Ma la maieutica funziona ancora?

di Giovanni Fioravanti

Leggo su Education Week l’articolo di un ricercatore, direttore degli studi sulle politiche educative presso l’American Enterprise Institute. Un articolo dedicato alla riscoperta del metodo socratico, che evidentemente pare essere stato dimenticato dalle scuole americane. Possibile che altrettanto valga per quelle italiane, non dispongo di dati in merito, sempre che si praticasse.

Quando studiavo pedagogia alle magistrali la maieutica socratica andava forte, cioè, ci spiegavano, l’arte della levatrice, quella di fare nascere il sapere dal di dentro dell’alunno, del resto l’etimologia di educazione, l’insegnante ricordava, è ex ducere, cioè condurre fuori. Le implicazioni poi di questo modo di concepire il sapere e l’insegnamento si perdevano nella nebbia del nozionismo scolastico.

Insomma, l’idea che il sapere per essere estratto, o meglio, per essere portato a galla, dovesse essere in qualche modo già posseduto, non era oggetto né di riflessioni né di approfondimenti.
D’altra parte il Socrate che noi si studia è quello che ci ha raccontato Platone col suo iperuranio, le anime che cadono per via dei cavalli imbizzarriti e la conseguente metempsicosi.

Non è che poi ti facevano leggere il Menone, sostanzialmente la dimostrazione pratica di come Socrate metteva in atto attraverso l’arte del dialogo, domanda e risposta, la sua maieutica.
Menone, schiavo illetterato, sollecitato dalle domande del filosofo, giunge a risolvere complessi problemi di geometria. Chi l’ha letto ricorderà che Socrate pone al giovane schiavo un quesito: “Se io ti disegnassi un quadrato, sapresti trovarmi un quadrato dall’area esattamente doppia del primo?” Menone, che nulla sa di geometria, d’istinto risponde: ”Il quadrato con l’area doppia lo ottengo creandone uno nuovo che abbia per lato il doppio del lato del primo quadrato”.
La risposta è sbagliata, ma lo schiavo riflettendo, sollecitato dalle domande del maestro, giunge a dare  quella corretta.
Il dialogo, dunque, è l’esplicazione di come funziona la maieutica socratica. Potremmo dire che Socrate è stato il precursore di ciò che noi oggi chiamiamo problem solving.
Fra parentesi, per coloro che non avessero letto il Menone e fossero curiosi di conoscere la soluzione del problema posto da Socrate, consiglio di disegnare un quadrato e di tracciare le due diagonali, a questo punto la risposta dovrebbe essere intuitiva.

Abbiamo pagine di psicologia e di pedagogia che avrebbero dovuto facilitare la familiarizzazione della didattica con le tecniche del problem solving, rendere naturale il dialogo tra docente e studenti, il saper porre le domande da parte dell’insegnante e il saper ricercare le risposte a sua volta da parte dello studente senza il timore di sbagliare.

La vivacità dialettica non mi sembra un connotato delle nostre classi. Se vogliamo anche per comprensibili ragioni pratiche, come fai a gestire una didattica del dialogo con una classe di venticinque alunni, meno consistenti sono le osservazioni che così facendo non porteresti a termine il programma.
Meglio teste ben fatte, per dirla con Morin, che teste infarcite come uova.

Ma la questione è di grande attualità, la formazione al problem solving, la richiede per primo il mercato del lavoro, ma a prescindere da questo, e per evitare critiche di aziendalismo, pensiamo per davvero di poter formare e crescere generazioni di giovani che non abbiano familiarità e confidenza con la problematizzazione della realtà?  Con l’abitudine a ricercare le risposte, accedere alle banche dati, alle fonti del sapere che possono fornire gli strumenti per confezionare le risposte stesse?
Qualcuno ha parlato, ci ha scritto pure, di risveglio della classe creativa, ma è inconcepibile che ci sia ancora chi pensi che il progresso nel sapere, nella conoscenza, nella ricerca scientifica non richieda di sviluppare forti capacità creative, intelligenze capaci di pensare la realtà oltre la realtà stessa, di interrogarla e formulare ipotesi.

Le televisioni commerciali con la creatività ci fanno i soldi. I giovani devono capire ed essere attrezzati a fare della creatività il loro futuro e non soggiogare le loro menti ai prodotti più deteriori della commercializzazione della creatività umana.
La ricerca scientifica consiste nel risolvere problemi, la vita è costituita da problemi da risolvere e, quindi, apprendere a risolvere problemi significa apprendere a vivere, scriveva Karl Popper, come già più di un secolo fa John Dewey teorizzava la didattica per problemi, per non parlare di quello che è venuto dopo nel campo della ricerca. Ma noi abbiamo fatto la scuola dello spirito, la scuola dell’umanesimo dimenticando di allenare e tenere esercitate le menti dei nostri giovani, troppo faticoso.

E qui viene il dunque, che per praticare la maieutica, il problem solving non solo bisognerebbe organizzarsi in maniera differente da come sono strutturate le nostre scuole, e questo è già un problema, perché menti che lavorano hanno bisogno di laboratori, ma bisogna anche essere competenti, essere preparati.

Se non si è mai fatto, nessuno te l’ha insegnato come fai ad averlo imparato.
Forse è questa la ragione vera per cui nelle scuole americane la maieutica non ha radicato, come del resto nelle scuole di casa nostra, la maieutica moderna intendo, il problem solving, quello dell’insight alla Wertheimer.
Noi al massimo pratichiamo la maieutica del fai da te come canta in Spazio Tempo Francesco Gabbani.

La didattica della nostra scuola è ancora quella delle risposte, le risposte da apprendere dalla voce dell’insegnante, dalle pagine dei libri di testo, le risposte da riferire nelle interrogazioni, da esercitare con i compiti, da verificare con i  test, con le prove oggettive a risposta multipla. Ma formulare le domande giuste per interrogarsi e ricercare è tutta un’altra storia.

E allora il metodo socratico diventa complicato, difficile da applicare bene. Il metodo socratico, osserva l’autore dell’articolo a cui facevo riferimento all’inizio, richiede che un insegnante abbia una profonda conoscenza dell’argomento specifico, una biblioteca di analogie rilevanti, una padronanza delle strade che il dialogo può prendere e la capacità di interpretare l’avvocato del diavolo.
Fare tutto questo bene richiede tempo e pratica, entrambi elementi che scarseggiano per gli insegnanti che corrono per portare a termine il programma, anche questo vecchio retaggio gentiliano.
Pertanto il problema più grosso che ha la nostra scuola e il suo futuro è quale profilo docente sia necessario progettare. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui lo sviluppo professionale, se adeguatamente disegnato può fare una grande differenza.

Oggi, naturalmente, alla faccia della maieutica socratica e della sua versione più moderna, quasi nessun insegnante ha ricevuto nemmeno un briciolo di tale formazione.




I programmi del ’45: 80 anni (o quasi) ma sono modernissimi!

di Franca Da Re

Il 24 maggio 1945, con decreto n. 459 del Luogotenente del Regno, Umberto II di Savoia, furono emanati i primi Programmi per le scuole elementari e materne successivi all’era fascista e alla guerra. L’Italia non era ancora una Repubblica e non aveva una Costituzione democratica, tuttavia il Governo Provvisorio di allora, insediatosi dopo la liberazione di Roma, formato da tutte le componenti del CLN e presieduto da Bonomi, con Ministro dell’Istruzione il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, emanò, insieme a molti altri importanti provvedimenti, i nuovi Programmi per la scuola elementare e materna[1].

Tali programmi erano stati redatti con la collaborazione del Comando Alleato e infatti la Commissione incaricata era diretta dal colonnello Carlton Washburne, eminente pedagogista allievo di John Dewey e ideatore dell’esperimento pedagogico condotto a partire dagli anni ’20 nelle scuole di Winnetka, un sobborgo di Chicago dove egli era Sovrintendente.

Nella Commissione lavorarono anche pedagogisti italiani, tra i quali Gino Ferretti. La Commissione Alleata aveva già operato nei territori del Sud liberati allo scopo di defascistizzare la scuola e le sue pratiche e i libri di testo.

L’impostazione generale dei Programmi è ispirata ai principi dell’attivismo pedagogico e attenta all’educazione civile, allo scopo di educare alla democrazia i giovani cittadini nel nuovo Stato. La Commissione aveva licenziato un testo dove l’educazione civile era preminente rispetto all’educazione religiosa che aveva peraltro una valenza pluriconfessionale, ma l’opposizione dei cattolici determinò un testo definitivo di compromesso dove l’educazione religiosa rientrava nell’alveo cattolico e dove anche gli indirizzi metodologici assunsero un carattere più moderato.

Ciò nonostante, il testo dei Programmi del 1945 ci restituisce passaggi di una impressionante attualità, con suggestioni che possono validamente orientare anche anche oggi le pratiche didattiche nelle nostre scuole.

In questo primo contributo esamineremo la Premessa e la parte dedicata all’Educazione morale e civile, ricavandone i suggerimenti utili per l’attualità.

In un contributo successivo riserveremo attenzione alle indicazioni metodologiche nei diversi insegnamenti e alle indicazioni per la redazione dei libri di testo, contenute in uno degli Allegati al Decreto luogotenenziale.

La Premessa e le finalità della scuola

“I programmi che seguono sono sorti dalla necessità, vivamente sentita, di mettere la scuola elementare italiana nelle condizioni più favorevoli perché possa contribuire alla rinascita della vita nazionale, assumendo la sua parte di responsabilità nell’educazione della fanciullezza. Condizione essenziale di tale rinascita è la formazione di una coscienza operante, che associ finalmente le forze della cultura a quelle del lavoro in modo che la cultura non si risolva in sterile apprendimento di nozioni e il lavoro non sia soltanto inconsapevole espressione di forza fisica. (…)
La scuola elementare, pertanto, non dovrà limitarsi a combattere solo l’analfabetismo strumentale, mentre assai più pernicioso è l’analfabetismo spirituale che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica, empirismo nel campo del lavoro, insensibilità verso i problemi sociali in genere. Essa ha il compito di combattere anche questa grave forma d’ignoranza, educando nel fanciullo, l’uomo e il cittadino.”

Dopo avere auspicato che nella scuola elementare si instaurino sentimenti di viva fraternità umana che superino “l’angusto limite dei nazionalismi” e si concretizzino in serena volontà “di lavorare e di servire il Paese con onestà di propositi”, la Premessa ricorda che tali finalità trovano riferimento in tutte le discipline insegnate, in particolare nella religione, nell’educazione morale, civile e fisica, nella storia e geografia. Il successivo passaggio è particolarmente interessante e attuale, poiché tratta l’unitarietà dell’insegnamento e la necessità di superare la partizione delle materie.

“È da rilevare che con l’educazione morale e civile si mira, più che a una precettistica di vecchia maniera, alla formazione del carattere, con un avveduto esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno. A tal fine è premessa indispensabile l’unità d’insegnamento. La stessa costituzione delle singole materie è sorta da questa esigenza unitaria e dalla critica all’indirizzo dispersivo delle precedenti partizioni, che favorivano un insegnamento frammentario e slegato. Così l’educazione morale e civile, ricostituita come disciplina vera e propria, attira nella sua orbita, non senza significato, la educazione fisica; il lavoro assume valore di attività  sociale; l’insegnamento della lingua italiana si ricostituisce in logica unità; la storia e la geografia si svolgono su di un piano di più concreti rapporti tra l’ambiente e l’uomo; le scienze richiamano nel loro preciso ambito i capitoli dispersi qua e là nelle nozioni varie, che erano l’espressione più patente della trita cultura elementare. Queste materie non debbono essere considerate distinte l’una dall’altra; esse costituiscono un tutto unitario e armonico che si fonde nella coscienza dell’alunno.”

Non solo in questo passaggio si richiama alla necessità di impartire un insegnamento che veda l’integrazione delle diverse discipline per l’analisi della realtà, ma si rammenta anche che ogni insegnamento contribuisce all’educazione morale e civile e tutti insieme contribuiscono alla formazione della persona e del cittadino. L’integrazione dei punti divista disciplinari nell’analisi della realtà fornisce evidentemente gli strumenti perché il giovane sviluppi la capacità di “esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno”.

Tali esortazioni sono tanto attuali quanto scarsamente praticate: la frammentazione disciplinare, solitamente appannaggio della scuola secondaria, sta rapidamente contagiando anche la scuola primaria; gli insegnamenti molto spesso riguardano i contenuti, le teorie, talvolta, non sempre, i metodi, ma non sempre viene evidenziato l’aspetto civico che ogni sapere contiene, ovvero la responsabilità che ciascuno di noi ha nell’utilizzare i saperi per il bene comune e non contro di esso. Autonomia e responsabilità nell’agire conoscenze, abilità, capacità personali e metodologiche sono ciò che caratterizza l’agire della persona competente. Per questo sono necessari spirito critico, capacità di gestire pensiero complesso e tensione etica. Aiutare gli alunni a sviluppare tali dimensioni è ciò che connota educativamente l’insegnamento, distinguendolo dall’addestramento.

La Premessa si occupa anche del profilo del maestro:
“Per l’attuazione di questo piano educativo, che mira soprattutto a preparare il fanciullo alla vita civile, non è quindi sufficiente all’insegnante la sola cultura umanistica, su cui si è fatto finora quasi esclusivo assegnamento per la sua preparazione professionale. Necessita all’educatore un alto senso di responsabilità sociale che l’induca, nella scuola e fuori, ad essere maestro di vita, esempio di probità in ogni sua manifestazione. Solo così egli potrà intendere l’invito, che gli viene da questi programmi, di considerare l’insegnamento come una missione di civiltà. Avrà pure bisogno -sia detto ben chiaro – di una tecnica educativa, cioè di un metodo didattico che dovrà sempre perfezionare, sia meditando sul proprio insegnamento e sui risultati ottenuti, sia partecipando con attivo interesse al movimento pedagogico italiano e straniero.”

L’educazione morale, civile e fisica

“È noto che i soli precetti, le conversazioni e le letture non bastano a formare la volontà morale, perché se possono indicare lavia migliore da seguire, restano pur sempre nel campo dell’astrazione. Ha somma importanza, invece, l’esercizio costante e illuminato della azione, guidata dall’esempio vivente del maestro.
La scuola, ordinata secondo il sistema razionale della libertà disciplinata, deve svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco (…)”

Per lo sviluppo dell’educazione morale e civile è quindi necessario che gli alunni siano attivamente coinvolti nell’attività della scuola, che possano partecipare alla definizione delle attività da affrontare, nella formazione delle decisioni, anche attraverso forse di referendum e di votazione.

Gli alunni dovranno assumersi responsabilità nella gestione della classe e della scuola attraverso lavori di pulizia, di riordino, di piccola manutenzione, di gestione quotidiana e discuterne collettivamente regole e modalità. Il maestro avrà il compito di incoraggiare la discussione e di orientarla. Così l’alunno potrà affinare il senso del giusto e dell’ingiusto e svilupperà senso etico e si renderà “sensibile al valore delle proprie azioni, viste nel quadro degli interessi generali del suo gruppo”. L’alunno sarà guidato ad osservare le forme di vita associata nella sua comunità e così, accanto al costante esercizio dell’autogoverno e della concertazione all’interno della scuola, egli, nel tempo, desumerà “la necessità delle leggi e delle istituzioni che nello Stato tutelano la libertà di ciascuno e di tutti, rendendo così possibile la civile convivenza”.

All’educazione morale e civile contribuisce direttamente l’educazione fisica, attraverso la disciplina del corpo e dei suoi movimenti e l’esercizio delle regole nei giochi di squadra. Nei giochi gli allievi svilupperanno comportamenti di salvaguardia della salute e impareranno i valori della lealtà, del rispetto reciproco, della solidarietà, sperimentando, nel contempo, i propri limiti ed esercitando costantemente la responsabilità. L’educazione civica contribuirà a costruire la socialità e il cameratismo. Il maestro cercherà di attenuare l’esasperato spirito agonistico che potrebbe minacciare gli equilibri del gruppo e scoraggerà in tutti i modi “ogni forma di quel caporalismo che tanto ha mortificato lo spirito della giovinezza nel recente passato”.

In conclusione, nei programmi del 1945 troviamo richiami diretti alla formazione di cittadini tesi al bene comune, alla solidarietà, alla convivenza democratica.

L’unitarietà dell’insegnamento, con il superamento delle partizioni disciplinari è vista come misura imprescindibile per perseguire gli obiettivi dello sviluppo della coscienza morale, civile, etica e dello spirito critico. Tutti gli insegnamenti devono concorrere a queste finalità educando gli alunni alla responsabilità nel proprio agire.

La vita scolastica dovrebbe essere regolata attraverso l’autogoverno, la diretta partecipazione degli allievi, i quali si assumeranno responsabilità nella gestione delle attività quotidiane e nelle scelte di lavoro. Dovrebbero essere costantemente incoraggiate la discussione e l’assunzione di decisioni attraverso meccanismi condivisi e democratici.

Crediamo che le indicazioni dei programmi del 1945 siano ampiamente condivisibili tutt’oggi e siano coerenti con le Indicazioni Nazionali e le Linee Guida. Con animo sereno dovremmo però anche chiederci in quale misura nelle nostre scuole, all’alba del 2024, tali costumi didattici e relazionali siano diffusi, praticati e incoraggiati.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario

 




Quando Mario Lodi e Bruno Ciari si incontrarono

Nel collage (in alto: Massimo Bondioli, Donatella Merlo, Enrico Bottero; in basso: Giorgio Testa e Pamela Giorgi)

 

 

 

di Massimo Bondioli (*)

Mario Lodi e Bruno Ciari si incontrarono la prima volta nel novembre del 1955 al Congresso della Cooperativa della Tipografia a Scuola (due anni dopo cambierà il nome in Movimento di Cooperazione Educativa) e il loro rapporto di amicizia e collaborazione durò fino alla morte di Ciari.

Addentrarsi nella conoscenza di questo rapporto vorrebbe dire toccare temi come la corrispondenza interscolastica, la Biblioteca di Lavoro, la comune visione del ruolo del MCE, l’azione da condurre sul terreno più direttamente politico e tanti altri che hanno segnato la ricerca didattica e il dibattito pedagogico del secolo scorso. Non è un caso che siano stati percepiti dagli insegnanti e dall’opinione pubblica più sensibile ai problemi dell’educazione come le figure più rappresentative del Movimento di Cooperazione Educativa.

Dato il tempo a disposizione, mi limiterò a 3 “spigolature” che ricavo dal lavoro di ricerca che ha accompagnato la scrittura della biografia di Mario Lodi (Mario Lodi e Piadena. Una vita tra educazione e impegno in un microcosmo padano, Editoriale Sometti, 2022).

Schedati e sorvegliati

Rinaldo Rizzi, uno dei dirigenti storici del MCE, nel ricostruire la storia del Movimento, scrive:
Ferveva così un grande entusiasmo in quest’opera di rivolgimento dell’attività didattico-organizzativa, nonostante le molteplici difficoltà per questa avanguardia pedagogica che iniziava ad attirare su di sé lo sguardo sospettoso del potere.

 A quel tempo gli insegnanti progressisti, e quelli del MCE in modo particolare, erano non solo guardati con sospetto, ma schedati e sorvegliati.
Una conferma delle “attenzioni” riservate dalle autorità di pubblica sicurezza agli esponenti del MCE l’ho trovata nei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Cremona.
Il 3 agosto 1963 il Questore di Macerata inviava una segnalazione al Ministero dell’Interno sulle attività del Movimento di Cooperazione Educativa e la richiesta a 14 Questure di informazioni sui partecipanti al corso estivo di Frontale.

Eccone uno stralcio:

Lo scopo del convegno-soggiorno, al pari dello scorso anno, sarebbe quello di mettere in pratica ed incrementare, su larga scala, il metodo di insegnamento “Freinet” per permettere lo scambio delle osservazioni e delle esperienze degli alunni tra scuola e scuola, anche di Stati diversi. I partecipanti si sottopongono a lunghe ore di lezioni teorico pratiche e rimangono quasi sempre nell’abitazione del TAMAGNINI senza frequentare persone del luogo. Sebbene non si siano, finora, esposti politicamente, si ritiene che la maggior parte di essi siano orientati verso i partiti di sinistra dal momento che frequentano il TAMAGNINI, il quale, pur essendosi dimesso dal P.C.I. in seguito ai fatti Ungheria, continuò a manifestare sentimenti favorevoli alle correnti di estrema sinistra […]. Il TAMAGNINI fa anche pubblicare e diffondere, in qualità di direttore responsabile, un opuscolo mensile dal titolo “Cooperazione Educativa” […] Al convegno partecipano le sottonotate persone, sul conto delle quali le Questure in indirizzo sono pregate di fornire, direttamente al superiore Ministero e qui per conoscenza, le informazioni di rito.

Seguiva l’elenco dei 18 partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Mario Lodi, Aldo Pettini, Brunello Ciari, Ermelinda Criscuolo, Armando Novelli, Dino Zanella, ecc.

Da osservare che questo documento è interessante anche perché rappresenta una involontaria testimonianza della totale dedizione al lavoro dei partecipanti, concentrati nelle loro attività in un ritiro quasi monastico.

 La vicenda del “Razzo”

Un capitolo del rapporto tra Lodi e Ciari poco conosciuto ruota attorno all’attività delle Edizioni Avanti! e, successivamente, delle Edizioni del Gallo. Provo a riassumerlo per sommi capi.
Nel 1959 Mario Lodi era entrato in contatto con Gianni Bosio, direttore delle Edizioni Avanti!, la casa editrice ufficiale del Partito Socialista per proporgli la pubblicazione di Cipì.
Tra i due nacque subito un intenso rapporto di collaborazione.
In una riunione del gennaio 1961 Bosio annunciò l’intenzione di voler aprire una collana di libri per ragazzi, per la quale erano già disponibili due titoli. Uno di questi era il Cipì di Mario Lodi.  Da subito, Lodi divenne di fatto e poi formalmente il responsabile della collana.
Dopo una prima riunione organizzativa tenutasi in giugno presso la Biblioteca Popolare di Piadena, Lodi presentò a Bosio una lista di possibili nomi da dare alla Collana e sottopose al suo vaglio alcune ipotesi di testi da pubblicare, tra i quali figurava “Il razzo” di Bruno Ciari.

Scriveva Lodi: “Potrei far portare il materiale a Ciari quando ci vedremo a Frontale e lo aiuterei a completarlo in modo da terminarlo entro agosto”.§
Aggiungeva poi che il libro più adatto, nel caso fosse stato scelto “Universale Ragazzi” come titolo della collana (titolo che poi venne effettivamente scelto), gli sembrava proprio “Il razzo” e che prima di scrivere a Ciari attendeva un cenno di conferma da Bosio.
Pochi giorni dopo, Adele Faccio, che lavorava allora per la casa editrice, scriveva a Lodi una breve lettera nella quale affermava che “Bosio vuole assolutamente il razzo”.
Lodi rispondeva che “A Frontale Ciari ha promesso di mandare il razzo in… orbita entro settembre”.
Già, perché il razzo di cui parlava Lodi non era soltanto un libro, a cavallo tra la narrativa e l’educazione scientifica, a cui teneva tantissimo, ma si trattava di un vero razzo in miniatura costruito da Ciari.
Si era in un momento storico particolare: da pochi mesi il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin era diventato il primo essere umano a raggiungere lo spazio sulla navetta Vostok 1; quattro anni prima aveva avuto inizio la corsa allo spazio con il lancio del satellite sovietico Sputnik 1. Questi eventi avevano impressionato fortemente l’opinione pubblica mondiale segnando un capitolo decisivo nel contesto della guerra fredda tra i due blocchi.
Questo spiega bene anche l’interesse editoriale per l’argomento trattato nel libro di Ciari.
A Frontale il razzo non decollò. Lodi tornò a parlarne a novembre. Riferendosi all’annuale convegno MCE tenutosi a Certaldo qualche giorno prima, scriveva a Bosio:

A Certaldo c’era tutto pronto per il lancio definitivo del razzo, che sarebbe stato, di fronte a tutti gli amici del convegno, la migliore propaganda per il prossimo libro, ma per il mancato arrivo del propellente, il lancio è stato rimandato di qualche giorno.

Ho avuto fra le mani il perfetto ordigno, curato nei minimi particolari; l’abbiamo smontato e ricomposto: è veramente un eccezionale lavoro, portato avanti con una meticolosità straordinaria. Il razzo dovrebbe salire a duemila metri ed essere ricuperato a mezzo di paracadute contenuto nella punta. Sarà fotografato e filmato il lancio.
Il libro sarà illustrato con fotografie e disegni. Siamo rimasti d’accordo, per non appesantire il racconto, di mettere in appendice una relazione tecnica con tutti i dati occorrenti per ripetere l’esperimento. Alla fine di dicembre il libro dovrebbe essere pronto.

Ma all’inizio di marzo dell’anno successivo, il 1962, il libro di Ciari non era ancora pronto e Lodi scriveva a Bosio che “Dato il ritardo del Razzo”, sarebbe stato favorevole a precederlo mandando in tipografia un altro libro.

Sempre in marzo, altra lettera di Lodi a Bosio:

Ciari mi scrive che il libro ha subito un rallentamento essendo egli stato ammalato. “Abbiamo comunque continuato e sviluppiamo le esperienze pratiche (di ieri un lancio discretamente riuscito con parabola compiuta dal razzo che torna a terra infilandosi di punta); i miei appunti sono ricchissimi, un po’ di pagine sono abbozzate. Ma arriverò in fondo, a ogni costo. Il problema sta tutto nella ‘forma’, che sento sta tornando”. Aggiunge che ha altre idee: tra l’altro una storia dell’uomo, a cominciare dall’antropoide delle foreste del terziario.

Nonostante i continui rinvii, non ci si rassegnava a rinunciare alla pubblicazione di quel testo. In una riunione del Comitato di Redazione dell’agosto 1962, Bosio stesso propose come strenna della collana ragazzi il libro di Ciari definendolo l’optimum e prevedendone la conclusione già per la fine di agosto. Ma, anche questa volta, il testo non arrivò.

A novembre, in uno scritto per la Redazione, Lodi ripercorreva la vita della collana per ragazzi e ne indicava i possibili sviluppi. Elencava poi le novità già in programma, tutte quante assai coraggiose per i tempi, a iniziare da Come nascono i bambini, che affrontava il problema dell’educazione sessuale dei bambini. Ancora una volta, prospettava per l’immediato futuro la pubblicazione del “Razzo” di Ciari.

A quanto mi risulta, fu questo l’ultimo riferimento al libro “fantasma” di Ciari.

Il tentativo di pubblicarlo durò dunque almeno un anno e mezzo, con una insistenza inusitata che fa comprendere quanto Lodi ne apprezzasse sia l’idea sia l’autore.

Ma la collaborazione sul versante editoriale non finì qui.
Nel 1964 le Edizioni Avanti! si resero autonome dal Partito Socialista e cambiarono il nome in Edizioni del Gallo, sempre sotto la direzione di Gianni Bosio.
Molti filoni di ricerca rimasero sostanzialmente gli stessi, ma già dall’inizio del ’64 cominciarono ad assumere un peso crescente la ricerca sul canto popolare, la produzione discografica sotto l’etichetta “I dischi del Sole” e l’organizzazione di rassegne e spettacoli nell’ambito dell’attività del Nuovo Canzoniere Italiano fondato da Bosio e da Roberto Leydi.
Tra le iniziative a cui guardava il nuovo progetto editoriale vi era quella di dare vita a una collana dei Dischi del Sole destinata ai ragazzi, la cui responsabilità sarebbe stata affidata a Mario Lodi e Bruno Ciari.

Il 31 agosto del 1965 in una lettera a Michele Straniero, Lodi esponeva il programma concordato con Ciari, che comprendeva diversi lavori di Lodi, di Ciari e della moglie di questi Marcella Bufalini. In particolare, venivano citati “Nasolungo e Orecchiofino” di Bruno e i “Canti di Bambini” curato da Marcella.

A una prima riunione tenutasi il 2 novembre 1965 Lodi, Ciari e la moglie Marcella portarono delle registrazioni effettuate nelle rispettive classi, ma queste non convinsero Bosio, Straniero e gli altri presenti e il progetto non andò in porto.
La vicenda del razzo, libro e modello autocostruito, credo meriterebbe un approfondimento e una più puntuale ricostruzione.

Più di una amicizia

Lodi parlò di Ciari in più occasioni, nel corso di convegni, in testi e interviste.
In un’intervista riportata nel volume del 1978 Animazione e conoscenza di Elisa Salvatori Vincitorio, ne tracciò un ritratto vivo, profondamente umano, carico di affetto e stima.

Eccone alcuni stralci:

Il mio primo incontro fu in quel novembre a S. Marino […].
Nativo di Certaldo, possedeva il dono discorsivo direi boccaccesco, esuberante carico di umorismo, per cui ciò che raccontava era pregnante, avvincente, in quel linguaggio vivo toscano. Nello stesso tempo sentivi l’autodidatta dalla mentalità scientifica che si manifestava anche nelle piccole cose. Dall’allevamento dei criceti […][alla] costruzione dell’acquario che faceva con i suoi ragazzi […].
Lui era contrario alle cose comperate finite e perfette; era invece per la costruzione materiale degli strumenti che servono alla ricerca e all’osservazione. Diceva che “si vede con la mente, non si vede con gli occhi”. E, tutte queste cose le raccontava quasi scherzando e noi eravamo presi da questo suo modo di raccontare […]. Aveva una mente scientifica e filosofica, completa e coerente. […] Il suo aspetto esteriore non rivelava la ricchezza interiore: era dimesso, semplice, distratto. […]
Fu lui che pose il problema dell’organicità delle tecniche, che sono valide non per i risultati che danno isolatamente, ma se fanno saltare il sistema scolastico, ponendo un’alternativa globale.

Proseguendo, Lodi arrivava ad affermare che
Bruno Ciari fu una di quelle persone dalle quali presi molto perché non ero come lui. Lui era una mente scientifica, io ero più intuitivo, per questo ci completavamo a vicenda. Infatti lui cercava me e io cercavo lui e insieme eravamo come un’unica persona con una più ampia dimensione umana e culturale.

Raramente è dato trovare un’amicizia e una intesa così profonde e solide da generare quasi una fusione tra due individui. Uno stile di vita, di relazione e di lavoro che ha saputo tradurre in pratica fino in fondo i valori in cui hanno creduto e per cui si sono battuti.

(*) Questo articolo è una rielaborazione dell’intervento dell’autore al convegno promosso da Gessetti Colorati e dall’MCE svoltosi a Ivrea il 5 ottobre 2023 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettera del Questore di Macerata al Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione AA.RR. – Sez. 2ª e alle Questure di Roma, Milano, Torino, Brescia, Varese, Ancona, Perugia, Cremona, Treviso, Campobasso, Cagliari, Reggio Calabria, Pesaro, Firenze, 3 agosto 1963, ASCR, Questura, b. 26.

 

 

 




Le buone parole della scuola: EQUITA’

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

E’ uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle scelte di politica scolastica, perchè in genere si intende giocare la sfida dell’equità contro quella ricorrente dell’efficacia, come se non potesse essere garantito quanto è necessario in termini di qualificazioni elevate ed utili alla società, consentendo a tutti pari opportunità di formazione, non lasciando nessuno indietro.
E’ questo un problema che hanno fatto emergere la consapevolezza dell’importanza dell’istruzione nei processi di mobilità sociale e l’insofferenza verso tutte le forme di privilegio sociale, in qualche modo confermate dalla preclusione ad alcuni corsi di studio.
L’istruzione come bene comune è un principio di democrazia che si è fatto strada lentamente nella società ed ha alimentato nei decenni precedenti le lotte politiche tese a renderlo disponibile in una scuola aperta a tutti. L’universalizzazione del diritto all’istruzione e all’educazione è un bisogno della società; è un bisogno di ogni singola persona.
Molti sono stati i modi per affrontare il problema dell’equità a scuola.
La misura ricorrente e iniziale per fare della scuola un’istituzione equa è quella di abbattere ogni forma di barriera al diritto di accesso ad ogni corso di studio.
Non ci sono motivi per sostenerne le ragioni e anche per poterle camuffare.E contro la proclamazione di questo diritto il fatto che si vengano a costituire indirizzi di studio che si distinguono non per le caratteristiche dei propri curricoli ,ma secondo le classi sociali di appartenenza degli alunni che li frequentano. Lo sono anche e soprattutto le cosiddette forme di selezione “cognitiva” (la cui arbitrarietà dovrebbe sempre essere denunciata)per accedere ai corsi a numero chiuso, perchè impediscono a molti giovani di potere dare corso alle proprie aspirazioni e perchè negano il diritto di potersi confrontare con saperi ritenuti importanti per la loro vita. Oltre a questi ostacoli, ma anche se non ci fossero, le vere limitazioni al diritto allo studio e quindi all’equità sono quelle di natura economica-sociale, che impediscono a molti giovani di scegliere o di prolungare la propria carriera scolastica. Basti guardare alle iscrizioni all’università e ai licei, scuole nominalmente e per convenzione sociale più adatte per la carriere accademiche.
La ristrettezza degli aiuti economici (borse di studio, buoni libro) e la mancanza di adeguati servizi (alloggi, mense, trasporti) consolidano questo permanente aspetto dell’iniquità del mondo della scuola e dell’istruzione.
Altro modo per rendere la scuola un’istituzione equa è l’elevamento della scolarità dell’obbligo. C’è un periodo di formazione nella vita di ogni giovane che non può essere negato a nessuno e che necessariamente si dilata nel nostro tempo.
L’innalzamento dell’obbligo scolastico è misura necessaria e adeguata alla società della conoscenza, che rischia di essere inefficace se non viene unita ad una lotta serrata e convinta alla dispersione e se non si dà corso ad un’ampia manutenzione dei curricoli e della didattica.
La permanenza più lunga dentro le aule non risolve da sola il problema di una più estesa e qualificata formazione di tutti i giovani.
La scolarizzazione di questo diritto/obbligo spesso è essa stessa causa di dispersione. L’assenza di un’offerta di formazione professionale articolata, ricca di contenuti, legata al territorio e al mondo del lavoro impedisce di ridimensionare il fenomeno della dispersione e di garantire ad alcuni strati della popolazione giovanile le risorse necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro e per esercitare i diritti di cittadinanza.
Si è ritenuto per molto tempo,oggi un pò meno,che il differimento più lontano possibile delle scelte definitive del tipo di studi fosse una misura per l’equità,che lo fossero i curricoli quanto più possibili unitari.
Molte riforme e molti tentativi di riforma sono stati ispirati da questo convincimento e non solo in Italia.
La differenziazione non è, però, un’invenzione del diavolo; trova spiegazione nella storia dello sviluppo delle istituzioni scolastiche e della società e può essere una soluzione adeguata per valorizzare la pluralità e la differenza dei talenti e delle vocazioni. Trova una sua forte legittimazione solo se ogni indirizzo di studi viene adeguatamente valorizzato e se ogni indirizzo consente di potere proseguire ,se ce ne sono le condizioni, il corso di studi ;se da un indirizzo si possa transitare ad un altro senza particolari difficoltà e se ogni indirizzo è in grado di assegnare a chi lo frequenta il bagaglio necessario per affrontare la navigazione della vita.
C’è un problema di cultura; c’è un problema di orientamento e c’è un problema di stratificazione sociale , quest’ultimo non sempre alla portata della scuola, che bisogna risolvere.
Il rischio di avere indirizzi di studio, socialmente dedicati e frequentati, è dietro l’angolo e non sono solo i curricoli a determinarlo.
C’è sempre un modo per inventarsi un segmento di istruzione che non è alla portata di tutti ed è buono per mantenere intatte le distanze sociali tra gli alunni.
I modi per affrontare il problema dell’equità non sono a costo zero nè per l’amministrazione, nè per il mondo della scuola e dai tentativi messi in atto si vede quanta sensibilità ci sia e quanta volontà per trovare le migliori soluzioni.
Sono di impedimento a volte le regole stesse dell’organizzazione del lavoro e della carriera dell’insegnante.Se non si assegnano gli insegnanti migliori e più esperti con adeguate incentivazioni e tutele alle scuole in zone di disagio sociale difficilmente si può parlare di lotta alla dispersione: i buoni e motivati insegnanti sono la prima E INDISPENSABILE DOTAZIONE TECNOLOGICA PER VINCERE LA BATTAGLIA DEL SUCCESSO SCOLASTICO E DELLE PARI OPPORTUNITA’.




Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola

di Cinzia Mion

Il sociologo Luca Ricolfi si è rifatto vivo con un libro, ‘La rivoluzione del merito’, in cui riprende le sue vecchie tesi sostenendo “che le politiche egalitarie e iper-inclusive nella scuola abbiano danneggiato i figli dei ceti più poveri, privandoli dell’ opportunità di utilizzare il merito scolastico come strumento di competizione”(Tuttoscuola).
Rispolveriamo allora l’argomento che da un po’ di tempo ha ripreso fiato.
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito”, al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre far emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .

Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui ”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il POTERE del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T.Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate di produttività, in altri termini le eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”

Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “CRITERIO del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di “meritorietà e merito” a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali.
Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “MERITORIA”.

E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, troppo burocratico, senza smalto.

Nel tempo abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici. Non tutti per fortuna ma quelli che continuano a vivificare la scuola non hanno la forza di contaminare tutti gli altri. Il sistema sta boccheggiando.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e “senso di appartenenza” a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere.
Una buona legge di riforma deve parlare di innovazione ma non solo organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto “insegnamento-apprendimento”.

Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (Wiggins) ,non superficiale e meccanica delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a “risolvere un problema”. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione – alla base del cosiddetto PENSIERO ROFLETTENTE – o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal PENSIERO RIFLESSIVO.
Anche Edgar Morin nel suo ultimo pamphlet “Svegliamoci!” parla di CRISI DEL PENSIERO.

Non vi stuzzica questo richiamo ai brividi mentali del saper pensare e comprendere profondamente? Lasciamoci contagiare da questa meritevole passione, che va riscoperta, e trasmettiamola ai nostri ragazzi!
E’ questo il MERITO AUTENTICO di cui ha bisogno la scuola e il PAESE.




Fame di vita vera

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

La vitalità, attitudine a vivere in modo autonomo, serve ad affrontare con grinta difficoltà e imprevisti nella quotidianità, e consente di gustare appieno scoperte, sorprese, conoscenze. Ma cosa l’attiva? Quali trigger la innescano? Ho visto, piuttosto accidentalmente, un video in cui un medico asiatico rianimava un neonato…

Quasi ipnotizzata, ho osservato lui e la sua equipe compiere atti rapidissimi, senza fermarsi un attimo, sinché il bimbo non ha cominciato a reagire tossendo ed ha iniziato finalmente a piangere. La vita è esplosa in lui quasi come per incanto, una specie di on/off, prima non c’era e poi d’improvviso è stato, era vivo.

In un viaggio caotico in treno verso il mare ho visto due giovani, pieni di desiderio, arrotolati l’uno nell’altro, baciarsi avidamente: la vita pulsava di passione.
Quella stessa energia vitale sembrava animasse una piantagione di granturco verdissimo sotto il sole di mezzogiorno. Ma era vita vera, ci avrei giurato, anche quella nei piedi di due anziani per mano, con l’acqua di mare alle caviglie, alla luce della luna, dolcissimi, freschi come teenagers.

L’ho avvertita anche nelle foto inviatemi da una giovane paziente: mi rendicontava una piccola vacanza costruita nelle avversità della separazione, conflittuale, dei genitori. Mi descriveva angoli lacustri rintracciati con tenacia nei pressi dell’abitazione di una zia e mi ricordava con ardore d’essere in partenza per una vacanza studio in Scozia, impresa per cui aveva combattuto con i denti sino allo stremo delle forze. Che spettacolo!
Vitalità, energia, cercala dove ti pare. Ma cercala. Non smettere mai di cercarla. Il nostro cervello ne ha bisogno per portare il corpo là dove vuole andare, per realizzare i sogni di ogni giorno, per amare, creare, imparare, costruire. Anche questo nessuno ce lo insegna. Forse un tempo non era così necessario ma ora sembra davvero utile, quasi indispensabile, sapere dove e come recuperare vitalità, energia psichica.

È suggestiva, in questo senso, la proposta di Kawaguci (2022) con ‘Il primo caffè della giornata’: “Dentro ciascuno di noi esiste la capacità di superare ogni genere di difficoltà. Ognuno possiede quell’energia. Ma a volte, quando questa energia sfugge attraverso la valvola dell’ansia, il flusso si restringe. Più grande è l’ansia, più forza serve per aprire la valvola che libera energia. Questa forza è potenziata dalla speranza. Anzi, si potrebbe dire che la speranza è il potere di credere nel futuro”.

Un primo trigger allora potrebbe essere un evento gradito o favorevole che si realizza, un’aspettativa, un’aspirazione, un sogno che si avvera. Come la vacanza insperata della giovane Giada, la piccola gioia procurata dalla percezione dell’acqua alle caviglie dei due anziani, ma anche la promozione inaspettata di Giorgio, ragazzo con disturbi specifici di apprendimento, ammesso all’esame di maturità con riserva, che esplode nelle prove, esprimendo al massimo le sue potenzialità, perché un docente gli esterna tutta la fiducia che ha in lui! I trigger, dunque, non sono solo casuali, ma possono essere creati intenzionalmente.

In una ricchissima mostra dedicata ai progetti svolti dai ragazzi durante l’anno, c’era una sezione dedicata ad un’attività incentrata sul benessere e sulle emozioni. I ragazzi avevano realizzato dei podcast direi su una decina di emozioni anche se una sola era positiva, la gioia. Ci avevano lavorato insieme, non era stato facile ed ora era lì a portata di orecchio per chiunque avesse la pazienza e curiosità di sedersi un attimo ed ascoltare, assorto, essere travolto e cominciare a sorridere, a sperare che i nostri ragazzi ce la potranno fare, dopo l’estate e forse anche più in là.

Un altro modo sperimentato di trasformare l’ansia in energia positiva è quello di prendere di petto i problemi e affrontarli in modo radicale e deciso. Se agisci il prima possibile, accelerando i tempi, riduci le possibilità di ripensamento, eviti quel continuo ruminare di pensieri che è alla base di eccessive preoccupazioni.
In diverse occasioni mi sono trovata nella stanzetta dedicata allo sportello d’ascolto o nel mio studio ad aiutare i ragazzi nell’organizzazione dello studio per superare l’angoscia di non farcela. Ogni volta sorpresa dal fatto che non sapessero che potesse aiutarli contare le pagine da studiare, dividerle per il numero di giorni che precedevano la verifica, o non avessero mai riflettuto su quale fosse il momento del giorno più favorevole allo studio, o come utilizzare i motori di ricerca, che loro subiscono, passivamente, ogni giorno, per recuperare, invece, attivamente, riassunti, sintesi, film, lezioni brevi…insomma tutto ciò che esiste sulla rete per poter arrivare più preparati alle interrogazioni nel minor tempo possibile, padroneggiando davvero gli argomenti di studio. E, durante quei venti o quaranta minuti di colloquio ho potuto vedere tante volte le loro guance riprendere colore, distendersi i lineamenti… tornare a vivere, per poi reincontrarli sorridenti nei corridoi o alla seduta successiva soddisfatti dei propri risultati o miglioramenti.
Come dice spesso provocatoriamente Matteo Lancini, psicoterapeuta che si occupa da tempo di adolescenza, forse non bisognerebbe proibire l’uso dei cellulari ai ragazzi ma insegnar loro veramente ad usarli per affrontare il futuro.

Nell’ultimo corso di educazione all’affettività, quest’anno, la proiezione nel futuro dei ragazzini di quinta, espressa attraverso il disegno, riguardava soprattutto e per la prima volta, il tempo libero anziché, come negli anni passati, tanti anni passati, la realizzazione lavorativa o familiare e relazionale. Questa è l’eredità lasciata dal lock down, la scoperta del tempo per sé stessi.
Durante i colloqui con i ragazzi che stentavano a riprendere lo studio o non riuscivano ad entrare o restare a scuola, dopo la fine della didattica a distanza, ricorreva il loro spiegarmi che avevano bisogno di tempo per le loro cose da fare, le loro passioni, spesso on line, come vedere video, ascoltare musica, leggere libri (ma non quelli indicati dai docenti), oppure stare con gli amici, uscire, stare fuori casa, costruire e rompere legami, piangere per le persone perse.

“È come se le persone,” come denuncia con chiarezza Natalia Aspesi (La Repubblica 4 agosto 2023) “in mezzo a una guerra, alla paura dell’atomica, alla fine della Terra, al futuro pauroso, sentissero il bisogno di verità” di vita vera, di un sapere scelto autonomamente o piuttosto, addirittura “di un dolore umano e comprensibile, di una disperazione vera.”
Queste preziose considerazioni sembrano collimare con quanto emerso in un progetto sulla dispersione scolastica[1] nel torinese.

Erano stati condotti incontri di gruppo con composizione eterogenea per cercare di lavorare alla costruzione di una comunità scolastica permanente e i ragazzi avevano vissuto esperienze guidate di apprendimento tramite competenze trasversali (danza, sport, arte, cultura).
Durante gli incontri i ragazzi avevano, cioè, sperimentato attività non competitive in sport e danza, attività sull’identità personale e sulla dispersione, avevano riflettuto sulla propria percezione di scuola, lavoro e futuro. Durante il follow up sono emerse alcune interessanti opportunità di apprendimento derivate dalle attività: saper lavorare insieme e confrontarsi grazie all’interazione con persone di età diversa dalla propria, essere più motivati grazie ad attività pratiche e nuove, imparare (facendo, più che scrivendo o ascoltando) a comportarsi, ad ascoltare e conoscere gli altri, a capire ‘com’è la vita’.
Stare con i compagni di età diverse aveva permesso loro di confrontarsi su percezioni diverse, di capire come affrontare l’ansia del futuro ascoltato i più grandi, più navigati. Si era verificato un passaggio di consegne rispetto alla gestione della scuola che i grandi avrebbero lasciato a breve, c’era stata una trasmissione di esperienze nel fronteggiamento dello stress dei docenti, ma anche la costruzione del sogno di una scuola migliore, più green, più attiva e laboratoriale, meno orientata alla prestazione e più al benessere collettivo. Una curiosità? Alla domanda se fosse utile la presenza dello psicologo nella scuola, in mezzo al grande assenso, un’affermazione condivisa: ne hanno bisogno persino i docenti perché sono sempre troppo stressati!

[1] Star bene a scuola per costruire il futuro. Un progetto di educazione comunitaria per contrastare la dispersione scolastica. Due incontri esperienziali tra arte, cultura, psicologia, sport e danza per approfondire i senso dello star bene a scuola e…nel mondo. IC Settimo II.




Lacrime di coccodrillo e sei in condotta

di Giovanni Fioravanti

 Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.

Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da  Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della  stessa sostanza, come ineluttabili.

E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole,  ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?

È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?

Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.

Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.

C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.

A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.

Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.

Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.

Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito,  gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.