Intelligenza artificiale, chatGPT e l’inafferabilità dell’umano

Aluisi Tosolini
Coordinatore del comitato scientifico Casco Learning

n questi ultimi mesi il dibattito sull’Intelligenza artificiale si è accesso con una fortissima fiammata che ha coinvolto anche l’opinione pubblica “generalista”, i quotidiani, le televisioni, i settimanali, e le radio.
Al centro del dibattito ChatGPT, il chatbot promosso da OpenAI e basato su intelligenza artificiale, lanciato il 30 novembre 2022 ha raggiunto un milione di utenti in 5 giorni e chiunque voglia può sperimentarlo, previa iscrizione partendo dall’ indirizzo https://chat.openai.com/chat .

Prima di ragionare sulle ricadute educative è bene cercare di capire bene di che cosa si tratta.
Proviamo a farlo con alcuni rapidi passaggi e link per l’approfondimento.

Che cos’è un chatbot?

La prima cosa da chiedersi è che cos’è un chatbot.

La definizione offerta da Oracle è la seguente: software che simula ed elabora le conversazioni umane (scritte o parlate), consentendo agli utenti di interagire con i dispositivi digitali come se stessero comunicando con una persona reale. I chatbot possono essere semplici, come i programmi rudimentali che rispondono a una semplice interrogazione (query) con una singola riga, oppure sofisticati come gli assistenti digitali che apprendono e si evolvono per fornire livelli crescenti di personalizzazione quando raccolgono ed elaborano le informazioni.
Guidati da Intelligenza Artificiale (AI), con regole automatizzate, elaborazione in linguaggio naturale (NLP) e machine learning (ML), i chatbot elaborano i dati per fornire risposte a richieste di ogni tipo.

Sempre Oracle ne distingue due tipologie

  • dichiarativi: dedicati ad attività molto specifiche
  • predittivi: basati sui dati di conversazione

sottolineando i limiti e le potenzialità di ognuno e ribadendo l’importanza di una buona messe di dati e di una AI il più possibile evoluta per il loro funzionamento ottimale.

La stessa Oracle (ma è solo un esempio tra i tanti) propone anche un percorso di accompagnamento finalizzato alla costruzione e implementazione di un chatbot.

Da dove viene ChatGPT ?

Cerchiamo di spiegarlo con le parole chiarissime di Paolo Benanti:ChatGpt è un prototipo di chatbot basato su intelligenza artificiale e machine learning sviluppato da una realtà specializzata nella conversazione della macchina con utente umano (OpenAI, appunto). ChatGpt appartiene a una famiglia di intelligenze artificiali basate sul machine learning utilizzando una tecnica di deep learning nota come transformer, che consiste nell’utilizzare una rete neurale per analizzare e comprendere il significato di un testo. Nello specifico, ChatGpt fa parte della famiglia degli InstructGpt, modelli formati tramite deep learning ma poi ottimizzati tramite il rinforzo umano”.

Aggiungiamo anche una spiegazione riferita al deep learning che viene così definito, ad esempio, da bigdata4innovation.itun apprendimento automatico e gerarchico, un segmento della branca di machine learning e artificial intelligence (AI) che imita il modo in cui gli umani acquisiscono alcune tipologie di conoscenza. Si tratta di un metodo ad hoc di machine learning che ingloba reti neurali artificiali in strati successivi per apprendere dai dati in maniera iterativa. Dunque, il deep learning è una tecnica per apprendere esponendo le reti neurali artificiali ad ampie quantità di dati, in modo da imparare a eseguire i compiti assegnati.

Di chi è ChatGPT ?

La società OpenAI è stata fondata nel 2015 da Elon Musk e Sam Altman: Successivamente Musk si fece da parte per il rischio di conflitto di interessi a partire dall’utilizzo di una intelligenza artificiale proprietaria correlata alla guida automatica delle auto Tesla. Secondo voci giornalistiche Microsoft sarebbe pronta ad acquistare il 49% della società investendoci circa 10 miliardi di dollari per rilanciare così anche il suo motore di ricerca Bing.

Come funziona ChatGPT e cosa produce

Molto semplicemente: io faccio domande e lui risponde con un testo più o meno articolato (si può chiedere un testo più o meno lungo, più o meno approfondito).
Per chi volesse farsi una idea generale consiglio un articolo di Wired che costituisce un’ottima presentazione di ChatGPT

I giornali italiani si sono sbizzarriti a riportare le risposte più o meno corrette e precise del chatbot GPT sottolineando in sostanza che

  1. si tratta di risposte più o meno precise a seconda dell’argomento e quindi anche delle conoscenze che il chatbot ha acquisito (va comunque detto che interrogandolo lo si “allena” e quindi proprio l’uso migliora il suo rendimento)
  2. attualmente le risposte sono sostanzialmente simili ad un bignami
  3. il testo di risposta dipende molto dalla precisione e dalle tipologia della domanda (il prompt). Ad esempio, a richiesta, può scrivere diverse tipologie di poesie sullo stesso tema ed assumendo stili diversi (stile Montale, stile Ungaretti, stile Petrarca, ecc).
  4. ChatGPT rischia di mandare in soffitta molti lavoratori della comunicazione perché in sostanza confeziona articoli, relazioni, presentazioni, testi, temi, scrittura di contenuti per il web, … Sui rischi e sulle conseguenze per il mondo giornalistico e della scuola consiglio lo stupendo podcast prodotto dalla Rai, il n. 7 della serie Codice Beta con l’intervista a Michele Mezza.

Il collega Di Terlizzi ha chiesto a ChatGPT di spiegare in quali situazioni un testo scritto da un essere umano può essere considerato superiore a un testo generato da un modello di IA come ChatGPT.
Ecco la risposta: “Un testo scritto da un essere umano può essere più originale e creativo, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto. Un testo scritto da un essere umano può essere più adattato alle esigenze specifiche del lettore o del contesto, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
Un testo scritto da un essere umano può essere più attento alle questioni sociali, etiche e culturali, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
Un testo scritto da un essere umano può essere più efficace nel comunicare emozioni, sentimenti e toni, mentre i modelli di IA spesso generano testi basati sui dati di addestramento che hanno visto.
In generale, i modelli di IA come ChatGPT sono molto potenti per generare testi di alta qualità e possono essere utilizzati per generare testi in molti campi. Tuttavia, ci sono alcune situazioni in cui un testo scritto da un essere umano può essere preferibile perché è più originale, creativo e adattato alle esigenze specifiche del contesto”.

Che dire…. non male.

Continuando “il dialogo”, assieme  a Di Terlizzi abbiamo chiesto a chatGPT di fornire i riferimenti delle sue affermazioni. Ecco la (strabiliante) risposta:

  1. “Generative Pre-training for Language Understanding” di Alec Radford, Jeffrey Wu, Rewon Child, David Luan, Dario Amodei e Ilya Sutskever. Questo articolo introduce un modello di generazione di testo chiamato GPT (Generative Pre-trained Transformer) e mostra come esso può essere utilizzato per una varietà di compiti di generazione di testo.
  2. “Language Models are Unsupervised Multitask Learners” di Alec Radford, Karthik Narasimhan, Tim Salimans e Ilya Sutskever. Questo articolo mostra come i modelli di linguaggio possono essere utilizzati per una varietà di compiti di generazione di testo e di comprensione del linguaggio.
  3. “Fine-Tuning Pre-Trained Language Models for Domain-Specific NLP Tasks: A Survey” di Jieyu Zhao, Jing Liu, Xipeng Qiu, Xuedong Huang. Questo articolo fornisce una panoramica delle tecniche utilizzate per adattare i modelli di linguaggio pre-addestrati per compiti specifici del dominio.
  4. “Exploring the Limits of Language Modeling” di Tom Brown, Benjamin Mann, Nick Cammarata, Christopher Hesse, Mark Chen, Eric Sigler, Ryan Sepassi, Noam Shazeer, Alexander Alemi. Questo articolo analizza i limiti dei modelli di generazione di testo e le sfide future per lo sviluppo di questi modelli.
  5. “Human-like Text Generation” di Yizhe Zhang, Siqi Sun, Michel Galley, Chris Brockett, Xiang Gao, Jianfeng Gao. Questo articolo esplora le tecniche utilizzate per generare testi che si avvicinano al modo in cui scrivono gli esseri umani.

Spero che questi riferimenti bibliografici ti siano utili nella tua ricerca.

Ovviamente i riferimenti potrebbero essere errati e cosi ho provato a vedere se i riferimenti sono reali e ho trovato pronta ed immediata conferma. Esemplifico con i link agli articoli citati 1; 3 e 5. Ovviamente per me studi completamente incomprensibili !

OpenAI e Google: rischio disruption ?

Nell’economia (digitale e non solo) si parla di Disruptive innovation per indicare le innovazioni che cambiano radicalmente ed alla massima velocità un mercato mandando in soffitta aziende affermate.
Secondo molti chi ha più da temere da OpenAI è proprio Google. La differenza sostanziale è la seguente: io faccio la stessa domanda a tutti e due i servizi ma mentre ChatGPT mi risponde fornendomi una risposta in sé già completa (per quanto semplice e da verificare nella sua correttezza)., google mi fornisce un elenco di link che considera pertinenti. Ovviamente anche Google ha una sua intelligenza artificiale e potrebbe benissimo fare la stessa cosa che fa OpenAI solo che….. se lo facesse il suo modello di business salterebbe per aria. Google infatti guadagna con la pubblicità connessa alle ricerche on line. Scrive Paolo Benanti: “se un chatbot risponde alle domande con frasi stringate, le persone hanno meno motivi per cliccare sui link pubblicitari. Circa l’81% dei 257,6 miliardi di dollari di entrate di Google nel 2021 proveniva dalla pubblicità, in gran parte dagli annunci pay-per-click”.
Chi volesse ulteriormente approfondire questo aspetto può leggere l’interessante analisi di Ignacio De Gregorio intitolata emblematicamente “Can chatgpt kill google?

Rischi, opportunità, limiti, valutazioni

Tra i moltissimi commenti ho letto con grande interesse e divertimento l’articolo del filosofo Ian Bogost intitolato Una chiacchierata artificiale e pubblicato in italiano da Internazionale nel numero del 16 dicembre 2022.
Bogost evidenzia tutti i limiti di chatGPT e del modello di intelligenza artificiale sotteso riassumendo la sua valutazione nella seguente affermazione: “Forse ChatGpt e la tecnologia alla sua base non riguardano tanto la scrittura persuasiva, quanto l’abilità di dire cazzate in maniera superba. Un ciarlatano manipola la verità con cattive intenzioni, cioè per ricavarci qualcosa. La reazione iniziale a ChatGpt è più o meno quella che si ha davanti a un ciarlatano: si presume che sia un arnese progettato per aiutare le persone a cavarsela con una tesina per la scuola, un articolo di giornale e via discorrendo. È una conclusione facile per chiunque pensi che l’intelligenza artificiale sia progettata per sostituire la creatività umana e non per esaltarla.
E ancora: “L’intelligenza artificiale non capisce né può comporre uno scritto, ma offre uno strumento per scandagliare il testo, per giocarci, per modellare una quantità infinita di frasi relative a un’ampia gamma di ambiti – dalla letteratura alla scienza fino agli insulti su internet – plasmandole in strutture in cui possano essere posti nuovi interrogativi e, occasionalmente, prodotte alcune risposte”.

Algoretica

Non va poi taciuto l’aspetto etico della questione.

Paolo Benanti, francescano che insegna alla Pontificia Università Gregoriana, scrive: “Gli effetti e il potere di questo nuovo Bignami degli anni 20 di questo secolo può farne non solo uno strumento che rispecchia nei risultati il senso comune ma il vero nuovo produttore dell’opinione pubblica. La sfida è lanciata. Troverà l’algoretica uno spazio in questa battaglia? Un tema del quale si è discusso in questi giorni in Vaticano per la firma della «Rome Call for AI Ethics», documento sottoscritto dalle tre religioni abramitiche, curato dalla Fondazione RenAIssance e promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Si tratta di vigilare e di operare affinché non attecchisca l’uso discriminatorio di questi strumenti a spese dei più fragili e degli esclusi», ha detto il Papa ai partecipanti all’incontro (tra loro Brad Smith, presidente di Microsoft, e Dario Gil, vicepresidente globale di Ibm), auspicando che «l’algoretica, ossia la riflessione etica sull’uso degli algoritmi, sia sempre più presente, oltre che nel dibattito pubblico, anche nello sviluppo delle soluzioni tecniche”.

E su questo tema non si può non rimandare a tutti gli studi di Luciano Floridi (si veda il suo ultimo volume Etica dell’intelligenza artificiale Sviluppi, opportunità, sfide) e al suo impegno a livello istituzionale con l’Unione Europea per definire nuovi standard per l’intelligenza artificiale.

ChatGPT e la scuola

Ovviamente non potevano mancare articoli più o meno allarmati sulle ricadute scolastiche di ChatGPT.
Il dibattito italiano, dopo un primo articolo su Tecnica della scuola, è proseguito, con scarsissima fantasia, recuperando articoli ed esperienze statunitensi e canadesi piuttosto preoccupate per il rischio, in sostanza, di copiatura da parte degli studenti.

Rischio decisamente ridicolo per due diversi ordini di motivi:

  1. Il primo, che è anche alla base di un interessante articolo di Kevin Roose pubblicato dal New York Times il 14 gennaio 2023, è che vietare l’uso di chatGPT a scuola è assolutamente inutile: si tratta piuttosto di utilizzarlo come banco di prova,  come sfida. L’articolo si conclude così: “I grandi modelli linguistici non diventeranno meno capaci nei prossimi anni”, ha dichiarato Ethan Mollick, professore alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania. “Dobbiamo trovare un modo per adattarci a questi strumenti, non solo per vietarli”.
    Questa è la ragione più importante per non bandirli dalle aule, perché gli studenti di oggi si diplomeranno in un mondo pieno di programmi di intelligenza artificiale generativi. Dovranno conoscere questi strumenti, i loro punti di forza e di debolezza, le loro caratteristiche e i loro punti deboli, per poter lavorare al loro fianco. Per essere buoni cittadini, avranno bisogno di un’esperienza pratica per capire come funziona questo tipo di I.A., quali tipi di pregiudizi contiene e come può essere usato in modo improprio e come arma.
    Questo adattamento non sarà facile. Raramente i cambiamenti tecnologici improvvisi lo sono. Ma chi meglio dei loro insegnanti può guidare gli studenti inquesto nuovo mondo?”
  2. Il secondo è ben messo in risalto da Ian Bogost quando scrive, irridendo buona parte del sistema di valutazione statunitense ma anche italiano: “che senso ha preoccuparsi del destino di esami basati sugli elaborati da scrivere a casa? È un formato stupido che tutti detestano, ma che nessuno ha il coraggio di abbandonare. …Certo, possiamo approfittare di tutto questo per barare a scuola o per ottenere un lavoro con l’inganno. È quello che farebbe una persona noiosa, e quello che un computer si aspetterebbe. I computer non sono mai stati strumenti della ragione capaci di risolvere problemi spiccatamente umani. Sono apparecchi che strutturano l’esperienza umana attraverso un metodo peculiare e molto potente di manipolazione dei simboli. Questo li rende oggetti estetici tanto quanto funzionali. Gpt e i suoi cugini ci offrono l’occasione di prenderli per quello che sono e usarli non tanto per svolgere determinati compiti, ma per giocare con il mondo che hanno creato. O meglio, per distruggerlo”. Per inciso sottolineo qui la “vetustità” – per essere gentili dell’armamentario docimologico e valutativo della scuola italiana.

E quest’ultima riflessione di Bogost mi riporta ad un messaggio whatsapp di Piervincenzo Di Terlizzi che in modo lapidario mi ha scritto: A me (chatGPT) interessa perché la vedo come un asintoto. Più si affina in quello che noi pensiamo originalmente umano, ma che è in realtà deposito formulare, più l’umano, secondo me, brilla nella sua inafferrabilità.

Piervincenzo è un grecista, dirige l’istituto professionale e tecnico Zanussi a Pordenone, e la sua affermazione fa il paio con la conclusione dell’ultimo libro di Kevin Roose. Kevin Roose infatti che sostiene che “le persone possano prosperare nell’era delle macchine ripensando il loro rapporto con la tecnologia e rendendosi insostituibilmente umane”.

Ecco la sfida della scuola: insegnare alle persone a rendersi insostituibilmente umane, facendo brillare proprio la specificità e l’inafferabilità dell’umano.




Una vita da mediano anche per il testo?

di Marco Guastavigna

Hai voglia e curiosità di giocare con un ambiente della cosiddetta “intelligenza artificiale” che manipola il linguaggio? Puoi andare sull’apposito spazio di OpenAI e provare. Facendo – ma soltanto per ora! – finta di nulla sul fatto che il progetto sia ampiamente compromesso con Elon Musk e Microsoft.

Ti verrà chiesto “soltanto” di accreditarti, magari con uno dei passaporti digitali rilasciati da privati di cui già disponi, ovvero account appunto di Microsoft o di Google e, pertanto, di partecipare in misura ancora maggiore all’estrazione di valore attraverso l’elaborazione dei dati e delle conoscenze da te conferiti per “sperimentare” il dispositivo. Insomma, sarai esente da pagamenti in denaro, dal momento che ti collocherai volontariamente tra i fornitori di materia prima del capitalismo di sorveglianza.

Lo schema di funzionamento è molto semplice e immediato.
Tu scrivi una riga di comando in inglese, avendo l’accortezza di indicare una tipologia testuale, un riferimento tematico e una lingua (io ho provato italiano e latino, influenzato dagli ultimi residui dei miei studi classici); e poi attivi il pulsante “Submit”.

L’accrocco (perdonami la forse eccessiva confidenza, ma serve a smitizzare fin da subito) digitale reagisce in tempi molto rapidi e scrive un testo, a volte più azzeccato e congruente, a volte meno. Testo che potrai memorizzare e collezionare, copiare e incollare e così via.
Ma cosa succede ogni volta? Una sorta di iper-esercizio di stile: il dispositivo riposa infatti su di un gigantesco corpus di testi classificati e correlati secondo varie categorizzazioni, a cui appoggiarsi per ritrovare un modello di struttura, un lessico ed esempi di sequenze sintattiche e semantiche coerenti con la tipologia indicata dall’utente, che potrà per altro essere più o meno soddisfatto e (magari) riproporre una consegna di elaborazione più puntuale.

Nessuna magia, pertanto.

E nessuna “intelligenza”. Siamo infatti in pieno nel campo del machine learnig, ovvero di un apprendimento che si fonda in larga misura sui Big Data disponibili nel “web partecipativo”, quello che permette a qualsiasi utente di produrre contenuti, che verranno scansionati e utilizzati da algoritmi che il marketing concettuale delle aziende produttrici e sfruttatrici fanno passare per intelligenti, provocando in molti una condizione di incertezza e di disagio.
Che non ha in realtà piena giustificazione se appena si leggono gli autori che adottano un approccio critico, e non i mistici dell’entusiasmo futurista o gli apocalittici del timore passatista.

È il caso, ad esempio, di Elena Esposito, che è davvero molto netta e chiara: “Oggi gli algoritmi traducono testi dal cinese senza conoscere il cinese, e nemmeno i loro programmatori lo conoscono. Usando machine learning e Big Data si limitano a trovare dei pattern e delle regolarità in enormi quantità di testi nelle lingue trattate (per esempio i materiali multilingua della Commissione europea), e li usano per produrre dei testi che risultano sensati – per le persone che li leggono. Non per gli algoritmi, che non li capiscono, come non capiscono niente dei contenuti che trattano, e non ne hanno bisogno”. (E. Esposito, “Dall’Intelligenza artificiale alla comunicazione artificiale”, Aut Aut, 392/2022)

La questione allora è piuttosto un’altra: il ricorso ai testi reperibili per le più diverse ragioni in rete e la ricerca di “regolarità” all’interno di questa massa via via sempre meno indifferenziata sono destinati per forza di cose a valorizzare ciò ritorna, è stereotipato e magari frutto di pregiudizi, comunque attestato su di una sorta di mediano “senso comune”.

Riproporre ciò che i pattern e le correlazioni rivelano essere più frequente è del resto una formula di successo: lo testimoniano un primo luogo i motori di ricerca, Google in testa, computando numero e qualità dei link delle pagine indicizzate e monitorando in tempo reale le reazioni degli utenti alle proprie proposte.
Siamo immersi nella cattura della conoscenza umana attiva e nella sua cooptazione all’interno dei processi e delle procedure che rendono i dispositivi sempre più efficienti.
Niente di eccezionale, per altro: il meccanismo socio-culturale per cui la conoscenza umana è una risorsa economica fondata sulla scarsità e sulla proprietà rivale è a sua volta un bias diffusissimo.
A partire dall’idea che l’istruzione deve preparare al mercato del lavoro e che i voti sono una sorta di simulazione anticipata del rapporto salariale.

E per ritornare sul nostro produttore-artificiale-di-testi-imitati, il quale, una volta perfezionato, ha già una propria vocazione di mercato, per cui sarà legittimo esigere un pagamento in denaro: la produzione accelerata di merce linguistica (articoli, post, comunicati, slogan e così via) in sostituzione magari dei ghost writer umani, in una nuova forma di attribuzione non etica di un’autorialità da lungo tempo rivolta alla comunicazione manipolatoria e al profitto e non allo sviluppo intellettuale.




Portfolio e pregiudizio

di Marco Guastavigna

Lo dico spesso, forse troppo: io ho avuto la fortuna di cimentarmi con un percorso formativo, culturale e professionale lontanissimo dalla mia laurea in Lettere, nel 1975, il cui unico (ed esclusivamente funzionale) passaggio tecnologico fu la battitura a macchina della tesi di laurea in bozza, con successiva normalizzazione in copisteria.

L’incontro con i dispositivi digitali avvenne dopo e per caso: a scuola c’erano un collega e uno studente dotati di Spectrum Sinclair e sotto casa aprì un negozio – siamo a metà degli anni ’80 – che vendeva Commodore 64. E così ho cominciato l’esplorazione, che continuo tuttora: cercare senso e significato con valenza intellettuale, politica e didattica analizzando e valutando aspetti operativi e cognitivi. E rifuggendo dagli slogan del pensiero unico della mistica dell’innovazione, la peggior forma di dominio tecnocratico possibile.

In quegli inizi accadde però un episodio che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso su ciò che mi aspettava: ero in una scuola media, nell’aula degli audiovisivi, attigua a quella dove erano collocati un paio di C64 e alcuni Olivetti M24, quando entrò un’ausiliaria che non mi aveva mai visto prima. Vedendomi trafficare con quegli oggetti mi disse: “Lei deve essere il nuovo insegnante di educazione tecnica”. Non ricordo se delusi questa fortissima e limpida convinzione, ma l’aura che emanavo allora mi ha perseguitato per tutti i decenni successivi.

È mia abitudine, per esempio, iniziare i laboratori universitari in cui lavoro a contratto domandando quali siano le aspettative rispetto al percorso. Accanto a chi mi guarda stranito, non avendo ancora una confidenza personale tale da consentirgli di esclamare: “Ma quali vuoi che siano?”, ci sono puntualmente coloro che dichiarano: “Io non sono per niente tecnologic* e nutro un po’ di timore sui miei possibili risultati”. Dentro questa ricorrente autovalutazione vi sono tutte le componenti di un bias diffusissimo e – colpevolmente – trascurato.
Da una parte si fanno coincidere tutte le “tecnologie” (compresi libri, quaderni, matite, penne, occhiali, automobili, biciclette, monopattini, distributori di bibite e così via) con i dispositivi digitali. Dall’altra si attribuisce a questi ultimi una valenza totemica, assoluta e indiscutibile, alla quale ci si deve iniziare avvalendosi di ermeneuti a ciò consacrati.

Questo approccio ha numerose implicazioni negative, che impediscono alle persone di diventare davvero autonome.
In primo luogo, un’impostazione mnemonica, meccanica e addestrativa degli apprendimenti, in piena e assurda contraddizione con il design cognitivo e commerciale delle interfacce, a impostazione prevalentemente visiva, fortemente intuitive, che dovrebbero invece invogliare a esplorare e sperimentare in prima persona.
In secondo luogo, l’acquisizione stentata di un gergo balbettato e del tutto approssimativo, che anziché chiarire annebbia e confonde, partorendo espressioni come “laboratori di informatica”, “DAD” e “DID” nell’istruzione o “corsi di informatica” nella formazione dei nonni e degli anziani in genere, e la rinuncia a priori a costruire un lessico davvero condiviso, basato sulle effettive possibilità di impiego in un contesto definito.
In terzo luogo, la cultura della delega all’esperto (o presunto tale) locale, le cui conoscenze e competenze personali diventano le regole generali, indiscusse e indiscutibili del comportamento di gruppo, generando situazioni paradossali, come quella dei corsisti che accendono i dispositivi su cui dovrebbero imparare e devono invece attendere un bel po’ di tempo che i personal computer terminino il lentissimo aggiornamento di sistema che il “guru de noantri” ha deciso monocraticamente – e misteriosamente – di impostare come automatico.
In quarto luogo, ciò che mi preoccupa di più: i singoli e i gruppi che preferiscono il limbo della dipendenza e della necessità di ricorrere alle opinioni o agli interventi pratici altrui piuttosto che affrontare la fatica di un processo emancipatorio, di acquisizione di consapevolezza e di capacità critica.
Con i tempi che corrono e considerata la pervasività dei dispositivi digitali in ogni aspetto della vita quotidiana, questa scelta di subalternità configura una rinuncia attiva alla piena cittadinanza.




La lingua italiana ai tempi del web

di Rodolfo Marchisio

Di cosa si parla nel nostro percorso di formazione

Nel nostro percorso  di riflessione e discussione previsto sul tema Come il web cambia il nostro linguaggio, presentato nell’articolo La lingua italiana ai tempi del web ed esemplificato nell’articolo  Come il web cambia la nostra lingua intendiamo dialogare insieme sui temi di linguistica, cittadinanza, cultura digitale legati al campo di ricerca che proponiamo.

Partendo da 4 obiettivi ed approfondendo insieme i 4 filoni che si possono sviluppare anche in base all’interesse espresso dai partecipanti tramite il form d’iscrizione.

Premessa. La lingua cambia con l’avvento del web e questo cambiamento coinvolge:

Informazioni, conoscenze, pensieri, modo di ragionare e di agire
ma anche
percezioni, emozioni, sentimenti, relazioni, amicizie, modo di essere.

Questo significa che ci cambia sia come persone, nella nostra vita individuale, sociale e relazionale,
sia come cittadini negando o modificando comportamenti legati a diritti.
E che questi cambiamenti sono intrecciati fra loro e legati anche all’influenza del web.

Filoni 1. – Lingua (lessico, grammatica, linguistica) e informazione.  

  1. La lingua come gioco di costruzioni
  2. Semplificazione attuale della lingua italiana (ipotassi/paratassi)
  3. Scomparsa di modi e tempi del verbo e democrazia
  4. La riduzione del vocabolario
  5. La lingua dei giovani
  6. SMS, abbreviazioni, lapidi, Placiti cassinesi
  7. Neologismi, parole straniere, gergo social
  8. Decalogo dell’informazione – Paone
  9. Le regole della disinformazione – Choamsky
  10. Riflessioni sulla lingua – Ghemo

Filone 2- Lingua, democrazia e cittadinanza

  1. Il rapporto numero e qualità delle parole e democrazia
  2. Influenza del linguaggio sulle competenze chiave
  3. Alice nel paese delle meraviglie – le parole e il potere
  4. Le parole (anche online) sono “fatti” ed hanno conseguenze reali
  5. Come la lingua influenza il modo di pensare
  6. Parole e potere: le neo-lingue
  7. Post verità e percepito
  8. Svalutazione della conoscenza e della competenza
  9. Nuove competenze linguistiche digitali

Filone 3 – Come il web ha modificato la lingua italiana

  1. Parole chiave della lingua
  2. Accademia della Crusca – Video sul tema.
  3. Lingua del web: aggressività e mancanza linguaggi non verbali. Wallace.
  4. Il linguaggio del corpo ed il tono della voce
  5. Il linguaggio (e il gergo dei social)
  6. Emozioni ed emoticon
  7. Parole ombrello (digitale, libertà, democrazia)
  8. Post verità, fake news e parole dell’odio. L’odio in rete.

Filone 4- Scrivere e leggere online. La lingua del web

  1. Caratteristiche e regole della lingua online
  2. della Crusca: varie forme di comunicazione mediata dalla rete.
  3. Il mezzo influenza lo scritto: breve, semplificato nei SN, più lungo e complesso nei siti ufficiali
  4. Lettura spezzata o multimediale
  5. Il rapporto testo e interfaccia
  6. Lessico: nuove parole per nuove cose (hastag), anglicismi, sigle (FB), parole da azioni (cliccare).
  7. La famiglia del web (webmaster…)
  8. Vecchie parole, nuovi significati (Virale)
  9. Tormentoni e regionalismi.
  10. Linguistica e letteratura del coding
  11. Libro e/o e book
  12. Stili di lettura off e online
  13. Leggere e leggere online
  14. Lettura ipertestuale
  15. Scrivere e scrivere online
  16. Scrittura online. Regole, caratteristiche, consigli
  17. La disintermediazione: tutti scrittori. Si ma…
  18. Il nuovo linguaggio dei giovani multimediale dei giovani.
  19. I vantaggi della scrittura ipertestuale e della scrittura collettiva o a più mani.

Con questo articolo speriamo di fornire un possibile schema di riflessione e di dare ai partecipanti la possibilità di indicare i filoni per loro più interessanti, che possono indicare  in fondo al form per una migliore contestualizzazione del lavoro comune.

Alcuni link

https://accademiadellacrusca.it/
https://accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/parole-nuove/ https://accademiadellacrusca.it/ricerca?key=web&tipo=consulenza%20linguistica
https://concetticontrastivi.org/2022/10/27/la-dimensione-collettiva-dellinformazione/

 

 

 




Come il web cambia la nostra lingua

di Rodolfo Marchisio

Come il web cambia la nostra lingua.[1]

La lingua del web ed i linguaggi non verbali. Spunti per una riflessione sull’e-taliano.[2]

Lingua: aggressività e mancanza dei linguaggi non verbali nel web

 “Abbiamo avuto migliaia di anni di evoluzione per prendere confidenza con le interazioni umane in contesti faccia a faccia, ma appena due decenni per il mondo online diffuso su larga scala che ora è il luogo dove si svolge molta dell’interazione umana, con strumenti del tutto diversi.”
Quando si comunica online, la gente non solo sembra più brusca e aggressiva, in realtà lo è davvero.

A volte ci si dimentica che il tono, nelle comunicazioni più tradizionali, è veicolato con i segnali non verbali, le espressioni facciali, ma anche la postura del corpo, il contatto visivo, la voce, per esempio.
In assenza di questi segnali, online è più difficile esprimersi in maniera sottile, quindi le comunicazioni appaiono più brusche e aggressive”. Wallace, psicolinguista

Le comunicazioni online possono essere facilmente fraintese

Online, siamo insomma meno capaci di interpretare le comunicazioni testuali con precisione, anche quando il mittente pensa che il significato dovrebbe essere ovvio.
Questo accade con il sarcasmo, l’ironia, per esempio.
È molto difficile identificare con precisione un commento sarcastico in una e-mail (o in un messaggio scritto online NdA), una mancanza che può generare interpretazioni errate eclatanti.

Linguaggi non verbali in rete

Manca il contatto faccia a faccia, ma c’è anche

  •  la distanza fisica,
  • l’incertezza sul pubblico che ci vede e ci ascolta,
  • la percezione dell’anonimato (e della impunita NdA) Entrambi presunti.
  •  la mancanza di un feedback immediato e gli strumenti di comunicazione che usiamo si basano principalmente su testo e immagini.

” Al tempo stesso Internet è un motore senza precedenti d’innovazione, connessione e sviluppo umano“.

Il tono della voce e il contesto

Proviamo a dire: Ma quanto sei furbocon tre intonazioni diverse: assertivo, ammirativo, ironico.
Le parole sono le stesse, ma il messaggio che arriva è diverso.
1- Sono convinto, 2- ti ammiro per questo, 3- ti sto prendendo in giro.
Se lo scriviamo questo non è chiaro.

 I messaggi e il contesto.

I messaggi dipendono sia dal mezzo o ambiente, che dal contesto.
La professoressa ci ha dato l’ennesima insufficienza.
Come lo racconti
ad un tuo amico (Quella beep della X …),
ad un altro docente (la prof X mi ha dato, ma io mi sto impegnando…),
ai genitori (“Non è colpa mia, ma la X …)
o al Dirigente scolastico?

La comunicazione, oggi avviene soprattutto, non solo per i giovani, nei Social coi loro vantaggi (diffusione), limiti strutturali e coercizioni volute e imposte.

L’informazione dipende dalla rete. Googlare è uno dei neologismi, legato a una delle azioni più frequenti in rete. Anche da parte dei quei ragazzi che non sono consapevoli di essere in rete, perché confondono le 3 stanze che frequentano (di solito un social, un motore di ricerca, la posta elettronica) per il tutto. E non è colpa loro, perché sono indotti a pensarlo. Pariser.  [3]

Nel frattempo i SN sono diventati Social media – veicoli di informazioni, di cui negano la responsabilità – e si frequentano tramite smartphone.

Come funziona il linguaggio nei social? Breve, assertivo, aggressivo, per il poco tempo e per il poco spazio (vedi caratteri Twitter all’inizio 140 massimo poi 280. Non è cambiato granché).

Non è un problema tecnico, è emerso anche dalle ricerche, ma di abitudine e di cultura.

Emozioni ed emoticon

In rete proviamo allora ad usare faccine, emoticon, per integrare la comunicazione ed esprimere emozioni, stati d’animo, reazioni, ma non basta.
Esercizi con le emoticon: raccogliere, riconoscere e tradurle in parole.
Oppure produrre emoticon che imitino un tono o uno stato d’animo diverso.
È l’antico discorso della narrazione con le parole o con le immagini; oppure con immagini semplificate e torniamo ai racconti sulle pareti delle caverne o al linguaggio pittografico.
Dice la Wallace: in rete si litiga di più che in presenza.
Perché, tranne che nelle videoconferenze, mancano sia il tono della voce, che tutti i messaggi che inviamo attraverso il viso, gli occhi, la postura del corpo.
Io posso dirti che m’interessa quello che dici, ma se ho un’aria annoiata o sono girato dall’altra parte capisci che penso il contrario. Questo nei post è difficile da spiegare. Per questo nascono equivoci, discussioni, lunghi post o mail di chiarimenti.
Messaggi inutili e inquinanti.

Le emoticon

  • Le faccine hanno cambiato il nostro mondo? “Quando fu fondato il Consorzio (NdA delle emoticon), nel 1995, erano appena 76, oggi sono 3363, divise in dieci categorie. Dal 2015 esistono anche gli emoji personalizzabili a seconda del colore della pelle o delle abitudini sessuali.
  • “La lingua è lo specchio della società: quella parlata e ancor più quella scritta. Così oggi, se esiste la parola per esprimere un concetto, con ragionevole certezza si può dire che dovrebbe esistere anche l’emoji o gli emoji per farlo.
  • D’altra parte sono anni che grandi classici della letteratura vengono tradotti in pittogrammi: è successo, ad esempio, con Pinocchio o Moby Dick, opportunamente rinominato Emoji Dick.”
  • Potremmo interrogarci sul senso di ricerche e traduzioni come quella di Pinocchio raccontato solo tramite emoticon. Per farlo è stato necessario inventare una grammatica e un lessico appositi.

Come la lingua influenza il nostro modo di pensare.

 Ci sono circa 7.000 lingue parlate nel mondo, e ognuna è composta di suoni, parole e strutture diverse. Ma le lingue plasmano il modo in cui pensiamo? Come sono legate a noi ed al mondo in cui viviamo?
La studiosa di scienze cognitive Lera Boroditsky mostra esempi di varie lingue: da una comunità aborigena in Australia che usa i punti cardinali invece della destra o della sinistra, alle diverse parole usate per indicare il “blu” in russo (o alla mancanza di alcuni colori nel linguaggio degli eschimesi, che hanno invece molte tonalità dal bianco al grigio, al nero, a causa dell’ambiente in cui vivono NdA).
Chi non ha un colore o un oggetto non ha bisogno delle parole per dirlo.

Viceversa chi ha una cosa da dire e non possiede le parole per esprimerla ne soffre, oltre ad essere limitato, come le tribù che possono descrivere il dolore fisico, ma non quello psichico, cosa che li fa stare ancora peggio.

Universi linguistici e cognitivi e rapporto con l’ambiente

“La bellezza della diversità linguistica è che ci rivela come possa essere ingegnosa e flessibile la mente umana”, dice Boroditsky.
“La mente umana non ha inventato un unico universo cognitivo, bensì 7.000”.
TED Vera Borodisky  a lato sottotitoli in Italiano.

Linguistica e letteratura del coding

Il coding, il pensiero computazionale, ha inventato ormai più delle 7000 lingue conosciute: sono 8000 i linguaggi di programmazione ed hanno autori, correnti, collegamenti con l’arte e meritano una letteratura ed uno studio linguistico come quello sulla nostra lingua ed i suoi autori. In proposito vedi Il primo festival del codice sorgente  https://codefe.st/  e La prima mostra al mondo del codice sorgente come fenomeno letterario allestita coi ragazzi dell’ IIS Avogadro di Torino da  http://codexpo.org/ che si occupa di questo.  La mostra è visitabile: https://www.codeshow.it/

  1. Questo articolo è stato scritto utilizzando una delle più potenti possibilità che ci offre il web. Quella di una scrittura e quindi di una lettura ipertestuale che diventa ipermediale.

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[1] Queste osservazioni si riferiscono al linguaggio prevalente in rete cioè alla lingua scritta (210 miliardi di mail e 140 milioni di post al giorno solo nei 2 principali Social). Anche perché si presta meglio ad una riflessione sulla lingua italiana. In rete si stanno sviluppando linguaggi prevalentemente fatti di video (Youtube, Tik Tok) o linguaggi multimediali in senso lato. Ma allora il discorso si sposta dalla lingua del nostro paese ai linguaggi misti dove ad esempio l’immagine prevale, talora col linguaggio parlato, anche se non sempre decifrabile in modo evidente.  Anche la DaD ci ha insegnato qualcosa.

[2] Enciclopedia Treccani.

[3] TED di Pariser con testo in Italiano. 8 min. https://www.bing.com/videos/search?q=Pariser+TED&docid=608022015048428796&mid=39FE07E616144EBD5AC639FE07E616144EBD5AC6&view=detail&FORM=VIRE




La lingua italiana ai tempi del web

di Rodolfo Marchisio

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Wittgenstein

 La lingua cambia continuamente. Ma le modifiche apportate alla lingua che usiamo, con l’avvento del web, sono molte e, come molte cose che passano attraverso quel moltiplicatore e acceleratore che è la rete, hanno conseguenze molto significative anche sulla nostra vita personale e sui nostri diritti di cittadini.
Tanto che la domanda oggi, a partire dalla lingua, non è più “cosa ci faccio col web” ma “cosa il web sta facendo a noi”, al nostro linguaggio e di conseguenza al nostro modo di esprimerci; quindi di ragionare, di sentire, di avere relazioni e fare amicizie, di agire e scegliere, cioè di essere cittadini. (S. Turkle).
“I ragazzi devono saper cosa succede sulla loro pelle in rete” …perché “cambiare è ancora possibile” recitava il Sillabo sulla Educazione civica digitale del MI 2018. In relazione alla attuale fase del web che ha fatto dire a T. B. Lee “Non riconosco più la mia creatura”.

Cominciando dalla lingua, perché di qui comincia il processo che coinvolge informazioni, conoscenze, pensieri; ma anche emozioni, sentimenti, percezioni, relazioni, amicizie e il nostro modo di essere. Persone e cittadini.

Allora è il momento di fare, insieme ai nostri ragazzi, una riflessione linguistica attraverso esempi, ricerche, dati ed autori, su come il nostro linguaggio, in molti modi, sia cambiato con l’avvento del web e su quali siano le conseguenze di questo cambiamento dinamico.

Se ne sta occupando anche la Accademia della Crusca. Ma, fortemente intrecciata con la dimensione lessicale, grammaticale e linguistica, c’è una dimensione culturale e di cittadinanza.

Ad esempio di semplificazione, del linguaggio e del pensiero. Da “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…” a “E’ tutta colpa del governo”! Da ipotassi a paratassi.
Un problema che riguarda la grammatica, la linguistica, ma anche la cittadinanza.

Potremmo parlare allora della lingua e del pensiero come gioco di costruzioni.
Del rapporto, ad esempio, tra quantità e qualità di parole conosciute e democrazia (Don Milani, Orwell, Zagrebelsky).
Oppure del rapporto parole-azioni-potere come ci ricordano “Alice nel paese delle meraviglie” o Orwell con la neolingua (1984).
Del rapporto fra semplificazione della lingua e svalutazione della conoscenza e della competenza. Nichols, Asimov.
Della scomparsa di modi e tempi dei verbi nei media e della semplificazione della nostra espressione, specie nel web; anche, ma non solo, per la brevità imposta dagli ambienti social.

Verso la assertività: l’indicativo è il modo dei semplici e dei prepotenti.

Della lingua del web, spesso breve, aggressiva, equivocabile per mancanza di linguaggi non verbali (viso, gesti, tono). Wallace.
Del linguaggio dell’odio in rete (del rapporto odio/linguaggio), di odiatori seriali e di chi sono, della industria delle Fake news che, ormai regolarmente, “inquinano” il nostro stanco diritto/dovere di votare.
Della frammentazione e dell’eccesso di informazioni in rete, spesso inutili e inquinanti.
Di parole “ombrello” come digitaleGuastavigna – o di parole suicide.
Dei vantaggi e dei rischi (anche ecologici) legati alla disintermediazione nel campo della espressione; di post verità e delle sue conseguenze.
Dal punto di vista del vocabolario in ingresso. Dei neologismi, delle parole straniere entrate a far parte del nostro lessico, di sigle o abbreviazioni, del “gergo” dei social che fanno ormai parte anche della lingua parlata/scritta nella vita di tutti i giorni.

Dovremmo riflettere sul rapporto emozioni/emoticon: anche semplicemente giocando con le emoticon (oggi oltre 3600 divise in dieci categorie) o col tono della voce.
Ma anche lavorando su abbreviazioni e modifiche della grafia, sms, lapidi e placiti Cassinesi.
O ancora sul senso di esperienze di libri riscritti con le emoticon, come Pinocchio.
Soprattutto di riflettere su quanti e quali diritti queste modifiche, talora implicite, talora volute e pagate, parte di un sistema economico di controllo del cittadino e del consumatore, stiano limitando o violando.

In sintesi.

Occorrono nuove consapevolezze (e competenze) sulla lingua che partano da una riflessione su:

  1. come cambia la lingua del web,
  2. ma anche la nostra lingua col web,
  3. come il web condizioni la lingua che parliamo,
  4. quali siano le conseguenze relazionali, sociali e di cittadinanza on e off line

Essendo consapevoli:

a- del fatto che oggi i giovani ci propongono, attraverso il web, un modo nuovo di comunicare multimediale cui prestare attenzione,
b- che il loro linguaggio (ma solo il “loro”?) sta utilizzando sempre meno parole (800 secondo il MI Inglese, poche decine negli sms). Il vocabolario di base di De Mauro, partiva da meno di 2000 parole per arrivare a un massimo di 7000 di più largo uso.
c- ma anche delle potenzialità dei linguaggi ipertestuali (e ipermediali) a più livelli che ci offre la espressione online.

L’insegnamento deve adeguarsi al cambiamento dei linguaggi e dei comportamenti cognitivi, imparando ad animare gli spazi di un immaginario che si compone anche dentro e attraverso la Rete. C. Scognamiglio.




La mistica della rete che promuove democrazia

a cura di Marco Guastavigna

Lo storytelling leggendario e mitologico di internet come agorà espansiva della democrazia resiste solo nelle ampie sacche di mistica dell’innovazione, purtroppo ancora vastamente diffuse nelle istituzioni formative della nostra Repubblica.

Altrove – ovvero in altri territori e in altri ambiti socio-culturali – le vicende Cambridge Analytica, il pullulare delle fake-news, il diffondersi del pensiero di odio, la segregazione nelle bolle di opinione, la manipolazione quotidiana delle coscienze da parte delle aziende di social business, la privatizzazione e la frantumazione della sfera pubblica da parte delle piattaforme del capitalismo cibernetico hanno invece mobilitato il pensiero autenticamente critico. Quello che si pone domande problematizzanti, mette in discussione i modelli di riferimento, propone attivamente alternative.

Tra le varie testimonianze di questi processi di ri-emancipazione l’appello che presentiamo e che invitiamo a sottoscrivere. Si tratta di un Manifesto per la realizzazione di media e internet con scopo esplicito di servizio pubblico, destinati ai cittadini e non più ai consumatori di informazioni, redatto da Christian Fuchs e Klaus Unterberger.