L’alibi della “distanza” …non regge

di Maurizio Parodi

La discussione sulla didattica a distanza, del tutto legittima anzi auspicabile, è spesso viziata da un presupposto implicito, spesso inconsapevole, riconducibile alla convinzione che le criticità evidenziate siano riconducibili alla distanza, appunto, che, pertanto, non riguardino l’attività in presenza, in altre parole che il problema sia tecnologico e non pedagogico.

Sbagliato, come dimostra la permanenza di consuetudini inveterate, di procedure assurde che si ripropongono amplificate nella didattica a distanza alla quale deve essere riconosciuto, quanto meno, il merito, di rendere finalmente visibili pratiche, condotte, logiche più o meno sensate o aberranti, virtuose o ignobili, edificanti o mortificanti.

Vale anche per la questione dei compiti, il cui sovraccarico è stato recentemente denunciato dalle più importanti associazioni di genitori, ma che non si pone oggi per effetto del distanziamento scolastico, essendo il portato di una visione dell’insegnamento diffusa e radicata, ancorché nefanda, alla quale sono per la gran parte attribuibili fenomeni inquietanti e scandalosi: la mortalità e la dispersione, il malessere e il rifiuto, l’analfabetismo funzionale e l’impoverimento culturale.

Quello dei compiti è un problema gravissimo, ignorato, snobbato dai professionisti dell’istruzione, relegato ai margini delle discussioni di eminenti esperti più inclini a discettare sui massimi sistemi pedagogici o istituzionali, dai quali non è dato ottenere riscontro, giacché trattasi di materia grezza, ignobile: la considerano questione marginale, comunque subordinata ad altre di ben più elevato tenore, e dimostrano così, di capire ben poco e di avere quasi nulla cognizione di quel che accade quotidianamente nella scuola “reale”.

Azzardo un tentativo, ovviamente destinato al fallimento, di plastica e desolante rappresentazione di “fenomeni” diffusissimi e allarmanti che pure sfuggono agli specialisti più insigni, spesso inclini alla retorica magistrale, quella che celebra le magnifiche sorti e progressive di un sistema insensato e autoreferenziale, incarnato da docenti inqualificabili (e indistinguibili dai “colleghi” che si impegnano con intelligenza e sensibilità “straordinarie”), ricorrendo ad alcune soltanto delle centinaia di segnalazioni che quotidianamente pervengono agli amministratori della pagina Facbook: “Basta compiti!”.

…Ma si può sempre far finta che si tratti di casi isolati, che la scuola italiana sia eccellente e tutti i docenti sensibili e intelligenti; conviene, per evitare reprimende sindacali e ostracismi politici: gli insegnanti votano, e sono tanti, inoltre permettono ai professionisti della formazione di lucrare (quello dell’aggiornamento è un bel business), perciò è meglio non infastidirli.


I compiti a casa sono inutili: le nozioni così ingurgitate non lasciano il segno, si tratta di un sapere usa e getta.

Caterina

Io sono esasperata davvero! In prima media, mio figlio fa compiti fino alle 23 con 2/3 verifiche al giorno e altrettante interrogazioni. Per non parlare di quando esce alle 17 da scuola: dopo 8 ore seduti, tornano a casa con capitoli da studiare, esercizi da fare… è disumano! Ovvio che ‘sti ragazzi odiano la scuola… e non imparano nulla, non ricordano nulla perché li stanno distruggendo con tutti questi compiti a casa. Che schifo!

Barbara

Il 90% dei compiti sono lavoro inutile che ha il solo scopo di tenere occupati i bambini, di abituarli a “eseguire”. Il lockdown non c’entra nulla.

Maurizio

Dopo qualche settimana, mio figlio ricorda poco o nulla di quello che ha studiato, con inutile fatica, al solo scopo di superare la verifica o l’interrogazione: quanto tempo sprecato, quanta vita dissipata (i migliori anni). Tutto ciò è profondamente immorale.


I compiti procurano disagi, sofferenze soprattutto agli studenti già in difficoltà deprimendone l’autostima.

Elena

Mio figlio era in una scuola a tempo pieno fino alla terza elementare! Lui è un DSA e, con tutto che frequentava il tempo pieno, era sempre carico di cose da studiare; era sempre nervoso e con l’autostima sotto le scarpe. Ho litigato di brutto con preside e insegnante poi abbiamo deciso di cambiare scuola. Adesso va al tempo normale e ha davvero pochissimi compiti. È felice di andare a scuola, si applica di più e la dislessia è migliorata tantissimo avendo più tempo da dedicare alle sue carenze.

Caterina

Ormai i nostri figli sono diventati dei voti e basta perché è così che si sentono. Un numero sul registro che li bolla. “Non hai la sufficienza? È perché non studi abbastanza”. Invece no; nella maggior parte dei casi, il bambino ha problemi a capire o nel ragionamento …ed è subito 4. L autostima scema come la voglia di fare meglio e di andare a scuola. Mia figlia, prima media a tempo pieno, è stata assente 4 giorni perché aveva la febbre (tampone negativo) e non siamo riusciti a recuperare tutti i compiti e le cose fatte a scuola. Al rientro, cioè il lunedì, si ritrova con verifiche e interrogazioni da recuperare …e ovviamente ha risicato. La mia rabbia è che non è più possibile una vita così: questi ragazzi sono stanchi, hanno perso ogni gioia d imparare, di scoprire, perché non fanno altro che compiti, ogni santo giorno, forzatamente. Ormai i compiti a casa sono visti come una punizione più che un modo di imparare,e solo perché i prof. devono finire il loro dannato programma!

Romina

Niente è cambiato: pagine e pagine di nozioni, nessuna riflessione pedagogica alla base della didattica, solo una grande, mastodontica autoreferenzialità. L’obiettivo, per mia figlia, ormai è solo quello di uscire dalla scuola media sana di mente, non completamente erosa nella sua autostima e con una minima, residuale, appannatissima voglia di conoscere qualcosa.

I compiti a casa sono discriminanti anche perché indiscriminati.

 Dora

“Molto o poco” non significa nulla! Non è quantificabile il tempo che ciascuno dedica ai compiti, varia da bambino a bambino! Una paginetta o qualche esercizio per materia, sommati, fanno diverse paginette e diversi esercizietti al giorno che per alcuni bambini corrispondono a una mezz’oretta di impegno e per altri a 4 o 5 ore di lavoro a casa.

Natalia

Ci sono tante alternative che possono arricchire la crescita e lo sviluppo di bambini e ragazzi nonché risvegliare il loro interesse. I compiti finiscono con riempire ed esaurire gli spazi necessari per esplorare altri scenari e nuove dimensione della ricerca personale.

Gabriella

I compiti avvantaggiano gli studenti avvantaggiati, quelli che hanno genitori premurosi e istruiti, e penalizzano chi vive in ambienti deprivati, aggravando, anziché “compensare”, l’ingiustizia già sofferta, e costituiscono una delle ragioni, più gravi, dell’abbandono scolastico.

I compiti a casa ledono il “diritto al riposo e allo svago” (Art. 24 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e Art. 31 della Carta dei diritti dell’infanzia).

Michela

Ho mia figlia in seconda elementare: dopo 8 ore di scuola ha tutti i giorni i compiti per il giorno dopo. Uno schifo, sono veramente avvilita.

Adiba

Il fatto è che oltre alle 6 ore al giorno a scuola, a casa ne devono fare altre 5 tra studio compiti e ora ci si mette anche questo maledetto computer e le mille email giornaliere.

Francesca

Mio figlio, seconda media ora non fa altro. Torna da scuola alle 14.30 e non ha nemmeno in tempo di mangiare: sta sui libri fino alla sera alle 20 eppure è molto responsabile e veloce nel portarli a termine! Io dico è indecente. Dovremmo scendere in piazza.

I compiti a casa costringono i genitori a sostituire i docenti senza averne le competenze (spesso anche i figli).

Michela

Lui non vuole farli. Non ha voglia e sono noiosi come lo sono i professori che gli insegnano. La Dad mi ha aperto gli occhi anche sulla loro didattica. Non tutti, ma tanti sono noiosi a morte. La disaffezione per lo studio parte anche da lì. I prof che sono empatici e simpatici ottengono di più dai ragazzi. Ma è raro. Ne ho provate mille. Video, Film, Mappe, Teatro… Ma io non sono un’insegnante. E loro fanno solo del nozionismo, non fanno altro.

 Daniela

Non ho più parole, sono arrabbiata per questo modo di studiare: i professori se ne fregano di come si fa a imparare: a loro basta interrogarli, e lì finisce il loro compito.

 Eleonora

Vogliamo parlare delle pagine su pagine di riassunti? Mi sono ridotta a farglieli io… Al colloquio con l’insegnante di italiano: “Sua figlia deve passare almeno 4 ore sui libri”. Bene! …e questo per una sola materia: vita sociale e sport zero?

I compiti a casa sono stressanti e causano molta parte dei conflitti, dei litigi tra genitori e figli e persino tra genitori.

Michela

Io sto rovinando il rapporto con mio figlio. Non so più come fare. Le medie sono micidiali.

Fernanda

Con i compiti, molti o pochi, gli insegnanti non fanno altro che togliere tempo in famiglia e togliere tempo per altre attività. I bimbi vogliono imparare a suonare uno strumento, un’altra lingua, fare uno sport. Vogliono anche leggere liberamente, stare all’aperto, giocare con altri bambini e con i genitori. Invece ci obbligano a litigare con loro per i compiti, fate diventare insana la convivenza. Si intromettono nella dinamica famigliare e ignorando il bisogno di crescere insieme.

Caterina

Prima media, due giorni a settimana esce alle 17 e la mole dei compiti è allucinate, soprattutto l’insegnante di d’italiano: li carica di lavoro come se non ci fosse un domani; poi, si aggiungono le altre materie, e ogni santa sera se non sono le 23 non si chiudono libri.
La cosa è estenuante per lei e per noi: questi ragazzini non ameranno mai la scuola perché i prof. pensano solamente a finire il loro dannato programma caricandoli come somari di compiti a casa.
La scuola dovrebbe essere un luogo dove i ragazzi voglio andare, volentieri invece a causa di questo metodo (inutile) la odiano e con loro la odiamo anche noi perché bisogna seguirli (chi può) stravolgendo così la vita famigliare e la pace domestica tra urla e pianti.
Io mi sento molto ma molto avvilita anche perché non si risolverà mai nulla: se quasi tutti credono ancora che i tanti compiti servano a qualcosa, siamo davvero messi male.
Povera Italia, poveri noi e poveri ‘sti ragazzi!

Si danno persino i “compiti per le vacanze” e durante i week end, scuola a tempo pieno comprese.

Daniela

Persino i compiti nel week-end: non bastano 6 ore a scuola più 4 o 5 ore a casa tutti i giorni,pure il weekend. È una tortura! Ma un po’ di relax mentale quando ce l’hanno questi ragazzini? Vergognoso il non capire le esigenze degli studenti e delle loro famiglie. Ma io mi chiedo: una coscienza questi professore e/o professoresse ce l’hanno?

Marzia

Ci vuole il tempo per il gioco, per il relax, per le curiosità: sono vitali, più dei buoni voti. E parlo da insegnante di scuola media oltre che da mamma.

Susanna

I compiti per le vacanze sono un ossimoro, un assurdo logico (e pedagogico), giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo, proprio perché liberano dagli affanni feriali e invece si trasformano in un supplizio, creando stress, sofferenza, insofferenza.

I docenti operano nella reciproca ignoranza: ciascuno assegna i propri compiti come se fossero i soli da svolgere.

Maria Teresa

Ma non si può fare proprio nulla affinché i professori tengano conto ognuno dei compiti assegnati dagli altri colleghi e conoscendo l’orario si regolino in base al tempo medio che gli alunni debbono dedicare a ciascuna materia?

Gianni

Esiste una scuola nella quale i docenti si prendono il disturbo di verificare il carico complessivo dei compiti assegnati? Ci vuole una laurea in pedagogia per capire che, oltre ai propri, gli studenti devono fare tutti i compiti dati da tutti gli altri docenti?

Elena

È un incubo, lo so. I docenti si fanno prendere dalla paura di non fare abbastanza e iniziano a sbattere della roba dentro ai registri elettronici, senza porsi il problema dell’impegno complessivo, come se il cervello dei bimbi fosse un bottiglia da riempire dimenticando come avviene l’apprendimento. Un disastro!

I compiti sono quasi sempre noiosi, ripetitivi e talvolta assurdi.

 Dania

Certi compiti sono davvero pallosi, ripetitivi, inutili, avvilenti. Mammamia che tristezza! Io l’ho pure detto ai colloqui che per me sono esagerati, dopo 8 ore di scuola. Ma loro nulla, rigidi come i muri: Dicono: “Eh, ma servono per consolidare quello che si fa in classe”. Consolidare cosa? Vogliono far crescere dei robottini automatizzati…

 Fabiola

Ma qualcuno ha mai cercato di capire se servono davvero tutte queste esercitazioni pedestremente addestrative, puramente nozionistiche, prive di qualsiasi attrattiva che suscitano solo noia e ripulsa?

 Michela

E i dettati? Alle elementari 8 pagine di dettato al Giorno, tutti i giorni o quasi. Perché?


I genitori pretendono l’assegnazione dei compiti: più dà compiti, più l’insegnate è “serio”.

Andrea

L assurdità risiede in quelle menti bacate di certi genitori che chiedono altri compiti pensando che più se ne danno più si impara. Mia moglie insegna alla primaria e mi racconta di genitori che quasi la rimproverano di dare pochi compiti. Allucinante!
In Finlandia, zero compiti soprattutto alle elementari: si comincia a 7 anni e si imparano due Lingue subito; la religione si fa a catechismo; a scuola si insegna economia domestica e ambientale… I risultati? Loro sono tra i primi, noi verso il trentesimo posto! E vi chiedete a casa servono tutti i compiti che danno? A ottenere questo pessimo risultato, privando i bambini del diritto al riposo al gioco alla socialità.

Dania

L’altra settimana, avevamo la riunione online con gli isnegnati, in tutto saremo state 6 mamme e 4 maestre. Appena ho detto che i compiti sono eccessivi, dopo otto ore passate a scuola, si è creato un muro fatto delle solite frasi: “Eh ma il prossimo anno vanno alle medie e ne avranno 11 di materie…” e bla bla bla! Insomma ci fanno il lavaggio del cervello già adesso per il prossimo anno; ed ero sola a protestare, a dire la mia. Quindi di cosa stiamo parlando se c’è un’omertà spaventosa tra i genitori? Mi sono talmente sdegnata…

Barbara

“Devono abituarsi per le medie”. Sono tre anni che va avanti così. Certo: roviniamoci la vita adesso per abituarci a fare quello che dovranno fare fra tre anni. Che logica è?


I docenti non si interrogano sulle pratiche didattiche in uso e non valutano il proprio operato: sono distributori di compiti e di voti.

Elisa

La scuola non si adatta, semmai pretende l’adattamento; e se si è fuori dalle righe (magari estremamente intelligenti) non va bene. Possibile che la scuola debba essere solo sofferenza, fatica e noia? Intanto siamo arrivati in prima superiore ma abbiamo perso quasi dieci anni di vita.

Cristina

Anche oggi verifica. Ieri due. Ogni giorno compiti e verifiche. Il voto dovrebbero metterlo a se stessi, chiedendosi: “Ho spiegato bene ai miei alunni? Hanno capito tutti, hanno svolto senza problemi il compito assegnato”?
Poi uno crede di valere nella vita, quel voto. Poi capita di essere superpositivo a scuola, e fuori l’esatto contrario o viceversa.

Antonia

Bambini e i ragazzi stanno morendo soffocati in casa dalla solitudine e dai compiti. Mio figlio mi ha detto: “Siamo solo dei voti, per i docenti, non siamo altro”. È triste, specialmente in un momento in cui la depressione dilaga.

In “estrema” sintesi

Angela

Gli insegnanti Italiani danno una marea di compiti perché non sono in grado di insegnare, affidando il loro “compito” alle famiglie o agli insegnanti di ripetizione. Semplice: sono ignoranti!

Dalla Carta internazionale dei diritti dell’infanzia, art 31: Gli Stati membri riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età…




Vi racconto come ho iniziato…

Stiamo raccogliendo in questa pagina dei brevissimi testi di insegnanti della nostra associazione che raccontano cosa è accaduto questa mattina.

Non possiamo avvicinarci, non possiamo toccarci… dobbiamo stare lontani: mascherina, gel disinfettante, distanze, banchi fissi.
Il Plesso di Scarmagno ha trovato un nuovo modo di stare insieme. Ogni persona della scuola, bambini e adulti, ha portato un nastro colorato lungo un metro e lo ha legato a quello di un’altra.
Ciascuno “si è legato” agli altri, facendo un’esperienza collettiva di avvicinamento.
(Scuola primaria “Olivetti” – Scarmagno)

Grazie bambini per l’energia che ci date ad andare avanti!
I vostri sguardi sorridenti,i vostri racconti dell’estate trascorsa,il calore umano che ci trasmettete anche se distanziati!
Tutti noi e voi avevamo bisogno di rincontrarci per continuare il cammino scolastico, mai interrotto!
Grazie a Voi perché siete la linfa vitale per noi insegnanti!
(Scuola primaria classi I-IV – Cuorgnè)

Noi ci siamo ispirati agli haiku giapponesi.
Eccone uno:
Eco di bimbi ridenti
Riflessi di luce nel buio
Quest’anno
le mascherine si divertono.

(Primaria San Bernardo classe IV – Ivrea)

Questa mattina siamo partiti …
I bambini hanno ascoltato con attenzione ed interesse le nuove regole di comportamento che, peraltro, molti già conoscevano.
A casa, i genitori hanno fatto un ottimo lavoro preparandoli alle tante novità che li aspettavano.
Entrando in classe ognuno di loro ha portato una piccola piantina che renderà più bella la nostra aula.
Durante l’anno se ne prenderanno cura e ne saranno responsabili.
Erano sereni e felici.
(Scuola primaria – Pavone Canavese)

Li abbiamo accolti nel cortile della scuola primaria tutte le insegnante munite di magliette con sopra disegnato uno smile perché sotto la mascherina c’era il nostro sorriso per loro.
(Scuola primaria – Pavone Canavese)

L’ansia di noi insegnanti nell’ accogliere i bambini con la visiera e mascherina è svanita con una battuta …sembrate delle astronauti …e tutti a ridere …I bambini sono fantastici…
(Scuola dell’Infanzia – Scarmagno)

Finalmente siamo tornati a scuola, l’ansia del come sarebbe andata è svanita da subito, il primo bambino sulla porta ha fatto sparire ogni dubbio ed ogni paura.
Grazie bambini perché oggi, come sempre, nel vostro piccolo, avete dimostrato di essere “grandi”
(Scuola dell’Infanzia – Loranzè)

Finalmente insieme: occhi brillanti, bocche sorridenti, l’impazienza di raccontare e raccontarsi:
“Io in questi giorni ho giocato con la mia sorellina, che era una bambola, che si chiamava Alice perché mi sentivo sola….”
” Il mio papà stava preparando una torta per la nonna malata che adesso sta bene. Io le ho portato una bambola che si chiamava come me. Mi è mancata tanto la scuola, ci volevo venire….”
“Guardate…..( Fa vedere ai compagni come salta e fa acrobazie)….”.
Quante emozioni tutte insieme, quanto calore e gioia da condividere e con le colleghe capiamo quanto questo lavoro ci arricchisce e quanto è labile il confine tra insegnante e discente.
(Scuola dell’infanzia – Mercenasco)

Bambini Magici
Buongiorno, bambini. Sono Felice di ritrovarci insieme in aula e… con un nuovo compagno. Uno ha dovuto trasferirsi, ma abbiamo imparato che potremo condividere del tempo con lui attraverso la piattaforma Google Meet.
Cosa provate voi?
Tutti esprimono felicità nel ritrovare i compagni e le maestre; il nostro nuovo compagno ci dice di sentirsi bene ed è felice di essere uno di noi; un altro compagno dice: “Prima pensavo che la scuola era brutta, invece adesso penso che è bellissima e non vedevo l’ora di tornarci!”.
Altri raccontano delle loro vacanze dai nonni, al mare, in montagna o a casa; di quanti soldi ha portato il topolino dei denti… con un forte desiderio che li ha accomunati lungo l’estate: rientrare in classe
Questo, e “solo” questo, è ciò che abbiamo sentito il bisogno di condividere gioiosamente e liberamente questa mattina.
(Scuola primaria – classe IIB – Strambino)

Scuola e classe nuova per me…passaggio alla scuola primaria per loro…
Creature magiche e piene di entusiasmo. Come se ci fossimo conosciuti da sempre abbiamo condiviso emozioni diverse, colorato e costruito il libricino delle regole, siamo usciti in cortile a muoverci un po’ trascorrendo così una mattinata serena e gioiosa.
Il Covid ? “Una piccola pallina grigia e monella che fa arrabbiare tutti ma che non fa paura…”
Parole del piccolo Stefano. Io maestra Vera e la collega maestra Maria siamo felici: da oggi si parte per una nuova avventura e i sorrisi dei nostri nuovi piccoli alunni saranno la nostra forza e la nostra gioia.
(Scuola Primaria di Boschetto – classe I – Chivasso)

È stato come proseguire un discorso iniziato, come se alunni e insegnanti non si vedessero soltanto dal giorno prima. I bimbi con occhi sorridenti e le maestre con la pelle d’oca per l’emozione.
(Scuola primaria “Nigra” – classe IIIA – Ivrea)

La contentezza di ritrovarci ci brillava negli occhi sopra le mascherine.
Le nuove regole sono state accettate (per ora…) con filosofia.
Ci siamo accorti di quanto siamo fortunati nel poter stare di nuovo tutti insieme.
(Scuola primaria Marconi – classe IVC – Chivasso)

Li abbiamo trovati così, ognuno posizionato sul proprio quadratino rosso e, appena ci hanno visto, sono scoppiati in grida di gioia. E noi con pelle d’oca e tanta emozione.
Hanno dimostrato di accettare le regole senza esitazione, senza lamentele, dimostrando una maturità ben più grande di tanti adulti.
Unico piccolo rammarico, non potersi abbracciare, ma riassunto nelle parole di una bambina è diventato…
Se ci comportiamo bene e seguiamo le regole, torneremo ad abbracciarci!
(Scuola Primaria – classe V – Vistrorio)

La cosa più bella è stata condividere l’insonnia di questa notte!
L’emozione di rivederci ci ha tenuti svegli e, in qualche modo, ci ha connessi prima ancora dell’incrocio di sguardi di questa mattina.
Anche con la mascherina i nostri sorrisi erano incontenibili, gli occhi brillavano!
Siamo rientrati consapevoli dei cambiamenti ma più forte di tutto è la forza del gruppo!
(Scuola primaria – classe IVB – Banchette)

Le loro testoline e i loro sguardi che mi cercavano in mezzo a tutte le altre la ricorderò per sempre.
Felicissimi, educati, in fila con i loro documenti in mano.
Tornare in mezzo a loro mi riempe il cuore di gioia.
(Scuola primaria – Strambino)

Questa mattina tanto attesa, iniziata molto presto ancor prima che la sveglia suonasse…mi ha regalato moltissime emozioni…
Finalmente i bambini erano lì davanti ai miei occhi …qualcuno intimorito, altri desiderosi di varcare il cancello lasciando mamma o papà fuori…
Ho accolto la classe prima oggi e con loro ho iniziato un viaggio che già mi ha colmato di emozioni pure e fantastiche che ripaga tutte le ansie del momento.
Loro i veri protagonisti mi hanno già insegnato che con serenità e con l’innocenza dei bambini si supera ogni scoglio…e così sarà ogni giorno insieme a loro!!!
(Prima Strambino – classi prime)

Era ora, abbiamo riconquistato la nostra scuola e ridato un cuore pulsante con il ritorno dei nostri alunni.
Ecco la scuola che ci piace fatta di occhi sorridenti, di gesti inventati per sostituire gli abbracci impossibili e di vita vissuta oltre i divieti condivisi.
(Classi II – Primaria Montalto Dora)

Appena ho visto i loro volti e incrociati i nostri sguardi, ho capito che anche se è da febbraio che non ci vedevamo, l’emozione è stata uguale.
Sorrisi stampati, occhi spigliati e soprattutto non sono mancati i “mi sei mancata maestra”.
(Scuola dell’infanzia – Pavone Canavese)

Ero emozionata ed entusiasta di rivedere i miei cuccioli. È stata una mattinata senza tempo, come se nulla fosse successo. Tanta voglia di condividere esperienze meravigliosamente raccontate. Parola Covid/virus assente dal vocabolario dei bimbi. Una dose di energia e sinergia pazzesca.
(Scuola dell’infanzia Don Saudino – Lombardore)

Non ho dormito…
Che emozione rivederli…
Un fiume di parole e di entusiasmo…
(Scuola primaria “Marconi” – classe II B – Chivasso)

Tutti gli alunni hanno dimostrato grande responsabilità. Non è stato necessario ripetere le regole di comportamento, le hanno imparate e rispettate subito
Erano sereni e felici di rivedere maestre e amici. Quelli più preoccupati, come sempre, erano gli adulti. Oggi i bambini ci hanno insegnato una cosa importante: ogni problema va affrontato con serietà e una buona dose di serenità.
(Scuola Primaria Argentera, IC G. Gozzano, Rivarolo)

Finalmente tutto ha nuovamente avuto senso dopo mesi di disorientamento.
I bambini ci riportano ad un piano di realtà e di equilibrio.
È andato tutto bene come se fossero loro i veri esperti in questo contesto.
(Scuola infanzia – Samone)

Bello rivedere i loro sorrisi e soprattutto l’entusiasmo di incontrarsi tutti!
Tra le tante regole abbiamo condiviso la serenita del benestare insieme…
FINALMENTE !!
(Classe IV C Primaria Cuorgnè)




Tempo pieno, un modello pedagogico da ritrovare

di Simonetta Fasoli

Vale la pena, di fronte all’emergere di proposte che fanno riferimento al Tempo pieno, sollecitandone l’estensione generalizzata, provare a portare qualche elemento di chiarezza e qualche utile “distinguo”: questo proprio per incanalare le prospettive che si aprono in una direzione promettente ed efficace.
Non starò a fare una puntuale ricostruzione dei modi con cui si è storicamente affermato il Tempo pieno, limitandomi ai suoi tratti costitutivi, pur nella varietà dei contesti in cui si è andato affermando.

1) Il Tempo pieno non è nato come risposta di tipo assistenziale, basata sul mero allungamento della giornata scolastica, in corrispondenza delle esigenze lavorative dell’Italia nella sua fase economicamente espansiva (e socialmente problematica).

2) Esso ha rappresentato, piuttosto, il primo vero tentativo di affrontare gli effetti dell’affermazione di una scuola a larga base sociale, che ha segnato in parallelo l’evoluzione strutturale del Paese.

3) La scolarizzazione che ne è seguita ha fatto emergere fasce di scolarità per le quali il sistema di istruzione/educazione, ancora largamente gentiliano per impostazione culturale e approccio didattico, si era rivelato del tutto inadeguato.

4) Da qui l’intuizione fondamentale su cui poggia il modello pedagogico del Tempo pieno: estendere il tempo scuola come tempo integralmente educativo, in cui cioè la variabile “tempo” diventi la risorsa fondamentale della didattica.

5) Lungi dall’essere una riproposizione del doposcuola, come modalità assistenzialistica di supporto allo studio individuale, la giornata scolastica viene articolata come un unico percorso in cui gli alunni possano connettere vissuti e saperi, secondo le metodologie attive. Fondamentale l’esplorazione e l’uso di linguaggi alternativi a quello puramente verbale della scuola tradizionale, che penalizza da sempre le fasce sociali più fragili.

6) Chiave di volta della nuova modalità di approccio, il rafforzamento delle presenze dei docenti, che superano la figura del maestro unico, raddoppiando il loro numero, per valorizzare al massimo la pluralità di esperienze e linguaggi che liberano le potenzialità espressive degli alunni. Non ci sono insegnanti principali e insegnanti di supporto, essendo entrambi i docenti pienamente titolari del percorso di insegnamento/apprendimento.

Come ognuno può capire, da questi sintetici punti, il Tempo pieno non è semplicemente “più tempo nella scuola”, ma “più scuola nel tempo che si dà”. Il “tempo ritrovato dell’educazione”: come ebbi a dire in un Convegno di studi proprio dedicato al tema parecchi anni fa.
È altrettanto evidente, ma converrà ribadirlo, che questo modello pedagogico-didattico è stato completamente smantellato con gli interventi normativi che da Moratti-Gelmini in poi hanno sottoposto la scuola ad una politica di tagli lineari. Essi hanno riguardato l’articolazione oraria (della Scuola Primaria, in particolare) e la conseguente attribuzione delle risorse di docenti. Al più, si è fatto leva sull’autonomia delle scuole per trasformare il tempo scuola sostanzialmente in un “servizio a domanda individuale”, che tenesse conto delle richieste delle famiglie. Il risultato è stato quello noto come “orario spezzatino”: le 36-40 ore richieste da alcune famiglie per esigenze di lavoro, sono state erogate con la composizione di quote orario dei docenti. Non è difficile capire, anche per i non addetti ai lavori, che in questo puzzle l’unitarietà del tempo educativo e il valore di riferimento della figura docente vanno letteralmente in pezzi.

Alla luce di queste osservazioni, è lecito domandarsi QUALE tempo scuola si sta proponendo di generalizzare ed estendere al quinquennio della Primaria. Se quello innestato sulle norme Moratti – Gelmini o quello descritto in questo contributo. Perché, nel primo caso, direi “no, grazie, non interessa la scuola parcheggio” (sperando che siamo in tanti a dirlo). Nel secondo caso, inviterei sommessamente gli estensori della proposta a non usare l’espressione “estendere il Tempo pieno”, ma piuttosto “ripristinare il Tempo pieno”, estendendolo piuttosto come modello pedagogico all’intera Scuola primaria. Dunque, investire le rilevanti risorse che il governo sembra intenzionato ad assegnare alla Scuola nella direzione che ne consegue, anzitutto in termini di risorse umane (organico docenti e A.T.A.).

Da questo punto di vista, mi rende non poco perplessa leggere in queste proposte un’ulteriore interpretazione dell’espressione “più tempo”, che a mio avviso va proprio in altra direzione. Si tratta, a quanto leggo, di TENERE LE SCUOLE APERTE PER PIÙ TEMPO: per essere a disposizione della progettualità culturale del territorio, delle realtà che lo qualificano, degli operatori del Terzo settore e via elencando. Come ognuno può capire, questo non ha nulla a che vedere con il modello pedagogico-didattico del Tempo pieno di cui stiamo parlando: infatti, esso si avvale del territorio per trarne gli stimoli che gestisce in termini educativo-didattici, in coerenza con il progetto culturale della scuola.
La richiesta di una maggiore apertura nel tempo dei locali scolastici attiene, infatti, alle esperienze di progettazione partecipata, di integrazione di educazione formale (pertinente alla Scuola per mandato costituzionale) e di educazione non formale (preziosa risorsa delle agenzie culturali del territorio).
Nulla in contrario, anzi, come ho più volte ribadito in altri post di argomento analogo. L’importante è che questa opera quanto mai opportuna di integrazione (che significa arricchimento e apertura della scuola nel territorio) avvenga secondo criteri condivisi e trasparenti di riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni. A costo di ripetermi (“repetita iuvant”…) il punto politico è che non ci siano situazioni esplicite o, peggio, surrettizie di cessione di quote del curricolo scolastico a soggetti esterni (chiamasi “esternalizzazione”).

Le risorse pubbliche, che da anni la Scuola aspetta, per rispondere all’emergenza educativa di cui tutti, a parole, si dichiarano preoccupati, vanno destinate alla Scuola. È la Scuola secondo Costituzione, titolare del bene pubblico dell’istruzione/educazione delle nuove generazioni. Esattamente come vanno alla Sanità, per porre fine a quella “distrazione” di risorse di cui con l’epidemia abbiamo visto le drammatiche conseguenze.
Con la salute non si “gioca” a rimpiattino, e neanche con l’educazione.

Se chi propone più Tempo scuola intende muoversi in questo solco, sarà utile fare chiarezza sui punti che ho sollevato. Sarò sempre dalla parte di chi crede sinceramente nel valore di emancipazione della Scuola e dell’educazione. Non intendo “ravvedermi”, andando fuori da questo seminato. Dai principi non ci si ravvede: si accetta che si incarnino nelle diverse forme che assume l’evoluzione del tempo.




Valutare è necessario, ma c’è modo e modo

abcdi Giancarlo Cavinato

Il tema della valutazione è cruciale. Ed è cruciale il perché della valutazione.
Sottende un’idea di insegnante, di scuola, di società.
La valutazione, pur espressa in modi e forme diversi, é comune a tutte le scuole.
La valutazione è necessaria? Una scuola può non valutare?
Si può tranquillamente rispondere che la valutazione non è solo necessaria, ma che non è pensabile una scuola che non valuti. Ma c’é modo e modo, finalità e finalità, criteri e criteri.

Quando si cominciano a porre e porsi domande di tipo:
-Chi valutare?
-Cosa valutare?
-Come valutare?
-Perché valutare?
subito cominciano le differenziazioni.

Il valutare non è un fatto semplice e i fini, le modalità, le tecniche della valutazione non sono così definiti da non lasciare margini di dubbio e incertezza. [1]
Risale agli anni 70 la critica pedagogica e politica a una scuola selettiva che respingeva ed emarginava gli alunni più ‘lontani’ dal tipo di cultura che essa intendeva trasmettere. Colpevolizzando sempre e solo l’alunno e mai mettendo in conto le eventuali carenze dell’istituzione (assenza di strutture e risorse adeguate, povertà di strumenti didattici, brevità dei tempi di lavoro, carente formazione degli insegnanti). Una scuola che valuta l’alunno ma non valuta se stessa.

La scuola ‘moderna’ auspicata da Freinet è, viceversa, la scuola del successo, non una scuola dello scacco o degli errori.
Il bambino è della stessa natura dell’adulto… Non c’é una differenza di natura ma soltanto una differenza di grado. Prima di giudicare un bambino o di sanzionarlo, fatevi la domanda: se fossi al posto suo, come potrei reagire? E come agivamo quando eravamo come lui?”
Nessuno ama girare a vuoto , agire come un robot fare degli atti, piegarsi a dei pensieri iscritti in meccanismi ai quali non si partecipa. Se un bambino gira i pedali di una bicicletta immobile, si stancherà presto»
Ogni individuo vuole riuscire. La bocciatura è inibitrice, distruttrice dell’andatura e dell’entusiasmo[2]

Per attuare un insegnamento coerente, Freinet mette a punto una serie di dispositivi e di pratiche. Di alcune tecniche si tratta in altre rubriche di questo ‘alfabetiere: l’assemblea, il metodo naturale, il piano di lavoro, gli schedari autocorrettivi, il tentativo sperimentale. Altri strumenti verranno esemplificati in seguito (la messa a punto collettiva dei testi, i brevetti, i profili pedagogici,…).
Sono ‘tecniche di vita’ fondate sull’autovalutazione degli alunni e degli insegnanti, sulla discussione (chiedendo ai propri alunni cos’è secondo loro la valutazione’ per cosa è utile,..), sull’attivazione di processi di gruppo accanto a quelli individuali.

In una classe organizzata in forma cooperativa in cui il successo di ognuno è legato al lavoro e all’impegno di tutti. E le modifiche delle percezioni reciproche attraverso la registrazione dei progressi sono di stimolo e motivazione a cooperare superando competitività e individualismi.

Paul Le Bohec, maestro bretone collega di Freinet, utilizzava le puntine da disegno colorate. Ogni alunno aggiornava i propri istogrammi personali nelle diverse attività registrando gli esiti e i progressi, confrontandosi così con se stesso, non con gli altri e quindi evitando frustrazione e gerarchie di valore.
A sua volta la corrente della pedagogia istituzionale francese ha messo a punto strumenti e tecniche per la valorizzazione dei soggetti, del loro bisogno di essere considerati e di valere modificando le relazioni d’aula e considerando i soggetti in grado di darsi autonomamente regole e istituzioni della classe (‘da istituiti ad istituenti’). Oury introduce le cinture di capacità di diversi colori secondo il modello del judo. I possessori di colori più alti sono invitati ad aiutare i compagni.

Tocca a noi trovare le organizzazioni adatte per far lavorare ogni bambino, per farlo riuscire, progredire, senza per questo rinunciare ai lavori collettivi che assicurano la coesione e il dinamismo del gruppo-classe e che fanno della cooperativa una realtà generatrice di impegni personali. Ci sembra difficile parlare di cooperativa, di gruppi, di istituzioni o di qualsiasi altra cosa, se prima di tutto nella classe ogni bambino non ha la possibilità di lavorare al suo livello e al suo ritmo.’[3]

Così come A. De La Garanderie ha condotto ricerche sui diversi stili di apprendimento e le modalità (lui li definisce ‘gesti’ mentali) di elaborazione, memorizzazione, evocazione di contenuti, riflessione personali, suggerendo di condurre con gli alunni un dialogo pedagogico per farle emergere e rispettare.[4]

Il ritorno dei voti numerici e della possibilità di bocciare con l’epoca Gelmini ci conduce a riprendere quel lungo percorso che aveva portato, grazie a tante maestre e maestri, alle motivazioni sociali e culturali di una pedagogia attiva e cooperativa.
Tanto più che oggi la presenza nelle classi di alunni portatori di culture, lingue, contesti di appartenenza diversi, rende necessario ripensare l’impianto complessivo di contenuti e attività.
La mia incapacità a esprimere con un numero quella complessa realtà che è il bambino a scuola, ha diverse motivazioni. La pagella, così com’è oggi, è uno strumento di valutazione impreciso e soggettivo. Il numero che dovrebbe essere scritto nelle caselle corrispondenti alle “materie” o a gruppi di attività, è il risultato di una strana miscela di sensazioni riguardo alle attività del bambino, che il maestro compie sulla base di un modello di sufficienza che varia da insegnante a insegnante.[…] La prima scoperta che fa l’educatore quando instaura un rapporto non autoritario con gli alunni, è che essi sono tutti diversi. […] L’educatore che ricerca e utilizza le diverse attitudini e capacità personali nel contesto sociale della classe, realizza attività collettive nelle quali ogni bambino, stimolato dagli altri, dà il meglio di sé. Viene così innalzato il livello collettivo della ‘produzione scolastica’ realizzata sulla base degli interessi dei bambini e non dell’imposizione del maestro. In questo caso non è possibile valutare l’apporto individuale sia qualitativo che quantitativo, perché ogni intervento è legato agli altri. E’ un tipo di intervento che la pagella non considera…’[5]

IL MOVIMENTO DI COOPERAZIONE EDUCATIVA E LA VALUTAZIONE

a) la valutazione è attribuzione di valore per l’autostima e la motivazione al successoè riconoscere:

  • LE CONDIZIONI SOCIALI E PSICOLOGICHE DEI SOGGETTI
  • I BISOGNI FORMATIVI E LE CONDIZIONI PER ESPLICITARLI
  • IL GRUPPO COME RISORSA PER L’APPRENDIMENTO

b) la valutazione attesta i livelli di apprendimento, le competenze raggiunte e orienta l’azione didattica e la progettazione della scuola descrivendo gli apprendimenti effettivamente realizzati in termini di conoscenze e competenze;

c) è una valutazione “per l’apprendimento” e non “dell’apprendimento” nel senso che riconosce le potenzialità e facilita l’autovalutazione da parte dell’alunno;

d) non si limita a “registrare” i successi o gli insuccessi ma accompagna il processo di apprendimento attraverso modalità di valutazione che supportano la motivazione di ciascun alunno e registrano i processi personali e di gruppo ;

e) descrive le competenze e gli apprendimenti effettivamente raggiunti superando il concetto di valutazione come misurazione degli apprendimenti: valutare un alunno non è calcolare la media aritmetica delle singole verifiche, ma individuare le sue reali competenze.

f) per questo il MOVIMENTO DI COOPERAZIONE EDUCATIVA ha lanciato la campagna di sensibilizzazione ‘Voti a perdere’ coinvolgendo oltre 20 associazioni, organizzando giornate di studio e incontrando centinaia di insegnanti e genitori

La campagna si inserisce in un percorso di riflessione e di ricerca-azione attorno ai temi più complessivi della valutazione formativa, e delle competenze. Resta forte la nostra attenzione all’innovazione delle metodologie, al superamento della lezione frontale e di una didattica trasmissiva, alla ricerca di pratiche didattiche volte al riconoscimento della dimensione formativa nella valutazione,in un’ottica di scuola inclusiva.

Per aderire alla campagna www.mce-fimem.it

[1] Malfermoni B., ‘La valutazione’, supplemento a ‘La vita scolastica’, fascicolo n. 11, 1977
[2] Freinet C., Les invariants pédagogiques- Oeuvres pédagogiques’, Seuil-Paris-1994 vol. 2 pp 383-413, traduzione di Alain Goussot
[3] A. Vasquez, F. Oury ‘Tecniche e istituzioni nella classe cooperativa’, Emme ed., Milano, 1979
[4] De La Garanderie A., ‘I profili pedagogici’, La Nuova Italia, Firenze, 1991
[5] Lodi M., ‘Le pagelle’, in Cooperazione Educativa n.5-6, la Nuova Italia, Firenze 1974 (questo e altri testi nel blog ‘finedeivoti’)




Giornalino scolastico

abcdi Giancarlo Cavinato

Per Freinet è fondamentale che i bambini siano soggetti non solo fruitori (passivi) di informazioni ma produttori di cultura e di testi scritti.
La sua attenzione è rivolta a costruire una scuola che rispecchi la vita reale.
L’esperienza della grande guerra gli ha mostrato come milioni di contadini artigiani operai (semi)analfabeti si siano lasciati ingannare dalla propaganda nazionalista dei loro paesi e siano stati coinvolti nel macello che ha sconvolto l’Europa. Per adesione fideistica e per induzione di stereotipi etnocentrici e di campagne di odio.
Leggere in modo attivo, comporre testi per incontrare gli altri, per comunicare la propria umanità, è quindi essenziale per imparare a vivere e per una comprensione profonda dei molteplici messaggi.
Chi ha provato a comporre testi comprensibili ad altri può immedesimarsi nelle operazioni necessarie a inserirsi nel circuito comunicativo: si predisporrà così ad essere ricettivo e ‘avvertito’ circa la complessità dei messaggi che circolano.

L’esperienza di composizione di giornalini consente di affrontare con consapevolezza la lettura dei giornali adulti, di interrogarsi, di analizzare e discutere le informazioni.
Il giornalino scolastico (a volte il giornale murale) è l’evoluzione del cosiddetto ‘libro di vita della classe’ dove venivano raccolti i testi liberi individuali e collettivi. Ma comporre e redazionare un vero giornale consente di attribuire dignità al lavoro scolastico e al lavorare insieme per uno scopo. Il risultato è un prodotto a cui ciascuno ha contribuito con testi, illustrazioni, ricerche, monografie, narrazioni. Dietro ci sta una serie di processi.

La classe può essere organizzata come una vera redazione, con un’organizzazione del lavoro che preveda chi va alla caccia di notizie e ricerca fonti (i documentatori) ; chi stende gli articoli o propone propri testi (i redattori); chi legge e seleziona i testi; chi si occupa della correzione (con la tecnica della correzione collettiva), confezione, stampa, impaginazione, fascicolazione ; chi si occupa della distribuzione.
Non è un lavoro che rimane racchiuso in un quaderno o in un dossier ma che circola, stimola altre letture, consente di sentirsi parte di una comunità di scrittori-lettori. In questo senso è davvero una ‘tecnica di vita’. Attraverso la messa a punto degli articoli, la loro scelta, la collocazione nel menabò, l’esperienza vissuta e quella condivisa vengono riviste, analizzate, filtrate, simbolizzate come eventi che hanno avuto risonanza nella classe e che provocano altre risonanze.

Il valore aggiunto è dovuto alla circolazione dell’informazione. Ogni classe che produce un giornalino periodicamente e nel contempo intrattiene la corrispondenza con un’altra classe attua lo scambio dei rispettivi giornalini. A volte organizza il giro dei giornalini fra più classi. Il che significa calcolare le copie, preparare i pacchi, spedirli.
Un lavoro accurato che implica organizzazione, previsione, pluralità di funzioni cui ciascuno è chiamato ad assolvere. Nella classe di Mario Lodi (che ha pubblicato cinque anni di giornalini ‘Il mondo’ che documentavano l’insieme delle attività della classe) i ragazzi devono controllare il bilancio della cooperativa con i costi delle matrici, dell’inchiostro, della carta. Un lavoro accurato di calcolo vivente, ben diverso dai ‘compiti di realtà’: un lavoro vero, che fa commentare al maestro, nel momento in cui i conti non tornano perché c’è un errore di calcolo: ‘Nell’Italia di oggi imparare a render conto è importante.’
Un importante richiamo a un’etica pubblica che ha il suo fondamento nel vissuto di una comunità scolastica in cui ogni attività ha un posto e un senso e gli esiti sono prodotto dell’impegno di tutti.

Scrive Bruno Ciari a proposito della tipografia, oggi tranquillamente sostituita con i mezzi offerti dalle tecnologie, ma che rendeva più visibile e concreto, materiale, l’intero processo di stampa : ‘Non é uno strumento puro e semplice, ma una “tecnica”, cioè un procedimento che implica significati e valori pedagogici. Se attuata coerentemente, basta a trasformare la vita di una classe e a porre le basi di una comunità di tipo nuovo. […] Si tratta del carattere e della destinazione sociale del pensiero. La scoperta della stampa ha avuto una enorme importanza per lo sviluppo della nostra civiltà. Il pensiero stampato non ha avuto più barriere; la sua possibilità di espansione è diventata universale. La tipografia nella scuola ( la stampa del giornalino) non può essere concepita se non come strumento di diffusione e socializzazione del pensiero. Fuori della scuola, il fanciullo è dappertutto circondato dai simboli stampati. La stampa è una realtà immanente, pressante, stimolante, nel mondo in cui il fanciullo vive è un elemento essenziale della civiltà moderna i cui significati il bambino deve appropriarsi.[…] La pratica della tipografia a scuola dissolve il mito della carta stampata e il suo carattere magico.’

Ogni tecnica, in quanto tecnica di vita, è relazionata con le altre e costituisce il tessuto della classe.
Alcune versioni di giornalini possono costituire raccolte di ricerche ed esperienze compiute da una classe o da più classi. Nel mio archivio ritrovo una ricerca compiuta con classi di una scuola a tempo pieno del nord est del Veneto sulla bonifica nel primo 900; una ricerca con una classe parallela dell’altro capo della provincia sulle linee di sviluppo dei due paesi secondo l’età di costruzione degli edifici; una raccolta di materiali documentari e notizie raccolte in visite a mostre e musei a Venezia sul rapporto fra la repubblica e la Cina, ‘Marco delle meraviglie’ con riferimento al seria su Marco Polo allora in programmazione alla TV e alla mostra sull’Oriente a Palazzo Ducale; un giornalino in cui i piccoli reporter presentano i laboratori in funzione nella scuola.

Raccolte di giornalini vanno così ad arricchire il patrimonio di materiali a disposizione della classe e della scuola.




Bibioteca di lavoro

bambini_maestraBIBLIOTECA DI LAVORO

La biblioteca di lavoro (BT) viene istituita da Freinet nel 1932 con il proposito di costituire un’alternativa ai manuali scolastici, nozionistici, univoci nella selezione delle informazioni, spesso scritti in un linguaggio denso e difficile. Con informazioni e affermazioni che non possono messe in discussione attraverso un confronto con altre fonti.

Freinet pensa a fascicoli documentari e monografie su temi di interesse nati nelle classi in base agli stimoli offerti dall’ambiente o selezionati da gruppi di insegnanti scegliendo contenuti significativi che consentano un approccio alle discipline facendo cogliere le interrelazioni fra diversi aspetti della realtà vissuta. Sono i ‘chantiers’, i gruppi di ricerca del movimento francese, l’Institut coopératif de l’école moderne ( ICEM), che preparano i testi e li sperimentano nelle classi prima di procedere alla stampa.

Ai testi stampati si aggiungerà successivamente una BT sonora e audiovisiva.

Alcuni esempi di titoli: carri e carrozze; storia del veicolo; negli alpeggi; il villaggio Kabilo; le unità di misura antiche; le prime ferrovie in Francia; la foresta; le dune della Guascogna; la vendemmia; le cicogne; storia dell’urbanesimo; storia delle miniere e dei minatori; il cioccolato; la storia della patata; l’infanzia borghese a fine 800; come volano gli aerei; Bachir, ragazzo nomade del Sahara; vita di Azack, piccolo esquimese; nelle grotte; la metropolitana; il caolino; storia del metro; menhirs e dolmens; Sam, schiavo nero; serpenti; il riso; il nostro corpo; l’ulivo; la torre Eiffel; i fari; gli animali e il freddo; le 24 ore di Le Mans; l’energia nucleare; costruiamo un motore elettrico; storia della bicicletta ghiacciai; i graffiti preistorici; la storia della schiavitù;…

Si tratta quindi di temi di vita quotidiana accanto ad argomenti di storia, di scienze, di geografia, di arte,… che partono da interessi e motivazioni e vengono via via costituendo un reticolo di argomenti fra loro collegati.

Non si tratta però di un catalogo di temi accostati casualmente. Il progetto che fa da sfondo è il metodo ‘pour tout classer’ dell’ispettore belga Roger Lallemand. In accordo con Freinet, Lallemand, per facilitare la ricerca, adatta ai percorsi conoscitivi degli alunni il sistema decimale Dewey per la catalogazione biblioteconomica. Si costruisce così, con contributi di tanti piccoli gruppi di insegnanti, un percorso reticolare che affronta i grandi ambiti della conoscenza con possibili intrecci fra sezioni e sottosezioni diverse,

La classificazione organizza i contenuti in dodici grandi rubriche a loro volta articolate in dieci sotto-rubriche ognuna della quali si suddivide in altre dieci, offrendo così un repertorio corrispondente a un progetto complessivo:

  1. il nostro lavoro di ricerca e documentazione
  2. l’ambiente naturale
  3. le piante
  4. gli animali
  5. altre scienze
  6. agricoltura e alimentazione
  7. lavoro e produzione industriale
  8. la città e gli scambi
  9. la società
  10. cultura e divertimenti
  11. geografia
  12. storia

Dopo il 1984 questa classificazione da parte del movimento francese è stata rivista e informatizzata attribuendo ad ogni voce parole chiave per facilitare il reperimento, facendo riferimento alla proposta del filosofo francese Pierre Lévy sugli ‘alberi delle conoscenze’: la raccolta cioè e l’organizzazione democratica dei saperi presenti in una comunità.

Si tratta di una strutturazione meno lineare, enciclopedica, più reticolare e per flussi rizomatici, che si avvia con la raccolta delle conoscenze presenti in una comunità ( a partire dalla classe e via via estendendosi ad ‘esperti’ e ‘testimoni’ e a una pluralità di fonti ). Lévy sottolinea l’importanza e il ruolo dell’intelligenza collettiva nella produzione di saperi, oggi implementata grazie ai molteplici scambi nel cyberspazio.

Anche in Italia un lavoro di ricerca documentaria e di organizzazione per temi e unità di ricerca è oggi possibile grazie alle risorse digitali- video, banche dati, mappe,… oggi a disposizione.

Nel MCE ha avuto una grande diffusione la biblioteca di lavoro di Mario Lodi edita da Manzuoli (anni 70-80): un centinaio di fascicoli validi sostituti di testi e manuali per la parte storico-geografica e scientifica.

Fra i titoli: L’archeologo, La donna, 1914/15: neutralità o intervento?, Il lino, I bruchi, Picasso, Quadrati e triangoli, Canti del popolo, Sviluppo e sfruttamento, Garcia Lorca, Gita, bambina eschimese, Disegno la mia storia, La pubblicità, La previsione del tempo,…

Come nel caso della BT francese, si tratta di una serie di argomenti che nei manuali scolastici non vengono affrontati o si risolvono in poche righe di non sempre facile comprensione. Argomenti che vanno dalla cultura dei bambini e dalla cultura popolare a temi di carattere storico, scientifico, letterario,..

E’ poi stata tradotta ed edita da Nicola Milano a metà anni 70 una parte della BT francese fruibile anche da alunni italiani (Cristoforo Colombo, Olaf e Solveig ravazzi noevegesi, lettere dalla grande guerra, La marmotta, Van Gogh, La forza di gravità, il Messico, Gli animali preistorici,..) e sempre con Nicola sono stati editi alcuni fascicoli di una biblioteca a cura di Ines Casanova e Ibello Borsetto negli anni 70. Materiali di lavoro che hanno avuto una loro funzione nel quadro dell’adozione alternativa ai libri di testo consentita dalla legge 517/77.

Il gruppo di antropologia culturale del MCE negli anni 80 ha prodotto alcuni schedari su società ‘semplici’ (raccoglitori, cacciatori, agricoltori, pescatori, allevatori) che, in base all’ambiente di vita, elaborano tipi di economie e di organizzazioni sociali diverse. lo schema di riferimento è desunto dal concetto di cultura dell’antropologia culturale:

l’ambiente naturale
l’appropriazione della natura
l’organizzazione sociale
la cultura, l’immaginario
le trasformazioni a seguito dell’impatto con l’occidente

Ogni scheda descrittiva di un aspetto contiene al termine l’indicazione di possibili direzioni di ricerca con cui si rimanda ad altre schede che consentono l’approfondimento di altri argomenti collegati con quello preso in esame.

Avviando, attraverso operazioni di comparazione e di contrasto, a formarsi un modello interpretativo dei fatti sociali isti come risultante di una interazione fra l’aspetto biologico e quello sociale di un gruppo umano. Lo studio di culture diverse era proposto per far prendere coscienza dell’esistenza di una pluralità di risposte culturali ai bisogni umani, così da superare l’atteggiamento etnocentrico presente nel senso comune. nello stesso tempo un’organizzazione per direzioni di lavoro interrelate risponde alla ricerca di connessioni che le neuroscienze evidenziano come connaturate alla nostra mente.

Ovviamente lavorare in questo modo presuppone un’organizzazione della classe per gruppi di ricerca.
Con gli strumenti attuali si possono organizzare materiali importanti e non nozionistici: riattivando un’impresa collettiva.
Se i mezzi e gli strumenti cambiano, non per questo viene meno la necessità di formare competenze di classificazione e organizzazione della realtà.
Ogni gruppo umano dedica una quantità delle proprie conoscenze all’organizzazione di repertori per la descrizione del mondo circostante. Le denominazioni assegnate ai diversi componenti del mondo biologico, fisico, antropico rappresentano il progetto conoscitivo di quel gruppo, di quella cultura. Noi possiamo con i ragazzi lavorare alla categorizzazione degli aspetti più rilevanti che via via vengono affrontati, così da non cadere in una forma di memorizzazione che avrà corta durata e facilmente si tradurrà in stereotipi (es.: ancora oggi in testi di geografia per la scuola secondaria di primo grado si parla di paesi ‘sottosviluppati’ e paesi ‘sviluppati’, in una realtà mondiale sempre più complessa in cui povertà e sviluppo, staticità e dinamismo sono presenti all’interno di ogni paese) ma di consentire loro di sentirsi partecipi della costruzione culturale. E questo è possibile se gli strumenti a disposizione rispecchiano le caratteristiche della significatività, dell’aggancio con l’esperienza, di un linguaggio non astratto.

Bibliografia

Nicolli S. (a cura di) ‘Narrare la scuola. Insegnanti riflessivi e documentazione didattica’ Asterios, Trieste, 2018
Cardona G.R., ‘La foresta di piume. manuale di etnoscienza’, Laterza, Bari, 1985
Lévy P., Authier M., ‘Gli alberi delle conoscenze. Educazione e gestione dinamica delle conoscenze Feltrinelli, Milano, 2000
Barré M., ‘L’aventure documentaire’, Casterman, Paris, 1984

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Curricolo di storia, curricolo della memoria

matitadi Stefano Stefanel

In questi ultimi tempi c’è stata un’accelerazione imprevista di comportamenti e segnali molto preoccupanti per chi ritiene che alcune verità storiche non possano più essere revisionate, ma debbano soltanto essere insegnate dentro un sistema naturale di civiltà. Molto spesso, poi, accade che dal mondo accademico o scolastico si chieda di smetterla con competenze e curricoli e si torni a conoscenze e programmi. E così i segnali peggiori vengono ignorati e abbandonati al loro destino senza avere il coraggio di andare a vedere da che cosa nasce tutta questa confusione revisionistica su un passato piuttosto recente e incontrovertibile (Shoah, leggi razziali, alleanza tra Hitler e Mussolini, antisemitismo). Il vecchio mantra di destra “ma Mussolini ha fatto anche cose buone” si è evoluto, purtroppo, in un incredibile crescendo di follie interpretative.

Assemblo alcuni fatti a cui ci stiamo assuefacendo e che sono il sintomo di un mutamento drammaticamente duraturo: l’insegnante che in classe denigra Liliana Segre dicendo che cerca solo visibilità; il Comune che attribuisce la cittadinanza onoraria alla Segre, deportata in quanto ebrea, e poi dedica una via ad Almirante che aveva firmato il “Manifesto della razza” che ha dato origine alle leggi razziali che hanno fatto deportare la Segre; un aumento di italiani (qualcuno ha detto che sono il 15%) che nega la Shoah; il saluto fascista ridiventato segno di distinzione; le scritte antisemite sulle porte delle case degli ebrei e sui muti delle città; il richiamo al comunismo ogni volta che si nomina il nazismo; il negazionismo su quanto avvenuto nei campi di sterminio. Questo museo degli orrori è sì un museo “storico” degli orrori, ma questo uso distorto della storia sta entrando nelle coscienze civiche, alterando il concetto stesso di civismo che non può svilupparsi dentro queste atroci falsità.

La prima banalità che balza agli occhi è che tutte queste persone hanno frequentato le scuole pubbliche italiane in cui si insegna, ormai da più di 70, anni in forma antifascista e antirazzista la storia del Novecento. La scuola esecra, ma non si interroga sul perché ciò sia potuto accadere. La scuola italiana ritiene che la storia si possa insegnare solo in forma storicistica, cioè seguendo nella linea del tempo l’evolversi degli avvenimenti, dei motivi e delle cause. E così la storia del Novecento si affronta in terza media (secondaria di primo grado) e in quinta superiore (secondaria di secondo grado), cioè senza alcuna connessione temporale e verticale (a 14 anni si studia la storia del Novecento e a 15 quella dei greci e dei romani: e tutto questo viene ancora definito logico!), per poi ritornare a studiare il Novecento a 18-19 anni. La battaglia sul compito di italiano con una traccia di tipo storico continua a pretendere questa partizione di tipo storico. E la drammatica assenza di verticalità tra i due ciclo oltre a produrre dispersione, ora mi pare produca anche revisionismo.

Tutto questo cozza contro la banale considerazione che l’evoluzione mentale dei ragazzi si evolve più velocemente di un tempo, anche perché messi a contatto con un mare di nozioni e notizie rinvenibili senza sforzo critico sul web. Così può accadere (ed è accaduto) che uno studente faccia un approfondito studio sul passato di suo bisnonno, internato nei campi di concentramento dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e contemporaneamente sia segretario provinciale di Casa Pound. Non comprendo perché a nessuno venga in mente che l’insegnamento storicistico della storia (parto dall’uomo di Neanderthal e arrivo fino a Donald Trump se ci arrivo) sia un elemento cardine della trasformazione del sapere storico in un semplice film del passato dove tutto si confonde (la Resistenza come Lepanto, la Prima Guerra Mondiale come la Guerra dei Trent’anni). E tutto questo avvenga mentre cresce e si sviluppa il pensiero dello studente e le ideologie si sedimentano e non sono più scalfibili. Così accade che se un ragazzo tra i 15 e i 18 anni diventa fascista poi quando in quinta superiore studia la storia non la collega con la propria ideologia e può al tempo stesso studiare la Shoah e negarla. Cosa avvenga poi dopo la fine degli studi è sotto gli occhi di tutti. Quando un’ideologia si è formata – qualunque essa sia – è difficile da scalfire: e a 18 anni è quasi sempre già formata.

A me pare evidente che la storia del Novecento si dovrebbe studiare in prima superiore legandosi strettamente a quanto si è studiato in terza media, prima cioè che la corsa verso l’ideologia (sia di destra sia di sinistra, sia antifascista sia revisionista) inizi la sua “fuga” irreversibile. Ma poiché questa evidenza appare solo a me e l’Università, gli intellettuali, il Miur, gli studiosi si battono per la Storia del Novecento in terza media e in quinta superiore assistendo, attoniti, al drammatico fatto per cui tutti quelli che hanno studiato nelle scuole pubbliche italiane (statali e private) possano acquisire quanto appreso o negarlo senza poterci fare nulla. Credo che allora l’unica cosa da fare sia quella di separare il Curricolo di Storia (che continuerà nel suo incedere storicista, per cui se prima non si è studiata la Seconda Guerra d’Indipendenza non si può studiare la Seconda Guerra Mondiale) dal Curricolo della Memoria. Erodoto non la pensava così e neppure Tito Livio, ma allora la Storia raccontava i vincitori e non aveva altre pretese. Noi invece abbiamo attuato una pedagogia scolastica dell’antifascismo per sentirci poi dire da troppi che Fascismo e Antifascismo sono solo due modi di pensare e tutti e due leciti.

Potrebbe allora accadere che il Curricolo di Storia produca le amate conoscenze dentro i sempre applauditi Programmi, il Curricolo della Memoria, invece, sviluppi dentro un suo percorso, slegato da rigide partiture annuali, le Competenze Civiche e di Cittadinanza dove i valori del sapere e quelli del civismo coincidono. Prima che sia troppo tardi spero nello sdoppiamento, così che il Curricolo della Memoria aiuti dai dieci ai vent’anni lo studente a crescere culturalmente su quanto si deve ricordare mentre sviluppa la sua ideologia, fermando così alcune derive revisioniste, antisemite e naziste che si annidano nella mente dei giovani mentre sono spinti a studiare il Medioevo e il Rinascimento.

Il passato non è ordinato e il suo ordine dentro in manuali è spesso spaventoso, con la storia della Cina ridotta a qualche paragrafo e quella dell’Islam messa qua e là. Ma questo Novecento messo alla fine dei due cicli, senza neppure farsi sfiorare dal dubbio che il passaggio dallo studio della Seconda Guerra Mondiale (terza media) allo studio di Pericle (prima superiore) non sia così logico come sembra in uno sviluppo armonico e organico dell’apprendimento.

Quello che stupisce è, allora, che ci si stupisca che il passaggio dal Curricolo di Storia al Curricolo della Memoria non sempre avvenga e che l’incedere idealista dello “svolgimento della storia che cade nel tempo” non sia poi il modo migliore perché tutti imparino cosa è accaduto realmente nel passato, perché è accaduto e – soprattutto – cosa sarebbe meglio non accadesse più.

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