Nei Collegi, ormai e sempre più spesso, voto contro

di Carlo Baiocco

… poiché l’insegnamento, ahimè, è ormai ridotto ad uno stolto corollario di mere attività accessorie di un mansionario impiegatizio eletto addirittura, in modo vessatorio ed imbecille, a criterio di valutazione dei docenti, i quali fra l’altro non dovrebbero neanche resistere più di tanto; infatti … col pensiero unico del prossimo governo, continuando così, la Scuola, che ormai è in agonia ed al cui capezzale siedono ormai sudditi, prostrati, attoniti, avviliti, inquieti e rassegnati, avrà cessato anche di respirare! …….

… poiché non voglio avallare Pro-getti insulsi, fumosi, demagogici ed insensati che mi fanno Pro-gettare ovvero Pro-vomitare dal momento che favoriscono unicamente il dilagare di un’ignoranza grassa!

…poiché, nonostante la mia continua, viva, disperata ricerca, non ho ancora “interiorizzato” l’enorme importanza ed il senso profondo e sacrale delle tante Celestiali Divinità che Sapienti Demiurghi da tanti anni ci offrono: delle provvidi Prove Comuni “Oggettive; della radiosa “standardizzazione” dei “saperi” e della “valutazione”, della luminosa Didattica per “Competenze” e dell’ancor più radiosa “Alternanza Scuola-Lavoro”, che senz’altro schiudono a noi il “Sol dell’Avvenire” e, soprattutto, mondano ogni ignoranza; delle provvide “Griglie” di “Valutazione”; degli altamenti necessari ed insostituibili Bonus, FS, FdI, “RAV”, “PON”, “PDM” e Regionalizzazione.

Mea culpa, mea culpa, mea gravissima culpa!

Empio pagano ho insegnato (!), abitato e persino, carnalmente e spiritualmente, amato la vera Scuola dell’ormai lontana “Età dell’Oro”, anche quest’ultimo vil metallo adorato solo da stolti, demagogici, pietosi docenti certamente ostinati, resilienti, pervicaci e perversi seguaci di “Paideia” ovvero di tristi, compianti, degeneri valori di egualità, democrazia, libertà, educazione e conoscenza!
Fui già empio peccatore quando ebbi l’ardire di proporre altre “strade” e su di esse fiducioso, insieme a molti, m’incamminai, quando rifiutai CONCORSONE, Q1, Q2, OP, OSP, SPP, PECUP, FS, PORTFOLIO, UA, UUAA, PDP, PEI, CS, DSA, BES, PdC, PIA, PAI, RFA, INVALSI e NIV e NEV, ma ora davvero merito amara cicuta, incandescente castigo e piaghe sanguinanti e sanguinolente!
Col capo e lo sguardo proni a terra brucio e faccio polvere dei miei 36 anni di dis-onorato servizio, delle mie Laurea ed Abilitazione, dei miei innumerevoli, inutili titoli, certificazioni informatiche, riconoscimenti ed attestati ed innumerevoli ed ancor più infruttuosi arditi progetti attuati, delle tantissime parole, lettere di encomio e durevoli affetti di alunni e genitori e finanche di stolti ed ingenui D.S. che all’epoca, poverini, si ritenevano solo dei “primi inter pares” quasi eletti dai Collegi, delle mie tantissime ore di Corsi d’aggiornamento (ASP, LIM, …. delle mie diverse pubblicazioni, delle mie ancor più inutili 24 certificazioni informatiche (tutti segni tangibili di sfrontata, spavalda, arrogante, illusoria supponenza!) ed umilmente batto il mio petto e percuoto le mie carni presuntuose e saccenti! Che cenere scottante, braci ardenti, purga ricinea, cilicio flagellante, profondo pentimento e solerte ravvedimento siano con me nello Spirito del PTOF (Professionalità Troppo Ottuse Funzionanti) e della “Bona Schola”, del “mio” D. S., “Magister sacer” e “Bon Pastore” che finalmente, con verga severa, premurosa e battente, riguidino me, contrito insegnante, esule smarrito, dissacrante peccatore reo e disfattista incallito, sui verdi pascoli della resipiscenza!… E che i miei ultimi anni d’insegnamento possano essere perciò del tutto piegati all’asservimento ed alla sudditanza rigeneratrici, affinché mi sia dato rinascere a nuova vita dalla polvere abietta che sola ormai sono! Amen.




Metodo naturale di apprendimento

di Giancarlo Cavinato

Un pregiudizio molto diffuso è quello di giudicare la bontà di un metodo dalla rapidità con cui i bambini imparano a leggere e a scrivere. Si tenga invece sempre presente che migliore non è quel metodo che fa arrivar prima a certi risultati esteriori, ma quello che fa arrivare a quei risultati attraverso una conquista interiore; e per giungere a questo non è sempre bene (anzi per me è sempre male) accelerare i tempi: al bambino bisogna lasciare il tempo per maturare secondo la propria natura. Il metodo migliore quindi è quello che fornendo a ciascuno singolarmente l’aiuto necessario, permette ad ognuno di giungere quando e fin dove la propria natura consente’
(Giuseppe Tamagnini, circol. Interna n.1, Cooperativa Tipografia a scuola, ottobre 1952)

 Perché, dopo tante ricerche ed esperienze sul primo apprendimento,  non è ancora acquisita l’idea che, essendo l’apprendimento un processo, basato su capacità logiche, relazionali e linguistiche complesse, è diverso per ogni bambino, per ogni bambina, richiede per ciascuno/a tempi diversi che la scuola non può uniformare o accelerare a suo arbitrio?

Alcuni presupposti sulla lingua

  • Fra tutti gli apprendimenti scolastici, quello linguistico è quello in cui la scuola gioca e interviene solo in piccola percentuale ( ruolo dei condizionamenti socio-culturali, del background)
  • L’apprendimento linguistico è progressivo e circolare, non è lineare e cumulativo
  • L’apprendimento dipende dal contesto e dal clima di classe
  • L’apprendimento è frutto di maturazione e di costruzione progressiva, non di modelli esterni ( ogni nuovo termine non è un’etichetta che si aggiunge, ma comporta una ristrutturazione complessiva del sistema). Il linguaggio è legato alla maturazione del pensiero e alle capacità logiche.
  • La concezione della LINGUA da parte dell’insegnante è determinante ( quale idea di lingua parlata e lingua scritta e della loro interazione reciproca, quale idea di modello o di stimoli, di norma e di errore,..)
  • Si lavora non su apprendimenti normativi ma sulla COSTRUZIONE DI COMPETENZE sull’uso della lingua e sulla lingua in uso
  • L’apprendimento è socio-costruttivo, il significato non è conquista e possesso solo del singolo ma viene convenzionato nella comunità linguistica e si gioca nel contesto
  • Il significato non è nel testo ma nella testa di chi lo costruisce ( ruolo delle rappresentazioni mentali) e lo si  negozia  con gli altri.

Le categorizzazioni

Ci sono bambini che rischiano di essere etichettati come dislessici mentre la loro difficoltà nell’apprendimento della scrittura può essere originata da aspettative eccessive di genitori o insegnanti (  l’effetto alone) , o da condizionamenti legati a una lunga tradizione. Sentirsi addosso il peso di aspettative e di ansie eccessive (“a Natale dovrebbero saper scrivere” “come mai fa ancora tanti errori?“ “nell’altra classe sono più avanti…” “e se avesse qualche problema…”) può inibire i delicati processi messi in atto nell’apprendimento. Chi è incoraggiato a cercare e vede i suoi tentativi seguiti con interesse e le momentanee inadeguatezze come normali manovre di avvicinamento alla conquista della competenza ha molte più chances di chi è costretto a adeguarsi a un modello e ha continuamente timore di essere inadeguato e di sbagliare.

Essere etichettati, considerati “indietro”, “lenti”, “disattenti”, “probabilmente con qualche problema” ha sempre effetti secondari di non poco rilievo: timore, ansia, fuga dal compito… L’angoscia di un bambino che sente giudicati come “errori” i suoi tentativi aumenta, egli diviene teso, irritabile, si concentra su piccoli dettagli, teme sempre più di sbagliare.

Spesso essere preso in carico in un centro specialistico per la riabilitazione non contribuisce, quando si è al di fuori del centro, a ridare la fiducia necessaria a leggere con fluidità, senza la quale non vi è comprensione. Spesso il continuare a non rispondere alle aspettative, nonostante la terapia logopedica individualizzata, produce grande confusione, sfiducia in sé e frustrazione per non riuscire a rispondere adeguatamente alle aspettative.

Assistiamo oggi a una moltiplicazione spropositata di diagnosi di dislessia, di preoccupazioni delle famiglie, di indicazioni e controindicazioni agli insegnanti, alla produzione di una normativa dettagliata, alla demonizzazione del povero ‘metodo globale’, quasi assente dalle nostre scuole.[1]

Lettori o decifratori?

Le difficoltà di apprendimento della lettura possono essere risolte, almeno parzialmente, o, viceversa, rinforzate a seconda delle strategie che si adottano.

Parliamo di lettura vera, ossia di costruzione di significati a partire da un testo (la pedagogia Freinet e il metodo naturale propongono di  lavorare su testi ricchi di significato fin dal primo apprendimento)
Dice Freinet che un buon metodo non è né esclusivamente analitico né esclusivamente globale: è, appunto, naturale., perché accompagna i processi di ciascuno, le modalità di elaborazione  ricerca scoperta.

I processi che entrano in gioco nella lettoscrittura sono  complessi e in larga misura  indipendenti dalla capacità di decifrazione e di oralizzazione (lettura ad alta voce). Eppure i controlli e le diagnosi di dislessia si rifanno, spesso, a questo solo aspetto, il meno significativo e profondo.
Si è a lungo trascurato di ricercare su quale componente del processo di lettura entra in causa nella dislessia.

Smith, Foucambert e altri ricercatori osservano che il lettore dispone di due canali percettivi per accedere al significato della parola scritta: una via ‘visiva’, in base alla quale la forma scritta della parola è esplorata per trovare il significato utilizzando indizi che fanno leva sulla memoria, sul contesto, sullo spazio, su somiglianze e differenze percettive, su conoscenze pregresse, su rappresentazioni mentali, su ipotesi e anticipazioni, sull’evocazione.  L’altra via è quella ‘fonologica’, tramite la quale la parola scritta è convertita in una rappresentazione sonora a partire dalla quale si perviene al significato. per alcuni, con fatica, e non sempre.
Smith, Richaudeau, Foucambert [2] e altri ricercatori hanno indicato che la via visiva garantisce con maggior forza la lettura efficace; essi concludono che la dislessia non è, come da più parti si afferma, effetto dell’insegnamento con metodi globali o naturali ( molto poco  diffusi), ma, viceversa, si rafforza e si incista insistendo troppo, ed esclusivamente, sulla padronanza della corrispondenza grafema-fonema.

Quanto sia illusorio tale presupposto è facilmente dimostrabile: possiamo conoscere la corrispondenza segno-suono di un alfabeto  greco, latino, sanscrito, inglese, basco, ecc., ma se non conosciamo  le  forme delle parole-referenti non approdiamo al significato di quanto possiamo sonorizzare. Sonorizzare non è conoscere, capire.

Chi sa leggere veramente legge con gli occhi, non con le labbra.
Legge per campate, per ‘salti’ dell’occhio, per inferenze e completamenti, cerca relazioni fra i significati se è stato abituato a pensare che in ogni testo ci sono dei significati da scoprire.

Allenandosi poco a poco si costruisce dei punti di riferimento, che è nostro compito conoscere e rinforzare. I punti di riferimento sono personali: spaziali,  temporali, relazionali, collegati ad attività, agli scritti collocati alle pareti e nella realtà circostante.
Nel caso dell’apprendimento della lettura e della scrittura invece,  troppo spesso la cura del processo, il rispetto dei tempi, l’intervento sul contesto per renderlo stimolante e motivante (non si impara a leggere e a scrivere se non si fa l’esperienza delle straordinarie possibilità che questi mezzi offrono), l’osservazione delle strategie personali e di gruppo   vengono sostituiti dall’intervento specialistico che tronca la ricerca e evidenzia come “errori” le inevitabili incertezze del cammino.

E’ più che mai necessario, oggi,  curare il momento del primo apprendimento, riscoprire le potenzialità del Metodo Naturale (qualcosa di ben diverso dal metodo globale, che propone tappe predefinite) un metodo non-metodo che rispetta i percorsi individuali di ciascuno, diversi nei tempi e nelle modalità:

Punti di attenzione

1- La lettura silenziosa

Lo scritto è un linguaggio per l’occhio che l’attività di lettura, che è attività di ricerca,  struttura progressivamente.
Occorre superare l’insistenza esclusiva sull’insegnamento dei suoni per dare spazio alla formazione di strategie ideovisive. L’educazione del lettore  è, infatti, qualcosa di diverso e di ben più complesso dell’addestramento del decifratore; anche se il decifratore procede velocemente nella sonorizzazione, non significa che ne consegue automaticamente  la comprensione del significato.
Bisogna scegliere tra metodologie e percorsi che portino alla  produzione di senso e che non si limitino alla  produzione di suoni.

La lettura silenziosa permette di andare direttamente al significato senza dover passare per la decifrazione e l’oralizzazione: il circuito è più breve, va dall’occhio al cervello; sonorizzando, il circuito è occhio-bocca/orecchio- cervello. Richiede quindi uno sforzo maggiore che rallenta e, per i più ‘deboli’, si risolve in uno sforzo notevole, che fa sì che non vadano oltre il livello della decifrazione, senza arrivare a costruire il significato.
Perché scegliere di “controllare” la lettura secondo una procedura (la lettura ad alta voce) che rende più complesso il percorso?

Nell’oralizzare è vietato saltare una parola, indovinare (anche se l’anticipazione di senso è sufficiente a capire).
Lettura silenziosa è andare direttamente all’informazione (e all’emozione ad essa sottesa) in meno tempo di quello che occorre per dirla.
Che cosa impedisce che la lettura silenziosa prenda maggiormente piede nella scuola?
Forse la lettura ad alta voce rassicura di più l’adulto che in questo modo ha l’impressione di conservare il controllo?

2-  La ‘ginnastica dell’occhio’

Ricerche neurofisiologiche hanno dimostrato che un lettore ‘esperto’ legge con successo trentamila parole in meno di un’ora, perché scorre velocemente la pagina concentrandosi sul significato invece che sulla sequenza di suoni. Un ‘decifratore’ nello stesso tempo ne legge meno di duemila.
L’occhio scorre sulla pagina scritta e si sofferma cogliendo delle ‘campate visive’, parti di parole o espressioni,  all’incirca di 10-15 segni, es.: ‘una porta verde’, ‘il rumore del vento’.
Mentre passa da una campata all’altra, spostandosi, l’occhio non vede, ma il cervello ha il tempo di istituire delle connessioni; quando si sofferma su una campata, l’occhio guarda, riconosce, invia il messaggio al cervello. Il quale può anche fare ipotesi e anticipazioni. Ad es. guardando ‘hanno giocato una part….’ si può ipotizzare, completando, che si tratti di una partita.

Il nostro compito è di favorire questo tipo di lettura, in cui si diventa progressivamente più abili  ampliando le campate attraverso una mobilizzazione degli occhi. Si può aiutare ad acquisire abilità in questa lettura ‘visiva’ proponendo vari ‘giochi’:  leggere a specchio, dall’alto al basso e viceversa, in cerchio, in diagonale, da sinistra a destra e da destra a sinistra, presentando gruppi di parole su diversi cartelli che vengono via via tolti e a cui ne succedono altri incentivando così  una lettura ‘a colpo d’occhio’.

  1. i processi di gruppo

La lettura, inoltre, è un’attività sociale e intersoggettiva, si leggono messaggi scritti intenzionalmente da un emittente per dei destinatari, che devono ricostruirne il senso. Ma il significato non può essere attribuito arbitrariamente in modo individuale, è frutto di un patto sociale, di una convenzione; quindi  se non c’è confronto, negoziazione, condivisione, non c’è costruzione del significato e la lettura è un’attività meccanica vuota di senso.
E’ attraverso esperienze di gruppo ( la ‘cooperazione interpretativa’) che si struttura la competenza.

4- la struttura del codice

Le ricerche di E.Ferreiro e A. Teberosky [3] hanno evidenziato che il codice scritto viene via via strutturandosi a seguito della progressiva scoperta e sistematizzazione di tanti aspetti: che c’è una dimensione minima e una massima delle parole, che le stesse sono separate (differentemente dal flusso del parlato), che il sistema di scrittura ha una direzione, che traduce con segni appositi gli aspetti paralinguistici e prosodici del parlato che i termini sono convenzionali e arbitrari e frasi e testi si costituiscono in base ad operazioni di selezione e combinazione, che il codice ha una duplice articolazione, sono tutti aspetti che verranno sistematizzandosi per tentativi esplorazioni confronti osservazioni. non si apprendono per somministrazione di regolette.

5 –  La lettura dell’adulto

la lettura di buone storie da parte dell’adulto è fondamentale. ‘Insegna’ le tonalità, le emozioni, le pause, il respiro delle parole, affascina, fa godere la bellezza data dalla  coerenza e completezza nella vicende narrate. Introduce a mondi. E’ questo il tramite per appassionare alla lettura
Chi ascolta qualcuno che legge, in particolare una narrazione, è già, in qualche modo, un lettore, perché compie alcune operazioni fondamentali identiche a quelle che sono necessarie nella lettura autonoma: coglie sequenze di parole costruendo un significato, che non è dato dalla somma dei significati delle singole parole; tiene a mente le varie sequenze di significati per costruire e ricostruire via via il significato complessivo; mettendo insieme gli indizi, formula ipotesi sul seguito della vicenda che sta seguendo; a volte confronta la sua ipotesi con ciò che sente successivamente ed è costretto a modificarla; scopre, a volte, che gli stessi elementi vengono nominati con parole diverse (la volpe, l’animale, l’imbrogliona…); coglie il ritmo, l’intonazione, le pause, come elementi del significato; costruisce immagini; conserva nella memoria immagini e vicende che possono essere ricostruite e riformulate con parole diverse; reagisce agli stimoli con risposte emotive: piacere, repulsione, empatia con un personaggio, sospensione, paura, soddisfazione…

6 – La comprensione del significato

Perché un testo venga compreso è necessario che il lettore abbia alcune  conoscenze di base:
anzitutto una qualche conoscenza della situazione di cui si parla. Per capire un racconto ambientato nell’antica Roma, ad esempio, in cui si parli di templi e vestali, di senato e di terme, di schiavi e di bighe, sono necessarie alcune informazioni sulla vita quotidiana di quel tempo e di quella città.

E’ necessario, poi, che sia conosciuto  il significato della maggior parte dei termini, (Foucmbert dice che occorre che di un testo inizialmente siano noti l’80% dei termini,  diminuendo via via questa quota) avendo l’accortezza, quando si lavora con bambini e anche con giovani studenti, di tener conto del fatto che spesso risultano sconosciuti anche termini per noi semplici e scontati. Perché ci sia comprensione  bisogna graduare, nei testi,  la presenza di termini lontani dall’esperienza orale.

Ma ci sono altri “scogli” che rendono difficile la comprensione.
Ad esempio i coreferenti, cioè le parole diverse che, di volta in volta, in un testo, possono indicare lo stesso elemento (ad esempio un personaggio famoso della letteratura viene  indicato, di volta in volta, come ‘la monaca’, Gertrude’, ‘la poveretta’, ‘la sciagurata’ … si tratta sempre della stessa persona ed è scontato per un lettore esperto, non è lo stesso per un lettore inesperto o per un bambino, spesso in difficoltà anche  di fronte a testi semplici, se un insegnante attento non stimola la riflessione.

Ci sono poi le  espressioni che rinviano ad altre parti del testo, e costringono a compiere operazioni non sempre facili di collegamento: ad esempio se leggo  ‘glielo aveva detto ’ devo chiedermi chi aveva detto cosa e a chi richiamando alla memoria sequenze narrative lette in precedenza.

Possiamo trovare, inoltre, in particolare nei dialoghi, elementi deittici, cioè espressioni che rinviano ad una  situazione extra testuale (ad esempio ‘pensava che si sarebbero incontrati lassù’).
E’ importante allenare a una lettura attenta finalizzata alla comprensione, ponendo anche dei problemi per la cui soluzione sia necessaria la rilettura. Un problema interessante è, ad esempio, la richiesta di una lettura inventariale, cioè di elencare i personaggi, i luoghi dove si svolge la storia e i tempi. La rilettura è una pratica quanto mai utile.

Altre operazioni che aiutano la comprensione  sono la parafrasi (ricostruire usando parole diverse) e la sintesi, che costringe a individuare le informazioni importanti.

Lavorare in gruppo, con la possibilità di confrontarsi e di prendere in considerazione diverse ipotesi e soluzioni è certo la strategia migliore. Si può ‘mettere in gioco ’ la ricostruzione del testo di partenza: la sintesi costruita da un gruppo viene passata a un gruppo che non conosce il testo originale e che ha il compito di espandere. Al termine si confrontano il testo di partenza, la sintesi prodotta e l’espansione individuando i ‘salti’ di informazioni che si traducono in interpretazioni parziali e in ricostruzioni diverse. Per esigenze di sintesi, il gruppo si trova a dover cercare le strategie più economiche per evitare ridondanze e dare le informazioni essenziali.

Un tipo di sintesi interessante è la nominalizzazione, ossia la sintesi di una vicenda fatta usando solo sostantivi, cioè termini più astratti rispetto agli originali, (es.: invece di scrivere ‘il cacciatore si perse nel bosco’ un gruppo può trovare la formula ‘perdita nel bosco’, invece di ‘alla fine il bambino fu ritrovato’, si può scrivere ‘il ritrovamento del bambino’).

Un’altra attività che aiuta la sintesi e la comprensione è la  divisione in sequenze  (si può fare in molti modi diversi, concordando i criteri, non è mai opportuno imporre modalità rigide) e la titolazione delle sequenze ( o la ricerca di titoli diversi per un testo): il titolo è la massima sintesi possibile, la ricerca del titolo è un’operazione logica complessa e molto utile)

Una lettura attenta al significato permette di compiere inferenze, di dedurre, cioè, informazioni che nel testo non vengono dette esplicitamente.
La capacità di compiere inferenze che va opportunamente stimolata, permette anche di ipotizzare, in base al contesto, il significato di singoli termini non conosciuti.

7 – I punti di riferimento personali

In particolare nella fase del primo apprendimento, ma anche successivamente, è importante, per favorire la memorizzazione e il reperimento di significati, evidenziare le caratteristiche visive del testo.
E’ importante che siano ben evidenziate le varie parti, le pause tra una parte e l’altra, le eventuali parti dialogate…
Il tipo di carattere, il colore diverso, la spaziatura (si può andare a capo ad ogni unità di significato), la presenza di immagini, la posizione di un testo sulla parete (nel caso venga esposto), …  costituiscono altrettanti punti di riferimento che aiutano la memorizzazione e l’apprendimento.
Ogni bambino ha però i propri punti di riferimento personali, cioè gli elementi su cui  si appoggia per costruire il significato, e può essere incoraggiato a indicarli. Possono essere il colore, la forma, la lunghezza delle parole, la collocazione in un libro o sulla parete, il ricordo del momento in cui il testo è stato prodotto o collocato,  il riconoscimento di ‘pezzi’ già trovati in altri testi…
L’apprendimento viene facilitato se si tiene sempre presente che la scrittura è linguaggio per l’occhio  e che  sequenze significative vengono memorizzate meglio di sequenze o segni privi di significato, per i quali non ci può essere alcuna motivazione ad apprendere.

8 – I giochi di ipotesi e anticipazioni

Si può giocare su inizi, finali, con cloze test ( testi con parole mancanti da ‘indovinare’); molti sono i modi per incentivare una lettura non lineare e sequenziale ma fatta di salti, andirivieni, percorsi dentro il testo, suscitando interrogativi ed evitando lo spreco di energia che comporta una faticosa lettura lineare di lettere e di sillabe.
La lettura di storie, favole, racconti da parte dell’adulto abitua a ‘sentire’ se si tratta di una favola, di una cronaca, di una filastrocca, …; riconoscere di che testo si tratta, riconoscere la tipologia testuale aiuta nella formulazione di  ipotesi e nella comprensione. Con l’interiorizzazione di una varietà di situazioni narrative si acquisiscono copioni, schemi di riferimento, sequenze.
Anche l’abitudine  a leggere le immagini contribuisce a strutturare la capacità di leggere in modo avvertito. Storie a disegni in sequenza, con o senza didascalie, da proiettare o appendere alle pareti, creano un’abitudine all’analisi, al collegamento, a immaginare il seguito.

9 –  La pratica della lettura funzionale

Non tutti i testi si leggono allo stesso modo. Non usiamo la stessa strategia per leggere un romanzo, le istruzioni per l’uso di un elettrodomestico, una ricetta, l’orario ferroviario….
Si scorrono con ritmi e velocità diverse testi diversi in base a che cosa si cerca, e per leggere bisogna avere un progetto su ciò che si va a cercare ( divertimento, emozioni, ricerca di una precisa informazione, indicazioni per  confezionare o utilizzare qualcosa, …)
In base al progetto la lettura può essere analitica o globale, lenta e accurata o veloce e superficiale, con ritorni indietro o in successione… a seconda dei testi che si utilizzano. Sono tutte situazioni di lettura funzionale, cioè di lettura finalizzata a qualcosa di preciso, pratiche, quindi, di autentica lettura, che dovrebbero  avere cittadinanza nella scuola, al posto di ‘allenamenti’ privi di significato. Opportune situazioni di gioco possono familiarizzare ulteriormente con la pratica della lettura funzionale: scoprire il contenuto di biglietti, regolamenti, consegne, consegne da scorrere silenziosamente eseguendo poi quanto viene richiesto lasciando che gli altri indovinino cosa c’era scritto, sono tutte attività di uso funzionale dello scritto.
Come pure può essere di grande utilità l’abitudine a leggere le indicazioni per costruire un oggetto, per eseguire un gioco o un’attività.

In conclusione, leggere è, anche, selezionare, mettere a fuoco ciò che serve e saltare ciò che non interessa, saltare, a volte,  la parola che non si capisce per inferirla dal contesto.
Tutt’altro, dunque, che un’operazione meccanica.

[1]  Ferruccio Deva in un articolo  su ‘Scuola e città’  descriveva una ricerca quantitativa compiuta su 1025 classi prime elementari nell’a.s. 1984/1985, da cui risulta una assoluta prevalenza dei cosiddetti ‘metodi misti’ o analitico-sintetici (67,08%), seguiti dai metodi sintetici o fonico-sillabici ( 21%) e da un’esigua percentuale di metodi analitici o globali (9,6%).

[2] Foucambert J., ‘Come si diventa lettori’ (1978) Emme, Milano

[3] Ferreiro E., Teberosky A., ‘La costruzione della lingua scritta nel bambino’ (1985), Giunti, Firenze




Ridatemi la mia vecchia cattedra (ancora a proposito del “danno scolastico”)

di Antonio Valentino

Nelle scorse settimane su queste pagine sono stati pubblicati due articoli, diversamente interessanti, sull’ultimo libro della prof.ssa Paola Mastrocola: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, scritto, assieme al sociologo Luca Ricolfi.
Il primo, di Franco de Anna, già nel titolo: https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2021/10/15/signora-mia-non-ce-piu-la-scuola-di-una-volta-la-ragione-astuta-del-sociologo-illustre-e-famiglia “Signora mia, non c’è più la scuola di una volta”, ne fa largamente intuire l’argomento e il suo punto di vista. Il secondo, di Mario Maviglia: “Che disastro la scuola progressista! Non ci sono più gli ignoranti di una volta”, parte dall’articolo di De Anna  per riprendere e sottolineare alcuni aspetti che gli stanno a cuore. I due articoli, felicissimi nei titoli e stuzzicanti nei contenuti, mi hanno richiamato un ‘pezzo’ ironico-satirico di Aristarco Ammazzacaffè (“Ridatemi la mia vecchia cattedra), – pubblicato su Scuolaoggi.org nientemeno che nell’agosto del 2007 – dedicato ad uno dei libri più recensiti dell’Autrice: La scuola raccontata al suo cane.
Col permesso dell’Autore, ora in pensione, se ne ripropone la pubblicazione (con qualche taglio per asciugare il ‘brodo’), perché aiuta a capire che il vertiginoso universo pedagogico e professionale, e anche politico e sociale, dell’Autrice viene da parecchio lontano. Nella nuova pubblicazione, se ne consolida volteggiando la sua formidabile weltanshauung (come la Nostra preferirebbe dire).

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Prima, un illustre giornalista, che, ogni tre per quattro, su la Repubblica, la cita, nei suoi articoli illuminanti sulla scuola, per ricordarci che, proprio la scuola, non è più, purtroppo, quella di una volta (come le stagioni: che peccato!); poi, addirittura Piero Citati, che, sullo stesso quotidiano, fa riferimento al suo-di lei libro: La scuola raccontata al suo cane, richiamandone moderno pensiero e piacevolezza. Se ne può dubitare?

Si sta parlando della Prof.ssa Paola Mastracola e della sua ultima pubblicazione: La scuola raccontata al suo cane.
Tanto che mi sono detto, partendo per le vacanze: ‘non può sfuggirmi’.
Così me lo sono comprato – il libro plurirecensito -, che ho letto molto divertito (sono di gusto rilassato), e poi riletto per farmene una ragione.
Ho fatto così finalmente conoscenza con l’Autrice che, tra l’altro, vengo a sapere, è insegnante di Lettere in un Liceo scientifico.

Il libro è veramente di quelli che alla fine uno non sa “se ridere o piangere o batter le mani”, a dirla con Gaber.
Io, a lettura conclusa, ho fatto tutte e tre le cose insieme; e capirete il perché.
Perry Bau – questo il nome del cane destinatario delle sue confidenze – nel racconto non compare subito. Bisogna aspettare oltre 30 pagine di divagazioni – alle quali l’autrice è genialmente portata – nientemeno che sulla scomparsa del mestiere di insegnante. Tanto che si intuisce da subito che la Nostra è una vera maga!
Poi però Perry Bau finalmente compare e lei gli spiega tutto, al cane.

Ma a noi qui interessa considerare il cuore della sua ricostruzione e riflessione, che è la scuola dell’autonomia. Nella quale lei vede essenzialmente – con sfumature da notte tempestosa – il precipitato di un evento vissuto come delittuoso, perpetrato nell’ultimo decennio: la distruzione … della sua cattedra di lettere (cattedre di 14-15 ore più 4-3 a completamento). E quindi del suo insegnamento. Dice.
E con esso, più concretamente – ma il nesso si dà per scontato – l’impossibilità, il primo giorno di scuola, di presentarsi ai propri studenti (come faceva quando non c’era ancora l’autonomia) e di leggergli, per ben cominciare, brani dell’Eneide: ovviamente in latino e con tanto di lettura metrica.
Solo per mettere le cose in chiaro.
Ed è qui che nascono le puntualizzazioni più felici e creative della sua idea di scuola e del suo modello di insegnante; ma anche di nozioni chiave, come ad esempio motivazione.
La quale, per la Nostra, rappresenta oggi – e lo motiva sapientemente – una delle piaghe più terribili della pratica scolastica (pg. 133 – controllare, prego). Sul punto però devo confessare di aver avuto più di un dubbio: se andasse più apprezzato la forza espressiva delle parole messe lì o l’abbondanza del giudizio. O il volteggiar della cultura. Mah!  Vedete un po’ voi, se vi capita la fortuna di leggere queste pagine.

Nel merito poi la Prof puntualizza con vigile opportunità – mi sentirei di dire – che lei, quando frequentava le Superiori, non aveva bisogno di motivarsi e, soprattutto, non perdeva tempo a partecipare alle battaglie per una scuola nuova (erano gli anni 70). E non vi partecipava per una principale nobile ragione.
Penserete: aiutava – premurosa – il padre al panificio. Oppure faceva giocare i bambini all’oratorio della Parrocchia. O, anche, soccorreva la zia – poverina – in ospedale per un incidente. No. Lei scriveva poesie. Sublime!
Quasi come l’accostamento, che la sua perspicacia le suggerisce, di ‘motivare’ a ‘mortificare’.
“Il verbo mortificare mi piace molto” afferma compiaciuta. Ed è veramente tantissimo, a pensarci!
Ed è a questo punto che soprattutto non sai ‘se ridere o piangere o battere le mani” (io comunque sono per ‘batter le mani”: è liberatorio!).
E spiega l’accostamento col fatto che lei non può mica passare il suo tempo a convincere una classe che deve studiare. E cos’è studiare poi per un vero prof.– si chiede e si risponde – se non “farli studiare”, gli studenti, e “farli star fermi immobili su una cosa”.

“Voi non ci crederete, ma è vero”, sembra che abbia intonato Celentano invitato alla presentazione del libro (Sull’episodio però la fonte non è sicura).  
Comunque, roba da standing ovation.
Se qualche dubbio può venire per qualche sua affermazione ‘oltre’ (capita), rassicura subito la sua convinzione che l’insegnante è la materia che insegna. Che è una identificazione che non so come definire; pensateci voi, ma senza ricorrere a parole pesanti, please.
Se si vuole puoi andare più nello specifico sul profilo docente, allora la Nostra ha ben tre modelli da proporci: tre suoi Maestri di quando era studentessa. Il primo, che “declamava il testo per aria” (sic), e tutti in classe incantati e con la bocca aperta; il secondo, femmina, “che ci parlava di libri, di poeti, di Parigi” (ma scusi, Prof.: e il programma?); il terzo, trentenne, “che amava soprattutto Dante” (ma era messo così male?); e a tal punto che ogni giorno, dopo la scuola, andava a studiare a casa il suo Dante (mica a fricchettare con la sua ragazza o a giocare a ping-pong o a calcetto, come facevano i tanti suoi altri amici buontemponi. (Vergogna!).

Modelli certamente invitanti. Pensateci, se ne siete a corto.
Comunque il suo obiettivo polemico – e finiamola qui – sono i suoi colleghi che puntano tutto, niente meno che sulla comunicazione. E non si rendono conto – volteggia la Prof. – che dicendo che la scuola è il luogo dove si impara a comunicare dicono una cosa molto grave. E sconclude: “ È una affermazione pesante, una decisione epocale”.
Proprio così; tanto che a uno gli scappa: Ma va! O anche: Ma mi faccia il piacere!
Che però son cose che bisogna saper dire.
Ma dove si trovano, Signora mia, i Totò di una volta?




La scuola a tempo pieno, formidabili quegli anni

di Nicola Puttilli

Ho incominciato a insegnare in una classe a tempo pieno nel settembre del 1973 in una scuola elementare di Mirafiori Sud, quartiere popolare di Torino cresciuto in fretta, a fianco della Fiat, sull’onda dell’ultima ondata immigratoria. Erano due le classi a tempo pieno di nuova istituzione e cinque gli insegnanti ad esse assegnati dalla direttrice didattica, tutti pressoché ventenni vincitori dell’ultimo concorso, fortemente motivati e ancor più ideologizzati.
Metodo di insegnamento rigorosamente MCE: tutto partiva dalla relazione e dagli interessi dei bambini. La mattinata iniziava inevitabilmente con la conversazione che si faceva comunque, anche se i bambini avevano poco da dire, cosa che comunque accadeva raramente.
Da lì si partiva per le attività: per lingua soprattutto testi, in gran parte liberi, che poi confluivano nel giornalino di classe. Anche per matematica si cercava di partire dai problemi reali e poi grandi esercitazioni sui “quaderni MCE”. Non ci siamo fatti mancare nulla, dal complessino tipografico originale “Freinet” per la composizione dei primi testi, ai laboratori di teatro e di falegnameria e perfino un laboratorio di storia per la costruzione di ciottoli e bifacciali.
Nella fase aulica riuscimmo anche ad attrezzare un orto nel giardino della scuola, convertendo alla causa parte dei bidelli da cui ne dipendeva l’esistenza durante la stagione estiva (in compenso mi ero personalmente impegnato a difenderne le inesauribili vertenze nella mia recente veste di delegato sindacale e poi di eletto nel neonato consiglio di circolo). Per qualche tempo abbiamo anche tenuto un’oca, non ricordo chi la portò, i bambini l’avevano chiamata Giannina.

Il ministero non lesinava i finanziamenti, 150.000 lire a classe se non ricordo male, una cifra allora più che rispettabile, per l’acquisto di materiale didattico, per i laboratori e per la biblioteca di classe, alla quale si provvedeva anche con la sostituzione del libro di testo. Eravamo  cinque insegnanti distribuiti su due classi “aperte”, considerando anche le ore di compresenza era possibile alternare i momenti collettivi con le attività di gruppo in laboratorio e anche con attività individualizzate per gli alunni con maggiori difficoltà.

Ovviamente non contavamo le ore trascorse a scuola, né quelle dedicate alla preparazione del lavoro che si svolgevano prevalentemente la sera a casa dell’uno o dell’altro. I colleghi, tutti più anziani di noi, ci guardavano con un misto di scetticismo ma anche di ammirazione per l’impegno che dimostravamo e per   l’originalità delle proposte di lavoro che illustravamo con entusiasmo nelle prime riunioni collegiali e, soprattutto, di timore di essere, un giorno o l’altro, indotti o addirittura obbligati a seguire le nostre orme.

Le motivazioni di ordine sociale, oltre che pedagogico, ci portavano infatti a proporre il costante incremento del numero di classi a tempo pieno, da noi viste come condizione per un percorso di radicale rinnovamento che, a partire dalla scuola, avrebbe dovuto coinvolgere la società intera. Il processo di espansione avvenne in effetti in tempi abbastanza rapidi, sotto la pressione delle esigenze lavorative dei genitori e del Comune di Torino che trasformò i posti del doposcuola in “tempo lungo” creando i presupposti per una graduale estensione del tempo pieno statale, ma non senza contrasti anche duri.
Ricordo chiaramente la forte opposizione nei Collegi degli insegnanti dello SNALS, il sindacato autonomo, che preconizzavano da un lato disastri per la scuola italiana e dall’altro, in modo fin troppo evidente, temevano di dover cambiare  consolidate, e comode, abitudini di lavoro. Difficile per chi per tutta la vita aveva fatto il maestro unico nelle sole quattro ore del mattino rassegnarsi ad andare a scuola anche il pomeriggio, collaborare nella stessa classe con almeno un altro collega dividendosi le materie, condividere il momento della mensa, ecc.

Questi colleghi, molti dei quali seri e preparati nella loro didattica tradizionale, cercarono fino all’ultimo di “scansare” il tempo pieno, diventandone peraltro fervidi fautori dopo l’introduzione dei moduli della Falcucci che imponevano orari e condizioni di lavoro ben più gravosi (famoso in questo senso e quasi ingestibile in molte situazioni, il 4 insegnanti su 3 classi).
Potendo vantare buone condizioni di anzianità e graduatoria si spostarono in massa sul tempo pieno con i loro metodi di insegnamento già consolidati, lasciando i moduli ai colleghi più giovani.

La legge 148/90 istitutiva dei moduli, figlia  dell’impostazione cognitivista dei programmi dell’85 con  l’abolizione del maestro unico e del tempo scuola di 24 ore, è stato l’ultimo grosso investimento sulla scuola italiana. Da allora tagli pressoché continui in particolare agli organici, fino a quelli famigerati della Gelmini con il tentativo di ritorno al maestro unico e al cosiddetto “tempo normale”. Il tentativo è miseramente naufragato ma i tagli sono rimasti togliendo al tempo pieno risorse finanziarie e, soprattutto, di organico, depotenziandone ulteriormente la qualità della proposta formativa.

Nel frattempo il tempo pieno era cresciuto allontanandosi sempre di più dall’ impostazione originale che noi, con entusiasmo, coraggio e un po’ di ingenuità avevamo cercato di dare, ispirandoci al nucleo fondatore del tempo pieno torinese di cui Fiorenzo Alfieri era il più noto esponente.

Sono diventato direttore didattico agli inizi degli anni ’80 con il preciso intento di proporre “quel” modello di scuola, ovviamente adattato alle diverse circostanze.
Pur avendo vissuto esperienze bellissime e in qualche caso eccezionali, non ho mai più incontrato né avuto modo di organizzare classi con quelle caratteristiche: una vera comunità educativa, la conoscenza che scaturiva da interessi reali e dall’esperienza di laboratorio, il legame continuo con il territorio, anche grazie alle splendide opportunità allora offerte dalla Città di Torino con gli assessori Dolino prima e lo stesso Alfieri poi, entrambi, non a caso, maestri e  direttori didattici.

Si trattava, evidentemente, di un modello legato a una precisa fase storica che richiedeva, tra l’altro, livelli di dedizione e motivazione difficilmente riproducibili.

Attualmente nel tempo pieno si riscontrano, peraltro, impostazioni pedagogiche e organizzative molto diversificate ma  troppe restano le classi  che replicano, a tempo raddoppiato, le modalità didattiche e relazionali del vecchio tempo “normale”: bambini pressochè inchiodati ai banchi, didattica quasi esclusivamente frontale, laboratori (se ci sono) frequentati sporadicamente e solo per specifiche attività, rare uscite sul territorio. Una sofferenza più che una conquista.

Spiace inoltre rilevare una costante e particolare disattenzione del Ministero e di tutta l’amministrazione scolastica verso le esigenze e la qualità della scuola a tempo pieno: paradossalmente anche in quest’anno di (post) pandemia, quando più forti sono le necessità di recuperare il terreno perduto, si registrano tagli in organico di diritto proprio su queste classi, andando ad eroderne ulteriormente le compresenze per poter mantenere il tempo scuola.

Le risorse del PNRR, appena approvato dal Parlamento, unitamente quelle derivanti dal consistente calo demografico, consentirebbero, dopo anni di tagli dissennati, di ridisegnare contorni e caratteristiche della nostra scuola nella direzione di un radicale rinnovamento e del superamento delle intollerabili disuguaglianze che ancora oggi, a oltre cinquant’anni dalla lettera di Barbiana, la caratterizzano. Tra le misure previste si parla di estensione del tempo pieno, in particolare al sud dove è tuttora scarsamente presente. Si tratta indubbiamente di una scelta giusta e prioritaria ma bisogna essere ben consapevoli che il tempo pieno non si realizza con il semplice raddoppio del tempo scuola: ci vogliono ore di compresenza per consentire la formazione di gruppi di lavoro, laboratori attrezzati per una didattica del “fare”, spazi di incontro e destinati alle attività ludiche e sportive, mensa e servizi di qualità e, soprattutto, insegnanti motivati e preparati, attraverso la leva irrinunciabile della formazione continua,  in grado di privilegiare la qualità della relazione e di una didattica attiva e partecipata.

Ripensare ruolo sociale e funzione del tempo pieno, le sue fondamenta pedagogiche, le sue condizioni didattiche e organizzative, i suoi rapporti con i servizi e con il territorio, può e deve essere  la pre-condizione non solo per la sua estensione ma anche per la riqualificazione di quello esistente, magari recuperando un po’ dello spirito e dell’entusiasmo delle origini  (e lavorando sull’idea di scuola e di scuola primaria in particolare che ci hanno lasciato i due grandi Maestri e amici, Fiorenzo Alfieri e Giancarlo Cerini, che ci hanno recentemente lasciato).

 

 




Il calcolo vivente

di Giancarlo Cavinato

Si parla oggi di somministrare ‘compiti di realtà’  (=simulazioni) per costruire competenze.
Tutto bene se non si tratta di artifici non emersi da reali interessi della classe.

Freinet, per superare un apprendimento meccanico – quello che Guido Petter definiva ‘l’aritmetica del  droghiere’ il ‘far di conto’, il meccanismo delle operazioni),  proponeva la tecnica del calcolo vivente.
Esperienze reali, che mettono in gioco le strutture logiche del pensiero.

La fecondità del calcolo vivente non sta solo nella sua vitalità, nel fatto che il fanciullo non sente il problema come materia estranea ma come qualcosa che gli nasce dentro, ma dal fatto che dal problema immediato nasce spesso (nasce specialmente quando gli stimoli del maestro lo mettano in evidenza) un problema più generale, più formale.[1]

Nessun settore di apprendimento può considerarsi a se stante, scisso dalla vita dinamica della comunità scolastica. La connessione del calcolo con le altre attività comunitarie è indispensabile in certe fasi; in momenti diversi, poi, le operazioni matematiche sembrano astrarsi completamente dagli oggetti e dai problemi viventi per esplicarsi nel campo dei simboli puri. Questo passaggio dal concreto all’astratto costituisce una inderogabile conquista intellettuale; ma no si deve mai perdere il contatto con  la prassi. Le conquiste astratte debbono in ogni istante potersi riapplicare ai problemi della vita concreta, in un continuo circolo in cui i simboli che son nati dalla  realtà servono a dominarla e a interpretarla meglio. Il calcolo, dunque, sorge dalle attività di compra e vendita, osservazione e misura, progettazione, ricerca, costruzione, che hanno luogo nella classe. Vi è quindi una motivazione dei fanciulli, che s’incontra con quella dell’educatore. Come si deve impostare e risolvere il problema vivente che via via si manifesta? Il maestro si deve guardar bene dall’impostare lui la soluzione, o dal tentare di provocare un ragionamento agendo lui stesso su certi materiali, manipolando e operando. Ammettiamo che la cooperativa di classe abbia acquistato 5 tubetti di colore, a 60 lire ciascuno. Vediamo quanto si è speso. Evidentemente, i ragazzi sono interessati a risolvere il problema: c’è una motivazione. […] Merito delle tecniche Freinet e del MCE è l’aver affermato la connessione del calcolo con le attività comunitarie, e necessità della motivazione. Ma questa non  è sufficiente. Il calcolo dev’essere vivente non solo perché sgorga dalla vita, ma anche perché il fanciullo vive la soluzione dei problemi, in un totale impegno dei sensi, dei muscoli e delle facoltà logiche. il simbolo stesso dev’essere scoperto dal fanciullo…[…] La conquista e l’esercitazione astratta dev’essere vista come un momento necessario e importantissimo  che sta tra una serie di esperienze viventi (da cui è scaturita) e ulteriori esperienze su cui rifluisce e da cui possono sorgere nuovi elementi di astrazione in un continuo circolo.[2]

Ogni tecnica un valore’, scrive Fiorenzo Alfieri[3]: per l’aggancio alla realtà, per il valore morale, per il valore della razionalità, per il valore socio-culturale. Ogni tecnica è essenziale per lo sviluppo dell’abito democratico. La matematica ha un ruolo fondamentale per la costruzione di valori.
Lo studio dell’aritmetica non era il triste momento dell’addestramento immotivato alle magie del calcolo, ma un’attività vitale come tutte le altre. [4]

Anche quando bisogna calcolare quanti posti ci saranno e quante persone ci staranno nelle auto dei genitori per andare di domenica in visita ai corrispondenti.
Oppure quando il direttore vuole regalare a tutti i bambini della scuola un sacchetto di caramelle per Natale.
Comprammo trenta chili di caramelle; si dovevano dividere in  500 sacchetti, tante quante in ognuno. Con che ardore si lavorò l’intera mattinata! Fu necessario organizzare e distribuire il lavoro…

Non può esserci esperienza e conquista di abilità e competenze, ci dicono questi maestri, senza un’organizzazione funzionale dell’ambiente di lavoro: sono necessari dei materiali e ogni cosa deve avere una collocazione chiara a tutti per poter operare.
Il pensiero matematico diventa modo di vita e confronto costante con gli altri alla ricerca delle soluzioni più funzionali.
Siamo ben lontani da una guida all’appropriazione di meccanismi rapidi e vuoti di significato o di una pratica e una manipolazione cieche senza una reale interiorizzazione di processi.

[1] Bruno Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti, Roma, 1971, p. 198

[2] Bruno Ciari, ‘I modi dell’insegnare’, Ed. Riuniti, Roma, 1973 , pp. 220 sgg.

[3] Fiorenzo Alfieri, ‘il mestiere di maestro’, Emme edizioni, Milano, 1974, p. 59 sgg.

[4] Fiorenzo Alfieri, op. cit., pp. 28 sgg.




I diritti dell’infanzia

di Giancarlo Cavinato                              

Nella pedagogia Freinet ampio spazio è dedicato alla tutela e alla piena realizzazione dei diritti dell’infanzia previsti dalla Convenzione ONU del 1989 .
Un congresso dell’ICEM, il movimento di scuola moderna francese, del 1983, si intitolava ‘Noi lavoriamo perché viva l’infanzia’. Nel 1986 il collettivo educazione alla pace del MCE ha organizzato a San Marino un convegno internazionale ‘Educazione pace cambiamento’ patrocinato dall’Unesco in cui ampio spazio era dedicato al tema dei diritti.

Nel 1982 la Ridef, l’incontro internazionale organizzato dalla Federazione dei movimenti di scuola moderna  (FIMEM), era dedicato ai temi dello sradicamento urbano e in particolare delle condizioni di vita nelle città tema ripreso alla Ridef del 2014 a Reggio Emilia che, su ispirazione del progetto internazionale ‘Città delle bambine e dei bambini’ coordinato da Francesco Tonucci, aveva come tema ‘Sguardi che cambiano il mondo- vivere nelle città delle bambine e dei bambini’.

In tale occasione è stato prodotto, a cura della Fimem, il libro ‘Non dobbiamo tacere- diritti negati, diritti riconosciuti, diritti conquistati’ dedicato ‘a tutti i bambini che soffrono su questa terra’, con documentazioni di situazioni di oppressione e possibilità di soluzioni positive da scuole e gruppi di educatori di tutto il mondo. L’assunto di base è che ‘i bambini del mondo sono bambini di tutti’ Attualmente il testo è disponibile nella collana on line ‘RicercAzione’ del MCE (www.mce-fimem.it).

Ma già alle origini il movimento Freinet ha assunto tale preoccupazione come fondamentale.
In uno dei suoi momenti fondativi, il Congresso I.C.E.M. ( Istituto cooperativo di scuola moderna) di Nantes,  nel 1957, nasce la F.I.M.E.M.
In tale incontro, che ha visto la partecipazione di insegnanti di diversi paesi assieme a pediatri, architetti, psicologi, è stata scritta una  ‘CARTA DEL BAMBINO’, che verrà proposta all’Unesco e che, assieme all’opera di Eglantine Webb, fondatrice di Save the children, e di Janusz Korczak, costituirà la base per i testi internazionali sui diritti dell’infanzia.

La carta  è stata  votata all’unanimità richiamandosi nella presentazione alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU.
Nel corso del congresso ebbe luogo un vivace dibattito per 4 giorni di seguito sul tema della disciplina e delle punizioni ( art.. 12 e 13) con la partecipazione di insegnanti e medici.

Nei 20 punti della mozione n. 1, annessa alla ‘carta’, si trovano le seguenti proposte:
– creazione in ogni città della ‘casa del bambino’
– limite massimo di 6 classi negli edifici scolastici
– limite massimo a 25 degli alunni per classe

Ecco una sintesi delle proposte della Carta:

art. 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Tutti sono dotati di intelligenza e ragione e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di aiuto e di fraternità

art. 2
Ogni bambino ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della sua persona.

art. 3
Nessun bambino sarà tenuto in schiavitù o in servitù.

art. 4
Nessun bambino sarà sottoposto a punizioni o a trattamenti inumani o degradanti

art. 5
Tutti gli individui sono uguali davanti alla legge e hanno diritto a uguale protezione da parte della legge.

art. 6
I bambini non sono né degli schiavi né dei servitori degli adulti. Neppure gli adulti sono schiavi dei bambini. La società deve pervenire a un equilibrio umano ed equo tra gli uni e gli altri.

art. 7
Se l’attività dei bambini non deve contrastare né disturbare l’attività degli adulti, essa non ha per questo meno diritto ad avere, nella vita dei popoli, il posto eminente che le riservano la sua importanza e il suo destino.

art. 8
I bambini hanno diritto nella loro FAMIGLIA, così come gli adulti:
– ad un alloggio dignitoso
– ad un’alimentazione sufficiente
– alla possibilità di attività, di lavoro e di gioco, proporzionate alla loro età

art. 9

I bambini hanno diritto, nella SOCIETA’:
– a spazi liberi dove possano dedicarsi alle attività essenziali per il loro sviluppo e il loro equilibrio: giardini, campi, boschi, fiumi, animali, casa dei bambini, parchi per l’esperienza e il lavoro, alla protezione basilare contro il frastuono, il macchinismo, gli individui pericolosi, contro i pericoli costituiti dal cinema, dalla stampa e dalla radio
– all’attenzione e all’azione educativa degli individui e delle organizzazione preposti a tale scopo

art. 10
I bambini hanno diritto, nella SCUOLA  e nei diversi CENTRI EDUCATIVI:
– al rispetto e all’umanità che vanno garantiti a ogni essere umano
– a locali convenienti, adeguati al lavoro e alle attività necessarie a una buona educazione e a una formazione efficiente
– a delle condizioni umane di lavoro senz’altra coercizione che i bisogni della comunità

art. 11
Il lavoro imposto ai bambini non potrebbe, in ogni caso, eccedere i limiti legalmente consentiti per gli adulti: 30 ore settimanali per i bambini, 40 ore per gli adolescenti

art. 12
La sola disciplina auspicabile è una disciplina di gruppo che non può che essere cooperativa. Ogni disciplina autoritaria fondata sulla forza oppressiva e sulle sanzioni che ne costituiscono l’arma e lo strumento, è un errore e una cattiva azione, che l’educatore deve evitare di impiegare

art. 13
Nei casi gravi, le sanzioni non dovranno essere somministrate che con estrema cautela, tenendo conto delle circostanze attenuanti e della preoccupazione non tanto di castigare, quanto di aiutare a raddrizzare e a progredire  proficuamente

art. 14
Nessuno ha diritto a imporre a bambini e ad adolescenti, prima della loro piena maturità, idee e credenze che non siano il risultato della loro personale esperienza o di una libera scelta a intervenire e a costituirsi forme di giudizio sugli eventi.
Lo sfruttamento morale dei bambini è proibito, così come il loro sfruttamento materiale.

art. 15
I bambini hanno diritto ad organizzarsi democraticamente, per il rispetto dei loro diritti e per la difesa dei loro interessi.

art. 16
Gli organismi legali a ciò preposti sorveglieranno nei diversi paesi sul rispetto della lettera della presente Carta, che dovrà essere affissa nelle scuole, nei municipi e in tutti i luoghi di vita pubblica.

Gran parte di tali indicazioni, come d’altra parte delle prescrizioni della Convenzione del 1989 , sono in diversi paesi ben lungi dall’essere rispettate e anche nei paesi ‘occidentali’ le applicazioni lasciano a desiderare. C’è ancora molta strada da percorrere se consideriamo la povertà materiale ed educativa, le discriminazioni, le sofferenze di molta parte dell’infanzia, come pure le molteplici forme di iperprotezionismo che limitano lo sviluppo di un’autonomia e di una piena cittadinanza attiva.
Noi sosteniamo che i diritti o sono universali o sono privilegi, e che, in quanto diritti, costituiscono principi universali astratti, ancora molto diversi nella loro effettività nei diversi contesti e situazioni di vita.

 




Messa a punto collettiva dei testi

L’apprendimento della lingua scritta darà luogo a un’acquisizione salda e organica a patto che scaturisca veramente da un processo di vita. L’artificio, il vuoto meccanismo, non possono dare che un precario addestramento, che si mantiene soltanto fino a che son presenti certi stimoli deteriori e non educativamente validi’   [1]

La considerazione dell’errore come tentativo provvisorio e non come dato immodificabile predittivo  di insuccesso è centrale in una pedagogia democratica e che si ponga l’obiettivo di non mortificare e demotivare gli alunni e di valorizzarne le espressioni.

C’è tutto un lungo lavorio che porta da una stesura di testi come trasposizione immediata di un parlato a un parlato ‘pronto per essere scritto’[2]

E’ un lavorio che attraversa fasi diverse e si avvale dell’apporto dell’insegnante che funge da stimolo e rispecchiamento e non da censore, ma ancor più dell’apporto e dei suggerimenti dei compagni che cercano, in quanto comunità linguistica, le soluzioni più adeguate. Il testo viene così rimaneggiato più volte fino ad assumere una formulazione ritenuta soddisfacente. Andrà così inserito nel libro di storie della classe o nel giornalino. Non rimarrà chiuso in un quaderno.

L’insegnante bada allo sbaglio di ortografia o di grammatica: la sua valutazione ha per oggetto quasi esclusivamente la correttezza formale del testo. In questa prassi la ricchezza e la originalità del pensiero non vengono prese in considerazione che a parità di correttezza ortografica. Ma quale ricchezza, quale originalità potrà venir fuori in una situazione educativa i n cui non si bada che alla forma? [3]

Nell’esempio riportato sopra, ‘Carla  che ha scritto la storia e la consegna alla maestra ha molte aspettative, non certo quella di consegnarla a… un correttore di bozze o a un commissario d’esame. […] E’ all’inizio della seconda, la storia l’ha scritta in stampato con un grosso pennarello nero su due fogli A4 in orizzontale, andando a capo quando finiva il foglio. Ha usato per scriverla un tempo del suo piano individuale di lavoro.  Carla non ha nessuna delle preoccupazioni della maestra riguardo alla correttezza, è tutta presa dalla sua storia… [4]

Una volta comunicato il suo pensiero, la sua ‘gelosia’ per il fratellino  che rimane a casa con la mamma, e il sogno che possa venire a scuola con lei, può entrare in azione la squadra di ‘correttori’ di bozze: si discute, si toglie, si aggiunge, si chiede a lei di spiegare, si cancella, si amplia. Si valutano varie proposte (la Lim si presta meglio della lavagna tradizionale).

E’ un’attività impegnativa di ricerca di funzionalità e comunicatività delle scritture  che si alterna a momenti di scrittura collettiva, incluso l’autodettato collettivo a seguito di esperienze della classe.

La conquista della correttezza e della competenza avverranno gradualmente grazie al lavoro paziente del gruppo che, guidato dall’adulto, esplorerà le vie per rendere la comunicazione più efficace.[…]E’ la motivazione di fondo che muta, in questo tipo di revisione del testo, rispetto alla semplice “correzione” dell’insegnante sul testo di un alunno che si è espresso secondo un modello linguistico lontano da quello dell’adulto. La motivazione cambia dal di dentro e profondamente il significato delle nostre azioni[5]

‘I ragazzi generalmente partecipano con entusiasmo a questa  operazione, dato che il testo eletto è diventato un po’ di tutti loro. Una tale partecipazione emotiva non vi sarebbe se il testo non fosse stato scelto dai ragazzi. Il maestro trascrive alla lavagna  il testo in esame, proposizione per proposizione. I ragazzi sono invitati a individuare gli errori […] l’insegnante dà la parola a un ragazzo, il quale si reca alla lavagna e corregge l’errore; tutti gli altri sono invitati a dire se la correzione è giusta o no. Ed è qui che vien fuori la grammatica vivente, la quale sorge dalle difficoltà della lingua viva e non da fredde e meccaniche lezioni. […]L’importante è che i ragazzi prendano da sé coscienza dell’errore; non è mai auspicabile che il maestro corregga direttamente.[6] 

Scriveva Freinet: ‘Abbiamo esposto […] i vantaggi pedagogici della redazione libera e spontanea, motivata dalla stampa, dal giornale scolastico e dagli scambi interscolastici; i vantaggi della scelta da parte dei bambini stessi, della messa a punto in comune, di questa specie di esaltazione e di liberazione psichica che suscitano la presa in considerazione del pensiero del bambino, la trascrizione in caratteri stampati (oggi al PC n.d.a.), l’illustrazione e la sua diffusione.[7]

 

[1] B. Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti,Roma, 1971
[2] L. Lentin, ‘Il bambino e la lingua parlata’, Armando, Roma, 1973
[3] B. Ciari, op. cit., p. 99
[4] B. Campolmi, A. Di Credico, N. Vretenar (a cura di) ‘Chi ben comincia…parlare scrivere leggere a scuola’ Asterios, Trieste, 2020 p. 117
[5] N. Vretenar (a cura di) ‘Dire fare inventare parole e grammatiche in gioco’, Asterios, Trieste, 2020 p. 109 sgg.
[6] B. Ciari, op. cit. , p. 104-105
[7] C. Freinet ‘La scuola moderna’, Loescher, Torino, 1969, p. 112, trad. G. Tamagnini (una nuova traduzione è in corso da parte di E. Bottero per i Quaderni di cooperazione educativa