COOPERAZIONE

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di Giancarlo Cavinato (Movimento di Cooperazione Educativa)

Cooperazione è il contrario di individualismo, egoismo, sopraffazione, depredazione delle risorse comuni, guerra.
Educare alla cooperazione è necessario per ritrovare interesse ai valori collettivi e dare senso alla vita, per immaginare e costruire mondi migliori.

Nel mondo attuale segnato da pesanti disuguaglianze e individualismi distruttivi educare alla cooperazione è necessario per costruire equilibrio sociale, per combattere l’iniquità e l’ingiustizia, perché siano riconosciuti i diritti fondamentali a tutti gli esseri viventi e ognuno/a si assuma la responsabilità della loro realizzazione.

In un mondo in cui troppo spesso il conflitto è la cifra dei rapporti sociali e il linguaggio delle armi risuona sempre più forte, è necessario educare alla cooperazione:

  • per ritrovare interesse ai valori collettivi e dare senso alla vita, immaginare e costruire mondi migliori
  • per costruire equilibrio sociale, per combattere l’iniquità e l’ingiustizia (dati ultimo rapporto istat)
  • per riconoscere diritti a tutti gli esseri viventi e salvaguardare la vita nel pianeta
  • per una reale cultura della pace

Cooperare, fin dai primi anni di vita, significa ri-conoscere sé e l’altro, sviluppare la capacità di ascolto, dare e ricevere fiducia, saper lavorare insieme a un progetto comune, essere accolti/e e riconosciuti/e con la propria identità e la propria storia ed essere arricchiti/e dal confronto con le identità e le storie degli/delle altri/e. Ampliare la percezione, costruendo solidarietà piuttosto che rinforzare la competizione e la disparità, evita che si formino rappresentazioni dei fatti sociali   rigide e immodificabili.

Nella scuola la cooperazione nasce se l’ambiente educativo è pensato per accogliere, far interagire, sviluppare relazioni di reciprocità nella concretezza dell’agire quotidiano, se da parte degli adulti vi è apprezzamento, curiosità e ascolto ed è bandito il giudizio. Per dare ‘ a tutti, ossia a ciascuno, la possibilità di avere nella scuola il punto di incontro dei motivi più profondi della propria vita e della propria ricerca’ (A. Canevaro).

Il che significa, nell’agire quotidiano, agire sugli spazi e sui tempi, istituire democraticamente un ordine dinamico da comporre e ricomporre, attuare una pedagogia della ricerca e della narrazione ( un ‘pensare per storie’), studiare strategie di valorizzazione di ciascuno/a che consentano di star bene insieme, provare il piacere del fare, l’emozione del conoscere, dell’ agire in modo riflessivo e condiviso, per scoprirsi uguali e diversi.

Significa attuare una scuola laboratorio sociale, palestra di democrazia, ma nello stesso tempo nuova agorà aperta al territorio, luogo di incontro, di pensiero e di cultura. Una scuola viva con un’IDENTITA’, un sistema di memoria e documentazione, una propria cultura.

S. Asch ( in ‘Psicologia sociale’, SEI) : ‘l’azione di cooperazione è analoga alla formazione di un gruppo: il gruppo e il compito costituiscono un sistema, ed il cambiamento in una qualsiasi delle parti del sistema modifica tutte le altre parti.’
Freinet definiva la propria didattica come un insieme di ‘tecniche’ e sosteneva che ogni tecnica ha valenza formativa se è tecnica di vita inserita in un sistema di valori. L’insieme delle tecniche modifica l’impostazione, il ritmo, le norme della scuola attraverso pratiche , strumenti, messa a disposizione di condizioni operative, crea le condizioni per crescere insieme in una dimensione sociale superando i condizionamenti negativi, le diverse forme di emarginazione, la rigidità percettiva e culturale, gli stereotipi, l’etnocentrismo, l’assunzione di punti di vista parziali.
Intervenire su tali idee, ampliando la percezione, costruendo solidarietà piuttosto che rinforzare la competizione e la disparità, evita che le rappresentazioni dei fatti sociali siano rigide e   immodificabili.
F. Oury, padre della pedagogia istituzionale, aggiungeva che ‘le relazioni umane ( sottostanti alle tecniche ) sono educative’ in quanto arricchiscono le percezioni reciproche.

Una classe organizzata cooperativamente non è un mondo a sé, ma un sistema complesso e coerente in evoluzione, che crea proprie ‘istituzioni’ , che funzionano grazie a strategie e a progetti non lineari o fondati su parametri di efficientismo , ma su una sensibilità ’ecologica’. Riflettere su come regolare la vita comune, su come tener conto dei pareri e dei diritti di tutti, è un percorso trasversale all’intera esperienza scolastica, forma cittadini/e attivi/e . Mario Lodi , commentando una seduta di bilancio della cooperativa nella sua classe, afferma l’importanza di ‘render conto agli altri’, della condivisione della responsabilità, dell’assumere il bene comune come valore.
In un paese in cui spesso le istituzioni sono soggette a pressioni esterne, a forme di familismo amorale, a forme di deregulation, in cui singoli e gruppi sociali sono guidati da forme di fascinazione derivate da quella che Philippe Meirieu definisce ’la terza fase del capitalismo: il capitalismo compulsivo’, la cooperazione può essere lo strumento per una trasformazione del modi di fare scuola, per il decondizionamento, elemento fondante di una cittadinanza attiva e della costruzione di un’etica pubblica.




Come si fa ad insegnare?

balconidi Nanni Omodeo Zorini

Fra qualche giorno dovrebbe esserci la ricorrenza della nascita di Marcella Balconi; ieri ho cercato inutilmente la mia narrazione di quando l’avevamo fatta venire a fare una lezione di preparazione al concorso magistrale come M.C.E. e Cgil scuola. Non avendolo trovato lo riscrivo daccapo. Da qualche altra parte sempre nel Web ho già raccontato cose del genere. Ma dato che ora non le ritrovo non mi costa niente ricominciare daccapo.

Da quando avevo smesso di essere insegnante elementare avevo dovuto abbandonare l’attività dei gruppi pedagogico didattici che avevamo piacevolmente e utilmente fatto vivere per anni nel gruppo M.C.E.
Periodicamente (cioè praticamente quando il ministero se ne ricordava di bandire i concorsi), col sindacato scuola Cgil e come movimento organizzavamo dei momenti di supporto, formazione e preparazione al concorso magistrale.

Detta così, però, potrebbe sembrare una cosa rituale e fine a se stessa. Lo scopo fondamentale era favorire l’ingresso nella scuola di insegnanti di qualità, motivati, competenti e colti. E insieme fornire un supporto formativo alle nuove leve di colleghi insegnanti, usciti dall’istituto magistrale (divenuto poi liceo pedagogico), e anche dall’Università per insegnare nelle scuole medie e superiori.
La modalità prevalente che utilizzavamo e seguivamo: tra i colleghi direttori didattici e dirigenti scolastici, o tra insegnanti disponibili e competenti formavamo una squadra.
Sceglievamo in comune un percorso formativo definendone il curricolo. Poi ciascuno di noi con le diverse modalità personali di presentazione faceva una chiacchierata/lezione.
La mia chiacchierata spesso era supportata e surrogata da diapositive che avevo realizzate nella mia esperienza di maestro M.C.E.
Accanto a queste lezioni, in cui oltre alla comunicazione interagivamo con i nostri destinatari interlocutori, fornivamo delle tematiche da sviluppare per la prova scritta. Desumendole dalle tracce degli ultimi concorsi, e ipotizzando i temi che avrebbero potuto dovuto essere scelti e individuati dal ministero.
Gli elaborati scritti venivano da ciascuno di noi analizzati, smontati, commentati. E seguivamo una griglia tassonomica che avevamo concordato. Provando a ipotizzare il voto finale in quarantesimi che allora veniva utilizzato. Fornendo consigli scritti e a voce commentando con ciascuna persona quando li consegnavamo il suo elaborato.
Un certo anno, oltre a noi già operatori scolastici, decidemmo di chiedere il contributo anche di qualche figura esterna al mondo della scuola di particolare prestigio e rilevanza.
Contattai pertanto l’amica e compagna Marcella Balconi.
Ho ancora in mente il giorno in cui ella venne da noi.
Centinaia di donne e uomini, giovani e meno giovani colmavano la sala del sindacato alla camera del lavoro.
Ero abbastanza imbarazzato quando Marcella arrivò.
La sua immancabile sigaretta accesa. Qualche tiro appassionato, strizzando gli occhi … e mi disse subito: “ma guarda, caro Nanni, che io non intendo fare una lezione vera e propria in senso classico… Intendo chiacchierare con loro…”
Non c’era ancora il divieto formale ed esplicito a fumare nei luoghi pubblici.
Con il suo sguardo calmo e sicuro, guardò il suo uditorio…
Poi cominciò…
Si rivolse direttamente a qualche volto o sguardo che la colpiva particolarmente.
E cominciò ad interloquire.
Dopo i primi contatti, cominciarono ad alzarsi le mani chiedendo di parlare.
Lei guardava, osservava, accogliente, contentandosi di passare la parola da una persona all’altra. Apparentemente poteva sembrare una cosa alla buona. Informale.
Con il mio occhio di organizzatore, nutrivo qualche piccola immotivata preoccupazione.
Però, dalla platea, gli interventi personali erano tutti molto ricchi, oltremodo interessanti, e indirettamente collegati gli uni agli altri.
Ci fu qualche altra sigaretta per Marcella.
Poi verso il finale del tempo previsto, tirò le conclusioni mettendo magistralmente in relazione quanto era stato detto.
Non le era sfuggito nessun intervento o racconto personale.
Col suo tono sicuro e sapiente, usando un colloquiale “tu”, passò da una notazione all’altra di quelle emerse tra gli astanti…
Concluse, con la sua voce forte e rassicurante: “in pratica, la lezione che mi è stato chiesto da Nanni e dagli altri compagni di tenere per voi, l’avete svolta voi.…”
Le mie preoccupazioni precedenti svanirono immediatamente. Senza esserci raccordati intenzionalmente, la brillante e geniale neuropsichiatra infantile, ci aveva regalato una autentica lezione di come deve e dovrebbe essere l’azione educativa. Collettiva, senza distinzione tra chi espone e i suoi uditori. In una continua interazione reciprocamente arricchente. Nessuno insegna davvero a nessuno: al massimo chi ha più competenze soprattutto metodologiche, le mette a disposizione dei discenti. E si impara tutti insieme. Ero esterrefatto, entusiasta… Ritrovai in quel contesto e in quella modalità, il maestro elementare che ero stato. Che non ha una verità pronta da regalare sminuzzata a bocconi. Molte volte anch’io mi ero ritrovato quando facevo il professore o il maestro, a dire ai miei alunni che trovavo molto interessante quello che loro avevano detto che li ringraziavo per avermi aiutato.
Il tono e il clima di una vera azione educativa deve basarsi su una relazione profonda di interazione reciproca. Tutti partecipano attivamente. Ciascuno dalla sua parte.
Non entro nei particolari di quanto emerso in quella lezione con la stupenda psichiatra infantile. Militante politica, partigiana, fiera e sapiente comunista, era stata perfettamente coerente con se stessa.
Crescere insieme. Costruire insieme collaborando. Senza barriere o distinzioni di campo.
Al termine, la platea tardò moltissimo a svuotarsi. Tutte e tutti avevano qualcosa da dire personalmente a Marcella. Che con il suo occhio attento e profondamente disponibile, ascoltava tutte e tutti.

[Qualcosa del genere devo averlo già raccontato da qualche parte. Non ho ritrovato il testo degli anni scorsi. Ho ripercorso volentieri quei momenti. E regalo la narrazione ridotta all’osso e al nucleo di quella stupenda lezione attiva, che fu regalata a tutti noi. Soprattutto a me. E ne ringrazio quella stupenda persona. Siamo nell’epoca delle celebrazioni. Cent’anni fa lei era nata. Mi piace ricordarla così. Come quella volta in cui avevo imparato a conoscerla direttamente: e mi aveva raccontato che ricordava il mio nome, la mia storia, di quando ero nato, di chi ero… Non perdeva i particolare per strada. La sua lunga ricca e arricchente esperienza umana e professionale, era sempre totalmente integra: GRAZIE ANCORA COMPAGNA!]

Mi piace ricordare questa esperienza significativa in questo amaro momento di analfabetismo culturale e mentale. Di rigurgiti di fogna fascisti. Una figura luminosa ed emblematica, da ricordare non solo come celebrazione. Ma come modello mentale. E come esempio.




Metodo naturale e didattica cooperativa

abcdi Giancarlo Cavinato (Movimento di Cooperazione Educativa)

I gruppi brasiliani della Fimem fanno riferimento per l’impostazione pedagogica del primo apprendimento della scrittura e della lettura alle ‘3 F’ (Freinet, Freire, Ferreiro) a cui noi italiani aggiungemmo Foucambert (Foucambert, studioso francese, si è occupato dell’’atto di lettura’ e della lettura come ricostruzione del significato).

Il bagaglio di riflessioni e di proposte offerto da questa impostazione è vasto e fornisce agli/alle insegnanti disponibili a mettersi in ricerca un materiale di osservazione ricchissimo.

Il momento del primo apprendimento della lettura e della scrittura, si dice nel manifesto ‘Educare alla parola’ è un momento delicato, da curare con grande attenzione.

Si tratta di partire con il piede giusto, considerando il/la bambino/a un soggetto competente, assumendolo nella sua interezza, valorizzando i processi che spontaneamente mette in atto: processi di pensiero, tentativi sperimentali, formulazione di ipotesi, anticipazioni, … Sono processi che il bambino ha iniziato a compiere ben prima dell’arrivo a scuola e che è compito dell’insegnante conoscere e valorizzare.
E’ importante riconoscere al/la bambino/a la dignità di lettore da subito, ossia di soggetto che cerca di ricavare un significato dai segni scritti. Immettendolo, da subito, in situazioni funzionali di lettura. Il percorso di apprendimento non va scisso in un ‘prima’ (imparare sotto la guida di un insegnamento sistematico la corrispondenza segni-suoni) e un ‘dopo’ (la lettura autentica per ricavare significati e informazioni, per incontrare emozioni, per soddisfare un bisogno estetico, …).

Dice Freinet che un buon metodo non è né analitico né globale, ma procede per strategie diverse in relazione ai processi personali di ciascun allievo/a.
Ciascuno/a, infatti, si costruisce dei punti di riferimento personali in seguito alla scoperta di ricorrenze, corrispondenze, … punti di riferimento che possono essere percettivi, sonori, spaziali, … Sta a noi osservare e stimolare i processi aiutando i bambini/e a diventare consapevoli delle loro scoperte e dei loro percorsi. La percezione visiva gioca un ruolo molto importante, i testi scritti vengono ‘esplorati’ visivamente (la ‘traduzione’ dello scritto in significato procede direttamente dall’occhio al cervello, la ‘sonorizzazione’ ha un ruolo marginale).

Occorre rendersi conto che la mente non può rispondere a eccessive richieste nello stesso momento: se la richiesta è di concentrarsi sul rapporto suoni-segni, non si è liberi di interrogarsi sui significati (e, fin dalla nascita, è il significato l’aspetto su cui l’essere umano si interroga).
Quindi non si tratta, da parte dell’insegnante, di scegliere un metodo o un altro, ma di sostenere e stimolare i processi costruendo un ambiente di apprendimento favorevole: in cui la lingua – orale e scritta- sia usata per comunicare; in cui sia possibile un incontro positivo con i libri; in cui per ciascuno/a ci sia la possibilità di mettere in gioco le competenze individualmente e in gruppo; in cui la proposta di attività ludiche aiuti ad acquisire consapevolezza sulle ‘regole’ del codice; in cui i tentativi sperimentali non vengano considerati ‘errori’ e sanzionati spegnendo la spinta alla ricerca.

E questo è il ‘metodo naturale’, un ‘non-metodo’ che si preoccupa di stimolare i processi e di guidare le scoperte, non di imporre un unico percorso uguale per tutti. I francesi lo hanno rinominato ‘metodo relazionale’, perché i processi non si svolgono solo in solitudine ma soprattutto nello scambio, nel confronto, nella negoziazione con gli altri. Il significato, dice Eco, non sta nel testo, ma nella testa che lo costruisce confrontando ciò che ha elaborato con quanto hanno capito gli altri.

Una classe contenitore di tante attività cui sono legate tante scritture è un luogo favorevole alla ricerca e dell’apprendimento: le strisce personali, i giornali scolastici, i giornali murali, le lettere dei corrispondenti, i verbali delle uscite e delle visite, le storie co-costruite e trascritte dall’insegnante, le storie illustrate, i regolamenti, i ‘vocabolari’ figurati, …sono materiali importanti per la ricerca e l’esplorazione.

Un analogo discorso si può fare per la matematica, che può essere appresa secondo un metodo naturale.
Anche in questo caso, se la matematica è formazione di pensiero logico, di capacità di verifica di dati, di loro messa in relazione, in un sistema interrelato, non si può pensare che ‘prima’ si apprendono gli elementi base, ‘poi’ si ragionerà. Si tratta di portare a pensare per relazioni, funzioni, elementi interconnessi, cioè di immettere in un sistema.
La matematica può essere inventata, facendo spazio a processi creativi, all’immaginazione, costruendo via via un sistema di pensiero elastico, probabilistico, non delle certezze immobili, non acquisizioni tecniche slegate le une dalle altre. Ci vuole tempo, ad esrmpio, per costruire il concetto di numero correlando aspetti ordinali e aspetti cardinali.

Anche in questo caso sono le preconoscenze e le competenze già presenti ed i tentativi spontanei, da incoraggiare e stimolare, al centro dell’attenzione dell’insegnante.




Il mondo al contrario. I ricchi con la carta, i poveri con lo smartphone.

bambini_scuoladi Stefano Stefanel

I ricchi con la carta. I poveri con lo smartphone”. “Bocciare i deboli per far migliorare i forti”. “Eliminiamo i progetti e torniamo allo studio serio”.
Il delirante momento storico che stiamo vivendo visto dal versante della scuola potrebbe essere racchiuso nelle tre “orribili” frasi che ho sopra riportato e che possono riassumere, in forma comunque almeno per il momento parodistica, quello che si sente in giro, soprattutto quello che si legge sui giornali di carta stampata.
La battaglia però è impari ed è stata “scatenata” da giornalisti, scrittori, psicologi, opinionisti, professori universitari, cioè personaggi noti e pubblici che parlano di scuola senza conoscerla e che – soprattutto – hanno un’idea della scuola che risale alla loro gioventù.
Tutto questo sta avvelenando i pozzi perché porta il dibattito pubblico dentro il nulla delle prese di posizioni apodittiche ed assolute, che racchiudono la critica a quello che può essere etichettato come “il modernismo post sessantottino che ha distrutto la scuola”.
La scuola non è ancora distrutta, ma è sulla buona strada e tutto questo insulso cicaleccio non documentato porta l’attenzione altrove, non sui problemi veri. Però allo spazio che le celebrità hanno corrisponde solo uno spazio di nicchia e per gli addetti ai lavori di chi prova a rispondere: nelle lotte impari di solito vince Golia. E qui siamo “di solito”.

LIBRI E SMARTPHONE

            Chiunque viva nella scuola sa il peso che ancora ha la carta stampata: libri di testo, libri delle biblioteche, fotocopie, quaderni. Il passaggio al digitale è in troppi casi troppo lento e le poche competenze di molti docenti portano la questione solo sul piano disciplinare e punitivo. Credo però che – al di là del pensiero sul libro di carta e sullo smartphone – alcuni elementi dell’attuale società siano facilmente visibili.
I figli dei ricchi, i figli delle famiglie benestanti o del ceto medio hanno un rapporto abbastanza ordinato sia con la carta, sia con lo smartphone. Vivono in contesti culturali buoni o accettabili che gli permettono la scelta quando questa deve essere fatta, che possono spaziare tra i libri e lo smartphone, che hanno tempi di attenzione adeguati o adeguabili. In questo momento storico i poveri e i figli dei poveri (soprattutto di quelli di spirito) e quasi tutti gli stranieri, hanno come unico riferimento culturale lo smartphone.
La cultura popolare è “cultura del telefonino”, i ragazzi girano costantemente connessi e controllano tutto dentro lo smartphone. La scuola che si rifiuta di educare all’uso didattico e culturale di questo mezzo in virtù di un richiamo alla carta che ormai tutti usiamo in forma mista (un po’ di carta e un po’ di web) si rifiuta di occuparsi della cultura degli ultimi, di quelli cioè che hanno il riferimento solo nel web.
Io invito chi vuol vietare l’uso dello smartphone in classe a entrare nella logica di chi ormai si affida solo allo smartphone e di verificare realmente se questo soggetto – soprattutto se giovane – è disponibile a spostarsi sul libro (uno solo, quello di testo) solo perché costretto. La battaglia è educare all’uso dello smartphone in senso formativo e culturale, far capire ai ragazzi la possibilità di essere connessi sempre ad una biblioteca universale, far comprendere gli spazi di cultura, come si trovano, come si leggono, come si usano.
Invece vedo venire avanti ignobili crociate – tutte snob – per proibire, cercando di far credere che la scuola possa fermare il futuro semplicemente chiudendo gli occhi (e le connessioni). In questo modo di pensare c’è la violenza elitaria di chi comunque avrà sempre a disposizione le connessioni e deciderà di non usarle, incurante di chi ormai ha solo la connessione per collegarsi col resto del mondo e per sfiorare la cultura. Solo una reale pedagogia del BYOD (Bring You Our Device) allontanerà i poveri dall’abbruttimento del web.

Dirigendo da molti anni Istituti comprensivi vedo quotidianamente bambini connessi figli di persone giovani sempre connesse, sempre attive con foto e selfie, sempre attente a documentare tutto, soprattutto quello di cui non sanno cosa farsene. Proprio in queste famiglie e soprattutto se povere va inserita una pedagogia del BYOD attraverso i figli, così come si è introdotta la cultura della raccolta differenziata attraverso i bambini (grande vittoria della scuola che nessuno rivendica mai).
L’incredibile snobismo di molti intellettuali gli fa scambiare il mondo per aule universitarie, per le biblioteche silenziose, per le librerie affollate e per i concerti di musica da camera. Ma c’è anche il mondo dei selfie e dei tatuaggi, di Istagram e di Facebook, di WhatsApp e della navigazione costante che deve trovare una nuova pedagogia se non vuole sprofondare nel baratro delle fake news diventate realtà (siamo purtroppo sulla buona strada).

PROMOSSI E BOCCIATI

L’altro atroce ritornello è quello che continua a battere sulle troppe promozioni. Il dato banale di partenza è quello che vede l’Italia molto in coda nella lotta alla dispersione scolastica e quindi un aumento delle bocciature la metterebbe ancora più in coda. La tesi criminale però non è questa: è quella che vede nelle bocciature una possibilità di migliorare il sistema. Nessuno spiega perché diventiamo migliori se bocciamo più studenti, ma nessuno spiega neppure perché gli studenti medi o bravi diventano migliori se bocciamo di più quelli più deboli. La spiegazione è molto banale: dato che ai più bravi non siamo in grado di dare nulla (paralizzati come siamo da una cultura del posto fisso cui si accede soprattutto per anzianità o per sanatoria) gli diamo lo “scalpo” (bocciatura) dei peggiori.
E questo porta a far credere che un “9” vale di più se ci sono almeno dieci “4” per cui la battaglia non è quella di pretendere di più dai migliori, ma quella di pretendere di bocciare di più.
Si dice “alzare” l’asticella: ma si dice sbagliato, perché siamo di fronte ad un “abbassare l’asticella”, quella della dispersione scolastica (così va in dispersione più gente possibile). Inoltre la scuola italiana non ha alcun piano per i suoi bocciati, se non la speranza che facciano meglio l’anno dopo.
In questa incredibile discesa verso gli inferi nessuno ha prodotto un’analisi del percorso scolastico del milione di NEET (Neither in Employment nor in Education or Training: non studia e non lavora), cioè di quei ragazzi che non studiano e non lavorano e stanno per lo più seduti sul divano a chattare e a navigare su siti pieni di fake news.
Se fosse possibile mettere pubblicamente in relazione la debolezza italiana nella lotta alla dispersione scolastica, la mancanza di un progetto di recupero reale per i bocciati, l’inesistenza di riconoscimenti reali a migliori, la debolezza dei percorso scolastici dei NEET forse il discorso pubblico uscirebbe dal nulla dei richiami degli intellettuali snob alla bocciatura di coloro che ormai vivono connessi agli smartphone senza sapere come usarli.

PROGETTI E STUDIO SERIO

Il sapere evoluto si evolve per progetti, i problemi si risolvono con i progetti, le soluzioni si sperimentano con i progetti, l’inclusione avviene per progetti (visto che la serialità ha prodotto esclusione), le personalizzazioni avvengono per progetti, la ricerca avviene per progetti. Dire “progetto” non vuole dire niente, se non si precisa progetto di cosa, ma anche in questo caso una parte intellettuale – sia interna sia esterna alla scuola – scambia la propria incapacità a lavorare per progetti nella battaglia ai “progettifici”.
Questo lo si è visto molto bene nei PON, dove sia l’Autorità di gestione, sia il Miur, sia le Scuole non hanno saputo spiegare a docenti e studenti cosa si stava cercando di fare. Così si sta sviluppando l’idea che si fanno progetti se non si ha di meglio da fare e che i progetti tolgono tempo alla scuola seria.
Senza progetto non c’è più cultura, c’è solo un affastellarsi di conoscenze, letture, metodologie, memorie, nostalgie. I progetti spingono allo studio serio e infatti gli studenti coinvolti nei progetti lavorano molto meglio che se coinvolti ad ascoltare lunghe lezioni frontali.
Anche in questo caso noi abbiamo una parte della popolazione (quella ricca) che vive dentro progetti di vita (le scuole per il futuro, il lavoro come scelta, le vacanze come letture del mondo, le lingue come bagaglio necessario, ecc.) e un’altra parte che rimane sempre a casa ed è sempre connessa senza nessun progetto (in attesa forse di un reddito, non di una cittadinanza).
La scuola non ha più bisogno di riforme, ma ha bisogno di progetti: solo con quello potrà analizzare bisogni e problemi e potrà dare risposte.
Altrimenti si va avanti per sentito dire, lamentandosi che non c’è più l’ascensore sociale: per forza, è sempre occupato dagli intellettuali che ce l’hanno fatta (e dai ricchi che comunque hanno i soldi per costruirselo).




Gianni Rodari: un classico modernissimo

rodariIl 2020 sarà l’anno rodariano e già da settembre molte scuole, soprattutto del primo ciclo, inizieranno a lavorare per preparare le celebrazioni di quello che è ormai riconosciuto come il più importante scrittore italiano per l’infanzia del 900.
Reginaldo Palermo ne parla con Pino Boero, docente di letteratura dell’infanzia presso l’università di Genova e profondo conoscitore dell’opera e del pensiero di Gianni Rodari.
Clicca qui per leggere l’intervista pubblicata sul portale di Tecnica della Scuola 




Dalla comunità scolastica alla comunità sociale

di Dino Cristanini

La storia della pedagogia moderna individua in John Dewey uno dei massimi ispiratori della concezione della scuola come comunità. Nelle righe conclusive di Democrazia ed educazione, una delle sue opere più note scritta nel 1916, si legge infatti che “la scuola stessa diventa una forma di vita sociale, una comunità in miniatura, una comunità che ha un’interazione continua con altre occasioni di esperienza associata al di fuori delle mura della scuola”. Sperimentare la democrazia a scuola, per trasformare in senso democratico la società, era l’ideale deweiano, ripreso in Italia dalla pedagogia laica negli anni sessanta e tuttora valido, come conferma un passaggio delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione: “La presenza di comunità scolastiche, impegnate nel proprio compito, rappresenta un presidio per la vita democratica e civile … rafforzando la tenuta etica e la coesione sociale del Paese”.

Il brano sopra riportato è ripreso da un ampio articolo di Dino Cristanini in Scuole e Formazione (2016)

 




Tanti maestri o “il” maestro ?

di Giancarlo Cavinato (Movimento di Cooperazione Educativa)

Quanti ‘maestri’ che ammanniscono soluzioni a una scuola in difficoltà! Manca solo ancora una proposta del Ministro dell’Interno.

L’ articolo di Recalcati pubblicato su Repubblica qualche giorno addeitro offre alcuni spunti di riflessione/reazione.
Le tesi di Recalcati (il ruolo del ‘maestro’, la lezione tradizionale, la cattedra, i diabolici social,..) richiamano alla mente quella metodologia nota come apprendistato cognitivo[1]. Io, docente (di scuola secondaria) ti faccio vedere come faccio io a smontare e rimontare un testo, la mia interpretazione. Poi sei tu che devi provare.
E qui la proposta può prendere strade diverse a seconda che l’invito sia ‘fai come me’ cioè imita, o ‘scegli tue specifiche strategie di lavoro sui testi’ cioè rielabora e sperimenta. Con risultati ovviamente diversi.
Che non possono essere tutti omologati sotto la categoria della ‘lezione tradizionale’.

Inoltre Recalcati, come molti degli insigni polemisti intervenuti in questi giorni sulla stampa, non ha forse ben presente la realtà della scuola secondaria di secondo grado (anche di primo grado) in cui non opera in solitudine ‘il’ Maestro, ma una pluralità di figure docenti (a differenza che in altri paesi) ognuno per sé operante e seduto sulla pedana. Con grandi disparità di atteggiamenti e improbabili forme di raccordo e integrazione disciplinare e interdisciplinare. Mentre la lezione a cui aspira Recalcati dovrebbe vedere una pressoché unica maieutica figura che, come Robin Williams nei panni del professore dell’’Attimo fuggente’, sappia estrarre il meglio dai suoi alunni e dalla letteratura ( ma come la mettiamo con il transfer, Professore?).

Però dal funzionari del MIUR, in occasione della progettata riduzione di un anno dei licei, la scuola è stata caldamente e ripetutamente sollecitata ad adottare la metodologia della flipped classroom [2] che prevede l’abbandono dell’insegnamento trasmissivo comunque impartito e l’impiego delle tecnologie digitali. Come la mettiamo con l’accorato appello di Recalcati e di tanti altri maîtres à penser che imperversano in questi giorni contro la pedagogia attiva rovesciando il rapporto fra cause ed effetti?

Qualcosa non torna.

C’è però un aspetto che mi sfugge, forse mi sono perso qualche passaggio. Quando mai la scuola (secondaria, ma non solo) ha dismesso la pratica della lezione tradizionale, se non nell’attività di qualche sparuta ‘avanguardia’ docente? Dove, quando la didattica operativa, corporea, la linguistica testuale, la ricerca hanno sopraffatto i sostenitori dell’insegnamento ex cathedra?

I frutti di tale permanenza dell’ora di lezione congiunti e potenziati dall’epidemia di verifiche sono appunto quelli evidenziati dagli esiti Invalsi. Quindi verso chi è diretta la polemica degli ‘amici della predella’? [3]

Non riconoscere limiti e potenzialità (che nella scuola ci sono ma spesso ostacolate o misconosciute) è uno dei grandi omissis di questi interventi che tendono solo a mettere in luce un malanimo generalizzato verso ogni forma di egualitarismo e giustizia sociale.

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note

[1] Teoria derivata dal costruttivismo sociale ad opera dei ricercatori americani Allan Collins, John Seely Brown e Susan Newman.. E’ una proposta di organizzazione delle attività didattiche secondo la pratica dell’apprendistato tradizionale, della cosiddetta “bottega artigiana”, della didattica basata sulle competenze, di un approccio attento agli aspetti metacognitivi e ai diversi contesti di applicazione dei concetti acquisiti.

[2] L’insegnamento capovolto (flipped teaching) si propone come un modello di sperimentazione della classe del futuro attraverso una rivoluzione della struttura della lezione, ribaltando il sistema tradizionale che prevede un tempo di spiegazione in aula da parte del docente, una fase di studio individuale da parte dell’alunno a casa e successivamente un momento di verifica e interrogazione nuovamente in classe.
L’insegnamento capovolto nasce dall’esigenza di rendere il tempo scuola più funzionale e produttivo per il processo d’insegnamento-apprendimento, investendo le ore di lezione nel risolvere i problemi più complessi, approfondire argomenti, collegare temi e analizzare i contenuti disciplinari, produrre elaborati in gruppo e in modalità peer to peer in un contesto di laboratorio assistito. Nella flipped lesson (“lezione capovolta”), il docente non è più un semplice “dispensatore di sapere”, ma assume un ruolo di guida e di tutor fornendo agli studenti la propria assistenza in aula per fare emergere osservazioni e considerazioni significative attraverso esercizi, ricerche e rielaborazioni learning by doing (“apprendimento mediante il fare”) condivise.
Lo strumento impiegato in questo tipo di didattica è soprattutto il “video” – nella forma di tutorial-video o di video-lezione – oltre ad altre risorse multimediali, sia realizzate dal docente stesso sia semplicemente da lui distribuite attraverso piattaforme di e-learning,

[3] Cfr. l’ articolo uscito sul sito www.laudes.it ‘Di nuovo sulla decadenza della scuola’ e articoli sul sito GISCEL