Il digitale nell’apprendimento

di Franco De Anna

Una considerazione generale

Se guardiamo alla Storia con lo sguardo della “lunga durata”, e dunque per transizioni e fasi di secoli, non possiamo non riscontrare una permanenza critica ad ogni passaggio che investa le forme della comunicazione, ed in particolare di quella destinata all’apprendimento e alle nuove generazioni.
Si ricorda la critica e la diffidenza di Platone verso la “parola scritta” rispetto alla interazione dialogica diretta.

Ma quanti secoli dovettero passare per misurarsi con la disponibilità diffusa della parola scritta attraverso il libro come strumento essenziale nella riproduzione della cultura, la cui diffusione di massa è legata alla invenzione della stampa? Anzi della tecnologia della stampa a caratteri mobili. Potremmo continuare gli esempi: ma ciò che conta è la consapevolezza che lo sviluppo delle ICT corrisponde ad un passaggio storico che ha portata simile a quelle transizioni citate, e dunque sfida radicalmente la nostra capacità di interpretare, decostruire, ricostruire significati connessi alla comunicazione sociale.

D’altra parte, non mancano certo sensate elaborazioni e pensieri sui problemi che nascono dalla intersezione tra sviluppo delle ICT, formazione ed apprendimento. Non solo, anche se specialmente, per le nuove generazioni. Un pensiero preoccupato per tanti adulti e finanche pensionati hikikomori maturi. In questa elaborazione cercherò di esaminare tali processi per i riflessi che essi hanno sulla organizzazione della scuola, tenendo conto ovviamente delle diverse elaborazioni ed esperienze sviluppate in proposito in questi anni. (Mi preme sottolineare il riferimento al rapporto con l’“organizzazione” della scuola . I cambiamenti indotti dal digitale nei processi di apprendimento vanno proiettati sulla dimensione di “sistema organizzato della istruzione e dell’apprendimento”.)

Non si tratta (solo) di rapporti precettore-allievo

Non ostante la sempre in agguato pericolosa dislocazione di “apocalittici e integrati” di Eco, che, come tale, è assolutamente paralizzante su entrambi i fronti, il dibattito è ampio. Rimane il fatto che la questione si accompagna ad interrogativi radicali, in particolare rispetto alle competenze dei docenti; non “tecniche” ma in campo psico socio pedagogico. Anzi direi: filosofico e antropologico.

Voglio fare solo un esempio

(Che credo sintetizzi molti significati di ciò che dirò in seguito)

Siete un docente “creativo” che usa le tecnologie e i loro dispositivi per sfruttarne le potenzialità (ah! se li aveste avuti a disposizione quando eravate studenti!!!). Dopo opportuno inquadramento storico-culturale avete dato un compito operativo ai vostri ragazzi. Per esempio: dopo spiegato (e capito…) cosa intendesse Duchamp disegnando i baffi alla Gioconda, proponete loro di fare altrettanto con altre opere “rinascimentali”

Che so? Mettere neri ricci ad una Venere che sorge … dei cerotti ad un San Sebastiano… degli occhiali ad una Santa Lucia… Gli strumenti che hanno a disposizione tra le loro mani rendono possibile realizzare il compito senza grande sforzo … Si selezionano le immagini in rete… ci si misura con semplici taglia-incolla e correttore di immagini… si ricava rapidamente ciò che altrimenti avrebbe reso il lavoro su carta proibitivo …

(Certo altra cosa è comprendere a fondo il senso della provocazione Duchamp, ma credo che tale operatività aiuti anche ciò). Osservateli al lavoro, e provate a pensare alla tipologia di problemi che avete di fronte, se appena riuscite a prender distanze dalla soddisfazione dei risultati. La cosa che immediatamente balza agli occhi è l’accorciamento drastico del circuito stimolorisposta…

Trovano una immagine, tagliano, adattano… buttano… ricominciano. Più volte e fino a quando non siano soddisfatti del “prodotto”. A volte, in realtà, avete l’impressione che si interrompano solo per un impulso esterno (la campanella, l’intervallo…) come se il “risultato mai” e invece “iterazione perpetua”.

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Educazione alla cittadinanza, occasioni (forse) perdute

di Rodolfo Marchisio

Pandemia, crisi ecologica e climatica, crisi energetica, elezioni e diritti

Siamo al terzo ed ultimo anno della sperimentazione dei progetti di Ed Civica (meglio Ed. alla cittadinanza), ma le attività, anche se rimaneggiate dai futuri governi, resteranno obbligatorie, oltre che collegiali e trasversali alle varie discipline.

Ci siamo confrontati su questo, negli ultimi 3 anni (come nei 15 precedenti sui temi di Cittadinanza e Costituzione) con centinaia di docenti; anche sul tema della valutazione (o meglio della Programmazione, Osservazione, Valutazione e Certificazione delle progettualità, perché i vari momenti sono inscindibili).
La valutazione proposta dalle linee guida della EC era molto vicina, come logica, a quella proposta per legge alla scuola primaria. Una valutazione formativa, collegiale, partecipata e condivisa con allievi e genitori. Trasparente, perché altrimenti non sarebbe stata democratica.
Questa era la prima sfida della EC legge 92/19. Portare la valutazione formativa anche negli altri ambiti di scuola. Osservare e descrivere il progresso verso le competenze e gli obiettivi attesi (in modo condivisibile) attraverso indicatori. Osservare i progressi. Non misurare i livelli.
Valutazione formativa e non voto come si discute anche alle superiori.

Il MI ha rilevato che diverse scuole non hanno ancora attivati progetti e aveva, mesi fa, stanziato fondi. In molte scuole dei vari livelli si erano realizzati notevoli progetti, esemplari buone pratiche.
In molte scuole, la progettualità è stata scaricata su un docente (nelle superiori diritto o storia ad es) o su un ristretto numero di docenti del Consiglio di classe.

Mi hanno lasciata sola. Non possiamo fare un lavoro collegiale, perché mancano gli spazi ed i tempi per confrontarci (specie nella secondaria); ma manca anche l’abitudine e spesso la disponibilità a lavorare insieme.
Non posso partecipare perché ho già poche ore per la mia materia; anche se una buona progettualità non sarebbe una attività in più, ma una flessibilizzazione del proprio curricolo – i programmi non esistono più ma molti ci si nascondono dietro – una partecipazione, con ricerche relative ad argomenti disciplinari, ad un puzzle interdisciplinare comune con una sua logica che quindi non richiederebbe più ore di didattica (attiva). Come molti progetti dimostrano.

Una prima impressione è che gli IC (infanzia, primaria, sec. di 1 grado) abbiano cercato di lavorare in verticale, anche se con qualche difficoltà. Mentre gli IIS abbiano fatto progetti più inquadrati in una programmazione di Istituto e lavorato in orizzontale (tutte le prime fanno una cosa…)
Partendo da quanto appreso in 43 anni di scuola come docente (e 40 come formatore), so che gli allievi non imparano da quello che diciamo, ma da quello che siamo (ad es democratici o no), dalle esperienze anche emotivamente significative che fanno con noi. Dal clima di classe (Losito).
Abbiamo vissuto, negli ultimi 3 anni, e vivremo ancora almeno 4 grosse esperienze sociali che ben si prestavano o si prestano ad essere ricerca attiva, concreta di cittadinanza. Imparare a lavorare insieme, raccogliere ed elaborare dati ed informazioni validate e riflettere su quello che viviamo.

  1. La crisi sanitaria, sociale ed economica della pandemia, è stata (o poteva essere) un enorme laboratorio attivo di esperienze di cittadinanza e di cittadinanza digitale Non sfruttata dalla scuola, presa ad affrontare la emergenza e miope nei confronti della realtà come esperienza che si vive insieme, drammatica, ma formativa.
    Questa riflessione, questo modo di vivere la crisi in modo attivo dipendeva dalle famiglie (già in crisi) e dalla scuola anch’essa in enorme difficoltà. Ma ci sono esempi di buone pratiche, un esempio alle superiori ma anche in altri ordini di scuola.

Con la pandemia – smart working, DaD, ma anche divieti e limitazioni di diritti, passaggio temporaneo e limitato dei poteri all’esecutivo, peraltro regolamentato dalla Corte Costituzionale; ma anche abuso della rete e dello smartphone (Cfr dati Polizia Postale: + 133% di uso e dipendenza dai device, + 77% reati e cyberbullismo) – abbiamo imparato che:

  1. La rete è finita. La rete, la banda, è una cosa finita come l’acqua. Non apparentemente infinita come l’aria. Se tutti usiamo l’acqua ne arriva un filino a ognuno e le cose si rallentano (specie con i video) e si complicano.
  2. Siamo ormai, a scuola e nel lavoro, “schiavi di Google” anche a causa del MI.

Quindi in Dad siamo “andati a scuola da Google”, per responsabilità del MI e per pigrizia.

  1. Usiamo la rete soprattutto attraverso lo smartphone, di cui abbiamo il record mondiale (93%), lo strumento più discutibile e pericoloso.
  2. Della rete usiamo solo alcune “stanze”, social o app ed ignoriamo tutto il resto: abbiamo un mondo da esplorare e stiamo chiusi in 3 stanze, sempre quelle. Quando domando ad un ragazzo “tu usi internet”, spesso la risposta è no. Poi scopro che ha un profilo social, fa ricerche con Google e invia mail e post. Quasi tutto da smartphone. È in rete, ma non lo sa.
  1. Siamo prigionieri in quelle poche stanze di Google e degli altri monopolisti (GAFAM), con i loro servizi apparentemente gratuiti e le loro app; anche nella scuola ed anche in epoca Covid hanno proseguito la loro politica di schedatura dei nostri dati, di “personalizzazione” della rete, di isolamento in gabbie [1] confortevoli ma vincolanti. (Bauman e Pariser).[2] Ed hanno guadagnato centinaia di miliardi di dollari.
  1. Esistono 4 tipi di fratture digitali

Si sono evidenziate nella società e nelle famiglie attraverso la scuola e la DaD quattro tipi di fratture digitali e di cittadinanza dovute a motivi sociali, economici, talora di zone del paese. Ma anche di arretratezza tecnologica (tipo di banda) o di scelte politiche: privato vs pubblico, chiuso/privato vs open/libero/pubblico:

  1. Chi ha e chi non ha la rete.
  2. Chi ha e chi non ha le tecnologie: soprattutto PC, Tablet.
  3. Chi ha e chi non ha le competenze alfabetiche (di base) digitali per usare la rete.
  4. L’essere esclusi per disabilità, povertà, cultura. I “dispersi” in DaD sono stati principalmente i disabili, gli stranieri, ma anche i più poveri che non avevano gli strumenti e che spesso si vergognavano di far vedere la casa in cui abitavano.

7- Che il web inquina. È la quarta potenza al mondo dopo USA, Cina, Russia, come consumo di energia elettrica e quindi produzione di CO2. Soprattutto se abusiamo di social e di video (spesso inutili), contribuiamo alla decadenza della terra. Coi nostri sfoghi o le nostre inutili esibizioni creiamo una massa di dati che si raddoppia ogni due giorni contribuendo a fare della rete una pattumiera digitale frammentaria di difficile utilizzo a livello informativo. Roncaglia.
E di questo è bene essere consapevoli.
Alla fine del percorso, dice la legge sulla Ed. civica i ragazzi non dovranno – come pensano troppi – “saper usare i computer”.  Dovranno invece oltre a Valutare fonti, Interagire con gli altri attraverso il web, informarsi, partecipare, crescere in modo autonomo. Conoscere e rispettare norme di comportamento e norme del web. Gestire la loro identità digitale. Preoccuparsi della Privacy e della dipendenza da device (smartphone e rete), ma anche… conoscere gli svantaggi della personalizzazione e del vivere in una bolla social. art 5.2 legge 92/19.
Essere consapevoli dei veri pericoli della rete
. Dai cattivi padroni (Rampini) al CB, sapere “Cosa succede sulla loro pelle in rete”. Vademecum MI 2018.

Bambini e ragazzi delle varie età dovranno essere consapevoli, in modo proporzionato alla età, di: in che mondo web vivo? Come funziona la rete e perché? Quali sono le conseguenze su di me anche come cittadino, e sulla società? Quali vantaggi posso trarre dal web e quale è la sua utilità?

In questo cammino è utile sapere che esistono vari tipi di intelligenze, e che si può essere bravi in una cosa e meno in un’altra. Molte di queste intelligenze (interpersonale/social, intra personale/ identificazione attraverso i social, oltre che linguistica, logico-matematica etc…) si esercitano in rete. [3]

b- La crisi ecologica, i cambiamenti climatici, la crisi energetica, che sarà anche una crisi economica ci pongono di fronte alla necessità, troppo trascurata, di modificare in fretta comportamenti individuali e collettivi.
Sinora, ci ricorda Zagreblesky da anni, abbiamo consumato “come se non ci fosse un domani e come se non avessimo figli”. In tre saggi paragona la ipertrofia ego-individualista attuale alla crisi dell’isola di Pasqua che è collassata su se stessa, sino al cannibalismo, consumando tutto (piante, habitat, fauna) per rivalità, guerre e sete di potere. Abbiamo i granai vuoti e consumiamo più di quanto possiamo permetterci.
La crisi energetica/economica sarà lunga e complessa, perché è l’intreccio di scelte politiche non lungimiranti, non generazionali (solo gli statisti “pensano alle generazioni future”- De Gasperi), di divisioni politiche, di una guerra complicata, di speculazioni finanziarie.
Non credo che i singoli comportamenti più razionali e virtuosi che in passato, ci possano salvare da soli, ma
– una somma di comportamenti improntati al risparmio a partire dalle piccole cose che possiamo fare, incide per una quota.
– Soprattutto dimostra, in modo esplicito, che stiamo cambiando mentalità individuale. Che non siamo più come quelli dell’Isola di Pasqua. Che c’è un cambiamento di mentalità, di cultura.

c- I 3 filoni indicati della Ed Civica si intrecciano in modo inscindibile in continuazione, perché non sono altro che i 3 ambienti in cui viviamo in contemporanea: l’ambiente sociale (le regole, i diversi tipi di diritti e i doveri); l’ambiente naturale (il mondo, le sue crisi e le sue risorse); il “digitale”, se possiamo usare questa parola “ombrello” ormai priva di significato, il luogo dove viviamo, noi e i nostri ragazzi anche 7 ore al giorno e 2, 3 di notte.
Da cui dipendiamo psicologicamente e fisicamente (dopamina).

La ipertrofia dell’individualismo sociale è speculare (e coltivata, indotta, dai “cattivi padroni della rete” Pariser, Bauman) all’uso che facciamo della rete, non come risorsa collettiva, ma come luogo della esibizione e vanto della nostra ignoranza (se 1 vale 1 “la mia ignoranza vale come la tua competenza”, Asimov); come luogo di protagonismo, di esibizione, come luogo dove sfogare la propria difficoltà di identificarci se non in contrapposizione ad un gruppo di altri, di diversi: ovviamente le donne, gli omossessuali, gli stranieri soprattutto.  Non come luogo di convivenza, cittadinanza, collaborazione, comunicazione, condivisione. Le finalità originali.
Sino alle parole dell’odio ed agli odiatori seriali.

d- Anche durante la crisi pandemica, in DaD e dopo, abbiamo continuato a voler usare gli strumenti digitali e alcuni ambienti che ci sono stati imposti dal MI in modo pericoloso.
Pochi di quelli che hanno usato le piattaforme per la DaD e continueranno (nella “Scuola di Google”: Zoom, Class room… ) ad usarle hanno potuto fare prima una riflessione sugli Ambienti di Apprendimento, sulle loro caratteristiche formative (non tecniche: ma spazi, tempi, relazioni, ruolo del docente, metodologie possibili o indotte) e sugli ambienti di apprendimento digitali.

Il digitale può essere inteso come strumento (e tutti li vogliamo o li abbiamo), ambiente di ricerca (googlare), lavoro, didattica, ma soprattutto è un ambiente di vita che richiede consapevolezza e cultura. Quante ricerche troviamo su questo tema?
Come il digitale può favorire la cittadinanza attiva ed agita e come si forma la cittadinanza e la cultura digitale?
Usare il digitale senza cultura non solo è pericoloso, ma è diseducativo.

e- Infine. Fra pochi giorni si vota. Sarebbe un atto di consapevole cittadinanza interrogarsi, prima (e a scuola a posteriori) e documentare in base a dati e riflessioni:

  • Quanti e perché non esercitano più questo stanco diritto/dovere?
  • Quali diritti, pochi sono stati menzionati sinora, corrono rischi in queste elezioni?Meglio che far studiare gli articoli della Costituzione o l’inno, perché studiare gli articoli senza una vera ricerca che si sa da dove parte, ma non si sa dove finisce, non forma cultura di cittadinanza.  

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Bolla_di_filtraggio
[2] https://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles Breve conferenza TED di Pariser.
[3] Pluralità delle intelligenze, Gardner

 




Risorse per l’istruzione e lo sviluppo digitale: il quadro generale e il piano scuola 4.0

di  Franco De Anna

Alle scuole stanno arrivando quantità significative di risorse economiche. La fonte principale (anche se non l’unica) è il processo/programma di digitalizzazione sostenuto dal PNRR. Si veda in proposito il “Piano Scuola 4.0”.
Esso giunge a compimento e completamento di processi innovativi relativi alla digitalizzazione nella scuola che hanno comunque interessato il sistema a partire dal 2014 e con impulso significativo nel complesso attraversamento della emergenza COVID con la sviluppo della “Didattica a Distanza” e poi “Didattica Mista” (1)

Il “Piano Scuola 4.0” legato espressamente e direttamente al PNRR, Missione 4 (Istruzione e ricerca) componente 1 ” Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università”, relativamente a processi di digitalizzazione dell’istruzione, prevede complessivamente 5 linee di intervento:

  1. L’investimento 2.1 “Didattica digitale integrata e formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” stanzia 800 milioni di euro per la realizzazione di un’offerta formativa di oltre 20.000 corsi per la formazione di 650.000 fra dirigenti scolastici, docenti, personale scolastico, tecnico e amministrativo, e l’adozione di un quadro di riferimento nazionale per l’insegnamento digitale integrato, per promuovere l’adozione di curricoli sulle competenze digitali in tutte le scuole
  2. L’investimento 3.1 “Nuove competenze e nuovi linguaggi” (1,1 miliardi di euro) si concentra sullo sviluppo delle competenze informatiche necessarie al sistema scolastico per svolgere un ruolo attivo nella transizione verso i lavori del futuro e di percorsi didattici e di orientamento alle discipline scientifiche (STEM – scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), anche per superare i divari di genere.
  3. L’investimento 3.2 “Scuola 4.0 – Scuole innovative, nuove aule didattiche e laboratori” prevede un finanziamento di 2,1 milioni di euro per la trasformazione di 100.000 classi in ambienti di apprendimento innovativi e la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro
  4. L’investimento 1.4 “Sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS)”, con un finanziamento di 1,5 miliardi, è finalizzato alla valorizzazione della filiera formativa specialistica legata all’ Impresa 4.0, Energia 4.0 e Ambiente 4.0 e al potenziamento dei laboratori con tecnologie digitali.
  5. Misure relative all’edilizia scolastica Missione 2, Componente 3, linea di investimento 1.1 “Piano di sostituzione di edifici scolastici e di riqualificazione energetica”, che interviene su oltre 200 edifici scolastici innovativi I fondi precedenti si integrano con altre iniziative relative al digitale, nelle quali il Ministero dell’Istruzione è in collaborazione con altri ministeri e/o con riferimento ad altre fonti di finanziamento 2 L’utilizzo delle tecnologie in chiave di inclusione e abilitazione di competenze è oggetto anche della linea di investimento 1.4 “Intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nel primo e nel secondo ciclo”, che prevede anche il finanziamento di strumenti tecnologici avanzati per gli studenti con disabilità attraverso le reti di scuole operative nei Centri Territoriali di Supporto

Clicca qui per leggere l’intervento completo

(1)  Ricordare che le spese per digitale 2014-2021 ammontano a 1,9 miliardi e comprendono obiettivi come

  • un dispositivo ogni quattro alunni (uno ogni 8,9 nel 2014)
    • uno schermo digitale per ogni classe (uno ogni due nel 2014)
    • realizzati oltre 40.000 ambienti didattici innovativi e digitali tecnologie digitali usate per la didattica dall’84,4% dai docenti (44,5% nel 2017)
    • 620.000 docenti formati alla didattica digitale durante la pandemia
    • registro elettronico usato dal 99% delle scuole (69% nel 2014)
    • sistemi di gestione informatizzati usati dal 97% delle segreterie (68% nel 2014)
    • in corso Piano per dotare tutte le scuole di connessione in fibra ottica e azioni per il cablaggio interno degli edifici
    • équipe territoriali formative (docenti esperti di didattica digitale) e Future Labs per la formazione sul campo animatore digitale e team per l’innovazione presenti in tutte le scuole (circa 32.000 figure)
    • progetti per le competenze digitali degli studenti attivati nell’84% delle scuole (71% nel 2018) (vedi: “Piano Scuola 4.0”)

(2) Si vedano per esempio i progetti
• “Piano scuole connesse”, attuato dal Ministero per lo sviluppo economico, in collaborazione con il Ministero dell’istruzione, e finanziato con oltre 400 milioni di euro,
• la linea di investimento 3.1.3 “Scuola connessa” della Missione 1, componente 2, attuata dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale e finanziata con 261 milioni di euro,
• l’azione “Reti locali, cablate e wireless, nelle istituzioni scolastiche”, realizzata dal Ministero dell’istruzione e finanziata per oltre 400 milioni di euro con i fondi dell’iniziativa React-Eu, che hanno incrementato i fondi strutturali europei della programmazione del PON “Per la scuola” 2014-2020




Chi è causa del suo digital…

di  Marco Guastavigna

Walled garden e business network fremono di sdegno: il ministro Bianchi – con una formulazione che, se riportata fedelmente, è lesiva anche della grammatica ­– ha ancora una volta sconvolto il proprio universo di riferimento professionale: “In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.
Ma come si permette? Riaddestrare, ovvero addestrare un’altra volta? Approccio davvero pessimo. Per non parlare dell’obbligatorietà della formazione, vulnus ricorrente e storicamente pluri-rigettato dalla categoria.

I contenuti di questa obedience 4.0, binomio esseri umani-dispositivi digitali? La solita confusione concettuale, il solito lessico nebuloso del marketing istituzionale: “Abbiamo investito 800mln per farlo e solo ieri abbiamo lanciato un progetto da 2,5mln per dare nuova formazione a chi insegna. Dobbiamo affrontare questo percorso per introdurre nella scuola l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione collegata alla questione etica. Non siamo all’anno zero, abbiamo già dei buoni esempi ma ora dobbiamo spalmare questi primi buoni risultati per toccare i 10mln di studenti italiani”.

Prossimo al gramelot, ma del tutto coerente con le scelte di chi lo ha immediatamente preceduto, il rapporto con le piattaforme del capitalismo cibernetico e la privatizzazione della sfera dell’istruzione pubblica: “Il problema al quale stiamo lavorando con i tecnici del ministero è come le aziende del sistema globale possono essere d’aiuto per l’Ue e per l’Italia per raggiungere il risultato di questa diversa crescita formativa interpretando in modo corretto i nuovi linguaggi che devono usare ai vari livelli gli insegnanti di matematica, materie umanistiche, lingue e via dicendo”.

Potrei proseguire l’esegesi dell’esternazione, per esempio sottolineando che espressioni come “nuovi linguaggi”, “intelligenza artificiale”, “digitalizzazione”, “futuro digitale” e “interconnessione globale” siano tutte precedute da articoli determinativi e preposizione articolate, a indicare, ridotte a gergo, unicità di significato e quindi di senso, secondo la visione deterministica tipica dell’impianto ideologico tecnocratico e liberista, che si concepisce e presenta come unica alternativa possibile.
Potrei pertanto provare a contrapporre al succitato impianto mercatista e utilitarista, che innerva un “continente digitale” in cui la gran parte dei territori è sottomessa al controllo estrattivo delle aziende del capitalismo cibernetico, una visione delle tecnologie digitali attualizzate quali risorse per lo sviluppo umano e invitare a riflettere sulle differenze tra logistica di condivisione e logistica di intermediazione.

Preferisco invece tentare di far comprendere che le responsabilità culturali ed etiche – a proposito! – non hanno una sola matrice.

È da tempo evidente che le accademie italiane sono in larga misura e tacitamente asservite ai grandi player del capitalismo digitale.

Più in generale, però, vi sono alcuni aspetti culturali “istitutivi” di orizzonti antropologico-culturali subordinati e subordinanti, che vanno smascherati e analiticamente demistificati.

Il primo è aver accettato l’uso dell’aggettivo “digitale” preceduto dall’articolo “il”  come definizione del contesto, delle caratteristiche operative, cognitive e culturali e delle implicazioni dell’impiego dei dispositivi elettronici nelle pratiche di mediazione didattica. Una parola-ombrello, un significante quasi vuoto, che ciascuno ha potuto, può e potrà intendere come più gli aggrada, con il risultato di rendere il dibattito confuso e confusivo, in quanto variabile dipendente di bias e interpretazioni soggettive, intessuta di pseudocondivisioni.

Il secondo è aver consentito la contaminazione della pedagogia dell’emancipazione da parte della prospettiva dell’innovazione e dei suoi sempre più allucinanti e allucinati derivati (didattica innovativa, strumenti innovativi, ambienti innovativi, insegnanti innovativi). Aver trasformato il rinnovamento da strumento a scopo, ha reso accettabili competizione, distruzione creatrice, sensazionalismo didattico, acquisizione di competenze individuali e adattive a un modello socioeconomico unico e indiscutibile.

Il terzo è essere caduti nella scorciatoia cognitiva che ha ridotto, riduce e ridurrà i dispositivi digitali attuali con intenzione estrattiva e capitalistica a “strumenti”, attivabili e governabili come tali: questo modo di affrontare il problema – miope, anzi accecante e quindi del tutto funzionale al progetto di dominio operativo e di egemonia culturale di GAFAM, NATU, BATX

– ha avuto particolare risonanza, perché rassicurante, nel periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, ma è una forma di banalizzazione ricorrente anche nelle roventi discussioni di questi giorni.

Il quarto è costringere – anche per opportunismo personale – la riflessione, il pensiero critico e il dibattito collettivo all’interno delle piattaforme e delle applicazioni mainstream, finalizzate alla profilazione per il profitto, rinunciando a qualsiasi battaglia politico-culturale e sindacale per la costruzione, il finanziamento, la manutenzione di infrastrutture digitali “repubblicane”, aperte al controllo democratico, progettate e gestite sulla base dell’interesse generale, anche per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del loro governo.

La resistenza culturale, professionale e operativa alla diffusione dei dispositivi digitali si attesta invece al più su una sorta di rifiuto tra l’intuitivo, l’olistico e lo snobistico, a volte sconfinante nel grottesco – per esempio quando arriva a sostenere che la scrittura carta-e-penna è la sola strategia cognitiva e la sola pratica operativa utile per la redazione di testi complessi, contraddicendo pareri espliciti di intellettuali insospettabili, opinioni per altro probabilmente ignote ai più.

Mancano insomma un’analisi attenta e soprattutto un’elaborazione alternativa, indipendente dall’agenda e dal lessico dell’avversario, che sia capace di – e, prima ancora, intenzionata a – costruire le basi e i riferimenti per una torsione delle potenzialità dei dispositivi digitali liberati dall’intenzione capitalistico-estrattiva nella direzione dell’emancipazione e del contrasto all’oppressione.

Del resto, abbiamo avuto una testimonianza recentissima: innumerevoli le segnalazioni indignate sull’errore a proposito di Verga nella prova di italiano dell’esame di Stato, quasi inesistenti quelle sulla consegna in merito all’iperconnessione, che rendeva invece evidenti la subalternità culturale e l’assenza di autentiche capacità critiche sia degli autori del testo citato sia dei selettori del medesimo.

 




If… then…

 di Marco Guastavigna

C’era una volta, in una Repubblica sempre più lontana lontana, una coppia di bambine che frequentavano la primaria secondo il modello dell’alternanza indicato dal Superiore ministero.

 

L’avvicendamento non era ancora – nonostante le pulsioni di alcuni tra i più fedeli emissari della cultura aziendale nell’istruzione –  tra scuola e lavoro, ma tra banco istituzionale (privo di rotelle, a onor del vero) e tavolino domestico, considerato il susseguirsi di diagnosi di positività tra ə compagnə di classe e il conseguente ricorso alla “DAD”, una relazione tra bambinə e insegnanti con una tale risonanza mediale e sul social business da essere assurta ad acronimo da rissa verbale garantita prima di avere una qualsiasi definizione concettuale precisa.

Del resto, nella Repubblica sempre più lontana lontana lontana, la condivisione e l’interesse generale erano da tempo scomparsi a favore della polarizzazione e dello scontro polemico perenne in tutta la sfera pubblica.

In un momento dell’anno scolastico, avvolto da un’aura davvero particolare – la scadenza di un misteriosissimo primo periodo intermedio, non si sa se del calendario didattico o delle vite di insegnanti e/o scolari –, le due bimbe ricevettero per il tramite dei genitori e in forma digitale un documento così complesso e verboso da poter essere messo in circolazione dalle autorità competenti senza alcuna precauzione crittografica. Si trattava della “Rilevazione dei livelli di apprendimento nelle discipline e nella convivenza civile e del comportamento”.

Tra le altre preziosissime informazioni, le nostre amiche appresero così di aver raggiunto, per quanto riguardava la materia “Tecnologia”, un/il (che piacevole sorpresa la suspense linguistica nei documenti della Pubblica Amministrazione, troppo spesso accusata di non curarsi delle competenze di comunicazione non cognitive!) livello avanzato nell’uso di “strumenti informatici adatti all’età e alle attività proposte” e di concetti della logica legati all’informatica stessa.

Cimentiamoci noi con questo stile di ragionamento: è un’occasione, soprattutto per chi non ha avuto occasione di praticare il coding in gioventù e quindi anela a pensare come un computer da anziano.

Dunque… questə bambinə hanno usato Google Classroom, sulla base di una liberatoria da parte dei genitori, che hanno scaricato istituzioni e Alphabet Inc. da un bel pacco di responsabilità rispetto ai minori.
Questa piattaforma, inoltre, è stata l’unico strumento informatico usato per la didattica.

E la rilevazione (magia delle parole! NdR) diventa allora rivelazione: i dispositivi digitali a vocazione estrattiva, con lo scopo di accumulare profitti mediante operazioni di marketing, sono formalmente riconosciuti nei documenti di valutazione dei percorsi di apprendimento come adatti all’età e alle attività proposte.

In una Repubblica lontana, lontana, lontana, lontana e con buona pace del pensiero critico.




Didattica a distanza e setting fluttuanti

di  Mario Maviglia e Laura Bertocchi

La scenografia nella didattica a distanza (M. Maviglia)

 Uno dei tanti effetti che la pandemia ha avuto in campo scolastico è stato quello di aver prodotto un radicale cambiamento nell’allestimento del setting educativo, intendendo con questo termine “l’insieme delle variabili che definiscono il contesto entro cui si svolge la relazione formativa”[1] (M. Castoldi, 2016) .
Tra queste variabili generalmente vengono ricomprese il tempo, lo spazio, le regole, gli attori, i canali comunicativi, ma anche le forme relazionali. La didattica a distanza ha cambiato le caratteristiche di tali variabili, anche se finora non si è molto approfondito e discusso questo aspetto che pure influenza in modo non secondario l’impresa educativa. Se ad esempio consideriamo le coordinate spazio-temporali si può facilmente constatare che un conto è fare scuola avendo come riferimento un setting strutturato con spazi ben identificabili (aule, laboratori, atelier, palestre ecc.) e dove il “controllo” del docente è ben delineato, un altro è gestire la lezione in spazi virtuali, come nella DaD, dove l’”aula” si scompone in tanti spazi individuali (l’immagine sullo schermo di ogni singolo studente) e la tradizionale scenografia scolastica (fatta di banchi, cattedra, lavagna o LIM, pareti più o meno addobbati, angoli, attrezzature ecc.) risulta completamente trasformata. Peraltro, va sottolineato che mentre nei tradizionali setting d’aula sono i docenti a definire – consapevolmente o meno – l’allestimento della scenografia in modo che sia funzionale al tipo di attività che vi si svolge e agli obiettivi che si vogliono conseguire, nella scenografia dettata dalle contingenze della DaD il “controllo” dei docenti risulta molto più labile e indefinito e comunque fortemente influenzato alla tecnologia.

Un altro aspetto da considerare è che nella “scenografia DaD” entra prepotentemente in campo il contesto familiare dei singoli studenti, sebbene attraverso il particolare e limitato occhio della webcamera.
Di fatto si entra nelle case degli studenti (e gli studenti entrano in quella dell’insegnante, se il collegamento avviene dalla casa di costui), si spia dentro. Questa deformazione dei confini del setting educativo determina problemi del tutto nuovi rispetto alla tradizionale gestione delle attività didattiche.


La variabile tempo, ad esempio, va incontro ad una serie di alterazioni: in situazione di DaD può succedere che non tutti gli studenti riescano a collegarsi alla rete e dunque si va incontro a inevitabili perdite di tempo o comunque a tempi morti. (Ricordiamo che “Il rapporto DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) 2020 della Commissione Europea (…) ci vede posizionati al 25° posto globale nel ranking della digitalizzazione dei paesi dell’Unione Europea (i dati sono riferiti al 2019, perciò ancora 28 paesi)” (Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia, CENSIS e TIM, 2020[2]).
Non è che nelle situazioni normali non vi siano perdite di tempo, ma mentre in quest’ultime il docente può intervenire direttamente per risolvere eventuali problemi, nella DaD le possibilità di intervento da parte dell’insegnante sono molto più limitate. A ciò va aggiunta la diversa strumentazione tecnologica di cui gli studenti possono usufruire a casa e dunque le differenti possibilità di avere collegamenti ottimali oppure problematici. Non tutti gli studenti utilizzano la banda larga o la fibra per il processo dei dati. Questi aspetti, se non adeguatamente considerati, rischiano di creare difformità nelle possibilità di accesso al servizio scolastico. In fondo in classe la strumentazione didattica è a disposizione di tutti gli alunni; nella situazione di DaD è invece fortemente correlata alla dotazione tecnologica delle famiglie.

Va pure detto che la didattica a distanza, se non adeguatamente gestita, tende ad enfatizzare gli aspetti più trasmissivi dell’insegnamento con un inevitabile scivolamento verso un approccio nozionistico alla didattica. La didattica in presenza non è scevra da questi rischi, ovviamente, ma le specifiche coordinate spazio-temporali della DaD accentuano ancor più questi elementi unidirezionali della comunicazione magistrale. Ci sono ovviamente degli “accorgimenti” che possono attenuare questi aspetti; uno di questi, ad esempio, consiste nell’attivare gli studenti nei giorni precedenti la lezione o l’attività didattica, in modo che possano consultare materiale on line che lo stesso docente fornisce loro o che possono reperire direttamente sulla base delle indicazioni date dall’insegnante (ovviamente in relazione all’età degli alunni). In questo caso la lezione viene “costruita” insieme agli studenti sulla base di quanto hanno capito/trovato sull’argomento. Ancora troppo spesso gli studenti vengono considerati meri destinatari dell’attività didattica, più che protagonisti, e la DaD rischia di relegarli in una dimensione di maggiore passività.

Un ulteriore aspetto va tenuto presente nella scenografia della DaD, sempre in relazione alla gestione dei tempi. Proprio perché gli elementi trasmissivi rischiano di farla da padrone, i tempi di attenzione potrebbero conoscere livelli ancor più bassi di quanto non succeda nelle situazioni scolastiche ordinarie. È pur vero che i ragazzi oggi sono abituati a stare anche molte ore davanti a un computer, ma le forme di utilizzo sono molto diverse di quanto avviene durante la DaD in quanto le loro possibilità di intervento sul palinsesto sono decisamente molto limitate.

Gli aspetti comunicativi (L. Bertocchi)

Possiamo allora chiederci quali strumenti ha il docente in DaD per cercare di coinvolgere gli studenti. Alcuni non sono poi così diversi da quelli utilizzati in presenza.
Partiamo da una constatazione: ogni insegnante è guardato ed ascoltato (si spera!), anche in DaD. Spetta a lui decidere di “operare una messa in scena attiva del proprio corpo”[3] e della propria voce, anziché “essere passivamente esposto agli sguardi”[4] degli studenti. Spetta a lui scegliere di utilizzare consapevolmente gli strumenti che ha a disposizione, cosciente delle reazioni che atteggiamenti e comportamenti possono suscitare.

La voce innanzitutto. È lo strumento professionale per eccellenza, fondamentale per ogni docente, anche quando la didattica si realizza a distanza. Cerchiamo di analizzare in che misura e con quali differenze rispetto alle lezioni che tradizionalmente si tengono in presenza.

L’insegnamento “è essenzialmente fatto di parole”[5]. Il docente comunica in modi diversi e con diversi scopi:[6]

  1. Di controllo: ordina, comanda, tronca i conflitti.
  2. Di imposizione: regola, dispone, moralizza, giudica, informa.
  3. Di facilitazione: chiarisce, mette in evidenza, dimostra, insegna.
  4. Di svolgimento del contenuto: stimola, apprezza, offre aiuto.
  5. Di risposte personali: risponde alle domande, accetta le esperienze personali, interpreta, riconosce i propri errori.
  6. Affettivi positivi: loda, mostra sollecitudine, incoraggia.
  7. Affettivi negativi: ammonisce, rimprovera, accusa, rinvia.

Soffermiamoci quindi sugli aspetti paraverbali, detti anche non verbali, del parlato e che riguardano il modo in cui qualcosa viene detto. Essi “modellano, arricchiscono, completano, a volte modificano”[7] il significato del messaggio, fino al punto di stravolgerlo.  Tra le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso troviamo:

  1. L’altezza: riguarda la frequenza del suono e permette di distinguere una voce acuta da una grave, un tenore da un baritono per esempio.
  2. Il timbro: deriva dall’ampiezza di vibrazioni e permette di riconoscere suoni che hanno la stessa altezza, come una medesima nota suonata da un oboe e da una chitarra rock.
  3. La velocità di eloquio: riguarda il numero di sillabe pronunciate in un determinato lasso di tempo.
  4. Il ritmo: e cioè l’alternanza delle velocità in un discorso.
  5. L’intensità: ci permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti.

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Permettono di distinguere la nostra voce tra mille altre, come una sorta di impronta digitale. Le altre caratteristiche invece, note con il termine di “colore”, oltre a suscitare spesso prevedibili reazioni nell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici dei sentimenti e delle emozioni di colui che parla.

Vediamo qualche esempio.

Al di là di precise caratteristiche personali e culturali, adattare il ritmo al discorso è molto importante. Un andamento regolare esprime emozioni tranquille, ma rischia di diventare mono-tono, rendendo estremamente difficile mantenere nell’interlocutore un’attenzione costante. Un ritmo irregolare, al contrario, rende emozioni forti e violente e, al contempo, permette di sottolineare i passaggi che riteniamo fondamentali.

Inoltre, poiché anche in DaD è auspicabile che il processo di insegnamento-apprendimento si realizzi in modo collaborativo, l’esperienza ci insegna che, in questa modalità più che in presenza, gli interventi degli studenti vanno sollecitati, poiché “sparire” e nascondersi dietro ad uno schermo è più facile e più frequente che in un’aula scolastica.

Anche i silenzi possono essere ricchi di senso e di significato. Non parlare, dopo aver posto una domanda, permette all’interlocutore di inserirsi nel discorso, dandogli il tempo necessario a formulare una risposta. Il rischio di silenzi prolungati in remoto è però che qualcuno li attribuisca a problemi di connessione. Ecco, in questi casi “riempire” i silenzi con cenni di incoraggiamento e sorrisi può essere una strategia.

Altra caratteristica molto importante nella comunicazione è l’intensità della voce: una voce forte richiama l’attenzione, incita, esorta, ma può anche apparire prevaricatrice; al contrario, una voce troppo bassa rischia di perdersi e di non essere correttamente percepita, soprattutto in DaD, dove i rumori in sottofondo sono diversi e possono interferire con l’adeguata comprensione del messaggio.

D’altro canto, non deve essere sottovalutata la ricchezza comunicativa del linguaggio non verbale. Il contatto fisico – una delle forme più forti di trasmissione di un messaggio, che favorisce l’avvicinamento, anche emotivo, tra le persone – in DaD viene a mancare.

Permangono invece, in tutta la loro potenza comunicativa, altri gesti che – come le parole – rivestono diverse funzioni. Nella comunicazione a mezzo busto le mani possono essere visibili. Tra i gesti principali individuiamo quelli[8]:

  1. Olofrastici: con una sola parola trasmettono un messaggio, come per esempio il gesto “vai via!”
  2. Articolati: indicano un nome o un oggetto, come quando ad esempio puntiamo il dito per indicare una persona.
  3. Iconici: rappresentano immagini.
  4. Arbitrari: che appartengono ad uno specifico linguaggio, come quello dei segni per i sordi.
  5. Codificati: ai quali attribuiamo precisi significati condivisi.

Questi gesti, utilizzati correttamente, arricchiscono ed enfatizzano il discorso.

Anche la mimica facciale gioca un ruolo importante in DaD, ma non solo. Alcune espressioni hanno evidenti funzioni di rinforzo, positivo o negativo, di ciò che viene detto a parole. Questi i più evidenti:

  1. Testa: scuotere la testa dall’alto verso il basso indica approvazione, assenso; muoverla invece da destra verso sinistra mostra disaccordo, dinego; inclinarla da un lato, magari guardando negli occhi l’interlocutore, trasmette attenzione, empatia, propensione all’ascolto.
  2. Occhi: aggrottare le sopracciglia mostra contrarietà, disapprovazione; alzare gli occhi al cielo, magari sbuffando, rivela stizza e irritazione; sollevare un solo sopracciglio indica scetticismo e incredulità; spalancare gli occhi mostra sorpresa o terrore (ma speriamo non sia questo il caso!).
  3. Bocca: abbiamo un sorriso sardonico, beffardo, persino sprezzante quando gli angoli della bocca sono rivolti verso l’alto mentre lo sguardo rimane serio; un sorriso sincero invece mostra approvazione e incoraggiamento; serrare le labbra, magari mordicchiarsele, rivela disagio.

Numerose piattaforme permettono di mettere in evidenza colui che parla e allora lo sguardo e il sorriso diventano fondamentali. Il contattato oculare è possibile anche via web, soprattutto nei momenti in cui -anziché parlare a tutta la classe – si instaura un dialogo collaborativo con un singolo allievo. Generalmente guardare il proprio interlocutore trasmette sensazioni di franchezza, attenzione, partecipazione, incoraggiamento. Se in presenza essere fissati può mettere alcuni studenti a disagio, poiché percepiscono questo atteggiamento come aggressivo o sfidante, ciò raramente succede a distanza, dove il filtro dello schermo attenua le espressioni, rendendole meno nitide. Per questa ragione allora una certa enfatizzazione di alcune caratteristiche può aiutare l’efficacia comunicativa.

Quanto abbiamo presentato sopra sono solo alcuni spunti per sollecitare una prima riflessione su come anche in situazione di DaD è opportuno prestare attenzione agli aspetti scenografici del fare scuola, un fare scuola affatto diverso da quello ordinario e proprio per questo meritevole di essere investigato nella sua diversità. L’aspetto comunicativo riveste, in questo contesto, una particolare importanza considerato che è soprattutto sulla figura dei docenti e degli studenti che si concentra l’attenzione, a differenza della classica situazione d’aula dove gli stimoli percettivi sono molto più variegati. 

NOTE

[1]https://www.iccocchilicciananardi.edu.it/attachments/article/591/Oltre%20la%20metodologia-setting%20organizzativo%20e%20clima%20relazionale.pdf

[2] https://www.operazionerisorgimentodigitale.it/sites/default/files/pdf/20201130%20Rapporto%20sulla%20Trasformazione%20digitale%20dell’Italia%20-%20esteso.pdf

[3] C. Pujade-Renaud (1983), Le corps de l’enseignant dans la classe, ESF, Paris, p. 74

[4] Ibidem

[5] G. Ballanti (1979), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Lisciani e Giunti Editori, Teramo, p. 7

[6] M. Maviglia, L. Bertocchi (2021), L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, pp. 58-59

[7] G. De Landsheere, A. Delchambre (1981), I comportamenti non verbali dell’insegnante, Lisciani & Giunti Editori, Teramo, p. 37

[8] I. Poggi (1987), Le parole nella testa. Guida a un’educazione linguistica cognitivista, Il Mulino, Bologna, p. 51




“Come se niente fudesse”: la scomparsa di pluralismo e plurale e il decesso dell’analisi critica

 di Marco Guastavigna

Giornata calda, oggi!

Stamattina i miei tre nipoti tornano a scuola. Le due sorelle alla primaria dopo un periodo di quarantena, il terzo prima della sospensione dell’attività didattica per le festività.
Stasera è annunciata una conferenza del “premier” – carica istituzionale assente nella Carta costituzionale, ma privilegiata da quella stampata e da vecchi e nuovi media, nonché dalla maggioranza dei loro consumatori – Draghi sulla “questione scuola”.
I social (altro termine su cui andrebbe fatta chiarezza, visto che c’è chi associa all’aggettivo addirittura la parola “business”) ribollono. E io con essi.

Tra i vari aggregatori di like, mi colpiscono in particolare due casi.

Il primo è abbastanza breve, si intitola “Diventa anche tu pedagogista” e propone un gioco semantico obiettivamente divertente.


Da un lato elenca i concetti da utilizzare in un ipotetico discorso autopromozionale (merito – competenze – Invalsi – selezione dei docenti – digitale – comunità educante – metodologie didattiche innovative – laboratoriale – tablet – scuola finlandese – liceo breve – scuola affettuosa).
Dall’altro lato quelli da evitare o da includere con “palese disprezzo” (studio – imparare – lezione – lezione frontale – sapere – riflettere – astrarre – concentrazione – libri).
Con un’impostazione di questo genere, intelligente ironia polarizzata, il clickbait è garantito: da una parte il Bene, dall’altra il Male. E infatti pedagofobi contro pedagofili si scatenano con i “Mi piace”, le condivisioni (io stesso non ho letto il post originale, ma un derivato), i copia-e-incolla, i “posso rubare?”.

E non dimentichiamo che anche le contestazioni – nell’impostazione perversa della comunicazione efficace – sono segnale di successo, di incisività, di visibilità.
Le idee non vengono espresse e condivise perché inneschino discussione e confronto, un dibattito rispettoso dei diversi punti di vista, con obiettivo una sintesi, magari nell’interesse generale, ma perché suscitino polemica, facciano schierare, colpiscano l’immaginario.
Il comunicare 4.0, insomma, è fornire una prestazione, che verrà monitorata, computata e valorizzata dagli algoritmi della piattaforma su cui è immagazzinata.

L’orientamento tardo manicheo, per altro, caratterizza – per esempio nella forma “Chi è causa del suo mal…” – anche alcuni dei commenti in calce alla riproduzione su Facebook dell’articolo di Riccardo Luna “Perché la Dad è un’occasione persa”, pubblicato l’8 gennaio.
Testo che – lì per lì – sembra avere un approccio interessante: le posizioni emerse pubblicamente e diffusamente in questi giorni fanno infatti legittimamente pensare al nostro “personaggio pubblico” che siano stati sprecati due anni.

In realtà, egli è prigioniero dello stesso schema di fondo precedentemente denunciato, ovvero la feticizzazione dei concetti impiegati, in particolare “la Dad” (appunto), “il digitale”, “il computer”, “lo smartphone” “la distanza”, “la didattica tradizionale”.
Tutti al singolare, con tanto di articolo determinativo e tutti a definizione implicita, quasi ammiccante: cos’è la didattica a distanza? È ciò che tutti sanno che cosa sia. E lo stesso vale per quella in presenza o per quella tradizionale

Si tratta con certezza di una prospettiva rassicurante, perché sia chi scrive sia chi legge ha l’impressione di avere il pieno controllo del lessico e quindi di comprendere ogni aspetto e implicazione degli oggetti citati e delle situazioni richiamate.
Queste formulazioni sono invece – e sempre più con il passare degli anni scolastici a perdita secca che tutti sembrano aborrire, ma in cui tutti si fanno paralizzare – parole-ombrello.

Sono cioè polirematiche infettive, approssimative e nebulose, a cui ciascuno è libero di assegnare il significato e il senso che più gli aggradano, con lo scopo di confermare e valorizzare il proprio – immutato e orgogliosamente considerato immutabile – sistema di credenze, opinioni e pratiche.

Trattare in questo modo il tema delle relazioni didattiche emergenziali perché soggette a distanziamento precauzionale, però, non solo non aiuta a trovare una via d’uscita equa ed efficace, ma comprime ulteriormente e rende più che mai asfittica questa possibilità.

Lo stesso Luna, del resto, non sa andare oltre l’auspicio alla diffusione di un infantilizzante “super potere”, che deriverebbe dall’impiego di “moltissimi strumenti interattivi e di partecipazione che invece possono rendere la didattica a distanza interessante se non addirittura divertente”. Entusiasmo che, nell’epoca delle piattaforme estrattive a vocazione capitalistica ormai endemiche alla vita sociale e biologica è – almeno – ingenuo.
Se vogliamo compiere qualche passo nella direzione dell’elaborazione, dobbiamo abbandonare le nostre zone di comfort culturale e professionale e smettere di illuderci della sufficienza dei nostri saperi da scaffale, statici e ben ordinati.
Per accettare, invece, di affrontare l’incertezza e per costruire saperi a vocazione dinamica, che vadano oltre gli steccati tra le discipline accademiche, nella direzione di sinergie culturali e professionali con valenza emancipante e trasformativa.

È troppo tardi? Con Alberto Manzi, voglio sperare di no.