, in modo peraltro non del tutto chiaro ed esplicito (ci vuole coraggio talvolta anche per riconoscersi nelle proprie idee), ciò che probabilmente c’è in tanta parte dell’opinione pubblica italiana, presumibilmente quelli a cui piace “il mondo al contrario”. A lui e alla parte di questa popolazione “normale”, è rivolto questo intervento che ha lo scopo di tradurre in termini più espliciti ciò che il Nostro non ha avuto (ancora) il coraggio di esprimere ma che è una logica e coerente conseguenza delle sue pennellate editoriali.

Si tratta di pochi principi che disegnano un modello di scuola dove finalmente chi ci va viene messo nella condizione di apprendere e di imparare le cose che veramente contano nella vita senza intralci o ritardi causati da ragazzi/e che non hanno voglia di studiare o che, per natura, non sono in grado di frequentare proficuamente la scuola e intraprendere studi seri. Per ragioni espositive i principi vengono presentati sotto forma di decalogo, ma non ci si lasci ingannare da questa scelta stilistica: dietro ogni principio c’è una profonda riflessione sul senso della scuola e, in fondo, sul senso della vita e della convivenza tra gli umani.

  1. Le materie più importanti della scuola così concepita sono italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti). Tutte le altre materie sono subordinate a queste e il curricolo è costruito tenendo conto di questa gerarchia gnoseologica.
  2. Le scuole sono organizzate e classificate secondo il tasso di eccellenza umana che esprimono. Pertanto abbiamo:
    2 a: Scuole A+: riservate a tutti i ragazzi/ biondi e con occhi azzurri (A sta per Ariani) e con QI geniale o alto.
    2 b: Scuole A: riservate a ragazzi/e ariani ma non biondi e senza occhi azzurri e con QI medio-alto.
    2 c: Scuole H: riservate agli handicappati di ogni genere (l’attuale denominazione di “disabili” è mistificante, oltre che demagogica).
    2 d: Scuole S: riservate agli stranieri, ma con qualche eccezione nei confronti dei ragazze/i che potrebbero rientrano nella categoria A+ o A.
    2 e: Scuole B: riservate ai ragazzi/e Bes.
    2 f: Scuole AS: riservati agli altri sfigati oltre ai Bes (rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, ecc.).
  3. Ogni scuola così denominata è distinta dalle altre ed allocata in un edificio a se stante (denominato block). Va da sé che ogni edificio sarà adattato architettonicamente secondo il modello Panopticon, secondo la geniale intuizione di Jeremy Bentham e rivisitato in termini sociologici da Michel Foucault.
  4. Il curricolo completo imperniato su italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti) e sulle altre materie ruotanti intorno a queste, è riservato solo alle scuola di tipo A+ e A (ma in queste ultime non può essere insegnato l’aramaico). In tutte le altre scuole si provvederà a dare un’alfabetizzazione di base di lingua italiana e soprattutto si insegnerà ai ragazzi/e ad apprendere un lavoro (il motto di queste scuole sarà infatti “Il lavoro rende liberi”).
  5. Ad esclusione delle scuole di tipo A+ e A, in tutte le altre scuole ci sarà un curricolo maschile e uno femminile. Infatti i ragazzi saranno avviati ad apprendere un lavoro per mantenere la famiglia, mentre le ragazze si occuperanno soprattutto di lavori domestici, nozioni di puericultura per l’allevamento dei figli, nozioni di economia domestica per fare la spesa e far quadrare i conti della famiglia, nozioni di tecnologia per far funzionare gli elettrodomestici come lavatrice, lavastoviglie et similia.

In sintonia con quanto implicitamente espresso da EGDL, questi semplici principi dovrebbero essere in perfetta sintonia con i valori democratici espressi dalla Costituzione: infatti, è garantito il diritto all’istruzione per tutti (art. 34 cost., comma 2) e nel contempo solo i capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ossia i ragazzi/e frequentanti le scuole A+ e A (art. 34 cost., comma 3).

 

 




Un ricordo di Luigi Berlinguer

Luigi Berlinguer al convegno Tablet School

E’ morto poco fa Luigi Berlinguer.
Pubblichiamo il primo ricordo che ci è arrivato.

di Marco Campione

Con la morte di Luigi Berlinguer se ne va uno degli ultimi esponenti della più grande stagione di riforme in ambito scolastico seconda solo a quella di Giovanni Gentile.
Per questo lo ricorderanno nei prossimi giorni i suoi compagni di partito e qualche avversario. Spero non con lingua biforcuta: non se lo meriterebbe.
Per me però se ne va un secondo padre, un maestro, un mentore. È stata probabilmente la persona, esclusi i legami familiari o di coppia, alla quale mi legava l’affetto più profondo.
Due cose, in particolare, che ho appreso, anzi compreso, da te sono ancora oggi la guida del mio agire politico e tecnico: la scuola è per gli studenti; governare vuol dire trovare soluzioni, risolvere problemi.

Ecco, tecnico e politico: giocavamo ogni tanto su questo mio stare sempre un po’ di qua e un po’ di la della linea che divide questi due miei modi di intendere il lavoro per la scuola. Secondo te è l’unico modo per occuparsi seriamente di scuola essere un po’ tutte e due le cose.
La tua prefazione al libro che ho curato con Emanuele Contu è un esempio, l’ennesimo, di questo e molto altro.
Grazie Luigi per tutto quello che mi hai insegnato, che è molto di più e che tengo per me.
Grazie per aver contributo a fare di me l’uomo che sono.

Mancherai. A me certamente.




Le buone parole della scuola: EFFICACIA ED EFFICIENZA

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola efficace ed efficiente è quello che in un certo momento, dopo le riforme che hanno segnato il mondo dell’istruzione a partire dagli anni sessanta fino a tutti quelli degli anni ottanta del secolo passato, ha incominciato a mietere consensi tra i responsabili delle politiche scolastiche.
In poche parole, dandosi per risolto il problema dell’equità con l’irruzione in massa delle nuove generazioni nelle classi dell’istruzione secondaria e nei corsi dell’ università e ritenendo economicamente ingiustificabile un aumento costante delle spese per l’istruzione, si è cominciato a porre il problema di razionalizzare sia la spesa pubblica per l’istruzione, sia l’organizzazione del sistema scolastico e anche le stesse procedure didattiche per avere a parità di costi e di risorse impiegate migliori risultati.
Si è passati da una situazione in cui si pensava che ci fossero solo obblighi di fornire mezzi e risorse alla scuola per espanderla ed arricchirla ad una situazione in cui si è incominciato a pensare che la scuola debba essere obbligata a dare precise risposte in termini di risultati socialmente apprezzabili, su cui commisurare la bontà dei finanziamenti e delle politiche scolastiche.
Raggiungere i risultati sperati e programmati, utilizzando nel modo migliore i mezzi disponibili, dovrebbe far parte del buon senso e della buona amministrazione. La spesa pubblica dell’istruzione deve essere commisurata ai compiti che gli vengono assegnati e alle sue crescenti e nuove responsabilità; sicuramente non dovrebbe essere ridotta, anche se ragionevolmente può essere modificata nella sua composizione.
Una politica scolastica, d’altronde, concentrata solo sulla razionalizzazione dei costi e dell’impiego delle risorse può incidere negativamente sulla portata e sul significato sia dei problemi educativi, sia dei problemi di democrazia e di giustizia a scuola. Rimanendo solo in un ambito di economia dell’istruzione non è difficile perdere di vista le finalità che deve perseguire il sistema di istruzione; è facile dimenticare che l’istruzione è un bene comune che va tutelato e reso disponibile per tutti.
La spesa per l’istruzione non può essere giustificata solo per il contributo che darebbe alla costituzione e allo sviluppo del capitale umano di cui deve alimentarsi una società proiettata nella competizione mondiale dei mercati. Una considerazione del genere può giustificare l’espansione dei costi dell’istruzione, ma può anche alimentare il convincimento della necessità di una stretta subordinazione del sistema d’istruzione e formazione a quello economico. Una tendenza (mai allontanata…) che ridurrebbe il valore della cultura e del sapere e che comporterebbe una strumentalizzazione dei saperi a danno della ricchezza e varietà delle esigenze di sviluppo e di crescita della persona e della società.
In questo intreccio di problemi si nasconde il rischio che la scuola perda la sua vera autonomia, perché perderebbe il controllo del proprio programma culturale, perchè accetterebbe una logica di adeguamento e di condiscendenza che la priverebbe di molte delle sue necessarie funzioni.
Il sistema di istruzione deve procedere, invece, ad una logica di integrazione con la società e con altri centri e agenzie di formazione; fatto che è reso possibile solo se mantiene la capacità di proporre criteri di riferimento per stabilire la gerarchia dei valori e dei saperi e la capacità di dettare codici di comportamento, di organizzazione delle procedure di apprendimento e le regole proprie di comunicazione.
Dal paradigma riformistico dell’efficacia e dell’efficienza sono scaturite alcune scelte delle amministrazioni degli ultimi anni. Vanno citate la riorganizzazione territoriale del servizio scolastico; la ridefinizione del management delle singole scuole, la razionalizzazione degli indirizzi di studio e dei gradi di istruzione, la razionalizzazione degli obiettivi pedagogici, la misurabilità dei risultati scolastici.
Ognuno di questi argomenti meriterebbe una esposizione, adeguata e separata, ma in questa sede ci si limita a delinearli nei tratti essenziali.

AUTONOMIA SCOLASTICA

L’autonomia scolastica è uno dei cardini del paradigma dell’efficacia/efficienza, ma anche il tema delle maggiori preoccupazioni sulle sorti del sistema d’istruzione. Con l’autonomia si crede di risolvere il problema dell’inefficienza di un’organizzazione che non riesce più a dare prestazioni di servizio di qualità a milioni di persone e ad amministrare centinaia di migliaia di dipendenti, ma anche quello di flessibilizzare i curricoli per dare spazio alle problematiche locali
Con l’autonomia scolastica il territorio non dovrebbe essere più un ambito di colonizzazione culturale da parte di uno stato nazionale che vuole determinare valori e saperi per tutti, ma un partner educativo in quanto spazio specifico di conservazione di culture, di valori, di simboli e di saperi che vanno conosciuti e compresi e non più censurati e sviliti come nel passato, anche perchè determinanti ancora nella condizione e nei vissuti degli alunni.
L’autonomia dovrebbe consentire di mediare tra le esigenze nazionali e le emergenze locali, che possono essere di natura sociale, culturale, economica. La scuola si può arricchire, perchè si possono recuperare gli elementi di continuità e di contiguità col mondo circostante; la scuola può diventare luogo di ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali, può aiutare a fare emergere negli alunni la consapevolezza della propria appartenenza ad una comunità e della propria identità.
L’autonomia è un’idea che funziona, se funziona il rapporto tra singolo istituto, amministrazione centrale ed enti territoriali (Comune e Regione). Allo stato attuale non sempre si è vicini ai risultati sperati sia per le difficoltà che gli enti locali spesso incontrano nella definizione della propria politica scolastica e culturale e nella formulazione delle esigenze di formazione e di istruzione delle comunità amministrate, sia per le difficoltà che incontrano le scuole, anche quando sono in rete, nel costituirsi come partner credibili non solo degli enti locali ma anche delle realtà economiche, sociali e culturali di un territorio.

DIRIGENZA SCOLASTICA

Ad una scuola autonoma si è fatto corrispondere un dirigente scolastico con più poteri e un regolamento di contabilità più flessibile rispetto a quello del passato per rendere più agevole e rapida la realizzazione di una decisione. L’esiguità dei fondi disponibile si è premurata di ridimensionare le ambizioni di questa scelta. L’incongruenza di queste innovazioni sta tutta nell’avere privilegiato gli aspetti generali e amministrativi della funzione direttiva a danno di quelli specifici di controllo epistemologico e pedagogico del curriculum come avveniva con i “dismessi” presidi di un tempo. Succede allora che per un’autonomia che qualcosa concede in termini di integrazione dell’offerta formativa si prefigura un dirigente che può saper fare tutto e non padroneggiare l’ambito culturale e professionale di un curriculum, dei cui risultati sarebbe tenuto a rendere conto. A questa intrinseca debolezza si affianca il fatto che nella scuola le figure intermedie tra dirigente e corpo docente non abbiano un preciso statuto professionale e dipendano dall’aleatorietà o peggio ancora dall’arbitrarietà delle scelte collegiali o dirigenziali.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI INDIRIZZI DI STUDIO E DEI GRADI DI ISTRUZIONE.

E’ stata un’esigenza diffusa nella società e tra gli operatori della scuola che si procedesse, come è stato fatto con i nuovi regolamenti degli ultimi anni sul riordino dell’istruzione secondaria, ad una semplificazione dell’aggrovigliato panorama di indirizzi e di corsi di studio che si era venuto a creare con il DPR 419/74 sulla sperimentazione. Un certo modo di intendere e di praticare il riformismo a scuola di fatto aveva prodotto una crescita costante di ore di lezioni, di discipline e una proliferazione di curricoli e di proposte formative, che a volte avevano fondamento solo nell’immaginazione dei collegi di docenti.
Permane ancora dopo il riaggiustamento delle superiori il problema del ruolo dell’istruzione professionale, costituitasi nel tempo nel sistema statale d’istruzione quando ancora le regioni non esistevano e mantenuta ancora in esso per l’evidente incapacità nel passato di molte amministrazioni regionali di darle respiro, funzionalità, organizzazione e qualità. Nonostante le modifiche curriculari e l’impegno a darle una forte e distinta fisionomia l’istruzione professionale è ancora relativamente diversa rispetto a quella tecnica; non solo, deve anche verificare sempre in modo corretto e funzionale il rapporto che deve avere con la formazione regionale.
A rigore il sistema duale di istruzione e formazione sarebbe più razionale rispetto a quello che si è venuto a costituire in Italia, ma per l’accettazione di questo modello sorgono le obiezioni fondamentali dell’inerzia e dell’incapacità di un bel numero di regioni e la tradizione seria degli istituti tecnici statali, una specificità del sistema scolastico italiano, che dopo la breve parentesi dell’era morattiana nessuno si sente più di cancellare.
Sempre in funzione di questa esigenza di efficienza e di efficacia si è decisi di dare sistematicità all’istruzione terziaria, nè scolarizzata, nè accademica, istituendo gli istituti tecnici superiori, rimodulando gli IFTS.
La preparazione finale dell’istruzione secondaria nel terzo millennio necessariamente si realizza nel livello della professionalità di base, perchè ragionevolmente si assegna al nuovo segmento dell’istruzione terziaria il compito di mettersi in sintonia con i bisogni di competenze del complessivo sistema economico.
Non è ancora risolto, a mio parere, il rapporto tra scuola primaria e secondaria di primo grado; nei fatti per la riduzione della popolazione scolastica le scuole medie autonome sono in via di sparizione, ma ce ne vuole si strada per un curriculum che sia unitario e si differenzi nello stesso tempo per l’età che va dai sei anni ai tredici.

LA RETE SCOLASTICA

E’ in qualche modo un corollario dell’esigenza di razionalizzazione del sistema dell’istruzione che contestualmente si sia proceduto e si continui a procedere ad un riassetto delle sedi scolastiche per potere garantire investimenti adeguati nelle tecnologie e in dotazioni di alto livello (biblioteche, laboratori, spazi aperti, mense etc) e per disporre di un numero sufficiente di alunni per classe e per sede scolastica. L’eccessiva dispersione eleva il costo d’impianto e di gestione, anche se per certi gradi di istruzione la prossimità della sede garantisce un migliore servizio alla persona e tutela il diritto alla formazione meglio di qualsiasi “ricchezza tecnologica”.
Le modalità scelte per razionalizzare la rete scolastica a volte hanno provocato un deterioramento organizzativo e gestionale della vita scolastica e l ‘abbassamento della qualità dei processi di apprendimento e spesso non hanno avuto altra giustificazione se non quella del raggiungimento del parametro numerico per l’assegnazione o il mantenimento dell’autonomia ad un istituto scolastico.

RAZIONALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI PEDAGOGICI

A partire dagli anni ’90 è cresciuta nel mondo della scuola un’esigenza di precisione e di efficacia nelle attività formative per potere disporre di risultati d’apprendimento certi e non aleatori. Sia nella pedagogia degli obiettivi che nel più recente approccio per competenze è evidente l’accoglimento della sollecitazione a rendere rigoroso il procedimento di insegnamento, a esplicitare in termini di compiti precisi, accessibili, osservabili i risultati d’apprendimento, a selezionare e a standardizzare gli elementi del sapere congrui con questo scopo e a individuare i modi esatti per valutare la corrispondenza tra ciò che era atteso e ciò che viene accertato. E tutto questo in un quadro rigoroso di contingentamento dei tempi per ogni sequenza d’insegnamento, comunque viene la voglia di nominarla(unità didattica, unità d’apprendimento, modulo, unità formativa capitalizzabile etc.).
Sia la pedagogia per obiettivi, sia l’approccio per competenze delineano un progetto di razionalizzazione dell’organizzazione didattica; la pedagogia degli obiettivi, in particolare, lascia in eredità a qualsiasi altro indirizzo che voglia cimentarsi con il paradigma dell’efficacia e dell’efficienza una teoria generale dell’azione che non propone alcun valore se non quella dell’efficacia operatoria e per questo esalta i valori dell’operazionalità delle mete educative. L’approccio per competenze svolge la sua missione razionalizzatrice ponendosi come funzione di mediazione, come interfaccia tra esigenze del sistema produttivo e istituzioni formative.
Ma è davvero razionale il progetto di potere dominare e controllare l’insieme delle relazioni che si instaurano nel rapporto educativo?
La razionalizzazione completa delle relazioni pedagogiche comporta la cancellazione del faccia a faccia in classe, la disumanizzazione in un mestiere che di più umano non ce n’è. Programmare le azioni educative non è programmare la produzione di un bene industriale; non ci vuol molto a capire che il percorso formativo non è rettilineo, senza scarti e resistenze e che senza questa consapevolezza si rischia di rasentare la follia(D.Hameline).
In pedagogia bisogna rassegnarsi.
“E’ impossibile aprire il registro delle certezze”(Ph.Meirieu).

MISURABILITTA’ DEI RISULTATI SCOLASTICI

Dire qualcosa con certezza sui risultati d’apprendimento è stato l’obiettivo perseguito per decenni dalle varie correnti di docimologia che hanno coltivato il sogno della misura esatta nella valutazione.
Si è cercato di risolvere il giudizio di valore nel giudizio di realtà, ma ridotta a poche o addirittura ad una sola dimensione;si è voluto espellere dalle operazioni di valutazione la dimensione ermeneutica, quantificando ciò che non è assolutamente e sempre ponderabile.
Il raggiungimento di questo obiettivo è ritenuto funzionale per migliorare le decisioni sull’apprendimento degli alunni, per migliorare la qualità dell’insegnamento, per dare garanzie sulla credibilità dei titoli di studio rilasciati. Disporre di valutazioni esatte per potere regolare sia i processi di apprendimento, ma anche per potere regolare il sistema di istruzione nel suo insieme. Un rigoroso e puntuale sistema di accertamento dei risultati di apprendimento viene ritenuto il fondamento necessario di tutte le azioni di politica scolastica; sorregge il bisogno di informazione sul funzionamento del sistema scolastico, ai fini di una considerazione dell’efficacia e dell’efficienza degli investimenti pubblici destinati ad esso. Qualsiasi società non può non chiedersi se un sistema di istruzione funzioni e quale sia il contributo che ha dato e deve dare alla costruzione della società della conoscenza e all’economia della conoscenza. La scuola non è un’azienda, ma senza dubbio è un’organizzazione che deve essere valutata nelle sue procedure e nei suoi risultati.
Con l’autonomia la valutazione delle procedure e dei risultati di ogni singola scuola dovrebbe essere considerata un servizio per tutti: operatori, utenti, istituzioni.
Il modello della scuola efficace ed efficiente viene formalmente condiviso da tutti, ma i costi che comporta non convincono e non vengono accettati da molti.
L’inefficienza, però, del sistema scolastico e formativo con la quale si convive da tempo comporta danni sociali di una certa gravità: costi elevati senza rendimento, modeste opportunità per coltivare e sviluppare le proprie attitudini, incongruenza con le esigenze della società. Bisogna farsene una ragione: l’aggravamento e la durata delle difficoltà e delle inefficienze della scuola rischiano di mettere in discussione l’esistenza dell’istruzione pubblica e rendono incerta la sua difesa e la sua salvaguardia. Evidentemente alla scuola per essere servizio sociale, istituzione pubblica, luogo di trasmissione dei saperi e di formazione della cittadinanza non può bastare l’economia dell’istruzione; ad essa servono idee sul futuro della società e idee sull’umanità che vorremmo per i nostri giovani.
Il fine primario del sistema scolastico, la sua redditività per usare il lessico economico, è la formazione, l’educazione dei giovani nella più ampia e varia accezione del termine.




Grammatica valenziale: di che si tratta?

Una delle attività formative di maggiore interesse fra quelle proposte dalla nostra associazione riguarda la grammatica valenziale.
Di recente la nostra esperta Daniela Moscato ha rilasciato alla rivista DIRE FARE INSEGNARE una intervista in cui spiega le basi di questo approccio ancora poco frequentato, precisandone i vantaggi didattici e alcuni possibili contesti di applicazione.




L’amore per chi resta. Riti di passaggio

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Da tempo volevo cercare di affrontare il tema dei processi che si articolano attorno all’esperienza del lutto e della morte, era nell’aria da mesi, era nei discorsi dei ragazzi, nei disegni dei bambini, nei visi inespressivi di chi mi parlava, esprimendo rassegnazione e senso di precarietà.
Poi ho incontrato Marybel dai dolci sorrisi, che mi chiedeva come preparare i suoi tre bambini alla incombente dipartita della nonna tanto amata, e l’urgenza è diventata necessità, ma una necessità che conteneva anche la chiave di lettura: l’amore per chi resta.
Spesso gli adulti, presi nella morsa del loro dolore e dalla negazione per difendersi da quanto sta accadendo, dimenticano la necessità del bambino di elaborare il proprio lutto.
Per proteggerlo dal dolore e dall’angoscia, cercano di tenerlo all’oscuro, a volte perfino d’ingannarlo su ciò che è accaduto o sta accadendo.
Il bambino può percepire però d’essere stato imbrogliato (A.Marcoli,2014), può imparare a non fidarsi dei grandi e a non mostrare il proprio vero sentire; può costruire teorie bizzarre sulla vita e la morte, a volte altamente patogene. Al contrario, il bambino, la bambina vanno supportati e accompagnati nel tempo e nello spazio per capire, esprimere ogni emozione (stupore, curiosità, dolore, angoscia, paura, rabbia, senso di colpa o d’impotenza…).
A volte possono persino pensare d’esser loro i ‘colpevoli’, allora occorrerà rassicurarli, parlar loro dell’inevitabilità della morte e del fatto che non verranno abbandonati a breve anche dagli altri adulti cari.

Costruire con loro riti di passaggio aiuta a costruire senso! Permettere loro di partecipare ai momenti commemorativi, può aiutarli ad imparare o ricordare che dopo la caduta delle foglie arriva sempre la primavera.
I momenti in cui ci si trova in famiglia, ad elaborare un lutto comune, sono preziosi per la loro forza integrativa nella mente di ognuno (C. De Gregorio 2011).
Rimangono in memoria come momenti tristi, ma, paradossalmente, anche felici. La mancata elaborazione del lutto invece può comportare malessere psichico duraturo e può avere conseguenze pesanti sulla salute mentale della persona e dei suoi discendenti, come risulta da ricerche e psicoterapie (P. Roccato 1995, 2013).
Durante un corso di formazione in ambito bioetico, con immenso dolore, un medico ci raccontò d’essere stato escluso, da bambino, dal poter partecipare al funerale del padre, di aver attribuito questa decisione alla madre e di averla detestata tutta la vita per questo. Con l’aiuto dei compagni di corso ragionammo sull’eventualità che la madre fosse stata mal consigliata e che nel pieno del suo dolore avesse inutilmente cercato di proteggerlo da ciò che già lei, probabilmente stava sentendo come insostenibile. Insieme, tra le lacrime, facemmo pace con quei suoi ricordi che purtroppo avevano condizionato in modo significativo la sua relazione con la madre. Gli augurammo di riuscire a recuperarne almeno una parte.
Favorire l’elaborazione del lutto è dunque fondamentalmente fare prevenzione primaria e ‘preparare un bambino ad affrontare gli avvenimenti dolorosi della vita vuol dire aiutarlo a camminare in modo più leggero verso il futuro’ (A. Marcoli 2014).

Con Marybel siamo arrivate un pochino in ritardo e ora la bimba mezzana sta patendo tutti i processi separativi, problematizza l’andata alla scuola materna, si aggrappa al nonno, è triste ed arrabbiata ma sta cominciando a ricevere alcune risposte dai genitori, guarda il cielo e nelle stelle ritrova la nonna, le sta dedicando un libricino con foto, disegni, ricette che sta raccogliendo insieme alla mamma. Ci vorrà del tempo per far pace con questo evento naturale ma inaspettato e prematuro.
Anche ora, dopo la pandemia servirebbe un rito di chiusura ed elaborazione di quello che abbiamo vissuto per più di due anni, proprio per circostanziare gli eventi nella loro eccezionalità.
Nei primi mesi di quest’anno, all’interno di un progetto a contrasto della dispersione scolastica, ho chiesto ai ragazzi di una scuola media di parlarmi delle loro preoccupazioni. È emersa una grande paura per il futuro imperscrutabile e per la possibilità che vengano a mancare i propri cari.

L’aver preso coscienza della realtà della morte, con immagini e conteggi 24 ore su 24 durante la pandemia, ha strutturato in loro una sorta di angoscioso terrore.
A questo purtroppo si aggiunge anche la ricezione continua di stimoli e informazioni dai social, ad altissima velocità, cui sono esposti, e che accorcia enormemente i tempi del presente e del futuro, sollecitando con urgenza il soddisfacimento dei bisogni e la realizzazione degli obiettivi, con aspettative altissime.

Le ricadute più frequenti però sembrano essere una quasi totale perdita di senso e una caduta energetica vistosa, in alcuni casi persino estrema, come ci indicano i dati crescenti relativi ai suicidi.
A volte, raccontano, scappa il senso dalle giornate, sembra non esserci un buon motivo per muovere un passo, parlare, sorridere. Si sente il bisogno disperato di saper cosa fare per ricominciare, per smettere di sopravvivere ma fuori nulla li attrae o li accende. Spesso si rischia di pensare di non essere amati, ma in realtà non si sta più amando e questo genera distanza sociale. Si dice che per superare le crisi sia necessario attraversarle, guadarle, ma in quei momenti sembrano paludi stagnanti, senza possibilità di movimento. Sembra che nessuno possa aiutarli, passargli il boccaglio con l’ossigeno.

Lo racconta proprio così Federica, giovane neolaureata in cerca di prospettive in questo momento di stagnazione economica.

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Le fronde degli alberi che si muovono cullate dal vento mi regalano sempre una gioia profonda. Questo però durante il giorno. Di notte quel fruscio mi mette inquietudine, come se qualcosa di strano o minaccioso si stesse avvicinando. Un po’ come il Nulla di Fantasia.
Questa metafora non è scontata nel momento in cui mi trovo a fare i conti con un profondo radicamento a terra dei miei piedi, mentre il mio sguardo ha introiettato una visione esterna, periferica, quasi aerea sul mondo. Lucida e a volte disillusa. Preoccupata e un po’ rassegnata. Mi sembra di essermi accorta che viviamo tutti in una finzione o in tante finzioni, che poco valga la pena, che questa vita e questo pianeta poco hanno di definito e sono preda delle coincidenze, del caso, così come lo siamo noi e i nostri destini. Poco è certo, se non che questa vita smetterà di battere, quella dei miei cari anche, spero il più tardi possibile, e anche quella della nostra specie, una tra le tante, del pianeta.

Non sono, non siamo più il centro.
Questo mi fa sentire vagamente persa. Sto cercando di capire il momento in cui si è rotto qualcosa, e cosa sì è rotto. Se quando l’estate scorsa è morta la mia gatta Tigra o già prima, non saprei. Ho perso un po’ di senso e mi sembra di vedere tutto sotto una strana luce ridicola, come se quello che facciamo, costruiamo, viviamo non fosse che una copertura, un nascondere la vera realtà, la finitezza, l’insensatezza, l’incertezza.
Molte cose ancora mi danno benessere: una bella fioritura, gli uccellini, gli affetti e gli amici veri, forse l’unica ragione sensata, la danza ed i piaceri semplici, come la lettura, il sorriso di un’allieva, uno studio ben riuscito, le fragole.
Ma sono tipicamente più triste. Non ho perso la luce negli occhi ma se ne è aggiunta un’altra più spettrale. Nonostante questo continuo a rifugiarmi nella cura del cibo, del corpo, dei miei interessi e dei rapporti, nella preoccupazione sul futuro, sul lavoro…
Definire cosa sia il superfluo, capire se esiste un’essenza. Come si fa a vivere sereni dopo una scoperta così? Come hanno fatto filosofi e poeti? Forse l’accettazione di questa realtà, della malattia, del nonsenso, della povertà, della morte, del non controllo se non futile possono aiutare a vivere meglio…godendo dei piccoli piaceri transitori (se l’agnosticismo non mi inganna), del soddisfacimento di un bisogno proprio o dell’altro, della realizzazione di un compito ben svolto, del mare, dell’amore.
Mentre cerco il pezzo rotto, vorrei provare a soffermarmi di più, a contemplare, registrare immagini e sensazioni, amare più consapevolmente e più profondamente, tenere stretto ciò che posso, vivere; che è l’unica cosa che siamo nati per fare.
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Ho provato a spiegarlo ai ragazzini delle Medie, che si sentono isolati nelle classi, rifiutati, non visti. Spesso, loro stessi, evitano, non vedono, non parlano con i compagni, non permettono agli altri di conoscerli. Abbiamo costruito cartelloni con i loro desideri per il futuro, per una scuola nuova, per un lavoro un po’ più a misura d’uomo. Ora i loro lavori sono in mostra e speriamo contamino un po’ anche gli adulti!
Se notiamo qualcosa che non va, troppa rabbia, silenzio, sonno, apatia nei nostri vicini di vita, anche se purtroppo in questo momento siamo tutti un po’ a corto di energia psichica, proviamo a pensare che si può fare un po’ di staffetta, senza esagerare, ogni tanto prendendo fiato, mentre l’altro, arrancando guadagna qualche metro… Forse in due, in tre… forse insieme possiamo provare, galleggiando, nuotando a pelo d’acqua, a raggiungere l’altra riva, ma insieme, senza perderci troppo di vista.

Come ho consigliato proprio ieri ad una mamma turbata dal cambiamento umorale del figlio, in un contesto di vita connotato da frequenti lutti familiari, possiamo tentare di riempire ancora la nostra storia di vitalità, allargando lo sguardo sugli altri, sul mondo che pulsa.




E portò via anche l’origano…

di Raimondo Giunta

Non ci sono parole per esprimere il disgusto per quello di cui è stata accusata la dirigente dell’ICS GIOVANNI FALCONE, situato nel quartiere Zen a Palermo.
Il danno arrecato alla scuola e al principio di legalità in terra di mafia è incalcolabile e non sarà per nulla facile riedificare ciò che è stato distrutto, soprattutto se si considera quanti vengono colti in questioni di malaffare ,regolarmente coperte da quotidiane esternazioni contro la mafia.
Questa orribile vicenda mi spinge a fare qualche riflessione sul ruolo del dirigente in regime di autonomia scolastica,perché credo che ci siano tanti modi e tante ragioni per evitare che possano ripetersi fatti come quelli verificatisi allo Zen di Palermo.
In una scuola che vuole essere una comunità educativa l’autorità del dirigente scolastico si dovrebbe fondare sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale e non sull’esercizio arbitrario dei poteri che gli affida la legge.
Non sono pochi, purtroppo, i dirigenti scolastici che ritengono di non potere fare bene il proprio mestiere ,perché sarebbero molestati dagli insegnanti che sollevano obiezioni e perplessità sul loro operato, e perché devono tenere conto di quello che ancora si decide nei collegi degli insegnanti e nei consigli di istituto.
Ricordo ancora la dichiarazione pubblica “LASCIATECI LAVORARE”, sottoscritta da alcuni dirigenti scolastici, in piena pandemia, come se il lavoro a scuola consista nell’esecuzione dei loro ordini di servizio.


Il prestigio di un dirigente non deriva dall’esercizio incontrastato dei suoi poteri, ma dalla capacità di spiegare e giustificare le proprie decisioni in termini pedagogici, professionali e anche morali e dalla capacità di interpretare e affermare i principi costitutivi di una istituzione che è e deve restare democratica nel suo assetto e nelle sue procedure.
Si parla di management delle risorse umane, scimmiottando il mondo aziendale, mentre invece si dovrebbe capire che a scuola il problema più serio è oggi e sarà domani il management dei significati.
Il problema vero è sempre quello di impegnarsi in favore di valori educativi da condividere con tutto il personale, con gli alunni, con le famiglie, con la comunità di riferimento, per trovare il senso delle cose che si fanno e dello stare insieme, per trovare passione, entusiasmo, motivazioni profonde nel lavoro a scuola, soprattutto nelle scuole collocate nelle cosiddette zone a rischio.
Il problema quotidiano che si deve affrontare è quello di trovare ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare istruzione ed educazione sa che non c’è alcun bisogno di padroni a scuola , ma di professionisti riflessivi ,dotati di scienza , di esperienza e di intuizione creativa.
C’è bisogno, proprio in regime di autonomia, di professionisti che sappiano integrare valori e culture, non semplici risorse umane; che abbiano strategie motivazionali e che rifuggano da qualsiasi forma di prevaricazione.
L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto. L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .Senza un reale potere sul proprio lavoro, senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole che funzionano, senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.Solo
all’interno di istituzioni autoritarie o che pretendono di diventarlo se ne fanno e se ne vogliono fare dei docili esecutori delle direttive dell’amministrazione.Il lavoro dell’insegnante appartiene alla categoria delle attività intellettuali,alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere .
Non credo che la dirigente della scuola GIOVANNI FALCONE dello Zen a Palermo si sia attenuta a qualcuna di queste regole di buonsenso.Non è un caso che tutta l’inchiesta sia partita dalla denuncia di un’insegnante che vi lavorava .




Candidato bocciato, candidato fortunato: la farsa del concorso per dirigenti scolastici

di Mario Maviglia

 Avviso ai lettori: il presente articolo non è rivolto contro i candidati che hanno proposto ricorso avverso l’esito sfavorevole al concorso per dirigente scolastico 2017, ma contro quei politici di una parte dell’attuale maggioranza che hanno proposto di sanare ope legis la situazione dei candidati bocciati al concorso dopo che la giustizia amministrativa aveva cassato i loro ricorsi.

 

Questa volta ce l’hanno fatta! Finalmente verrà risolto uno dei problemi che assillava il nostro sistema scolastico e che si stava trascinando da tempo tra mille polemiche, creando non poco sconcerto non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nell’opinione pubblica più attenta. L’edilizia scolastica? Ma no! Quando mai! La dispersione scolastica? Ma no! A chi mai può interessare la dispersione scolastica tra i politici (ammesso che abbiano cognizione di cosa si tratti…)? Le retribuzioni dei docenti? Su quello i politici stanno lavorando alacremente prevedendo di equipararli alla media UE entro il 2090 (sì certo, probabilmente gli attuali docenti saranno tutti “passati a miglior vita”, ammesso che sia veramente migliore: nessuno finora è tornato indietro per raccontarlo, a parte il Sommo Poeta…). Ne fruiranno i nipoti dei nipoti; bisogna pensare al futuro.

Stiamo parlando dell’emendamento, accolto dalla maggioranza, che prevede una procedura “concorsuale” ad hoc riservata ai candidati bocciati nel concorso ordinario per dirigente scolastico e che hanno in corso un contenzioso aperto. Possiamo cogliere la portata storica di questa decisione e il sotteso pathos riportando le parole del deputato della Lega, Rossano Sasso, come riferito dalla stampa: “Era il 2019 quando conobbi per la prima volta gli aspiranti dirigenti scolastici che furono penalizzati ingiustamente al famigerato concorso del 2017, quello cui partecipò l’ex Ministro Azzolina per intenderci. Un concorso con mille ombre, inchieste penali e avvisi di garanzia, omissioni, imbrogli e interessi. Ho conosciuto personalmente donne e uomini capaci e preparati che oltre ad insegnare al mattino nelle nostre scuole, al pomeriggio per mesi e mesi hanno studiato per vincere questo concorso”.

Da queste parole traspare tutto l’afflato altruistico e solidaristico dell’on. deputato che si è battuto strenuamente per sanare una situazione che si era caratterizzata per imbrogli e altre mille ombre, anche con coloriture penali. L’on. deputato (altruistico e solidaristico) forse dimentica che a sanare questi problemi, in una democrazia liberale che ha nella separazione dei poteri uno dei suoi cardini, ci pensa la Magistratura (che infatti finora ha respinto i vari ricorsi). Dato interessante: la sanatoria non “sana” quei candidati che pur essendo stati inseriti nella graduatoria generale di merito (avendo colpevolmente superato tutte le prove del concorso) hanno dovuto rinunciare alla sede assegnata loro per ragioni di famiglia o per il particolare disagio della sede stessa. Evidentemente questi candidati (colpevoli di aver vinto il concorso, non dimentichiamolo) non sono abbastanza “meritevoli”, oppure non sono stati abbastanza “furbi” da farsi bocciare in una delle prove, dimenticando che nella nostra Italia del meritoci sarà sempre, lo sapete / Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli [un Sasso] o un prete a sparare cazzate” (e a fare sanatorie) (lib. adatt. da L’avvelenata, F. Guccini).

Ma non vorremmo dare l’impressione che si tratti di una sanatoria tout court. No! Anzi, riprendendo le parole dell’on. Sasso (altruistico e solidaristico), “Le persone bocciate ingiustamente potranno ripetere il concorso, rifare le prove per poi accedere ad un corso intensivo di formazione. Nessuna sanatoria dunque e selezione che sarà dura, ma un giusto risarcimento dopo anni di ingiustizie.” Visto? Qui si fanno le cose seriamente! Il merito, prima di tutto! E che cosa prevede la nuova procedura concorsuale “sanata”? Sarà una selezione “dura” (per usare le parole dell’on. altruistico e solidaristico. State seduti e ben appoggiati allo schienale perché una selezione così dura non l’avete mai vista: chi non ha superato la prova scritta dovrà rifarla in questi termini: prova scritta basata su sistemi informatizzati, a risposta chiusa, da superare con un punteggio pari almeno a 6/10; chi non ha superato la prova orale dovrà rifarla superandola con un punteggio pari almeno a 6/10. Chi supera la rispettiva prova viene ammesso ad un corso riservato di formazione della durata di 150 ore, autofinanziato dagli stessi corsisti (regalie sì, ma fino ad un certo punto…).

Con questo emendamento si delinea finalmente il senso della denominazione “merito” attribuito al Ministero dell’Istruzione all’inizio di questa legislatura: è il merito del ricorso, presumibilmente il merito degli amici degli amici, il merito per sanatoria. Data questa forte pregnanza del significato del merito in salsa italica proponiamo che venga avviata la procedura per il riconoscimento del copyright e che si vigili affinché nelle sedi internazionali (UE, OCSE, ONU, IEA ecc.) ogni volta che viene utilizzato questo termine ci sia il simbolo ©.it. Gli onorevoli firmatari dell’emendamento potrebbero essere nominati probiviri e controllori del rispetto di questo meritevole atto. Alle frontiere andrebbero messe idonee gigantografie  con la dicitura, in tutte le lingue conosciute: “Benvenuti nell’Italia del merito!”