Il libro cartaceo non è affatto superato. Intervista a R. Maragliano

Segnaliamo ai nostri lettori una interessante intervista che Roberto Maragliano ha rilasciato ad Alessandro Giuliani, direttore della rivista on line Tecnica della Scuola

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Sbaglia chi pensa che il libro sia uno strumento formativo superato: va considerato una tecnologia, come lo è un computer o una Lim. A spiegare perché è Roberto Maragliano, pedagogista, già ordinario a Roma Tre ed esperto di nuove tecnologie in ambiente formativo.

Professore, quali sono i problemi connessi alle tecnologie applicate alla didattica?
Sono problematiche complesse, non riassumibili con una formuletta. Partiamo dal concetto che il libro è una tecnologia, quindi scegliere il libro come alternativa al mondo esterno, dominato dalle cosiddette nuove tecnologie, vuol dire comunque fare una scelta tecnologica. Io penso che la scuola abbia bisogno di aprirsi alla varietà delle tecnologie, che comporta una varietà dei contenuti, dei saperi e delle modalità didattiche. È chiaro, però, che la tecnologia digitale mette in discussione degli aspetti di organizzazione dell’attività didattica.

Non è quindi un problema solo di risorse?
No. È soprattutto un problema di mentalità, di cultura, di contenuti, di curricoli, di atteggiamento dei docenti. E, più in generale, è un limite della cultura della nostra società.

Cosa potrebbe fare il ministero dell’Istruzione?
Intanto, avere un atteggiamento più aperto nei confronti del mondo esterno alla scuola e fare un’azione di promozione, anche a livello degli intellettuali e universitari, che permetta di rendere meno drammatico e angoscioso il rapporto con l’universo odierno dominato dalla Rete, dalla multimedialità e dalle tecnologie digitali.

Clicca qui per leggere l’intervista completa (anche in VIDEO)




Il caso del bambino morto a Milano: centralità dell’infanzia, ma solo a parole

bambini_scuoladi Gianfranco Scialpi

La centralità dell’infanzia: se ne parla spesso. Difficilmente però diventa una priorità, declinata in un’attenzione continua che porta a provvedimenti operativi. L’ultimo caso è rappresentato dalla tragedia dell’alunno precipitato. La centralità dell’infanzia, un tema per parolieri La centralità dell’infanzia, tema che riempie la bocca di politici e formatori.

Sul tema chi potrebbe non essere d’accordo?
Si parla di persone indifese e significativamente dipendenti dagli adulti. Rappresentano una dimensione spesso dimenticata o che si eclissa, quando si diventa adulti.
Questa realtà convive con le contraddizioni, le nevrosi, le paure trasmesse dalla famiglia o delle sue diverse declinazioni postmoderne. Chiedono attenzione e ascolto del loro mondo fatto di colori e stupore verso i piccoli eventi della quotidianità. Sono una domanda aperta alla vita con le sue contraddizioni (dolore e morte) che spesso sono censurate e rimosse.


Gli adulti che costituiscono la società civile dovrebbe prendersi cura dei suoi bambini, parlandone spesso, rimuovendo criticità e prospettando soluzioni.
Dopo le parole e le dichiarazioni il Nulla! E invece? L’infanzia è una realtà, una presenza che riesce solo a commuovere. L’interesse è circoscritto ai sentimenti e ai discorsi di facciata. Difficilmente il sentimento diventa razionalità pratica. Con i dovuti distinguo, siamo di fronte all’esempio dove esiste una frattura tra la teoria e la prassi. In altri termini, la parola non diventa carne.
L’ultimo esempio è la tragedia del bimbo precipitato dalle scale. Tanti i discorsi, la commozione per una vita stroncata. Alcune vanno oltre, il sentimentalismo, accennando alle possibili cause. E’ il caso del Ministro Fioramonti o dell’On. Sgambato (Pd).
Quest’ultima ha dichiarato: “Ci sarà un colpevole. C’è sempre un colpevole. La dirigente, la maestra, il vecchio bidello. Ma quando muore un bimbo nel posto che dovrebbe essere il più sicuro e il più accogliente, ecco, allora il colpevole, quello vero, è fuori dalla scuola. È di chi non ha considerato, in tanti anni, la scuola e la drammatica carenza negli organici, docenti e ATA, il problema principale del Paese.”
Bene l’analisi non seguita, però da nessuna decisione politica che migliori concretamente la situazione. Stesso atteggiamento i mass-media. Dopo la notizia della tragedia e della morte del bambino, si è tornati a parlare e a organizzare talk-show sulla politica, l’economia.
In altri termini il presente è tornato padrone del palcoscenico!
Parafrasando un lavoro di N. Postman siamo di fronte all’ultimo esempio della scomparsa dell’infanzia che rimanda all’eclissi del futuro. Non potrebbe essere diversamente per un Paese sempre più per vecchi che non ha nessuna voglia di guardare dalla finestra, accontentandosi di quello che offre la propria abitazione (presente).




Scrittura collettiva

abcdi Giancarlo Cavinato

Molteplici sono le possibilità offerte dalla circolarità e dall’interazione consentite da spazi dedicati allo scrivere insieme. Nella classe Freinet si valorizzano i processi individuali, ma anche i processi di gruppo, le interazioni, le negoziazioni e condivisioni di significati. Freinet propone che i testi dei singoli ragazzi siano ‘corretti’ (messi a punto) dall’intera classe attraverso discussioni, revisioni, ristrutturazioni di parti del testo per migliorarlo.
Nel MCE la composizione collettiva di testi, poesie, relazioni di esperienze ha sempre avuto spazio. Ma la tecnica (o meglio l’arte) dello scrivere a più mani trova alcuni punti fermi nella corrispondenza fra classi e gruppi di ragazzi e in alcune proposte che hanno segnato un ruolo fondamentale nella didattica e nella pedagogia della scrittura.

Mario Lodi, in visita a Barbiana, racconta che nella sua classe si scrive insieme un racconto, la sceneggiatura di un film, il resoconto di una discussione, una poesia, il report di un’esperienza. Racconta come è nato Cipì. Riceve una lunga lettera.

La scuola di Barbiana. NOI SI FA COSI’
«Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola»
(lettera dei ragazzi di d. Milani a Mario Lodi)

LA LETTERA COLLETTIVA
La collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi è risultata d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori. Quando si leggono ad alta voce le venticinque proposte dei singoli ragazzi accade sempre che o l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore.
( Lettera di d. Milani a Mario Lodi)

L’ARTE DELLO SCRIVERE
Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre.
 In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che
 non si è ancora detto, cercare di dire col minimo di mezzi. Cercare 
di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative, i periodi troppo lunghi, ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero,
 se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.
 L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci
( lettera di d. Milani a Mario Lodi)
( da ‘L’arte dello scrivere’ a cura di Cosetta Lodi e Francesco Tonucci, ed. Casa delle arti e del gioco, 2017)

GIOCO E MAGIA DELLA SCRITTURA COLLETTIVA
Paul Le Bohec, maestro francese del movimento Freinet, a lungo collaboratore di Celéstin ed Elise Freinet, ha elaborato una propria proposta originale, un laboratorio di scrittura collettiva. Scrivere insieme in una situazione di libertà fa leva sul rapporto individualità-collettività, in quanto ognuno/a é se stesso/a in interazione con altri. Si gioca sulla sorpresa, sulla curiosità, sull’attesa degli effetti sempre diversi che si producono. Si supera il timore della scrittura, il panico del foglio vuoto. Si attiva l’evocazione consentita dalla parola (la parola evoca, rimanda, richiama…) e sul pensiero che la parola ‘trascina’ con sé. Si scopre come cambia il significato attribuito da ciascuno in base al cambiamento di contesto. Si sperimenta il piacere delle parole in libertà, delle infinite possibilità della scrittura, dello scambio e del dialogo con gli altri. Poiché la mente tende sempre a connettere, si costruiscono sempre nuove connessioni, fino a… costruire trame di parole legate in intrecci forniti di coerenza e coesione a partire dall’assenza di connessioni. Ma soprattutto in un clima di rispetto e di assenza di giudizio si libera la parola, l’espressione/desiderio/riparazione delle piccole e grandi frustrazioni e ferite della vita.

Si può giocare con giri di parole, giri di frasi, anche giri di” prese in giro’’ bonarie (se si è sufficientemente in confidenza…) o giri di complimenti; giri di versi poetici; infine con giri di racconti in cui ognuno/a aggiunge una parte e via via storie inattese si configurano per magia. Si esplorano così le diverse dimensioni della scrittura cui faceva riferimento il gruppo francese dell’Oulipo: il rapporto con sé, con gli altri, con la realtà e il mondo, la trasfigurazione fantastica, l’espressione- creazione, le convenzioni da rispettare o da ‘rompere’, a volte anche il risarcimento dalle ferite e dalle ingiustizie della vita, si scopre come convivono in ognuno l’homo sapiens e l’homo demens… Data la possibilità di ‘nascondersi-confondersi’ nel gruppo l’individuo si lancia, emerge, affida i propri pensieri senza timore. Si sente protagonista, libero dal timore del giudizio, del confronto, della valutazione.

Scrive Franco Lorenzoni su Repubblica: ‘In un tempo in cui le imprese comunitarie sono guardate con sospetto, la pratica del testo collettivo può combattere le disuguaglianze.[…]Si tratta di offrire e costruire la più ampia libertà di scelta possibile per tutti.[….]Vorrei consigliare di sperimentare in classe, almeno una volta, la scrittura collettiva dandoci tutto il tempo che occorre, non solo perché è uno strumento efficace di affinamento della lingua, ma perché necessita di un ascolto reciproco attento, in primo luogo da parte di noi insegnanti. Dà inoltre voce e aiuta ogni allievo a sostare attorno alle domande, approfondire i concetti, mediare tra il proprio punto di vista e quello degli altri e imparare ad argomentare dando respiro al proprio pensiero.’




Intellettuali e scuola

di Stefano Stefanel

Proviamo a simulare un’ipotesi di lavoro (suffragata però da prove pubbliche – leggi articoli e libri – quasi inconfutabili) e proviamo a trarre delle conclusioni come se quest’ipotesi fosse reale. Per prima cosa costituiamo una squadra di intellettuali, che – a vario genere – negli ultimi tempi si sono occupati di scuola, anche con una certa invasività e sicurezza (che non è chiaro da dove gli venga). I nomi: Massimo Cacciari, Giovanni Floris, Susanna Tamaro, Paolo Crepet, Paola Mastrocola, Umberto Galimberti, Alessandro D’Avenia, Ernesto Galli Della Loggia, Angelo Panebianco.

Simuliamo sei domande e proviamo a prevedere sei risposte.

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Poiché sono fermamente convinto che andrebbe così adesso provo a capire come sia possibile dare risposte contraddittorie, creando di fatto un corto circuito interpretativo, pur nell’ambito di un pensiero complesso ma ben organizzato. E’ abbastanza agevole comprendere come non si possa combattere la dispersione bocciando di più, come non si possano migliorare le competenze informatiche vietando l’uso degli strumenti multimediali (device) a scuola, come sia impossibile cementare competenze solide e spendibili se non si lavora nell’ambito di una didattica per competenze. Riconosco che è più complesso comprendere come questi pensieri contraddittori possano convivere nella stessa mente o nella stessa persona: è vero che siamo dentro una simulazione, ma è anche vero che gli intellettuali citati (compresa la più estremista e reazionaria tra tutti, Paola Mastrocola) più volte e pubblicamente si sono espressi sui temi che ho citato, con argomenti che si possono far risalire alle mie ipotetiche domande.

Provo ad individuare alcune interpretazioni che riporto di seguito. La prima interpretazione si lega ad un’idea elitaria e universitaria di cultura, per cui non si possono dare patenti di alcun genere agli ignoranti e per cui una volta stabiliti degli standard intellettuali chi non li raggiunge deve essere bocciato. Questa idea intellettuale cozza contro la realtà pratica in cui né il Ministero italiano, né l’Unione Europea, né l’Ocse, né l’Onu si sono mai sognati di fissare questi standard culturali, che invece gli intellettuali italiani ritengono di avere bel saldi in testa. Per cui credo che veramente l’intellettualità italiana (rappresentata sul fronte della pubblicistica scolastica da chi ho citato), che per lo più insegna nelle Università, ritenga che bocciando di più si produce minor dispersione, perché i bocciati capiscono che si fa sul serio e si mettono a studiare. Così come ritengo che molti intellettuali e troppi insegnanti pensino che vietando l’uso dello smartphone a scuola e costringendo soggetti digitalizzati ad utilizzare i libri si migliori lo studio e si potenzino le competenze digitali. Secondo questo pensiero dovrebbe accadere che, al pomeriggio, quando tutti gli studenti sono connessi mentre fanno i compiti per casa e studiano, l’uso consapevole del web migliora perché attraverso la repressione gli studenti comprendono la necessità di un uso selettivo e culturale del web. Infine credo che tutti gli intellettuali (me compreso se posso ritenermi tale) non si farebbero mai aggiustare un impianto elettrico rotto o trapanare un dente cariato da un soggetto non competente, ma dotato di molte conoscenze e molte abilità, però ugualmente la crociata contro le competenze sta facendo strada. Alla base di un pensiero contraddittorio, spacciato per realistico e coerente, c’è in questa prima interpretazione la certezza che se si comunica in modo preciso e deciso che bisogna studiare tutti gli studenti immediatamente si mettono a studiare. E’ la vecchia idea delle elite, che sanno più del popolo cosa serve al popolo.

La seconda interpretazione è più impietosa: chi più chi meno gli intellettuali sono comunque tutti benestanti o ricchi. Lo sono diventati per merito e studiando (qualcuno con qualche scorciatoia, ma niente di che, comunque i migliori vanno avanti) e dunque si stupiscono di come non sia evidente a tutti che studiando si raggiunge anche un benessere economico che, ovviamente, permette di ragionare sul mondo e non solo su come sbarcare il lunario. Poiché, ovviamente, primum vivere, deinde philosophari l’intellettualità italiana non si capacità di come una fetta consistente di studenti si accontenti del vivere, traguardo in sé non difficilissimo da raggiungere in una società occidentale come è quella italiana, e non decida di investire per poter “filosofare” a portafoglio pieno. Il punto di partenza per cui in Italia ci sono oltre un milione di giovani Neet (cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano), che le competenze digitali degli italiani sono deboli rispetto a quelle dei giovani degli altri paesi dell’area Ocse e che il mondo cerca competenze certificate e spendibili interessa poco o niente, perché i tre problemi non vengono rapportati alle bocciature, alla proibizione dell’uso dello smartphone a scuola, della repulsione della scuola italiana (in molta parte) per il concetto di competenza, vista come una sorta di diavoleria tecnica priva di contenuti reali.

La terza interpretazione è che il mondo universitario e della comunicazione scritta sia uscito dalla percezione dei problemi reali della scuola che ha quotidianamente a che fare con otto milioni di studenti di tutti i tipi, mentre l’intellettualità italiana ha a che fare con studenti universitari lontani dai problemi della scuola di base (quella dei BES, dei Dsa, dei diversamente abili, degli stranieri di prima e di seconda generazione, degli stranieri senza conoscenze di lingua italiana, dei bambini e dei ragazzi figli di famiglie dedite ai selfie e a whatsapp e non alla lettura di qualsivoglia cosa sia stampata su una carta, con la sola eccezione forse degli scontrini fiscali). Quindi i ricchi possono scegliere tra carta e web e possono trovare nella scuola un utile accompagnamento per la scelta migliore, i poveri stanno tutti ammassati nel web abbandonati dal sistema dell’istruzione e selezionati da una società che si rifà a modelli intellettuali del secolo scorso.

La lettura dei testi prodotti dagli intellettuali citati sulla scuola mostrano una grande incomprensione di quello che è il suo essere un fenomeno obbligatorio e di massa. Mi pare sfuggono loro alcuni concetti-base: l’obbligo non può accompagnarsi alla selezione, un sistema che lascia indietro le persone è un sistema che poi ne pagherà le conseguenze, la cultura è un punto di arrivo non di partenza. Però i miei vagiti di nicchia nulla possono contro i tuoni della potenza mediatica loro (giustamente) concessa. E dunque il loro pensiero – folle e distruttivo – sta entrando sempre più nell’immaginario comune, anche di coloro che lavorano a scuola. Questo immaginario è purtroppo anche attratto dall’idea che, dato che l’insegnante e la scuola hanno perso la grande stima sociale che un tempo avevano, bisogna mettere in atto qualche vendetta e far capire con la forza quello che con la persuasione, la didattica e la pedagogia non si è riusciti a far capire.

 




Manifesto per una educazione linguistica democratica

EDUCARE ALLA PAROLA
PER COLTIVARE UMANITA’ E COSTRUIRE CULTURA
MANIFESTO PER UNA EDUCAZIONE LINGUISTICA DEMOCRATICA

Proponiamo ai nostri lettori il manifesto con cui il Movimento di Cooperazione vuole ribadire l’importanza di un modello democratico di insegnamento della lingua.
Ma soprattutto chiediamo ai nostri lettori di sottoscriverlo compilando il form disponbile qui.

Il manifesto e il modulo per aderire sono disponibili anche in una apposita pagina del sito del Movimento di Cooperazione Educativa

Il Movimento di Cooperazione Educativa con questo Manifesto si rivolge al mondo della scuola -insegnanti, alunni/e, dirigenti, genitori- al mondo della cultura e della ricerca, a chi ha la responsabilità di predisporre condizioni favorevoli alla crescita culturale nei territori e nella scuola –amministratori, politici, professionisti…-, a tutti i cittadini/e, in particolare a coloro che guardano con inquietudine l’uso violento e discriminatorio del linguaggio che si va diffondendo e le proposte affrettate che invitano a risolvere semplicisticamente con un insegnamento trasmissivo il problema della povertà linguistica diffusa.


1. EDUCARE ALLA PAROLA

Educare alla parola per coltivare umanità e costruire convivenza civile
Crediamo che educare alla parola nelle nostre società multiculturali significhi occuparsi del futuro: avere la visione di una società futura, più solidale e più giusta, che vogliamo costruire, volgere lo sguardo verso un orizzonte di pace in cui la comunità umana intraprenda un cammino di consapevolezza delle diverse storie plurali e accolga la ricchezza di voci e di lingue che abitano il pianeta.

Poiché crediamo nel linguaggio come strumento di costruzione culturale e nella possibilità di resistere a un uso dell’insegnamento della lingua come strumento di divisione, proponiamo un’educazione alla parola che sia la premessa necessaria per sostenere ideali di convivenza civile, atteggiamenti di rispetto, di solidarietà, di ospitalità nei confronti di tutti/e.

Crediamo che la parola, che consente di condividere l’esperienza, di vedere e far vedere l’invisibile che accompagna l’esperienza, i pensieri e le emozioni, la sofferenza e la gioia, abbia un posto centrale nella nostra vita e debba occupare un posto centrale nella scuola.
Crediamo che l’educazione alla parola vada promossa, oggi, affrontando la complessità del presente, senza negare i conflitti che lo caratterizzano e prendendoli in carico, ma senza rinunciare a coltivare umanità e capacità di condivisione di senso e che la democrazia non può che fondarsi sulla parola, nello spirito del dialogo paritario.
Educare alla parola per coltivare il pensiero critico
Poiché esiste un legame inscindibile tra linguaggio e pensiero – la parola sostiene il pensiero, il pensiero non può che appoggiarsi alla parola per esistere ed essere comunicabile – crediamo che la conquista consapevole e generalizzata della parola e dei linguaggi, di tutti i linguaggi da parte di tutti e tutte, sia strumento di emancipazione e costituisca una difesa dagli usi manipolatori e falsificanti della comunicazione.
Poiché il linguaggio contribuisce a comunicare la realtà sociale ma anche a costruirla, crediamo che educare alla parola, ad usare parole diverse da quelle legate a generalizzazioni superficiali e acritiche, a categorizzazioni indebite e ad atteggiamenti etnocentrici sia cruciale per contrastare la semplificazione con cui viene ridotta, spesso, la complessità che ci coinvolge.
Crediamo che educare alla parola possa aiutare a nominare soggetti, situazioni, eventi in riferimento a categorie linguistiche e concettuali costruite sulla base dell’esperienza e della riflessione, esercitando l’analisi e svelando i criteri retrostanti le scelte linguistiche e gli atteggiamenti profondi che ne stanno alla base: timore, empatia o rifiuto, vicinanza o lontananza mentale e relazionale.
Crediamo che educare alla parola possa aiutare a smascherare usi superficiali e tendenziosi del linguaggio che possono indurre a trovare normali molti atteggiamenti – ed espressioni – che stanno prendendo piede: considerare criminali intere categorie di persone a prescindere dal loro operato, pretendere che ci sia qualcuno/a che deve venire prima di altri/e nel godimento di diritti fondamentali, finanche del diritto alla sopravvivenza, pensare che ci sia un diritto al respingimento di chi cerca la salvezza, … Si tratta di smascherare e denunciare l’uso ingannevole della parola e guardare le situazioni quotidiane a prescindere dalla semplificazione dell’abitudine e del linguaggio abituale, si tratta di sbanalizzare l’ovvio assumendo un atteggiamento di straniamento: non a caso riflessioni fondamentali sullo straniamento sono state proposte dalla narratologia, quindi dagli studi sulla lingua.
Per questo crediamo che una scuola che educa il pensiero debba essere una scuola che si prende cura della parola, del suo uso consapevole e responsabile, e della necessità di indagare continuamente sui significati. Si tratta di costruire atteggiamenti liberi da stereotipi e pregiudizi e disponibilità a confrontarsi con diverse letture possibili della realtà, ampliando la percezione. In questo senso l’educazione al pensiero critico, attraverso la parola, diventa pratica di democrazia.
Mettere l’educazione linguistica al centro della scuola
Proponiamo che l’educazione linguistica sia messa al centro della scuola in questo momento in cui i contesti sociali e scolastici sono caratterizzati dalla presenza di culture e lingue diverse, diversi linguaggi e modalità comunicative: educare alla parola è educare all’arte della convivenza.
Sulla base delle ricerche di De Saussure consideriamo la lingua un sistema complesso formato da linguaggi verbali e non verbali. La pratica didattica del MCE, partendo da questa considerazione, cerca di tener presente questo aspetto poliedrico della lingua, le interrelazioni e gli intrecci tra i diversi linguaggi comunicativi/espressivi, la musica, l’arte, l’immagine, il teatro… Crediamo che scegliere questa prospettiva favorisca l’ inclusione, arricchendo e potenziando la proposta educativa, per dare più opportunità a tutti e tutte.
Essendo la lingua trasversale a tutti gli ambiti proponiamo che dell’educazione alla parola si occupino tutti/e gli /le insegnanti, di tutti gli ambiti e di tutte le discipline, possibilmente in un lavoro cooperativo e di ricerca.
Proponiamo che a questo apprendimento sia dedicato tutto il tempo necessario: il giusto tempo per il dialogo, per la lettura come piacere e come costruzione della conoscenza, il giusto tempo per confrontarsi sui significati delle parole e per capire, per elaborare narrazioni e riflessioni, per godere della bellezza delle espressioni artistiche fatte di parole, per esplorare scientificamente il territorio complesso e affascinante dei codici linguistici, non cedendo all’impulso di semplificare e di ridurre l’apprendimento ad addestramento meccanico e alla conoscenza di un unico modello di lingua considerato immutabile e altro da sè.
Proponiamo che sia rispettato il diritto alla lentezza, come condizione per consentire alla mente di svolgere la sua funzione linguistica di interpretare (e trasformare) il mondo. Il tempo del pensiero, così come il tempo del camminare, il tempo della crescita e il tempo del respiro sono tempi che segnano la vita dell’essere umano da sempre, non possono essere accelerati a piacimento. Capire le parole e trovare parole giuste ed efficaci sono operazioni che richiedono la pazienza e l’umiltà del provare- confrontarsi- riprovare, sorretti/e dal desiderio di coniugare la bellezza e l’efficacia.
Proponiamo che a ragazzi/e e adulti accolti/e nel difficile cammino dell’educazione alla parola sia garantito il diritto all’uso e all’apprendimento della lingua in un percorso di ricerca libero dal timore del giudizio, della sanzione, della valutazione negativa.
Sulla base della lunga esperienza e della ricerca di insegnanti, educatori/educatrici e linguisti, rifiutiamo l’affermazione secondo cui l’obiettivo dell’inclusione e del massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti/e e l’obiettivo della qualità della proposta educativa e didattica siano inconciliabili.
Crediamo che il cammino verso questi grandi traguardi possa essere intrapreso, nella scuola e nei luoghi che si occupano di educazione linguistica, curando piccoli passi quotidiani: ossia costruendo, con le proposte didattiche di ogni giorno, contesti scolastici cooperativi e usando strumenti di lavoro adeguati.

2. QUALE SCUOLA PER EDUCARE ALLA PAROLA
Una scuola dell’ascolto e del dialogo
Una classe dove si vivono cooperazione e democrazia non può essere una classe in cui vige la regola del silenzio, in cui si ignorano le ragioni delle proprie e altrui diversità, in cui non si mettono a confronto i diversi percorsi di pensiero. Riteniamo perciò fondamentale riconoscere e garantire a tutti/e il diritto di parola e, reciprocamente, il diritto – dovere di ascolto. Il dialogo e il confronto permettono la conoscenza reciproca che genera fiducia e sono alla base della costruzione della conoscenza.
Consideriamo la comunicazione orale un aspetto fondamentale dell’educazione linguistica: non solo presupposto indispensabile per acquisire competenza nella lingua scritta, ma anche competenza fondamentale di per sé, da curare in tutti gli ordini di scuola. Narrare, argomentare, esporre il proprio pensiero, discutere, parlare in pubblico, prendere la parola in assemblea, condividere esperienze ed emozioni sono irrinunciabili nella scuola cooperativa così come sono fondamentali nella vita sociale.
In ogni percorso di conoscenza la discussione sostiene l’articolarsi del pensiero, stimola i processi mentali, permette di interrogare la realtà scoprendone aspetti diversi e costruendo reti di significati che strutturano conoscenze, configurando il bisogno di porsi delle domande oltre che di cercare delle risposte.
Riteniamo, inoltre, la formazione al dialogo e dell’argomentare rigoroso indispensabili per la capacità di valutare e di scegliere, presupposti della partecipazione democratica.
Una scuola della narrazione
Narrare è un’attività relazionale, la comunità è fatta delle storie che condivide. Sono le storie che danno spazio a una pluralità di voci, idee, modi di essere e di vivere che, tutti, ci caratterizzano come umani. La narrazione consente di comporre in un’unitarietà leggibile la frammentarietà delle esperienze senza perderne la ricchezza.
Poter raccontarsi e raccontare, in qualsiasi forma, dà potere alle persone, le rende protagoniste e nello stesso tempo le avvicina agli altri, ascoltare racconti crea relazioni e apre ad altri mondi e ad altre esperienze.
Coltivare il bisogno e il piacere di raccontare, coltivare spazi di racconto, oltre che uno dei fini, è uno dei mezzi importanti per l’educazione linguistica -e non solo- a scuola. Il racconto porta con sé l’esperienza dell’ascolto che abitua a stare in relazione e a pensare in silenzio, a sentir risuonare dentro di noi, come un’eco profonda, immagini e parole che ci attraversano, mondi possibili ed impossibili che possiamo immaginare. Momento di conoscenza e di intreccio di esperienze, è, nello stesso tempo, un evento reale e una testimonianza che porta la memoria di altri luoghi, persone, eventi.
Ogni narrazione può avere cittadinanza nella scuola: le narrazioni della letteratura e del mito, come le narrazioni che ciascuno/a può offrire all’ascolto o incontrare nella lettura. La narrazione che ha per contenuto la quotidianità è fondamentale, aiuta la conoscenza reciproca e rafforza l’identità del gruppo, rivelando come ciascuno/a sia diverso e unico e nello stesso tempo simile a tutti/e gli/le altri/e, condividendone la comune umanità.
E’importante che, in tutti i luoghi in cui si intraprende un cammino di educazione alla parola, ciascuno/a trovi spazio modo e motivo per esprimersi e per desiderare di farlo in modi sempre più complessi e critici, senza sentirsi giudicato/a. Imparando, noi educatori/educatrici, ad esercitare la difficile arte di ascoltare perché si inizi, insieme, ad abbozzare la costruzione di un noi nuovo.
Una scuola in cui si usa la lingua per comunicare
La parola e la scrittura sono mezzi potenti che mettono in contatto gli esseri umani tra loro, ponti che permettono loro di incontrarsi.
Crediamo in una scuola in cui la parola e la scrittura vengano usate per comunicare, in cui la parola abbia spazio e le scritture vengano incoraggiate e accolte, in cui si lavori insieme per cercare di renderle sempre più efficaci, sempre più adeguate allo scopo comunicativo per cui sono nate. Ricercando anche la correttezza formale e l’adeguamento alle regole del codice, ma come un’esigenza che permette di rendere la comunicazione più efficace, non come il solo aspetto importante. Il lungo percorso verso la capacità di usare parole sempre più efficaci non può non prevedere l’errore, tappa inevitabile in ogni percorso di apprendimento, da non enfatizzare, sanzionare, criminalizzare, allontanando così dalla ricerca del piacere di comunicare con le parole.
La pedagogia Freinet e la pratica del MCE ci propongono alcune tecniche di vita che hanno anche un significato simbolico: il testo libero, la corrispondenza, il giornale scolastico, la scrittura collettiva, la messa a punto collettiva, il libro di vita della classe. Al di là dei mille modi diversi in cui possono essere realizzate e riattualizzate ci indicano una strada da seguire: dare spazio alla parola usata per l’espressione e la comunicazione, in situazioni reali, in situazioni di vita. Ci invitano, inoltre, a non dimenticare che le parole, nate perché negoziate da gruppi di umani per scambiarsi pensieri, possono essere apprese solo nello scambio e nel confronto: la competenza di tutti/e cresce e si affina nei confronti e negli scambi che si intrecciano nel gruppo, in una sorta di laboratorio artigianale in cui si ri-costruisce incessantemente una lingua comune in un continuo processo evolutivo.
Una scuola che accoglie le diverse lingue e le diverse competenze linguistiche presenti
Crediamo che in questo momento in cui i contesti sociali e scolastici sono caratterizzati dalla presenza di culture e lingue diverse, diverse modalità comunicative, differenti competenze, educare alla parola significhi educare al rispetto di tutte le lingue e delle diverse competenze presenti nella classe. Del resto, anche per quanto riguarda la nostra realtà, dobbiamo ricordare che essa è il frutto dell’incontro di molte varietà culturali e linguistiche, in parte tuttora presenti: pensiamo anche solo alla molteplicità dei dialetti che caratterizzano l’Italia, che hanno convissuto a lungo e tuttora convivono con un italiano assunto come lingua veicolare.
Ogni persona che arriva in una situazione scolastica, a qualsiasi età, è competente linguisticamente nella lingua madre -la lingua che ci plasma, che connota la nostra vita psicologica, i nostri ricordi, le associazioni, gli schemi mentali – e spesso, soprattutto quando si tratta di migranti, anche in altre lingue. Il rispetto e la tutela di tutte le varietà linguistiche, siano esse idiomi diversi o usi diversi dello stesso idioma, fa sì che nessuna lingua diventi un ghetto, una gabbia che separa, un ostacolo alla parità.
Una responsabilità importante della scuola è anche accogliere la differenza di chi ha una competenza linguistica di partenza meno adeguata. Sappiamo quanto la scarsa competenza linguistica possa pregiudicare tutto il percorso scolastico in modo rilevante creando disagi profondi. Sappiamo anche quanto la competenza linguistica sia legata, per tutti/e, alle condizioni fisiche, all’ambiente familiare e sociale di provenienza, al maggiore o minore benessere psicologico, alla ricchezza o povertà di esperienze, alla possibilità o meno di godere di relazioni significative, al maggiore o minore possesso di capacità concettuali e simboliche: condizioni che preesistono e permangono al di là dell’esperienza scolastica.
Ne deve derivare l’impegno, da una parte, a operare scelte, in campo metodologico e didattico, che aiutino tutti/e a migliorare la competenza comunicativa, dall’altra a rifiutare sia una valutazione sommativa fondata sulla presunta misurazione di risultati standard tramite ‘verifiche’ su segmenti di lingua scorporati dalla realtà della comunicazione, sia la rilevazione di inadeguatezze e carenze da classificare rigidamente in categorie e da trattare individualmente con interventi specialistici.
Crediamo, invece, nella possibilità di favorire la crescita delle competenze linguistiche per tutti/e all’interno di un contesto di lavoro cooperativo.
Crediamo che favorire l’espressione e lo scambio linguistico possa aiutare tutti/e a intraprendere con successo il cammino dell’educazione alla parola e contribuire ad attenuare l’emarginazione che genera sofferenza in chi non ha in partenza strumenti sufficientemente adeguati. Crediamo anche nell’aumento di opportunità che si produce in una scuola in cui sia presente una pluralità di linguaggi, verbali e non verbali e si sperimentino ‘contaminazioni’ fra lingue e linguaggi diversi. La capacità di capire e di comunicare è favorita, in un gruppo, dalla presenza di diverse lingue, la consapevolezza delle strutture della propria lingua emerge più facilmente dal confronto che mette in evidenza somiglianze e differenze tra lingue diverse e aiuta a scoprire potenzialità e vincoli della lingua personale.
Crediamo in una scuola che possa dare legittimità a diversità e differenze permettendo a tutti/e di esprimersi, comunicare, migliorare in competenza e consapevolezza sperimentandosi come cittadini/e attivi/e in grado di produrre cultura e bellezza.
Una scuola che considera ogni lingua un corpo vivo e un possibile oggetto di ricerca
Consideriamo la lingua non come un oggetto statico, un modello da conoscere ma come una realtà complessa e in mutamento in cui e con cui viviamo, e che ci plasma. E’ la casa comune che gli esseri umani costruiscono e adattano di continuo ai loro bisogni. Proponiamo una didattica della lingua non centrata solo sull’apprendimento del codice e di un modello considerato immutabile, ma aperta alla ricerca, che impegni insegnanti e alunni/e nell’esplorazione delle produzioni linguistiche, orali e scritte, che vengono costruite in classe, una didattica volta a indagare le potenzialità degli atti linguistici, le ragioni delle scelte più o meno consapevoli che i parlanti operano all’interno del codice, gli effetti degli atti linguistici considerati come messaggi, le strutture che ne stanno alla base, le regolarità e le trasformazioni.
Crediamo che la complessità della lingua non possa essere affrontata efficacemente con un insegnamento lineare (a partire di singoli elementi –segni, parole, frasi,..- in forma additiva, dal facile al difficile). Riteniamo vada esplorata per approfondimenti successivi dei suoi molteplici aspetti -oralità, pragmatica della comunicazione, semantica, strutture linguistiche delle frasi e dei testi, legami logici instaurati da certe parole…- mettendo al centro la comprensione come costruzione del significato, sfruttando le possibilità del gioco linguistico che fa scoprire l’infinità possibile delle variazioni della forma delle parole e di conseguenza dei significati e gli intrecci tra la lingua parlata, le scritture costruite a scuola, la lingua dei libri. Consideriamo inadeguata una didattica che enfatizzi la grammatica come insegnamento di regole e definizioni avulso dai testi, supportato da esercizi meccanici scarsamente funzionali, spesso solo sulla base delle proposte precostituite e uniformi di un libro di testo. E’ dimostrato, oltretutto, che un insegnamento metodico di questo tipo non influisce positivamente sulla capacità di usare la lingua. Così come conoscere l’anatomia delle gambe non ci fa diventare più veloci nella corsa, come dicevano bene le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica.
Consideriamo, invece, fondamentale lavorare sui testi e sui significati, stimolare il confronto sui significati attribuiti alle parole e alle espressioni. Nell’ambito di una comunità in cui c’è scambio tra i membri i significati costruiti individualmente vengono messi alla prova, conflittualizzati, ricostruiti e convenzionati continuamente in modi nuovi mettendo in comune le diverse ipotesi in un lavoro paziente di cooperazione interpretativa.
Consideriamo anche importante che sia data la possibilità di sostare sulle parole favorendo e praticando il confronto tra le diverse lingue madri presenti nel gruppo, intimamente conosciute dai parlanti, e la lingua comune. Affrontare la riflessione sulle strutture sintattiche e morfologiche adoperando il più possibile un metodo comparativo su più lingue, anche sui dialetti, in modo da consentire l’emersione della logica interna al sistema di ciascuna lingua permette a ciascuno/a di conoscere meglio la propria.
Una scuola che accompagna con cura il primo apprendimento della lingua scritta
L’incontro con la lingua scritta, uno degli incontri fondamentali della vita, è un momento importante in cui i bambini/e entrano in un mondo comunicativo nuovo, molto diverso da quello dell’oralità: il mondo della distanza, della comunicazione in assenza del destinatario, dei messaggi costruiti in solitudine, invece che in presenza. Incontrano un nuovo, potente mezzo di cui possono apprezzare le potenzialità: scrivere consente di lasciare un segnale durevole e di comunicare superando le distanze spaziali e temporali, leggere può aprire mondi lontani, incredibili, avvincenti, raggiunti grazie alla scoperta di un nuovo, meraviglioso, potere delle parole.
Se vissuto positivamente, l’incontro genera un atteggiamento di curiosità nei riguardi del codice scritto e, per il suo valore simbolico, della cultura tout court, destinato a perdurare nel tempo.
Poiché l’attività spontanea di ricerca ed esplorazione del codice inizia, per tutti/e e in modi diversi per ciascuno/a, ben prima della scuola, e prosegue a lungo, crediamo che un metodo naturale sia l’approccio più corretto: un metodo-non metodo che preveda non un ‘insegnamento’ per tappe successive uguali per tutti/e, ma un accompagnamento dentro un contesto ricco di stimoli che rispetti e favorisca i percorsi individuali e permetta, nel contempo, di intrecciarli e farli interagire nel gruppo.
In un gruppo cooperativo in cui sono favoriti il confronto, la ricerca, l’aiuto reciproco scaturiscono poi, progressivamente, nuove scoperte e consapevolezze che sostengono sia il percorso comune che le ‘esplorazioni’ individuali e in cui ciascuno/a trova e utilizza, come appoggi alla decodifica, dei propri personali punti di riferimento percettivi, affettivi, spaziali, temporali, … Su questa base ognuno/a compie un percorso diverso e con tempi diversi: un percorso di ricerca in cui non possono essere considerati ‘errori’ i tentativi iniziali, le manovre di avvicinamento di chi scopre via via nuovi aspetti del codice e si misura con la possibilità affascinante di sperimentarne l’uso pur padroneggiandolo ancora solo in parte.
Insegnare semplicemente la tecnica della scrittura a tutti/e allo stesso modo e con gli stessi tempi renderebbe chi vi si avvicina per la prima volta (bambino/a ma anche – spesso, in questi tempi di cambiamenti e nuove presenze – adulto/o) solo uno scrivano che riproduce, non uno scrittore che usa il mezzo per i suoi bisogni espressivi, creativi, comunicativi. Fin dall’inizio.
Una scuola che fa incontrare i libri e scoprire la bellezza delle parole
La nostra educazione alla parola sarebbe gravemente carente se non cercasse di offrire occasioni e di elaborare strategie per avvicinare i ragazzi/e ai libri, alla conoscenza e alla bellezza racchiuse nei libri.
Nella scuola devono trovare spazio i libri per la conoscenza, che aprono mondi, offrono tanti diversi punti di vista sulla realtà, suscitano nuovo desiderio di sapere, illuminano e rendono più significativa la nostra stessa esperienza personale del mondo.
Devono trovare spazio i libri da incontrare per il piacere di leggere, per godere della ricchezza offerta, in tutte le culture, dalle opere della narrativa e della poesia, potenti evocatrici di immagini, vissuti, emozioni, pensieri, opere fatte di parole che aprono alla dimensione del ritmo e della musicalità, che avvincono e sorprendono con immagini inattese, che regalano bellezza.
Mettere in mano ai ragazzi/e dei libri veri, attraenti, mediare questo incontro fondamentale crediamo sia il primo e fondamentale compito della scuola.

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QUESTO MANIFESTO

Ci auguriamo che questo Manifesto aiuti tanti/e insegnanti, che già operano o intendono operare secondo i criteri che proponiamo, a riconoscersi parte di un grande gruppo in cammino per una scuola migliore, inclusiva, democratica e per una società meno ingiusta. Crediamo sia legittimo, da parte di ogni insegnante, rivendicare il diritto a costruire proposte pedagogico- didattiche in base a scelte legate a convinzioni maturate sul piano professionale, sociale e politico.
Non possiamo non riconoscere, a questo proposito, il ruolo fondamentale giocato dal contesto territoriale in cui la scuola si colloca, che può frapporre ostacoli o offrire opportunità all’esercizio del diritto alla parola e all’educazione alla parola. Sappiamo quanta importanza rivestono la presenza o l’assenza di offerte culturali, di spazi pubblici pensati per l’incontro, di biblioteche, di sostegni alle attività delle scuole e di tutti i luoghi dell’educazione linguistica, il considerare o meno l’educazione alla parola come fondamentale di per sé, al di là di obiettivi legati a traguardi istituzionali o a parametri giuridici.
Non possiamo non riconoscere, infine, quanto sia importante, per i/le docenti, un contesto lavorativo in cui l’insegnante non si senta isolato/a nella propria funzione, oberato/a dalla necessità di affrontare sempre nuove problematiche e incombenze burocratiche, in difficoltà nel costruire con i colleghi/colleghe situazioni di condivisione, confronto, ricerca.
Difficoltà ulteriori possono essere rappresentate dalla difficoltà di proporre pratiche didattiche diverse da quelle ‘trasmissive’ ancora diffuse (anche se non certo in linea con i contenuti della legislazione scolastica, delle Indicazioni Nazionali in primis) o di essere fatti oggetto di richieste arbitrarie. Crediamo che in questo caso, a fronte di richieste o disposizioni non rispettose dei diritti dei bambini/e – il diritto all’espressione, ad essere consultati/e, a non essere discriminati/e, a partecipare, – sia legittimo rispondere con azioni di disobbedienza civile.

 




UNA TECNICA DI VITA: IL TESTO LIBERO

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UNA TECNICA DI VITA: IL TESTO LIBERO
(twitter, SMS, Messenger…e il piacere della scrittura?)

di Giancarlo Cavinato

 

A distanza di quasi cento anni, il testo libero fa ancora parte delle ‘nuove tecniche’ didattiche[1]

Nella pedagogia popolare c’è un concetto centrale, il testo libero, da vedersi non come pura tecnica strumentale (“occasione” per esercizi di vario tipo), ma, in un ambito più vasto, pensiero che si esprime e si comunica ad altri, che si estende ad altre forme espressive anche non verbali, ad attività manuali (ad es. la tipografia), alla riflessione linguistica muovendo dalla messa a punto collettiva dei testi”[2]
Il testo libero’, scrive Gisella Galassi[3], ‘consente una ricchezza di articolazioni come lingua viva, ‘vissuto’ che si deposita nella scrittura, entra ed esce dalla scuola e conduce al possesso di molti codici linguistici oltre che ad un notevole arricchimento umano.’

Eppure la pratica del tema continua a prevalere nella scuola nonostante uno sviluppo delle scienze del linguaggio fondato sulla comunicazione e sulla necessità di interlocutori reali e contenuti significativi per i soggetti.
Pierre Clanché, un pedagogista francese, ha raccolto centinaia di testi liberi adottando come schema di analisi dei contenuti il lavoro di Barthes sul piacere del testo e ricercando delle costanti, legate a temi di ambito familiare e di vita vissuta.[4]

Scrivere senza un argomento definito a priori, (lo stesso per tutti gli alunni della classe), richiede come condizione la libertà di scelta e di espressione.
Paul Le Bohec, maestro francese del movimento Freinet, parla di ‘testo libero “libero”[5].
La consegna agli alunni non può esaurirsi nel dire loro ‘scrivete quello che volete’. Questa, dice Paul, è una falsa libertà. In realtà di tratta di un testo condizionato all’atmosfera povera della classe, al modello offerto dall’insegnante, ad interventi adulti che sminuiscono il valore degli sforzi. Si dice ‘scrivete liberamente’ ma in realtà il messaggio subliminale è: ‘scrivere così che l’insegnante sia contento’.

Quello che la pragmatica della comunicazione definisce un doppio vincolo.
Muovendo dai primi racconti orali, che l’insegnante trascrive su grandi fogli appesi alle pareti, così che possano essere letti e apprezzati dai compagni e da altri insegnanti, genitori, dai corrispondenti, in cui si raccontano piccoli episodi di vita familiare o del quartiere, giochi e scherzi, si parla dei propri animali, di un film, uno spettacolo di circo, una sagra, si perviene al desiderio di scrivere da sé le proprie storie, così da suscitare negli altri voglia di ascoltarle, leggerle, scriverne a propria volta. Ma bisogna che sia stato dato il segnale che si può ‘davvero’ scrivere di tutto.

Anche giochi di parole[6], codici inventati, storie ‘a rovescio’ (partendo dalla fine), catene di parole e di frasi, elenchi, spiegazioni del funzionamento (di un gioco, di uno strumento,…), ricette ‘vomitevoli’,…[7]

Questo desiderio di libertà non è lo stesso anche per gli adulti? ‘Nessuno ama girare a vuoto’ scrive Freinet nelle sue Invarianti[8]; ‘Nessuno- il bambino come l’adulto- ama essere comandato d’autorità’ ‘A nessuno piace essere costretto a fare un certo lavoro. La costrizione è paralizzante.’
Scrivo per la stessa ragione per cui leggo, per cercare di vivere meglio, per provare un maggior numero di sensazioni e con più intensità, per riuscire a comprendere meglio le persone e le cose, per vedere più chiaro dentro di me e fuori di me, per donare e ricevere, ed ancora per ricevere e donare, per sfogarmi, per riuscire a vivere imparando a comportarmi sempre meglio. Qualche volta anche per gioco, per il piacere dato dall’immaginazione, per gioire della libertà, uguale a quella del gioco, di eludere la vita quotidiana. La passione di scrivere non fa vivere un po’meno per creare un po’ di più, bensì penso che sia per sé e per gli altri l’arte di illuminare un po’ più la vita per viverla intensamente.’[9]

Molte di queste sensazioni ed esperienze si possono provare fin dai 7-8 anni. Provare per credere. I testi via via prodotti, che aumenteranno in qualità e in quantità, possono trovare un’adeguata collocazione in giornalini, corrispondenze, in un ‘libro di vita della classe’, abbelliti con disegni, foto, incisioni,…
Ogni alunno nel suo piano di lavoro personale potrà settimanalmente proporre di scrivere da uno a più testi che, raccolti in dossier, verranno via via letti ( in momenti molto attesi in cui i compagni ascoltano, consigliano, chiedono… senza timori di giudizi e voti). Si crea così un circuito fra la produzione, la comunicazione, il perfezionamento attraverso la messa a punto ( ben diversa dalla correzione degli errori da parte dell’adulto.

Un circuito che passa attraverso l’espressione e la creazione personale e di gruppo di canti, poesie, grandi pannelli con storie in sequenza,… così che le fantasie si accendano e si contaminino e ogni alunno possa esplorare possibilità diverse.
G. Perec, del gruppo dell’Oulipo, scriveva che l’individuo nel suo sviluppo parte parlando di sé, poi degli altri, del mondo, e inventando situazioni nuove.
Ci sarà chi preferisce una strada, un ingresso nel mondo della scrittura, chi un altro, a seconda di quanto lo avrà colpito e a cui sente il bisogno di reagire, e chi un altro. I percorsi, per essere liberi, non possono seguire tutti la stessa progressione.

L’insegnante ha il compito di curare la cornice, l’organizzazione dei tempi e degli spazi, la lettura agli altri dei propri testi (gli alunni si accorgeranno che se ci sono più testi da leggere nello spazio dedicato a questa attività e bisogna scegliere uno-due testi al giorno, per rendere appetibile il proprio testo dovranno dargli un titolo il più accattivante possibile; un titolo come ‘Delitto in cucina’ attirò subito la curiosità- trattava della nonna che aveva tirato il collo a una gallina), l’attività di revisione per renderlo più comunicativo. Ma l’insegnante può anche proporre degli stimoli (immagini, musiche, uscite interessanti, giochi, argomenti di ricerca, laboratori tematici di carattere espressivo o scientifico,…). Rodari definiva la pedagogia Freinet una pedagogia dello stimolo e non del modello, con proposte aperte.

Lo sforzo di noi educatori, scriveva Le Bohec, è di fornire opportunità per impadronirsi del linguaggio e non farne strumento di potere per indurre a comportamenti condizionati ma tramite di emancipazione. ‘E’ illusorio credere di poter raggiungere tale scopo concentrandosi unicamente su una dimensione. Bisogna poter circolare continuamente e liberamente da un campo all’altro, dal livello ‘demens’ a quello ‘sapiens’, attraversando l’aspetto ‘ludens’ senza bloccare i processi di elaborazione che sono specifici di ogni singola persona. Riuscire a fare questo richiede, è chiaro, da parte dell’insegnante, una formazione, una pratica personale, una effettiva esperienza.’[10]

Chi vuole avventurarsi su questa strada troverà nel Movimento di cooperazione educativa idee e proposte di lavoro e supporto alle esperienze.

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[1] Ciari B., ‘Le nuove tecniche didattiche’, ed. dell’Asino, riedizione 2015
[2] Pettini A., Informazioni MCE, bollettino della pedagogia popolare, n. 6/1984, p.19
[3] Galassi G., ‘Il testo libero’, Cooperazione educativa, La Nuova Italia, Firenze, n. 6/1985, p. 16
[4] Clanché P., ‘Le texte libre, écriture des enfants’, Maspéro, Paris ; ‘Anthropologie de l’écriture et pédagogie Freinet’, Prresses Uiversitaires de Caen
[5] Le Bohec P., ‘Le texte libre…libre’, éd. Odilon, Nailly, 1996
[6] Vretenar N. ( a cura di) ‘Dire fare inventare. Parole e grammatiche in gioco’, Asterios, Trieste, 2019
[7] Le Bohec P., ‘Scrivere è anche giocare’, Cooperazione Educativa, La Nuova Italia, n. 8/ 1988, p. 32 sgg..
[8] Freinet C. ‘ Gli invarianti pedagogici’ (Les invariants pédagogiques- Oeuvres pédagogiques- Seuil-Paris-1994-vol2 pp383-413 ; (traduzione Alain Goussot)
[9] Roy C., ‘Permis de séjour’, Gallimard 1986, p. 78
[10] Le Bohec P., ‘Scrivere è anche giocare’, cit., p. 39




CORRISPONDENZA INTERSCOLASTICA: UNA TECNICA DI VITA

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Francobollo dedicato dal Ministero delle poste francese a Célestin e Elise Freinet

di Giancarlo Cavinato

‘Ragazzi miei, non siamo più soli!’ esclama Freinet all’aprire, nella sua classe di un paesino delle Alpi Marittime in Provenza, il pacco proveniente da un paesino della Bretagna, contenente gallette, conchiglie, lettere, il giornalino ‘Il menhir’. Sono gli anni 20.
La corrispondenza fra classi e scuole è apertura sulla vita: prende in considerazione la vita familiare, culturale e sociale dei bambini, le loro esperienze, amplia il loro universo.
Stimola l’autoespressione, risveglia sensibilità e curiosità; sviluppa immaginazione, creatività, spirito critico, senso estetico, piacere di mettersi alla prova con un impegno costante. Si apprende ad accettare i vincoli necessari per sviluppare dei progetti di gruppo: l’ascolto, il confronto, la scelta, il prendere decisioni assieme, l’assunzione di responsabilità. Richiede di impegnarsi con gli altri per lasciare tracce di sé, per conoscere di più la realtà mondo, per collegarsi ad altri, per comunicare.

E’ una tecnica della scuola moderna che prepara i bambini di oggi a prendere parte nel mondo di domani, vivendo in prima persona l’espressione, la comunicazione, la cooperazione.
La corrispondenza, tecnica di vita, come la definisce Freinet [1], sottende una scelta politica e filosofica dei docenti a favore dei diritti dell’infanzia, della laicità dell’istruzione, della cooperazione internazionale, dei valori di giustizia, libertà, fratellanza e pace nel mondo.
La scrittura viene usata come strumento per comunicare non solo ‘in presenza’ ma anche con chi è lontano. Si apprende a scrivere sperimentando la scrittura non come esercizio tecnico ma come pratica che consente di mettersi in contatto con altri superando i limiti dello spazio e del tempo. [2]
Certo oggi lo si può fare con molte altre tecnologie raffinate e rapide: ma come sostituire l’emozionante apprendimento della lettura tutti assieme tentando di decodificare i giornali murali, le lettere collettive via via più complesse che vengono appese alle pareti? E lo scrivere insieme dettando a ‘chi sa già’ per comunicare ai corrispondenti avventure, esperienze, progetti?

Si impara a leggere leggendo testi reali. E si impara a scrivere utilizzando da subito la scrittura per comunicare.
L’esigenza di una scrittura corretta e coerente diventa non la ricerca di adeguarsi a un modello, ma la ricerca di una sempre maggiore efficacia nel costruire la comunicazione.
‘Evitiamo di scrivere per scrivere’, dice Freinet. Ogni testo deve avere un destinatario e uno scopo.
La corrispondenza è un’impresa collettiva, che coinvolge l’intera classe.
Poi via via si costituiscono coppie di corrispondenti, gruppetti per ricerche e monografie.
La scuola che offre nel suo percorso l’esperienza della corrispondenza offre un’opportunità in più sul piano della costruzione di un’identità plurale, delle relazioni, della costruzione di un contesto in cui le persone sono oggetto di interesse e attenzione e si sentono valorizzate, cercate., riconosciute.
Chi vuol provare come gli insegnanti del MCE questa affascinante avventura ?[3]

[1] Tecniche di vita: la pedagogia Freinet indica nella corrispondenza, nel giornalino, nella costruzione collettiva di libri di vita della classe, nell’intervista e nella ricerca, nell’indagine ambientale, nella narrazione di esperienze, nel lavoro per gruppi legato all’organizzazione collettiva della classe, le situazioni reali in cui la parola viene usata nel suo significato di strumento fondamentale per la conoscenza e lo scambio.

[2] N. Vretenar, Introduzione a ‘Cari amici vi scrivo’, ed. Junior Spaggiari, Parma, 2016, pp. 16-17

[3] Per informazioni e contatti maestrocristiano@libero.it

Mostra della corrispondenza fra classi italiane e francesi
(a.s. 2018 / 2019 )

corrispondenza2 corrispondenza1

Mostra della corrispondenza fra classi dell’Emilia Romagna e classi del Pays de la Loire
(a.s. 2013/2014) sul tema della città

corrispondenza4        corrispondenza3