CodeFest 2021: una grande manifestazione per capire come funziona il digitale

di Stefano Penge

Digitale ovunque. Nella scuola, nel lavoro, nel divertimento.
Digitale come servizio, come risorsa a disposizione di tutti, appena girato l’angolo di Google.

Tempo fa [1] scrivevo che ci sono tre miti che circolano sulla rete: 1) che sia un ambiente naturale, 2) che le risorse che offre sono gratuite e 3) che siano infinite. Un supermercato infinito, con scaffali pieni di ogni ben di dio, senza nessuno alla cassa. Tanta formazione alla “didattica digitale” si poggia proprio su questi miti.

C’è ancora chi proprio non riesce ad adeguarsi al flusso mainstream e si domanda: cosa rende possibile tutto questo?  I computer, certo, i cavi e i satelliti, senz’altro. Ma cos’altro c’è, sotto la superficie?
In un senso, sotto ci sono interessi, soldi, potere, che governano questo come altri campi, con buona pace di chi vedo solo futuri rosei in cui intelligenze artificiali e persone andranno a braccetto. Non è per amore della condivisione della conoscenza che possiamo fare ricerche, scambiarci email, tradurre, condividere agende, parlarci a distanza. Ed è curioso che quasi nessuno – in un mondo così attento al profitto, alla conquista di ogni possibile mercato – metta in questione tutta quest’abbondanza di risorse gratuite; non solo quelle create e condivise da docenti-artigiani di buona volontà, ma anche quelle che richiedono enormi centri di calcolo solo per essere distribuite. Cosa ottengono le grandi imprese in cambio di questi servizi gratuiti? Da dove traggono le risorse economiche per restare in piedi? Per quanto tempo questi servizi resteranno gratuiti?

In un altro senso, sotto tutti questi servizi c’è il codice sorgente: un testo che fa funzionare i computer, raccoglie e trasforma dati, inventa mondi e connette persone. Anche oggi, nell’era delle interfacce ammiccanti, dei podcast, dei videotutorial, quello che c’è sotto è sempre un testo. Proprio così: solo lettere, numeri e segni di interpunzione, perché è di questo che sono fatti tutti i programmi che fanno girare il mondo, dagli smartphone ai satelliti.

Oggi, molto più di ieri, siamo letteralmente (!) immersi in un mondo di testi. Solo che non lo sappiamo, o non vogliamo saperlo.  La superficie è molto più rassicurante. Secoli di divisioni tra tecnica e umanesimo, tra estetica ed etica ci hanno abituato a disinteressarci di quello che c’è sotto il cofano della macchina. Il design dei dispositivi che ci rendono possibile lo stile di vita occidentale punta a nascondere sotto superfici lisce, dai colori tenui, tutto quello che potrebbe disturbarci perché ci ricorda che non lo capiamo.

Perché questi testi che governano il nostro mondo sono incomprensibili per il 99,6% della popolazione mondiale (oggi ci sono circa trenta milioni di programmatori nel mondo, che su 8 miliardi di abitanti del pianeta circa fa appunto lo 0,4 %). Questi trenta milioni sono gli unici esseri umani in grado di verificare (leggendolo) cosa fa un programma. Se, per ipotesi, venissero tutti sostituiti da software in grado di programmare al loro posto,[2] avremmo un mondo perfetto di cui non saremmo più in grado di riprendere il controllo. Questo secondo senso si incastra perfettamente col primo: se otteniamo tutto quello che ci serve gratis, non c’è più bisogno di capire come funziona.

Ma sapere cosa davvero c’è sotto è importante anche per avere una conoscenza di una parte di attività umana che ci sfugge. Il codice sorgente non è fatto di 0 e di 1, come ancora si legge da qualche parte, magari sottintendendo che siccome usano un codice binario i computer possono scegliere solo tra due cose, bianco e nero: insomma sono stupidi. Sarebbe come dire che le lingue umane sono composte solo da suoni.  0 e 1 sono le lettere di un alfabeto, con il quale si compongono parole, frasi, testi e intere biblioteche. Non è vero che computer capiscono solo 0 e 1: non li capiscono affatto. Invece capiscono istruzioni complesse, descrizioni di situazioni,  condizioni, specifiche di azioni, purché appartenenti ad uno degli ottomila linguaggi di programmazione oggi esistenti, e rappresentate con l’alfabeto più semplice possibile: quello appunto a due simboli.

Quando oggi gli esseri umani scrivono il codice sorgente di un programma non usano 0 e 1, né quelle strane parolette incomprensibili (MOV, PTR, JMP) che sono solo delle etichette più facili da ricordare per ordinare al processore di spostare dati da un registro all’altro. I linguaggi che si usano oggi sono flessibili, complessi.  Permettono di scrivere regole e fatti, di definire funzioni, di costruire classi di oggetti che ereditano conoscenze.  Non sono nemmeno tutti ispirati all’Inglese, come ancora qualcuno crede: ci sono linguaggi basati sul francese, sul finnico, sull’arabo, sul giapponese.

I linguaggi di programmazione vengono inventati continuamente, a differenza delle lingue naturali. Spesso un linguaggio viene inventato per fornire ai programmatori uno strumento più veloce e pratico, o  più flessibile e potente; a volte per  fornirne uno più elegante e piacevole. Perché i linguaggi sono creati da esseri umani per altri esseri umani, non per i computer. Tant’è che ci sono linguaggi inventati per gioco, per divertimento, per mostrare quanto si è intelligenti e sfidare gli altri, ed hanno nomi come Malebolge, Shakespeare, LOLCAT, Chef o Cow. Questa classe di linguaggi, detti pomposamente “esoterici”, sono praticamente inutili, ma svolgono una funzione puramente estetica, alla faccia di chi sostiene che l’informatica è una tecnica senz’anima. L’esistenza di questi linguaggi dice anche molto sul fatto che gli esseri umani riescono a divertirsi anche facendo le cose più serie, e non resistono a prendersi in giro da soli.

Anche i codici sorgenti non sfuggono a questa legge: i testi dei programmi non sempre sono “algoritmi codificati in un linguaggio per risolvere un problema”, come vorrebbero i manuali. Ci sono programmi che non risolvono nulla, ma sono opere d’arte, scherzi, poesie. Sì, poesie: perché l’estetica si infila in ogni attività umana, in particolare quando si mette di mezzo un linguaggio.

Certo viene la curiosità, soprattutto per una scuola che ospita iniziative di Coding e che propone l’apprendimento del pensiero computazionale per preparare le generazioni future di programmatori (o almeno così pensa): ma chi sono allora questi programmatori? Sono sacerdoti della Macchina Divina che si aggirano in camice bianco? Sono hacker quindicenni e brufolosi che scatenano guerre nucleari spiattellando  i segreti della CIA? Sono nerd bianchi etero che vivono solo per schiacciare tutti gli altri con la forza della loro conoscenza  ultra-specialistica? Questi sono i luoghi comuni che costituiscono il nostro immaginario collettivo e che provengono dal cinema e dalla letteratura di fantascienza. Ma i programmatori sono anche altro: sono ragazzini e vecchietti, cinesi e russi, donne (poche, purtroppo) e altri generi, geni e principianti, creativi e precisini. Scrivono in maniera diversa, anche per ottenere lo stesso risultato, in base alla loro storia, alla loro lingua madre, alle preferenze stilistiche, alla fase della loro vita. Esattamente come ciascuno di noi scrive diversamente un messaggio d’amore e una velenosa lettera all’amministratore di condominio.

Il fatto è che ancora se ne sa poco: è un campo che non è studiato allo stesso modo, poniamo, di quello della letteratura tradizionale. Non esiste una “sociolinguistica” del codice sorgente.
Di tutti questi temi  si occupa CodeFest 2021, il festival online che si apre il 27 Settembre e si chiude l’8 ottobre. Un Festival unico al mondo, organizzato insieme dall’Università di Torino e dall’associazione Codexpo.org. Riflessioni, concerti, spettacoli, laboratori in cui si affrontano l’estetica digitale,  la conservazione del patrimonio, le sfide sociali, le infinite possibilità della scrittura. Tutto per cercare di sfatare il mito della programmazione come roba da macchine, per cercare di raccontare un’altra avventura dell’umanità alla ricerca della perfezione.

Per saperne di più e per partecipare
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[1] Le tre fallacie della rete, in  “Una scuola per la cittadinanza. Volume 2: Gli orizzonti di senso”, a cura di Mario Ambel. PM Edizioni, 2020,  pagg. 178-184.

[2] Come provo a raccontare in La fine della formazione, https://www.stefanopenge.it/wp/?p=912




Scuola e digitale, è una questione di testa non di età

di Gianfranco Scialpi

Scuola e digitale, l’intervista del Ministro Bianchi collega la competenza all’età.
La questione è più complessa e riguarda la testa.

Scuola e digitale, l’intervista del Ministro

Scuola e digitale. Il Ministro ha rilasciato un’intervista.
La questione del rapporto con l’uso dei dispositivi elettronici è liquidata, riducendo tutto all’età.
Si legge su Repubblica.it: “Tutti i ragazzi che vanno a scuola sono nati in questo secolo, tutti gli
insegnanti nel secolo precedente. Non è una differenza da poco. I ragazzi hanno una capacità
innata di utilizzare gli strumenti digitali. Dobbiamo, già da questa estate, promuovere una scuola più aperta, consapevole del fatto che le competenze del passato possiamo esprimerle in modi diversi; ma anche del fatto che con queste macchine, possiamo fare cose mai fatte prima.
Dobbiamo usare il digitale per aprire le scuole, connetterle fra loro.”

La situazione è più complessa. Gli immigrati digitali

A mio parere il passaggio riportato, ha il pregio di semplificare, ma anche di distorcere la realtà.
Stando alle definizioni di M. Prensky (2001), da una parte ci sono i nativi digitali molto competenti e dall’altra gli immigrati digitali identificati con gli insegnanti che a parere del Ministro faticano nell’alfabetizzazione informatica e nell’acquisizione delle relative competenze. Ora la quotidianità ci restituisce una diversa realtà. Innanzitutto occorre dire che molti maestri e professori hanno colonizzato prima dei ragazzi gli ambienti virtuali.

L’indagine PISA 2018 ed elaborata dall’Invalsi registra che il 50% dei docenti possiedono competenze tecniche e pedagogiche necessarie per integrare i dispositivi digitali nelle pratiche di insegnamento.
A questo dato aggiungo che molti docenti propongono ai nativi digitali (definizione che rimanda a una condizione temporale) corsi e itinerari operativi finalizzati alla saggezza digitale (M. Prensky, 2011). In alcuni casi gli insegnanti, e non sono pochi, avviano i ragazzi al coding, alla robotica o creano le premesse lavori futuri completamente supportati dal digitale. Ovviamente esistono anche docenti refrattari o in difficoltà nell’uso dei dispositivi digitali.
Non potrebbe essere diversamente. Ogni aspetto dell’umano è sempre caratterizzato dal grigio, mai dal bianco o dal nero!

La conferma di una difficoltà da parte dei nativi digitali

Tale scenario si ripete anche sul versante dei nativi digitali. A livello di scuola secondaria di primo grado (scuola media) la situazione è abbastanza disastrosa: poca importanza ai sistemi di protezione (antivirus, password) e scarsa conoscenza delle procedure per una navigazione sicura. Su quest’ultimo aspetto la conferma proviene da un articolo pubblicato da La lettura del Corriere della Sera (6 giugno) e relativo all’attuale periodo pandemico.
Si legge Rapporto Europol: “Durante i lockdown, i ragazzi hanno passato più tempo online condividendo video e immagini finiti in mano ai pedofili. Il traffico di materiale pedopornografico ha subito un aumento esponenziale. Il National center for missing and exploited statunitense, a maggio 2020, il centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia online ha trattato 3.243 casi, denunciando 1.261 persone ( 132% rispetto al 2019). Critico il numero degli adescamenti in rete, 401, evidenziando un considerevole incremento di vittime tra 0 e 9 anni. Bambini che non dovrebbero usare i social”.
A questo aggiungo anche il recente report di Save the children sulla povertà educativa digitale. “Dai risultati della ricerca, emerge che circa un quinto (20.1%) dei minori…Non
è in grado, ad esempio, di identificare una password sicura, oppure condividere lo schermo
durante una videochiamata, inserire un link in un testo, scaricare un file
da una piattaforma della scuola, utilizzare un browser per l’attività didattica”.




Almeno i banchi avevano tutte le rotelle

di nonno Marco

In un anno ho sentito davvero molte sciocchezze, anzi troppe.

Ma al peggio non c’è fine e mi chiedo quale formulazione saprà in futuro battere la polirematica appena coniata da Rossano Sasso: “dobbiamo formare dirigenti e docenti anche affinché puntino all’empatia digitale più che al nozionismo (corsivo mio)”.

La neo-lingua con cui le istituzioni (ma anche molti dei loro più fieri e apparenti avversari) coprono il proprio vuoto culturale e anche molte responsabilità si arricchisce ulteriormente.
Siccome il nostro nuovo sottosegretario non ha però fornito né un’interpretazione autentica né una vera e propria definizione, se non la consueta contrapposizione al “nozionismo”, bersaglio scontato di ogni innovatore che si rispetti, proviamo a farlo qui.


L’empatia digitale è il sorriso virtuale degli insegnanti di scuola primaria che, anziché pensare a comunicare con i propri scolari, devono impiegare parte del tempo ad autorizzare l’ingresso nell’aula virtuale dei genitori che – disponendo magari del proprio smartphone – chiedono l’accesso con l’account personale anziché con quello del/la figlio/a?

O forse è  — più in generale — l’entusiasmo del/la prof che convintamente impiega mezzi di comunicazione pensati per le riunioni aziendali per la duplicazione delle lezioni frontali usualmente tenute in aula, contento/a che l’imposizione dello spegnimento dei microfoni e la distanza fisica tra gli/le studenti impedisca finalmente il loro fastidioso e ingiustificato chiacchiericcio? E magari già immagina a quali mezzi di contenzione ricorrere per verificare l’avvenuto apprendimento, non conta se meccanico o significativo: l’importante è misurarlo.

Magari invece è il tono spersonalizzante — e come tale davvero perfetto per chi si autopromuove a direttore di un’istituzione totale — con cui qualche dirigente scolastico si rivolge alle famiglie, ricordandone non tanto diritti, quanto vincoli e doveri: “Le regole di buona educazione che vengono osservate a scuola dovranno essere rispettate anche online (saluto, rispetto del silenzio o dei turni di parola, rispondere quando richiesto, gentilezza, collaborazione ecc.). Anche se si segue da casa, occorrerà presentarsi alle lezioni online ordinati e vestiti in maniera appropriata, per il dovuto rispetto ai docenti, ai compagni di classe e a se stessi. Si dovrà accedere alla piattaforma con almeno 5 minuti di anticipo, in modo da risolvere eventuali problemi tecnici e predisporre il materiale scolastico necessario. Prima di partecipare alla lezione si dovrà verificare di avere a disposizione tutto il materiale didattico necessario (quaderni, libri, penne ecc.), da utilizzare insieme agli strumenti digitali. Le assenze dei bambini verranno registrate normalmente e andranno giustificate con una comunicazione ai docenti“.




Rai Scuola: di tutto, (ma) di meno

di Marco Guastavigna

La sindemia ha fatto un’altra vittima.

La Rai ha compiuto una scelta davvero molto discutibile, disattivando completamente la sezione fino a qualche mese fa dedicata alla produzione e alla raccolta di contenuti interattivi prodotti da singoli utenti della sua piattaforma per la costruzione di lezioni multimediali, di cui troviamo ancora una pallida ed ectoplasmatica testimonianza grazie a Wayback Machine.

Utilizzando i vecchi indirizzi, si viene ora proiettati all’interno dell’insieme dei materiali per la scuola prodotta direttamente da Rai Play.
Davvero un vulnus alla didattica.

Non solo perché non aver nemmeno avvisato della decisione le centinaia di insegnanti—tra cui il sottoscritto e numerosi colleghi, a diverso titolo corsisti di TFA, Prefit, Specializzazione per il sostegno — dimostra quale sia l’effettiva considerazione da parte dell’ente radiotelevisivo a proposito di chi non è un professionista della comunicazione.
Ma anche e soprattutto perché il meccanismo sacrificato testimoniava un approccio davvero utile e lucido: la mediazione didattica come autorialità indiretta.

Rai Scuola permetteva e richiedeva infatti la costruzione di percorsi multimediali mediante selezione e raccolta strutturata di video, testi, immagini e così via già presenti sulla rete internet, al fine di realizzare un’unità tematica strutturata, corredabile di strumenti per l’elaborazione e il commento, come testimoniato anche dal tutorial a suo tempo realizzato da Gianfranco Marini.
Il tutto veniva poi pubblicato sulle pagine RAI e inserito in un archivio fornito di uno specifico motore di ricerca, capace di scansionare per tema, ordine di scuola, titolo delle lezioni prodotte.

Un’idea, insomma, semplice da realizzare sul piano tecnico-operativo e per ciò stesso potentissima sul versante cognitivo e culturale e replicabile più e più volte: il focus del lavoro richiesto agli autori di secondo livello erano infatti i criteri per la scelta dei materiali (attendibilità, comprensibilità, inclusività) e lo scopo e le caratteristiche delle attività di riflessione su di essi.

Saremmo davvero curiosi di conoscere le ragioni di questa decisione, che ci pare in piena contraddizione con la generale mobilitazione messa in atto dall’emittente pubblica a fronte della situazione emergenziale delle scuole.




Didattica digitale integrata: visione cercasi disperatamente

di Antonio Valentino

Parto dal Decreto sulla Didattica Digitale Integrata (DDI) del 26 giugno scorso (in GU dal 20.8), per cercare di capire qualcosa in più sullo stato dell’arte della nostra scuola a tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico: con l’Infanzia, la Primaria e le prime classi della secondaria di I grado aperte da settembre, ma con alterna fortuna e non ovunque (dal 30 novembre, anche le seconde e le terze di quest’ultima); e le ‘Superiori’ che continuano con la Didattica da remoto, con le varianti previste dal Decreto.

Decreto la cui ’sostanza’, come è noto ai più, può essere così sintetizzata:
l’obiettivo: fornire indicazioni (Linee Guida) sulla DDI – intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento” (?!) –;
il compito: “integrare la didattica in presenza” (con attività laboratoriali e interventi sugli studenti con BES, ove possibile, entro però spazi orari delimitati), garantendo comunque un “bilanciamento tra attività sincrone e asincrone”;
i destinatari: “tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, nelle situazioni in cui c’è Didattica a Distanza” (DaD).

La DDI – si stabilisce – può però essere estesa anche agli altri ordini e gradi scuola, ma solo in caso di un nuovo lockdown generalizzato.
Questo, in buona approssimazione, il quadro generale delle disposizioni entro cui la nuova metodologia della DDI dovrebbe poter esprimere la sua carica innovativa. Se, ovviamente cercandola, la si trovi.
Il passaggio principe previsto, perché l’operazione si concretizzi: “Elaborare un Piano Scolastico di Didattica Digitale Integrata”. Di questo in effetti, in tanti tra ds e docenti, avvertivano acuta mancanza.

Il quale Piano però, per essere elaborato come si deve, deve qualificarsi con ‘ingredienti’ di peso puntualmente indicati nel Decreto. Tra questi, si segnalano, a ben leggere, soprattutto i seguenti tra i fondamentali:

– “integrare il Regolamento d’Istituto con specifiche disposizioni in merito alle norme di comportamento da tenere durante i collegamenti ….” (guai – si sottintende – a evitare questo imperdibile passaggio);

– “disciplinare le modalità di svolgimento dei colloqui con i genitori, degli Organi Collegiali … e di ogni altra ulteriore riunione” (la cui urgenza e significatività, chi la può negare?);

– “Individuare gli strumenti per la verifica degli apprendimenti inerenti alle metodologie utilizzate” –  e qui siamo nell’ordinario – e  specificare (è la nota qualificante) che “… qualsiasi modalità di verifica di una attività svolta in DDI non [può] portare alla produzione di materiali cartacei …” (non sia mai …)

Una perla a sé è la seguente:
preoccuparsi (soggetto, gli insegnanti) “di salvare gli elaborati (sic!) degli alunni medesimi e di avviarli alla conservazione (sic! Sic!) all’interno degli strumenti di repository a ciò dedicati” (No comment)

C’è da chiedersi, anche solo con questi richiami, e senza voler tirare in ballo l’autonomia e altro: ma, un Ministro come fa a pensarle così e tutte insieme o a consentirle? Ce ne vuole!

Se oggi siamo messi così. I terreni scoperti

Ironia a parte, quello che si intende qui mettere in evidenza è che alla base del disorientamento e delle difficoltà che si percepisce tra docenti, dirigenti e personale scolastico in generale, c’è certamente la confusione sull’apertura delle scuole a livello nazionale, ma ha il suo peso anche la poca chiarezza  di idee chiare sulla Didattica digitale – a cui tra l’altro il Decreto di agosto è intestato – e la sua collocazione in un discorso di prospettiva. Per tacere d’altro.

Si sconta evidentemente su tali questioni non solo la sottovalutazione di una riflessione, condivisa tra i vari livelli istituzionali, sui mesi della prima ondata della pandemia, ma anche la disattenzione – chiamiamola così – alle condizioni primarie per la ripartenza di settembre. Quando le cose sono andate come sono andate, e in parte continuano ad andare, proprio perchè a tali condizioni non si è lavorato con la necessaria determinazione e chiarezza di prospettiva.

Il riferimento è soprattutto alle tre questioni su cui ancora oggi la partita non appare conclusa[1]:
quella degli organici, a partire dall’organico di scuola, ancora oggi, in alcune realtà ancora ballerino, e dalla previsione e garanzia di un organico aggiuntivo di supplenti, per fronteggiare le prevedibili assenze dei docenti delle scuole perchè contagiati o in quarantena per l’emergenza: senza queste disponibilità è chiaro che è difficoltosa anche la gestione delle scuole ‘aperte’ e  la previsione/garanzia di un orario scolastico ridotto il meno possibile.

Ma anche la questione dei trasporti per i ragazzi delle scuole superiori; terreno sul quale andavano studiate per tempo e rese effettive le intese con le amministrazioni territoriali, ma che ancora adesso appare confuso e diversificato; e quella dei tracciamenti del contagio, per fronteggiare al meglio il prevedibile lento sfaldamento delle classi e il silenzioso processo di abbandono da parte degli studenti più ‘deboli’, di cui scrivono un po’ tutti i giornali.

Appiattire invece, come di fatto fa il Decreto,  la D.D. sulla DaD (questa sì, misura emergenziale), non fa cogliere le direzioni di marcia da individuare in questo momento.

Prima fra tutte, quella che si pone come traguardo: far crescere in modo diffuso, contestualmente alle necessarie competenze, una cultura digitale capace di andare oltre la pur fondamentale padronanza delle tecnologie informatiche, per farla diventare soprattutto motore di integrazioni metodologiche e tecnologiche delle attività di insegnamento[2].

Occorre però, per questa problematica, essere consapevoli che in buona parte del personale della scuola c’è ancora la convinzione diffusa che le trasformazioni indotte dalla rivoluzione digitale interessino solo marginalmente il sistema di istruzione. E che pertanto la D.D. va trattata essenzialmente come un optional, se non proprio come il dono dei Danai ai Troiani del quale temere (il famoso ‘cavallo di Troia’ dell’epopea omerica, ripresa da Virgilio). Convinzione ancora maggioritaria, anche se sappiamo essere, per fortuna, in decrescita, come si dice adesso.

Se è  cosi, allora, il progetto sulla cui base costruire il Piano per la D.D. di cui parla il Decreto andrebbe sostanzialmente riscritto con attenzioni e finalità più chiare e congruenti;  puntando in primo luogo a sviluppare  preliminare consapevolezza

  1. che la rivoluzione digitale (rete, internet, connessioni) si sta dimostrando sempre di più come una grande risorsa anche sui terreni dell’istruzione, della formazione e della comunicazione;
  2. che con essa ci tocca comunque fare i conti; ma anche
  3. che le tecnologie informatiche, come tutte le tecnologie, hanno sempre e comunque una natura strumentale; che, se si perde, fino a diventare causa e fine a se stante, fa correre il rischio, molto prevedibilmente sul fronte scuola, di oscurare il patrimonio di ricerche, esperienze, acquisizioni che in non pochissime nostre scuole continuano a dimostrare senso e vitalità.

E sempre a proposito di consapevolezze da promuovere, andrebbe anche richiamato

che comunque la D.D., perchè abbia valore nella scuola, o è integrata – e quindi si collega e coniuga con le esperienze e le acquisizioni più significative, innovative e qualificanti a cui si faceva sopra riferimento – o non è. E lo è, non nel senso che integra la didattica da remoto con attività in presenza – come fa il Decreto che qui si considera – ma nel senso che si integra con le funzioni e le pratiche più innovative della nostra cultura scolastica[3];

che, pertanto, la formazione digitale per il mondo della scuola, se non sa alimentarsi di una cultura pedagogica dei processi di istruzione ed educazione, corre il rischio di non essere alleata preziosa dell’auspicabile rinnovamento, ma piuttosto fattore di snaturamento dei suoi aspetti identitari più preziosi.

Cultura pedagogica, va sottolineato, che sia in grado di riportare in primo piano la dimensione educativa del fare scuola – assieme alla centralità del soggetto che apprende nella sua interezza – e la curvatura dell’insegnamento sulla linea dell’apprendimento (per sviluppare potenzialità e competenze inespresse).

Un’ultima non secondaria consapevolezza da promuovere: che i miglioramenti più significativi dei processi cognitivi e del funzionamento della mente si verificano – come chiariscono studi e ricerche [4] – quasi esclusivamente se – tra allievi e tecnologie e reti – c’è intermediazione da parte del docente. E questo è un punto che va enfatizzato. Anche perché dovrebbe essere motivo di riflessione, ma anche di orgoglio per una categoria che, per le più diverse ragioni, sembra averlo perso.

La D.D. nel piano formativo di istituto. Le offerte sul web, numerose e di qualità, una miniera preziosa per le scuole.

Una considerazione finale a proposito del Piano formativo di Istituto (PFI) rilanciato dal Decreto.

Si moltiplicano, in queste settimane, iniziative di formazione e approfondimento da più parti sulle tematiche del digitale, con l’intento di fornire strumenti da utilizzare in aula per una didattica ibrida e funzionale. A leggere i titoli di iniziative e pubblicazioni si coglie l’intento di assumere le tecnologie informatiche come possibili e importanti alleate per un fare scuola in modo più vario e accattivante; senza comunque nessuna sottovalutazione dei rischi di cui si è prima detto.

Perché queste iniziative non si disperdano in rivoli poco efficaci, sarebbe importante che i PFI in questa fase nascessero – è la proposta sensata di una dirigente dell’area milanese – dalla selezione mirata (e contenuta) tra le diverse iniziative – e ovviamente tra le altre di Istituti come l’INVALSI e l’INDIRE –  senza pesare sul budget delle scuole e senza appesantimenti particolari, per le stesse, sul piano organizzativo (dove l’impegno sarebbe riservato soprattutto alla ricerca di webinar e piattaforme  più in uso da parte delle scuole e alla messa a punto del loro utilizzo).

Scontato criterio base per la ricerca: cogliere le rispondenze migliori ai diversi bisogni formativi del personale della scuola in generale e degli insegnanti in particolare.  Per meglio interpretare le esigenze dei propri studenti e assicurare loro le risposte più promettenti. Così ci mettiamo in regola anche con …. una Linea Guida indicata dal Decreto.

[1] Anche se adesso c’è qualche elemento positivo in più: la Nota ministeriale del 9 novembre in cui si raccolgono le proposte sindacali di maggiore attenzione alle condizioni del lavoro docente in questa fase; ma anche una maggiore concretezza per le previsioni di apertura anche delle scuole superiori dopo le festività natalizie. Ma comunque, la sensazione di disagio e anche di confusione per molti versi permane.

[2] Interessanti le annotazioni sul punto di Cesare Rivoltella, Superare facili contrapposizioni. In presenza o a distanza la didattica merita di più, in Avvenire.it (27 novembre 2020). “La scuola ha sicuramente bisogno di formazione e sviluppo professionale in tema di innovazione. Che non vuol dire, però, training all’uso dello strumento. Occorre non confondere le competenze informatiche di base con l’expertise nelle tecnologie educative: è un problema di pedagogie e di didattiche, non di icone da cliccare”.  In questo stesso articolo, l’Autore, a proposito del valore dello ‘sguardo pedagogico’, dopo aver richiamato l’importanza della relazione e il suo stretto rapporto con l’intenzionalità educativa , annota opportunamente che  “Posso essere in aula e totalmente non relazionale. Posso lavorare in rete ed essere vicinissimo ai miei studenti.”

[3] Da ciò la percezione che le Linee Guida per la DDI si collochino al di sotto della prospettiva attesa; percezione avvalorata già dal senso attribuito al termine integrata che nel decreto appare riferito alle attività che le scuole possono organizzare in presenza (attività di laboratorio, interventi per BES …) nei periodi di sospensione delle lezioni e non invece alla integrazione tra la DD e Didattica agita da molte nostre scuole che fanno bene il loro mestiere.

[4] R. Baldascino, Google, in “Voci della scuola”, Tecnodid X- 2011, p. 284 riporta studi e ricerche al riguardo.




Tecnologie per lo sviluppo umano?

Nel documento che pubblichiamo, Marco Guastavigna e Stefano Penge, due grandi esperti di tecnologie e di quella che viene spesso denominata “didattica digitale”, discorrono sull’uso delle TIC nel campo della conoscenza in
funzione di uno sviluppo caratterizzato da emancipazione, equità, sostenibilità.
Nella introduzione spiegano le motivazioni e le finalità del loro ragionamento che proprio in questa fase si rivela di particolare importanza per evitare che anche dopo l’emergenza di prosegua con una contrapposizione assoluta e del tutto sterile fra tra “digitale-sì” e “digitaleno”.
Sembra una bella chiacchierata fra amici, ma in realtà è un documento ricchissimo di elementi di riflessione che apre prospettive culturali, sociali e pedagogiche (ma in definitiva politiche) sulla pervasità del “digitale” nella scuola.
E, al terminedella lettura si capirà perchè agli autori non piace affatto l’espressione “didattica digitale”.

Scarica la pubblicazione




Dalla didattica a distanza alla didattica digitale integrata

di Daniele Scarampi

C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti (Henry Ford)

La didattica digitale concretizza ormai da tempo quel processo d’insegnamento/ apprendimento capace di superare la metodologia tradizionale costruita sulla centralità del docente  – in luogo di quella dell’alunno – e sulla trasmissione frontale dei saperi (cfr. PNSD, 2015), poiché l’ambiente di apprendimento non coincide più con il solo spazio fisico  delimitato dall’aula, ma si realizza anche in ambiente virtuale, in cloud. Di più: le potenzialità del digitale realizzano una prospettiva metodologico-didattica in grado di condurre verso la comunicazione multicanale (che raggiunge contemporaneamente più persone anche molto distanti tra loro) e, soprattutto, verso una società della conoscenza (la knowledge society ipotizzata già nel Consiglio europeo di Lisbona del 2000) basata sullo sviluppo delle nuove tecnologie e sui più innovativi metodi d’apprendimento.

Con il DPCM emanato l’8 marzo scorso, in piena emergenza epidemiologica, il Governo si è espresso sia sulla possibilità di programmare lezioni a distanza sia sulla necessità di non intendere tali lezioni solo come una mera trasmissione di consegne e di compiti da svolgere a casa; saranno poi, più nel dettaglio, la Nota dipartimentale 17 marzo 2020 n.388 e il DL 25 marzo 2020 n.19 a dare le prime indicazioni operative in merito alle attività didattiche a distanza e a riconoscere la necessità di estenderle a tutte le scuole di ogni ordine e grado. Infine interverranno il DL 8 aprile 2020 n.22 (convertito nella Legge 41/2020) a sancire l’obbligatorietà di attivare percorsi didattici strutturati a distanza e il DL 19 maggio 2020 n.34 (il cosiddetto Rilancia Italia) a finanziare interventi utili a potenziare gli strumenti tecnologici in dotazione alle scuole, in ausilio a studenti e famiglie.

Ora, nelle intenzioni del legislatore è apparsa sin da subito lampante la volontà di puntualizzare il seguente concetto: la didattica a distanza (DAD), a tratti vista come un’àncora di salvezza a tratti invece aspramente osteggiata, non è da considerarsi come la semplice riproduzione delle pratiche tradizionali con strumenti virtuali, ovvero non è una mera replica della lezione tradizionale con il supporto di strumenti tecnologici. Le enormi potenzialità dell’informatica e della digitalizzazione della didattica erano note al mondo della scuola ben prima dell’emergenza da Covid-19: la DAD dunque è sempre stata considerata, almeno dalla normativa che l’ha introdotta, come l’insieme delle attività formative che si possono svolgere a prescindere dalla presenza fisica di docenti e discenti nel medesimo luogo. Al centro di tali attività formative ci sono certamente le tecnologie informatiche e audiovisive (videolezioni, piattaforme multimediali, applicazioni tematiche), tuttavia esse sono funzionali a una formazione ad hoc per gli studenti, mirata e continua, che stimoli l’apprendimento in autonomia.

La DAD ha avuto col tempo un’evoluzione concettuale dai risvolti pragmatici e operativi, verso l’idea di una didattica digitale integrata (DDI); il Decreto Ministeriale n.39, del 26 giugno 2020, ha infatti fornito un quadro di riferimento nel quale progettare la ripresa scolastica di settembre e ha palesato la necessità per le scuole di dotarsi di un Piano per la didattica digitale integrata; recentemente il Piano è stato dettegliato dalle Linee Guida per la DDI, divenendo di adozione obbligatoria per le scuole del secondo ciclo d’istruzione (nelle quali la DDI sarà una modalità complementare alla didattica in presenza) e altresì per tutte le altre scuole – di qualsiasi grado – qualora si rendesse necessaria un’ulteriore sospensione della frequenza scolastica a scopo di contenimento del contagio (in questo caso, estremo, con il supporto operativo degli USR).

Le istituzioni scolastiche, dopo le necessarie rilevazioni connesse al fabbisogno di strumentazione tecnologica e di connettività, progettano e deliberano (per poi integrare il Ptof e il Regolamento d’Istituto) le modalità di realizzazione della DDI, tenendo conto dei propri contesti peculiari e assicurando un adeguato livello di inclusività, con particolare attenzione per gli studenti con disabilità o altri bisogni educativi speciali (nel caso specifico di fragilità delle condizioni di salute, dovranno essere previsti percorsi d’istruzione domiciliare condivisi con le famiglie e con le strutture sanitarie territoriali).

La scuola, pertanto, attraverso il Collegio dei docenti fissa e predispone le modalità d’erogazione della didattica digitale integrata (utilizzo strumentazione digitale, piattaforme, registri, repository in cluod), al fine di inserirla in un contesto pedagogico e metodologico condiviso, a tutela sia della qualità dell’insegnamento sia delle esigenze delle famiglie.

Inoltre dovranno essere tutelati i ritmi d’apprendimento dei discenti, mediante un meditato bilanciamento tra le attività sincrone e quelle asincrone, soprattutto quando l’attività digitale è complementare a quella in presenza; invece, nel caso di un nuovo e infausto lockdown – è forse questa la novità più discussa del Piano – saranno previste quote orarie settimanali minime di lezione: nella scuola dell’infanzia le attività digitali dovranno essere calendarizzate in modo oculato, cercando di mantenere il legame educativo a distanza con i bambini; le scuole del primo ciclo d’istruzione dovranno garantire almeno quindici ore settimanali di didattica in modalità sincrona (dieci limitatamente alle classi prime della Primaria), erogate con flessibilità e interdisciplinarità; diversamente, le scuole del secondo ciclo assicureranno venti ore settimanali, ferma restando la possibilità di prevedere ulteriori attività specifiche per gruppi ristretti di studenti.

Quanto alle metodologie da preferire e agli strumenti per la verifica (e la valutazione), il setting dell’aula virtuale incentiva il ricorso alla cosiddetta “didattica breve”, alla flipped lesson o all’apprendimento cooperativo, metodologie situate e fondate sulla costruzione attiva e partecipata del sapere da parte degli studenti. Sarà poi compito dei docenti (e dei singoli consigli di classe/interclasse) individuare i più idonei strumenti di verifica degli apprendimenti, a seconda della strategia didattica preferita; la valutazione, invece, continua e trasparente, si riferirà ai criteri deliberati dai Collegi dei docenti e inseriti nei Ptof.

Nella sezione conclusiva, infine, il Piano per la didattica digitale integrata – dettagliato dalle recenti Linee guida – raccomanda alle istituzioni scolastiche di predisporre un percorso di formazione del personale aderente alle esigenze della DDI (utilizzo corretto delle strumentazioni digitali, modelli innovativi e inclusivi per la didattica, ecc.) e, soprattutto, suggerisce di rinvigorire il Patto Educativo di Corresponsabilità, pietra angolare del rapporto scuola-famiglia, in modo che ogni approccio metodologico o educativo venga totalmente condiviso e supportato.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Legge 107/2015, art. 1, commi 56-58
Decreto -legge 8 aprile 2020, n.22 convertito con modificazioni nella Legge 6 giugno 2020, n.41
Decreto del Ministero dell’Istruzione 26 giugno 2020, n. 39
Linee Guida per progettazione del Piano scolastico per la didattica digitale integrata (DDI)
Cos’è davvero la didattica a distanza e perché è diversa da quella tradizionale, in L’Orientamento (magazine per la scuola, l’università e il lavoro), www.asnor.it