Non voltare mai le spalle al sapere. Qualche riflessione su saperi e competenze

di Raimondo Giunta

Un’idea nuova di istruzione e formazione

Pluralità dei saperi, pluralità dei linguaggi, pluralità delle culture: complesso è il mondo in cui si collocano le scuole del terzo millennio. La scuola è costretta a rinnovarsi e a proporre un’idea nuova di istruzione e formazione. Per farlo è necessario innanzitutto chiedersi se gli attuali processi di istruzione e formazione sono ancora in grado di preparare gli studenti ad affrontare i problemi e le sfide della società contemporanea; se li preparano a capire le trasformazioni in atto e i riflessi che hanno sulla vita quotidiana; se gli forniscono strumenti per un proprio progetto di vita e per l’inserimento nel mondo del lavoro; se consentono un’appropriata assimilazione dei diritti di cittadinanza.
La missione della scuola, infatti, non è solo quella di arricchire una persona di sempre più varie e complesse conoscenze, ma anche quella di formare cittadini consapevoli dei propri mezzi, in grado di sviluppare le strategie personali più opportune di interazione con la realtà. Le qualità intellettuali e la conoscenza sono sempre attributi strategici della persona, ma non gli unici e quindi devono essere messe in sintonia e a disposizione di altri aspetti della persona; non possono essere gli unici oggetti dell’attività formativa.

Per una formazione che si dia questi obiettivi è necessario liberare del tempo scolastico, occupato da un’infinità di argomenti, impiegandolo in attività in cui gli studenti possono mobilitare le proprie conoscenze per affrontare quei problemi che danno un senso al sapere che deve essere posseduto.
La giustificazione dell’esistenza e del mantenimento delle istituzioni educative è costituita dalla convinzione che i saperi acquisiti a scuola siano necessari per preparare un giovane a collocarsi utilmente e nel modo migliore nel mondo del lavoro e nella società.

In funzione di questi obiettivi si sono susseguite indicazioni e prescrizioni per pensare, elaborare e realizzare curricoli orientati alla formazione di competenze chiave o strategiche o trasversali, come dir si voglia.  E ora orientate anche alla formazione delle soft skills, di competenze non cognitive come:  autonomia;  fiducia in se stessi ; flessibilità;  resistenza allo stress; capacità di pianificare ed organizzare; attenzione ai dettagli;  essere intraprendente;  capacità comunicativa.

Parliamo allora di competenze

La questione è molto seria, soprattutto quella delle competenze non cognitive, e solleva importanti interrogativi e non poche difficoltà.
Riguardo al concetto di competenza che viene evocato in questi orientamenti curriculari dovrebbe ritenersi ancora valida la definizione che ne diede M. Pellerey nel 2004: “Una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, AFFETTIVE ed EVOLUTIVE, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo “.

La definizione di Pellerey è quanto mai opportuna per comprendere come nella sollecitazione ad occuparsi delle competenze trasversali e soprattutto di quelle non cognitive può annidarsi il rischio di dividere ciò che è unito e deve restare unito: istruzione ed educazione

COMPETENZE/CHIAVE.
Un diverso trattamento occorrerebbe per le competenze/chiave, per la loro necessaria connessione con i saperi che bisogna possedere.  Infatti una competenza può essere definita chiave “in quanto gli elementi che la costituiscono (conoscenze concettuali, abilità operative, intellettuali e pratiche, disposizioni interne stabili) sono aperti a un loro sviluppo e approfondimento. Essi, cioè, costituiscono un patrimonio personale posseduto a un livello di comprensione, stabilità e utilizzabilità tale da potere essere valorizzato nei processi di trasferimento e adattamento in altri contesti diversi o più impegnativi” (M. Pellerey).

Per la scuola dell’obbligo da tempo si parla di competenze chiave, come competenze per la cittadinanza attiva. Queste competenze investono le aree dell’identità, dell’autonomia personale e della responsabilità sociale. Vanno oltre gli insegnamenti disciplinari, ma non vogliono essere alternative ad essi.
Esse si riferiscono a tre ambiti formativi tra di loro connessi, che riguardano
LA COSTRUZIONE DEL SE'(Imparare ad imparare; progettare);
RELAZIONI CON GLI ALTRI: a)Comunicare; b) Collaborare e partecipare; c)Agire in modo autonomo e responsabile;
RAPPORTO CON LA REALTA’ NATURALE E SOCIALE: a) Risolvere problemi; b)Individuare collegamenti e relazioni; c)Acquisire ed interpretare l’informazione

Le competenze chiave della cittadinanza devono scaturire dai saperi contenuti nell’asse dei linguaggi, nell’asse matematico, nell’asse scientifico-tecnologico, nell’asse storico-sociale.  
Le competenze-chiave vengono pensate come il risultato che si può conseguire nel processo d’insegnamento/apprendimento attraverso la reciproca integrazione e interdipendenza dei saperi e delle competenze propri di ognuno degli assi culturali
”Le competenze sviluppate nell’ambito delle singole discipline concorrono alla promozione di competenze più ampie e trasversali,  che rappresentano una condizione essenziale per la piena realizzazione personale e per la partecipazione attiva alla vita sociale nella misura in cui sono orientate ai valori della convivenza civile e del bene comune”
(Indicazioni per il curricolo dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione-Allegato al D. M.  31/72007).

Le mete educative relative alla costruzione dell’identità e dell’autonomia personale oltrepassano i risultati che si conseguono con i saperi disciplinari, ma non possono prescinderne a scuola. Il profilo che viene disegnato con le competenze chiave dell’obbligo scolastico è quello di una persona responsabile, capace, disponibile al confronto, sensibile alle innovazioni.

SOFT SKILLS
Con le soft skills si va un po’ oltre, perché si vorrebbe dare spazio alla formazione di attitudini appropriate allo stile di vita conforme allo spirito del tempo, al sapere essere come si preferirebbe che fosse nei nostri giorni, con il rischio di trattarle come se costituissero uno specifico settore della formazione e non il risultato complicato, eventuale e sperato della cura dei contenuti delle discipline scolastiche.  Per questo vale la pena di vigilare.
La formazione delle soft skills, delle competenze del sapere-essere, senza la dovuta consapevolezza critica, rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione nel mondo del lavoro.
In questo caso non avremmo con soft skills e con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.  Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.

COMPETENZE TRASVERSALI
Discorso a parte bisogna fare con le competenze trasversali; emergono con forza nell’ambito lavoristico e nella pratica formativa per e sul lavoro, ma da tempo ci si è spostati con esse nel campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.  Come competenze trasversali vengono indicate, secondo le varie scuole di pensiero, operazioni mentali come comprendere, dedurre, coordinare, applicare, analizzare, trasferire, interpretare, valutare; saper-fare metodologici come prender nota, strutturare un discorso, manipolare dei concetti, padroneggiare dei processi d’astrazione; e anche attitudini del sapere essere come collaborare, partecipare, realizzare progetti personali e/o professionali, sapere ascoltare e dialogare, parlare in pubblico, sapersi destreggiare

In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta. Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite. “Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione(. . . ), ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse, attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere, delle relazioni che sa instaurare, dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G. Di Francesco).

La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche. Non è attributo delle ”cose” (le competenze), ma del soggetto. Messa in discussione come attributo delle competenze, è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R. Frega). Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico,  irriflessa ripetizione di procedure d’azione

Che le competenze trasversali siano mete educative di alto livello non è difficile accettarlo; lo è invece l’opinione che per arrivarci bisogna passare per forza dalle pratiche delle attività interdisciplinari.  Ogni disciplina ha un proprio statuto epistemologico, a volte irriducibile a quelli di altre discipline ; un fatto questo che dovrebbe fare riflettere ed invitare ad un certo grado di prudenza nel tentare il percorso dell’interdisciplinarità e della transdisciplinarità.
L’interdisciplinarietà, come presupposto della trasversalità, non si decreta. Scaturisce dai problemi che bisogna affrontare.
“La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale. (. . . )Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare”(PH. Perrenoud).  Uno studioso come B. Rey afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare, a comparare, a pensare, a dedurre ad adottare delle strategie riflessive etc, etc, . Che essi imparino, piuttosto, un po’ di matematica, un po’ di letteratura, un po’ di storia, un po’ di biologia, un po’ di lingue straniere”.
Non hanno proprio torto…

Si voltano allora le spalle al sapere e alle conoscenze?

A scuola non si dovrebbe pretendere di formare un particolare e condiviso tipo di soggettività.  Ogni persona vive e sviluppa la propria identità dentro un sistema di relazioni sociali che la precede e le sopravvive e il compito del sistema di istruzione e formazione è quello di liberarla dai condizionamenti sociali e di offrirle gli strumenti per individuare e cogliere tutte le opportunità di cambiamento e di partecipazione, che una società può offrire.
La scuola deve assolvere a compiti di socializzazione, come si aspetta la società, ma deve assolvere a compiti di educazione nei confronti di ogni singola persona per renderla libera e autonoma con lo sviluppo e l’esercizio libero della propria ragione e delle proprie facoltà.

Con la formazione delle competenze chiave, trasversali e delle softskills, al netto delle preoccupazioni che al riguardo bisogna avere, si cerca di passare dalla pedagogia del sapere e della conoscenza alla pedagogia del saper fare e del sapere agire. Questo comporta spostare l’attenzione dell’attività formativa dai contenuti alla persona, dal sapere alla capacità di apprendere, dall’insegnamento all’apprendimento. Le conoscenze e i saperi assumono rilievo come ambito e mezzi dell’azione formativa.  Si sollecita un cambio di sguardo, di prospettiva per fare della persona la misura del sapere e per assegnare un senso all’apprendimento. Per contrastare procedure didattiche che renderebbero inerti, astratti e formali i saperi e le conoscenze; per dare spazio alla responsabilità e al protagonismo dell’alunno non è affatto detto, però, e necessario che si debba ridimensionare il valore dei contenuti nei processi formativi.
Lo sviluppo e l’incoraggiamento di un atteggiamento attivo dello studente a rigore implica un sovvertimento dei metodi di insegnamento, delle procedure didattiche, ma non l’irrilevanza dei contenuti e dei saperi.

Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza bisogna prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita, riesce a portarsi all’altezza delle conoscenze e dei saperi che è necessario possedere. Nell’enciclopedia del sapere scolastico ci devono essere contenuti che sono FINI e ci possono e debbono essere contenuti che senza scandalo sono MEZZI per gli scopi e gli interessi che di volta in volta devono essere presi in considerazione per rispondere alle esigenze della società.  Ci si attende che la scuola prepari per l’avvenire, ma ci si attende anche che la scuola sia il luogo della trasmissione dei valori e della cultura, delle tradizioni, della storia della società alla quale appartiene. Questa duplice esigenza crea delle tensioni, che occorre stabilizzare; le antinomie a scuola hanno una soluzione nella gestione della complessità e non nella loro semplificazione. Cambiare prospettiva, punto d’osservazione non deve significare indebolire il ruolo e il significato dei saperi scolastici. Non se ne ricaverebbe alcuna utilità.

La scuola è l’unico luogo dove è possibile trasmettere e fare appropriare alle nuove generazioni le basi di una cultura comune, unico fondamento per la convivenza e la cittadinanza. La cultura comune è data, però, da alcune discipline, da alcuni specifici contenuti, da principi e valori storicamente determinati e condivisi e non si riduce ad un insieme di competenze chiave, trasversali o alle softskills…

 




Per una scuola davvero efficace ci vuole della buona pedagogia

Stefaneldi Raimondo Giunta

La missione della scuola è stata sempre quella di educare a vivere con gli altri; ma oggi gli altri sono quelli che vengono da molto lontano e sono diversi da noi e diversi tra di loro.

La scuola oggi ha responsabilità di fare vivere armoniosamente e quotidianamente le diversità, di porsi consapevolmente come antidoto contro l’imperversare di sentimenti di odio, contro la manipolazione dell’informazione che di fatto ne è strumento; la scuola oggi o diventa scuola del dialogo o non è scuola; dialogo tra gli alunni; dialogo tra docenti e docenti; tra alunni e docenti; dialogo tra alunni e il sapere; dialogo tra scuola e società.

Dopo ogni indagine sullo stato di salute della scuola, così come dopo ogni fatto che documenta la condizione di fragilità e di disorientamento delle nuove generazioni si alzano le voci per reclamare una scuola nuova e diversa rispetto a quella di cui si dispone. Puntualmente.
E allora diciamolo.  La scuola intrinsecamente nuova, naturalmente nuova è quella che insegna a pensare, che educa all’autonomia intellettuale e del giudizio morale. Non è la ricchezza della strumentazione, né l’attrattività degli ambienti di apprendimento a farla diventare nuova. Nemmeno l’articolazione del curriculum.
La scuola, anche quella sgarrupata è veramente nuova se aspira nelle sue date condizioni a rendere l’alunno protagonista, contento del proprio apprendimento. Consapevole della propria crescita.

La scuola ha una propria costitutiva proiezione verso il futuro e fa bene il proprio mestiere se del futuro non restringe l’orizzonte, non amputa le sue possibilità. Se tutto ciò ha un senso, la scuola che prepara al futuro non è quella che si piega al diffusissimo mito dell’impiegabilità, perché colloca la scuola su una prospettiva di breve durata e ne impoverisce l’orizzonte sotto molti aspetti.

”La cultura scolastica ridotta a competenze strumentali evapora in una moltitudine di saper fare senza altra legittimità se non provvisoria, aleatoria e dunque del tutto discutibile”(Meirieu).

Guardando con preoccupazione a quel che succede nel mondo, si comprende senza tante complicazioni che la scuola è davvero efficace non soltanto quando riesce a istituire rapporti fecondi con il mondo del lavoro, ma anche e soprattutto se sviluppa e difende i propri tratti di comunità educativa, se prende in carico il compito di fare crescere bene gli alunni nel sapere, nel rispetto del prossimo e dell’ambiente. Si dovrebbe dire ad alta voce non solo che cosa si pretende che gli alunni sappiano e sappiano fare; non solo che cosa si pretende che diventino, ma anche che cosa ci vuole, perchè siano partecipi di una comunità e di una storia.

La scuola come istituzione pubblica deve educare al bene comune e contrastare, come sarebbe logico, le strategie individualistiche e consumistiche delle famiglie e degli alunni, perché ne snaturano la missione. La scuola a domanda individuale come periodicamente e pubblicamente si reclama è un obbrobrio; un tradimento della sua funzione sociale. La scuola non è e mai dovrebbe essere uno dei tanti prodotti messi in concorrenza nel mercato delle merci, dei beni e dei servizi. L’oscuramento delle mete collettive (cittadinanza, valori costituzionali, sviluppo umano e culturale) ha fatto sparire il “noi” per il quale i sistemi scolastici sono stati costruiti.

La scuola che va salvata, protetta e sviluppata ha come suo scopo fondamentale l’emancipazione, la liberazione dai pregiudizi e dall’ignoranza, la speranza di una vita buona. Ne consegue che una scuola che si rispetti, quindi, mai dovrebbe darsi come obiettivo l’esclusione di una parte dei suoi alunni dalla trasmissione dei saperi e della cultura.

Per contrastare la disperazione degli esclusi e l’individualismo senza mete collettive ci vuole della buona pedagogia ed è indecente opporla ai saperi, associarla al lassismo, al ribasso delle esigenze. La buona pedagogia è l’arte di condurre al sapere gli alunni che pensano di non esservi predisposti. Non è vero che la scuola, così, sacrifica i migliori, perché abbiamo, invece, una scuola che non dà a tutti gli strumenti necessari per la vita.
La buona pedagogia aiuta gli insegnanti a liberarsi dal delirio di onnipotenza, dalla pretesa di vedere tutto e di saper tutto per tutto controllare. Non nasconde il ruolo delle famiglie, della nascita, del luogo di appartenenza, delle risorse disponibili nella diversità del rendimento scolastico degli alunni. Non dimentica che non si ha potere sulla coscienza degli alunni e riconosce la propria impotenza di fronte alla coscienza e alla volontà degli alunni. Crea spazi, fornisce strumenti, fa della classe un luogo sicuro senza pressioni e senza forzature; ha lo sguardo positivo su quel che succede; non blocca e non irrigidisce, si meraviglia dell’imprevedibile, fa appello all’immaginazione.

La buona pedagogia fa capire che la scuola è un altro mondo; non è la prosecuzione della famiglia, nè dell’ambiente esterno; non è un luogo ordinario ed esige particolari comportamenti, perché è retto da alcuni propri principi sui quali non si può transigere.

A sostegno di quella pedagogia che si vorrebbe buona non c’è una verità inconfutabile, perchè l’educazione è scritta nell’irreversibilità del tempo e nella singolarità delle situazioni individuali, perchè mai due situazioni si presenteranno allo stesso modo e perchè la pedagogia è condannata al rischio e all’incertezza (P. Meirieu).
A sostegno della buona pedagogia c’è l’impegno quotidiano di ogni insegnante che ama il proprio lavoro e ne condivide l’alto valore umano e sociale; c’è la sua capacità di discernimento, che nell’attività didattica mette in relazione la norma e la particolarità dei propri alunni e della propria classe; c’è la sua responsabilità di porsi come esempio nella passione per il sapere e quella di farsi carico, per quello che gli compete, del futuro di ogni alunno che è stato affidato alle sue cure.




Tutta colpa del patriarcato? Forse manca la “cultura del Noi”

di Raimondo Giunta

Si è sperato per qualche giorno che non succedesse l’irreparabile, ma non è stato così. Giulia Cecchettin è stata massacrata dal suo ex ragazzo. Dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato un’ondata di indignazione ha scosso la società, colpita dalla crudeltà con cui è stata stroncata la sua vita ad opera di un giovane, che sembrava molto lontano dalla capacità di compiere questo efferato delitto.

Con forza si è riaperto il dibattito politico e culturale sulle responsabilità delle istituzioni, sui rimedi e sugli strumenti ritenuti adatti per contrastare ogni forma di violenza contro le donne e soprattutto i femminicidi, la cui frequenza in tempi di profonde trasformazioni dei costumi è uno scandalo ingiustificabile.
Il problema interpella drammaticamente la coscienza di ognuno di noi ed esige riflessioni e risoluzioni all’altezza della sua gravità.

I ragionamenti che farò rispecchiano i miei attuali e provvisori convincimenti e non hanno alcuna pretesa, se non quella di fare un po’ di chiarezza per me stesso; sono relativi agli strumenti e alle conoscenze in mio possesso.

Il ricorso sempre più frequente all’uccisione delle donne nei conflitti e nei rapporti interpersonali è un fenomeno che va analizzato in tutti i suoi aspetti, senza alcun preconcetto.  In più di un intervento viene richiamata per i crimini contro le donne la violenza che deriva dai cascami della cultura “patriarcale”, ancora operante a parere di tanti nel comportamento e nelle scelte di molti uomini.

Ragionamento questo che non mi risulta del tutto convincente.  Avrebbe piena validità, se ancora l’istituzione familiare avesse quella struttura e quella stabilità che aveva creato la tradizione del capofamiglia, padrone della sorte dei suoi componenti, sempre pronto ad esigere la sottomissione delle donne, della moglie e delle figlie soprattutto.

Questo tipo di famiglia sopravvive in zone sempre più limitate della società, ma da tempo è stato sostituito da un altro in cui si praticano non facilmente, ma si praticano la parità tra uomo e donna e rapporti tra genitori e figli in cui è difficile trovare l’autoritarismo dei tempi passati.

Parte rilevante degli autori e delle vittime di molti femminicidi hanno un’età che li porta fuori dalla stagione del patriarcato imperante e li colloca nei decenni in cui hanno frequentato la scuola, fino alle superiori, in classi miste, in cui ragazzi e ragazze per tanti giorni e per alcuni anni hanno preso l’abitudine di stare insieme, di conoscersi e di praticarsi.

Certo, se si pensa con quanto entusiasmo donne e uomini hanno affrontato a partire dagli anni ’70 le lotte che hanno trasformato la vita di tutti, la lunga catena dei femminicidi ci ammonisce sul fatto che certe conquiste non sono diventate patrimonio di tutti. Qualcuno è rimasto ai margini assente e anche ostile. Dopo quella stagione, che con qualche ragione si può definire la stagione del Noi, la stagione dei beni comuni, ne è subentrata un’altra in cui si è fatto prevalere il privato sul pubblico, l’egoismo sull’altruismo, fino al punto di storpiarne le ragioni e la serietà affibbiandogli il nome insolente e offensivo di buonismo. Una stagione che ha esaltato la competizione in tutte le varianti, comprese quelle che ricorrono all’aggressività e alla scorrettezza; che ha premiato il ricorso alla menzogna, il dileggio e l’offesa a danno del rispetto; una stagione in cui si è inneggiato sempre ai vincitori e si sono derisi i diversi, gli sconfitti della vita, in cui si sono adulati i ricchi e si sono mortificati e disprezzati i poveri; una stagione in cui la prevaricazione ha cancellato ogni forma di dialogo.

Potevano i frutti velenosi di questa lunga e insopportabile stagione lasciare indenni le relazioni tra le persone e le relazioni tra uomini e donne? Credo proprio di no.

Al peggioramento della qualità delle relazioni umane non sono estranei i messaggi continui e invasivi delle tv, dei film e della pubblicità che riducono la donna al solo suo corpo, facendone preda destinata alle voglie e ai capricci degli uomini; possesso da cercare e mantenere per i propri piaceri e per certe forme aberranti di autostima.

A parte va considerato un altro aspetto del problema, che è quello della difficoltà, dell’imbarazzo e dell’invidia maschili nell’accettazione del crescente successo delle donne nelle occupazioni di rilievo pubblico nella società.

E’ facile inneggiare all’autonomia intellettuale e morale delle donne, ma a non pochi uomini riesce difficile convincersi che le donne possano rivelarsi migliori per qualità e per capacità. La libertà della donna, la sua autonomia, il rispetto delle sue esigenze e delle sue legittime ambizioni vanno collocati al vertice della trasformazione e del miglioramento dei costumi, ma hanno bisogno della pratica quotidiana del dialogo e del rispetto della dignità di ogni persona.

Sia che ci riferisca a giovani coppie, sia che ci si riferisca a coppie mature la violenza e gli assassini delle donne ci riportano ad una cultura sempre più estesa e radicata in cui la vita soprattutto quella degli altri non conta nulla, in cui la ragione appartiene a chi è più forte e chi è più forte crede di avere nelle proprie disponibilità chi è più debole, perché è donna, perché è povero, perché è straniero, perché è meridionale, perché è disabile, perché è disoccupato, perché non ha una casa e nemmeno una macchina.

L’ondata dei femminicidi non proviene solo dai residui della cultura patriarcale, ma anche dall’insieme dei valori praticati che ha reso difficile il rispetto di ogni persona e della donna in molti episodi ed occasioni della vita quotidiana. Il rispetto delle donne non può essere un’eccezione al rispetto che va portato ad ogni persona in ogni ambito dei suoi diritti. E non saranno solo i provvedimenti e le misure più stringenti in ambito penale e processuale, come quelli approvati, a risolverne le sorti, se resta tutto intero l’impianto delle decisioni e della cultura che produce scarti, disuguaglianze e odio sociale. Se rimane in piedi l’apparato dell’informazione e dei media che ha mercificato la donna ed esalta gli istinti predatori degli uomini.

Solo una ripresa in grande stile della cultura del Noi col tempo potrà contenere e sconfiggere il femminicidio; la scuola non ha bisogno di alcun progetto di cultura del rispetto. Per farla funzionare si sa che se non c’è rispetto reciproco non si riesce a fare nemmeno un’ora di educazione fisica e che ci sono tanti di quegli argomenti da cui estrarre ricchi insegnamenti per questo scopo. Sono le famiglie che devono riprendersi la responsabilità educativa, che in questo genere di problemi non ha mai funzionato tanto bene. Sin da piccoli si insegni e si pratichi il rispetto delle bambine e si contrastino le soperchierie dei ragazzi; non si giustifichino e non si coprano le forme di violenze che vengono praticate in casa e fuori e il marito rispetti la moglie, e il fratello la sorella e si considerino fratelli e sorelle tutte le persone con cui si entra in relazione.

E questo il campo in cui le parole, da chiunque pronunciate, non contano niente. Contano solo buoni e costanti esempi.

“Un’educazione davvero valida per i giovani come per gli adulti non consiste nel prodigarsi in consigli, ma nel mostrare che viviamo mettendo in atto i moniti che siamo pronti a rivolgere ad altri” (Platone-Leggi(729 b)

 




Merito e relazione l’ossimoro scolastico

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Giovanni Fioravanti

Non si chiamano materie, neppure discipline, tanto meno aree disciplinari, anche se a volte rivendicano una non ben precisata interdisciplinarità o transdisciplinarità.
Sono le “Educazioni”. Educazione civica, educazione stradale, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione alla salute e potremmo proseguire.
Non hanno vita facile, neppure hanno l’imprimatur dei Programmi o delle Indicazioni nazionali  come le loro antenate Educazione domestica e Educazione fisica, tanto da non meritare né una cattedra né un orario, così col tempo finiscono per infrattarsi in qualche ripostiglio scolastico, salvo che non giunga un PTOF a rispolverarle.

È questo il modo in cui a scuola, luogo di apprendimento delle conoscenze e della cultura della propria specie, si esercita l’educabilità, cioè quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità.

Il teorico dell’educazione umanistica, il francese Louis Meylan, definisce l’educazione “come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.”[1] Meylan, che scriveva nella prima metà del Novecento, doveva però essere consapevole della crisi che già allora attraversava l’educazione, se un secolo prima l’abate Lambruschini dalla sua tenuta di San Cerbone in Toscana avvertiva: “Ma quel che più merita di essere notato […] è la mancanza di principi direttivi, lincertezza nella quale gli educatori ondeggiano sopra un tenore ben ordinato e costante di condotta verso i fanciulli […]. Un naturale un poco ribelle, un caso straordinario li coglie alla sprovvista; […] e s’abbandonano a quel partito che un propizio, ma ceco, buon senso suggerisce loro; o a quello che consiglia loro l’insipienza, la noia, l’amor proprio ferito. L’indocilità invece della sottomissione, la scioperataggine e la mala grazia invece della  applicatezza e delle composte maniere. […] Cosicché si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.[2]

Al di là dello stile e del lessico pare scritto oggi, da questo punto di vista i social sono rivelatori. Prendo da un post di insegnanti a caso: “La riprovazione no, perché altrimenti ci sono i sensi di colpa e guai a sentirsi in colpa quando si sbaglia. E per  evitare i traumi, abbiamo smesso di educare, abbiamo avuto paura di educare, di dire no, di dire che quel comportamento non va bene, di dire che quella cosa non la puoi fare perché non è giusto farla. Abbiamo paura, non ne abbiamo voglia, la coerenza costa energia, fatica, impegno. […] Poi, quando succedono le tragedie, tutti ad interrogarsi, a fare la disamina del disagio psicologico giovanile, a dare la colpa alla malattia mentale.”

Ora il Ministro dell’Istruzione e del Merito decide che è giunto il momento, spinto dallo sgomento che l’assassinio di Giulia Cecchettin ha prodotto nel paese, di sperimentare nelle secondarie di secondo grado una nuova educazione: l’Educazione alle relazioni.
Alla notizia mi è venuto d’istinto pensare che una mela sana posta insieme a mele guaste finisce anche lei per marcire.

Semplicemente perché a scuola le relazioni sono malate e non è che si curano con interventi estemporanei rivolti agli studenti, semplicemente per il fatto che il problema di sapersi relazionare non è questione che riguarda solo i giovani, ma prima di tutto gli adulti a partire da quelli con cui i giovani trattengono rapporti ogni giorno a scuola. E se gli insegnanti sono quelli che scrivono post del tipo di quello sopra riportato non si fa che seminare in un terreno arido.

Quando il primo febbraio del 2023 una ragazza lascia un biglietto: “ho fallito negli studi” e si suicida, lo scalpore non è stato lo stesso che proviamo oggi per la sorte di Giulia e il tema della relazione a partire dalle aule scolastiche non ha sfiorato la mente di nessuno.
Anzi si è ciechi circa cosa può voler dire e può produrre per dei giovani adolescenti quel “Merito” che gli adulti di questo governo hanno voluto aggiungere all’Istruzione.

L’ha spiegato Albert Ellis con la sua RET, la terapia razionale-emotiva per liberarsi dei propri irrational beliefs, convinzioni rigide e irrazionali, come il bisogno dell’approvazione di chi si stima per sentire di valere, che occorre avere successo diversamente si è dei falliti, che la mancanza di rispetto degli altri e l’ostilità del mondo sono orribili e insopportabili.[3]

All’indomani del suicidio della ragazza del biglietto, un’altra ragazza scrive a la Repubblica: “La scuola italiana insegna che valiamo quanto un numero tracciato con la penna rossa. La scuola insegna la competizione, la demonizzazione di ogni sentimento. Se invece che darci un bonus da spendere ci regalaste professori che hanno una formazione, che amano quello che insegnano…”
Allora viene da pensare che il problema vero non sia nella relazione con gli altri, ma nella relazione con se stessi a partire dagli adulti.

Quando si oltrepassa il confine dell’inviolabilità della vita propria o  dell’altro ritengo che si entri in un territorio che va ben oltre l’educazione alle relazioni, all’affettività e alla sessualità.
Ma sono convinto che servirebbe una campagna a tappeto, come si è fatto con la pandemia da Covid, di vaccinazione con la la RET, per liberare adulti e giovani dai costrutti mentali che condizionano i nostri comportamenti.

Qui ritornano le parole con cui Freud chiude la sua lettera di risposta a Einstein che lo interroga sulla guerra: “La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nientaltro potrebbe produrre ununione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. […] Etriste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
“La dittatura della ragione”, ma la nostra scuola è uno dei mulini di Freud.

[1] L. Meylan, Educazione Umanistica, La Nuova Italia, Firenze, 1951
[2] R. Lambruschini, Della Educazione e della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
[3] A. Ellis, R.A. Harper, A guide to rational living, Wilshire Book Co, 1997, pp. 101-127




Maleducazione sentimentale

di Maurizio Parodi

Rispetto alla richiesta di un maggiore coinvolgimento delle scuole nella formazione anche “emotiva” di studentesse e studenti, molti dirigenti e docenti replicano, sovente indignati, che:
a) la scuola sta già facendo tutto ciò che si può fare, come del resto ha sempre fatto;
b) non spetta alla scuola occuparsi di problemi che non riguardino la didattica;
c) tocca alle famiglia educare i figli;
d) la scuola non può farsi carico di ogni, nuova emergenza sociale.

Trovo penosamente ridicolo ipotizzare l’introduzione di una nuova materia di studio da dedicare all’intelligenza emozionale, con l’inevitabile corollario burodidattico: più lezioni, più compiti, più verifiche…, e concordo pienamente sull’ultimo punto: basta sovraccaricare la scuola e gli studenti di “compiti” impropri.
Sono però convinto che la formazione integrale della persona rientri, invece, nei “compiti” propri della scuola, e non sono certo che a scuola sia sempre e da sempre dedicata la giusta attenzione alla persona, nella sua interezza – basterebbe chiedere agli studenti di un qualsiasi istituto quali siano i “sentimenti” che associa alla scuola e allo studio.

Quanto alla maggiore responsabilità delle famiglie in ordine alla maleducazione sentimentale degli studenti, va detto che non si può presumere o pretendere alcunché, dal momento che le scuole non possono scegliersi né gli studenti né le loro famiglie (e già sulla nozione di “famiglia” ci si dovrebbe interrogare), anche se è capito persino che un liceo vantasse l’assenza, tra gli studenti, di incresciose “diversità.

I genitori non devono possedere un titolo di studio per essere tali, non sono reclutati e retribuiti da un’istituzione pubblica, statale, pertanto può darsi “di tutto e di più” oppure il nulla: l’invadenza vs la latitanza, anche quando ci si impegni, doverosamente, per favorire la più ampia collaborazione – che non significa delegare alla famiglia i propri doveri didattico-educativi o invadere spazi di autonomia non sempre rispettati (talvolta, capita che si faccia l’una e l’altra cosa insieme).
Sono i professionisti dell’istruzione e dell’educazione che devono essere preparati, che devono impegnarsi anche per compensare, nei limiti del possibile, le carenze delle famiglie, soprattutto le più disastrate, o, quanto meno, non aggravare i danni già subiti proprio negli ambienti, anche domestici, dai quali provengano.
A ciascuno il suo!

 




Scuola bene comune, un libro che spiega perché la nostra scuola è malata e cosa fare per farla stare meglio

di Stefano Stefanel

È uscito da poco un libro di Aluisi Tosolini, dal titolo molto intelligente: “Scuola bene comune” (Edizioni EMI, Brescia 2023), che parla di scuola e sulla scuola. Che la scuola sia realmente un “bene comune”, come l’acqua, è cosa molto chiara all’Europa, ma molto meno chiara all’Italia, dove riforme raffazzonate e politiche incomprensibili hanno supportato gli interventi della politica, nel complesso tutti tesi a smontare quello che il compianto Luigi Berlinguer aveva costruito. Prevenendo e prevedendo la crisi sistematica dei sistemi dell’istruzione l’Europa ha avviato percorsi di analisi (i “libri bianchi” ed “Education at Glance”, il “periodico” annuale sulla scuola dell’OCSE), poi programmi ambiziosi (Lisbona 2010, EU 2020 e l’attuale Next Generation Eu da noi ribattezzato, chissà perché, PNRR), infine linee di progetto con ampi finanziamenti al seguito. In Italia la risposta è stata inizialmente ottima con la trasformazione della scuola italiana nell’ambito di un’autonomia di rango costituzionale per poi perdersi dentro riforme partitiche, settoriali, casuali. L’Europa ha fatto il suo percorso con una linearità e una consecuzione che Aluisi Tosolini ricostruisce mirabilmente, rimandando ad una serie di importanti documenti con grande precisione e attenzione. Se si segue la linea narrativa di Tosolini si può ricostruire con attenzione il quadro d’insieme che ha portato l’Italia dove è ora (cioè, nelle parti basse dei sistemi dell’istruzione dell’area Ocse). Ma si può anche comprendere come il sistema scolastico italiano, dentro i suoi quotidiani contorcimenti tra modalità ripetitive e ferrei diritti sindacali difficilmente potrà in tempi brevi uscire dalla crisi.

MA COS’E’ QUESTA CRISI

Lasciamo la parola a Tosolini: “il quadro complessivo segnala oggi un aumento significativo a livello mondiale della disuguaglianza in tutti gli ambiti e settori” (pag. 35). Questa disuguaglianza fa il paio con la drammatica ascesa delle povertà educative: “la correlazione tra povertà e povertà educativa è nota e conclamata” (pag. 44) e tutto questo porta ad una progressiva perdita di learning loss, ovvero “perdita di apprendimento” (pag. 45). Questo corto circuito sta avvelenando i sistemi dell’istruzione, a cominciare dai più fragili, cioè da quelli come il nostro. E tutti i soldi che vengono trasmessi oggi alle scuole, senza un quadro di riferimento chiaro, poco potranno fare. Ma come può esserci un quadro di riferimento chiaro, quando il percorso narrato da Tosolini è sconosciuto alla gran parte dei dirigenti e dei docenti italiani, ancora alle prese con le modalità didattiche ed educative sedimentatesi negli Anni Settanta del secolo scorso? Su questo Tosolini è molto chiaro e preciso: senza una comprensione chiara dello scenario digitale e globalizzato in cui è inserita la scuola si può poco o nulla. Tosolini rimanda agli obiettivi dell’OCSE e ne isola due: “la definizione di global competence e l’aggiornamento del concetto di competenza” e “la rivisitazione del concetto di apprendimento e ambiente di apprendimento” (pag. 89). È chiaro che, mentre l’OCSE modifica i suoi parametri, in Italia stiamo tornando ai dibattiti sui voti, sui contenuti, sulla didattica trasmissiva, sulle bocciature, siamo cioè ripiombati nell’altrove più lontano da quelli che sono gli elementi di progresso cognitivo, dentro il poderoso avanzamento della serrata difesa dell’insegnamento da qualunque attacco portato dalle obiettive necessità dell’apprendimento.

Interessante come Aluisi Tosolini analizza l’Obiettivo n° 4 dell’Agenda 2030: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Questo obiettivo, all’apparenza ovvio, contiene un elemento di grande profondità che modifica gli equilibri dei sistemi formativi. Nell’obiettivo si citano la qualità, l’equità, l’inclusività e le opportunità di apprendimento, ma non si parla di eguaglianza? Perché ci si domanda allora? E il libro di Tosolini fornisce il percorso per comprendere come rispondere a questa domanda: perché l’eguaglianza si costruisce dentro una cultura della pace, dentro uno sviluppo delle competenze, dentro un’equità che permetta a tutti di essere inclusi. Purtroppo, quindi, dentro un percorso lontano da quello che prevede il sistema dell’istruzione italiano, in cui all’eguaglianza dichiarata non corrisponde una vera equità di fatto: come si dice spesso, l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. Se la scuola è un bene comune che va rafforzato ecco che allora è necessario riprendere in mano le modalità di costruzione dell’apprendimento: “vanno incoraggiate condizioni di autonomia, flessibilità e agire collaborativo”, cioè quegli elementi che le classi di concorso, i rigidi orari, le valutazioni docimologiche, il rapporto irrisolto col sapere informale e non  formale condizionano in maniera decisiva in ogni serio tentativo di far uscire il sistema scolastico italiano dalle secche delle sua difficoltà. E infatti Aluisi Tosolini ci riporta alla necessità di “rispondere alla crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza” (pag. 73) e quindi non verso una generica eguaglianza dichiarata da tutti e praticata da pochi, con richiami costanti a don Milani di maniera e non di contenuto, ma dentro un sistema equo e riflessivo, più professionale (pag. 72: “l’insegnamento deve essere ulteriormente professionalizzato”).

L’EDUCAZIONE TRASFORMATIVA

Un passaggio essenziale del bel libro di Tosolini è quello che richiama la necessità e l’importanza di ragionare in termini di “educazione trasformativa” (pag. 77), cioè di un sapere sempre in movimento dentro i due grandi elementi della nostra contemporaneità, che Tosolini affronta in due appositi capitoli: il digitale e la pace. Se non comprendiamo che quella del digitale è una sfida ineludibile e quella della pace una cultura che va costruita, ci limiteremo a sperare che improvvisamente gli smartphone spariscano dalla scuola e a constatare che la pace è solo una bandiera colorata da sventolare alle manifestazioni. In realtà il percorso trasformativo della conoscenza passa attraverso la trasformazione di un sapere statico ed autoreferenziale in un sapere trasformativo che può cambiare le cose.  Troppo puntuale per essere eludibile il libro di Tosolini ci aiuta a capire che cosa è successo con una mole documentale che dovrebbe diventare patrimonio comune per farci costruisce quella “scuola bene comune” che poggia su solide fondamenta e che non affonda, invece, nella melma di un dibattito pubblico veramente avvilente.

 




I programmi del ’45 – Le indicazione metodologiche

di Franca Da Re 

Clicca qui per leggere la prima parte di questo saggio

Le indicazioni metodologiche nei programmi della scuola elementare del 1945[1]

Nella Premessa dei Programmi, oltre alle finalità connesse alla formazione del cittadino nel nuovo Stato democratico, si insiste molto sulla necessità di mantenere unità nell’insegnamento, superando la partizione tra materie. Si raccomanda di valorizzare il lavoro di gruppo, la collaborazione tra scolari, l’apprendimento basato sull’esperienza, lo sviluppo delle capacità di autogoverno dei ragazzi, che comprende anche la possibilità che essi partecipino alla definizione delle attività da realizzare.

Non si prescrive ai maestri alcun metodo particolare; essi saranno liberi di utilizzare le tecniche e le strategie che più riterranno opportune, a patto di raggiungere le finalità educative prefissate. Al maestro si raccomanda di “intendere l’intima connessione esistente tra i problemi della cultura e quelli del lavoro”.

I Programmi determinano le materie di insegnamento: 1) Religione; 2) Educazione morale, civile e fisica; 3) Lavoro; 4) Lingua italiana; 5) Storia e geografia; 6) Aritmetica e geometria; 7) Scienze e igiene; 8) Disegno e bella scrittura; 9) Canto.
Non fissano, però un orario delle lezioni predeterminato, richiamandosi proprio all’unità di insegnamento, pur raccomandando ai maestri di formulare un accurato piano di lavoro:

“L’unità dell’insegnamento, che sta alla base di questi programmi e la necessità, da parte dell’insegnante, di svolgere la sua opera in rapporto alle reali condizioni della scolaresca e alle esigenze locali, non hanno consigliato la formulazione di un orario ufficiale delle lezioni. Ciò non toglie che l’insegnante debba seguire un piano di lavoro e formulare un orario settimanale e giornaliero delle lezioni stesse. Nella preparazione di tale piano, e sopratutto nelle inevitabili varianti suggerite dalle circostanze, gli alunni potranno esercitare il diritto d’iniziativa, che consiste nella libertà di proporre al maestro lo svolgimento di particolari argomenti o attività in rapporto a loro reali e sentite esigenze. Così ad esempio un gruppo di alunni potrà prospettare il desiderio di svolgere una determinata attività manuale o di organizzare una data ricerca, provocando in tal modo la revisione del piano di lavoro. (…)

Per quanto concerne le votazioni, l’Educazione morale, civile e fisica comprende anche la condotta. Non si assegnano voti di Lavoro, Storia e geografia, Scienze e igiene, Canto nelle prime due classi.”

Per quanto riguarda la Religione, ricordiamo che il carattere originariamente interconfessionale e laico del testo, più orientato all’educazione religiosa previsto dalla Commissione Alleata, fu rimaneggiato su pressione dei cattolici presenti nel Governo provvisorio. Il testo definitivo, pertanto, è ricondotto pienamente nell’alveo della confessione cattolica. I contenuti si riferiscono alle Scritture, alle preghiere più comuni, alla vita di Gesù e dei Santi, ai Sacramenti e alle Opere di misericordia, alle principali feste religiose e alle tradizioni agiografiche locali. Tuttavia, si raccomanda che:

“Nulla di pesante turbi la spiegazione delle parti dogmatiche del programma. La norma religiosa derivi da una spontanea adesione dello spirito ai principi del Vangelo e dall’evidenza dei rapporti fra tali principi e la legge morale e civile. L’insegnante può trarre argomento di educazione religiosa anche dalle altre materie del programma. Apposite figurazioni e soprattutto riproduzioni di capolavori d’arte sacra, possono giovare all’efficacia di questo insegnamento.”

Dell’educazione morale, civile e fisica si era detto in un precedente contributo.

A proposito della disciplina Lavoro, esso è distinto in tre tipologie: lavoro artigiano, lavoro agricolo, lavoro femminile. La finalità della disciplina è straordinariamente coerente con le previsioni che la nuova Costituzione conterrà a proposito del lavoro. Si afferma che è necessario che le nuove generazioni riconoscano nel lavoro la principale risorsa per l’economia e il mezzo più efficace per la rinascita nazionale. Solo con il lavoro, si dice, si possono stabilire saldi e pacifici rapporti di collaborazione tra i popoli. I lavori proposti ai ragazzi dovrebbero sempre rivestire carattere di utilità. I piccoli lavori di artigianato dovrebbero vertere su semplici sussidi, manufatti a supporto delle materie di studio, arnesi per il lavoro in classe. Il lavoro deve avere sempre valenza educativa: educare l’occhio, la mano, il gusto, l’immaginazione e nello stesso tempo la tensione a fare da sé. Nel lavoro, si dice, confluiscono tutti gli insegnamenti, specialmente quello del disegno, che permette l’ideazione e la progettazione di manufatti precisi. Quando il lavoro lo consente, si incoraggi la costituzione di cooperative tra ragazzi che attuino semplici forme di lavoro collettivo per squadre o per serie progressive. Il lavoro agricolo potrà essere attuato negli appezzamenti di terreno nelle pertinenze delle scuole e potrà essere di supporto anche allo studio delle scienze. La realizzazione di semplici esperimenti agricoli potrà aiutare i futuri piccoli coltivatori ad affrontare il lavoro su un piano più tecnico e razionale. Si potranno anche effettuare visite alle aziende agricole.

Il lavoro femminile dovrà contribuire alla formazione della donna, non solo per l’utilità alla vita domestica, ma anche per la sua funzione rasserenatrice, poiché, si dice, i lavori di cucito, di maglieria, di ricamo, inducono alla calma e richiedono cura e attenzione. La maestra non disdegni il rattoppo e il rammendo, utili all’economia domestica e tenga conto che principalmente alla donna è affidata l’economia della casa. Si evitino, comunque, le mostre dei lavori degli alunni. I manufatti dovranno avere utilità pratica e potranno essere destinati anche a scopi di assistenza sociale.

Con riferimento alla lingua italiana, si raccomanda di dare impulso all’apprendimento della lingua attraverso la lettura e la scrittura. Per l’apprendimento della lettoscrittura non viene prescritto un particolare metodo, ma si raccomanda di tenere sempre sotto controllo il progredire di tutti gli alunni, anche con l’organizzazione di gruppi omogenei, ma senza pretendere di livellare la classe.

Il primo periodo di scolarizzazione sia dedicato alla familiarizzazione con l’ambiente attraverso il disegno, giochi, canti, conversazioni. Le letture e le conversazioni serviranno anche ad introdurre il lavoro sulla lingua. Nel progredire del lavoro, si sconsiglia il dettato ortografico e la correzione collettiva. Il brano da scrivere sarà scelto possibilmente dall’alunno e avrà significato logico. La correzione dovrà privilegiare lo sforzo dell’alunno stesso a trovare l’errore e ad autocorreggerlo. La conversazione ordinata e corretta dovrà essere incoraggiata in tutte le classi, perché il tempo ad esso dedicato “è utilmente impiegato”. Si incoraggi la lettura e si dia molta cura alla biblioteca scolastica, con libri adatti all’età e buoni giornalini. Il prestito dei libri anche a casa, sia dato senza restrizioni, perché “è meglio vedere libri che per l’uso si sono sgualciti, piuttosto che una bella collana di volumetti immacolati e intonsi.” Il maestro dia esempio di buona lettura e abbia cura di educare all’espressività, correggendo false cadenze, enfasi, monotonia, sciatteria. La lettura e la scrittura serviranno anche allo sviluppo delle conoscenze grammaticali e sintattiche. Si raccomanda di non trattare la grammatica con apprendimenti mnemonici di classificazioni e con esercizi privi di significato, ma di reperire dal testo le corrette forme e di riflettere su di esso per evidenziare le strutture della frase e le parti del discorso. La composizione dovrebbe sempre avere senso e significato: una lettera familiare o di affari, una domanda di impiego, una relazione, telegrammi o fonogrammi, tutti scritti con chiarezza e precisione. Dal punto di vista dell’educazione sociale, sarà utile incoraggiare gli alunni a curare da soli la redazione e pubblicazione di un giornalino.

Per quanto riguarda la storia e la geografia, il testo dei programmi è chiaro nell’esplicitarne la finalità.

“La necessità di un’intima connessione tra l’insegnamento della storia e quello della geografia deriva, più che da un semplice e ormai riconosciuto legame di interdipendenza delle due discipline, da una loro profonda concomitanza di fini in rapporto alla vita civile e sociale. Infatti sia la storia che la geografia – quando la prima non si risolva in una cronologia di guerra e di vicende dinastiche, e la seconda in un’arida nomenclatura – mirano a seguire e a spiegare il cammino della civiltà, considerando la terra come la sede dell’uomo. Ne consegue che il maestro dovrà costantemente esaminare i fatti storici nella loro intima connessione con quelli geografici, illustrando al fanciullo, sia pure in forma intuitiva elementarissima, i rapporti del mondo umano con quello naturale. Riuscirà tuttavia vano ogni sforzo per liberare l’insegnamento della storia dal suo groviglio di guerre e di tirannie, di rivalità dinastiche e di sterili combinazioni politiche, se non supereremo, una volta per sempre, la passione nazionalistica che nel recente passato riuscì a sviare anche la geografia dall’obiettiva valutazione delle forze economiche mondiali con la concezione delle utopie autarchiche. L’insegnamento della storia e della geografia dovrà finalmente diventare un insegnamento morale dopo la tragica esperienza sofferta dall’umanità. (…)

È evidente che i motivi programmatici indicati vogliono anche essere un invito rivolto al maestro di rinnovare la propria preparazione storico-geografica nel senso sopra esposto, condizione necessaria questa perché’ l’insegnamento risulti attraente, vivo e veramente efficace per l’educazione morale e civile. Il maestro intelligente saprà, inoltre, fare uso di tutti quei sussidi che contribuiscono alla concretezza di tale insegnamento, come cartine storiche, carte geografiche e topografiche, plastici, illustrazioni e letture scelte, poesie di contenuto storico, visite a monumenti e musei, escursioni d’interesse storico-geografico, osservazione di oggetti caratteristici del passato, corrispondenza interscolastica, esame e valutazione dei fenomeni naturali in rapporto all’economia locale, ecc. Per la geografia, in particolare, si raccomanda l’uso costante della carta geografica, che l’alunno dovrà saper leggere con sicurezza. Ed è inutile aggiungere che anche per questi insegnamenti occorre far leva sull’iniziativa, la spontanea volontà di ricerca e di studio degli scolari.”

 Anche per quanto concerne l’Aritmetica e la Geometria, i Programmi sono attenti all’ aderenza della disciplina all’esperienza concreta e allo sviluppo dell’autonoma capacità di analisi e ragionamento dell’alunno. La matematica, pur con l’attenzione al rigore concettuale e metodologico, è vista come disciplina necessaria alla vita e alla soluzione di problemi e le sue strutture dovrebbero essere acquisite proprio a partire dalle situazioni e dai problemi stessi.

L’insegnamento dell’aritmetica e della geometria, principalmente nelle prime classi, deve tener nel dovuto conto le immagini e le intuizioni di grandezza, di numero, di forma e di distanza che animano e arricchiscono il mondo in cui il bambino si va formando. Contare le cose a giudicarle quantitativamente, rilevare linee e figure è per il bambino esercizio gradito, dal quale deve partire e a cui deve continuamente riferirsi il lavoro di scoperta che egli compie in collaborazione con il maestro e i condiscepoli, in forma libera e autonoma, nuova, varia, attuale, più conversando che scrivendo. Negli esercizi di calcolo, nello studio del sistema metrico, delle frazioni, della geometria, nell’acquisto delle cognizioni di computisteria, nella formazione e risoluzione dei problemi, è necessario che il maestro valorizzi al massimo le possibilità intuitive degli alunni.

(…) Così, ad esempio, le idee di spesa, ricavato, guadagno e dei rapporti relativi a quelle riguardanti l’entità di un lavoro, il numero delle persone ad esso adibite, il tempo necessario all’esecuzione e i rapporti tra tali dati, ben determinate che siano, costituiranno il mezzo sicuro per la risoluzione di ogni questione affine. Nella formulazione di problemi ed esercizi, lavoro da farsi anche questo possibilmente dagli scolari, gioverà utilizzare, correggendole se del caso, le conoscenze che i fanciulli hanno sui prezzi delle cose, sulle tariffe di trasporto, sui salari, sugli stipendi, sui compensi della mano d’opera, ecc., perché’ possa, anche così, stabilirsi una piena aderenza tra la scuola e la vita. Ciò che più importa, nella pratica dell’aritmetica, è di farne intuire il valore sociale, mettendo l’alunno in condizione di vivere reali situazioni di carattere economico, affinché’ possa padroneggiarle. Particolarmente indicate, per questo, sono le forme di cooperativismo scolastico.  Si avrà cura che l’enunciato dei problemi e degli esercizi sia chiaro, per evitare deviazioni ed errori nella risoluzione. Ogni problema venga prima risolto per intero mediante un processo atto a rivelare e formare le possibilità ragionative dello scolaro, il quale soltanto in un secondo momento passerà all’esecuzione delle operazioni. In ogni caso gli alunni saranno condotti a controllare le loro risposte, mediante tipi di domande logiche e progressive, che li inducano alla riflessione sulle soluzioni proposte. Solo così essi riusciranno a costruirsi un sistema coerente, a raggiungere cioè una tecnica aritmetica personale, nei limiti della loro esperienza. Per gli esercizi di numerazione e di calcolo intuitivo nelle prime classi, il buon senso ha ormai condannato il vecchio pallottoliere, come tipica espressione dei sussidi didattici preformati e usati fino alla noia, con scadimento di qualsiasi interesse. Il vario, il nuovo, l’occasionale e tutti i mezzi sussidiari che rispondono a questi requisiti saranno meglio indicati per i predetti esercizi, che possono pure giovarsi dei giochi, del disegno e del lavoro. Anche l’insegnamento del sistema metrico deve essere liberato dai formalismi del passato e dal peso degli interminabili esercizi scritti di riduzione. Oralmente, e sempre per le vie delle misurazioni pratiche, del giudizio e del ragionamento, si riuscirà meglio e più presto a chiarire i concetti di valore ed entità di ciascuna misura e dei rapporti corrispondenti.”

Particolarmente interessante, per contestualizzare la scuola nell’epoca, è il richiamo all’importanza della computisteria e alla tenuta di scritture contabili.

Scienze ed Igiene sono insegnamenti che particolarmente si prestano agli orientamenti dei programmi diretti alla valorizzazione dell’esperienza, all’apprendimento per scoperta e per ricerca e all’acquisizione del metodo scientifico e della capacità di pensare razionalmente, basandosi su dati.

“L’esercizio continuato all’osservazione attenta e alla riflessione, alle prove e agli esperimenti, induce ad essere cauti nelle ipotesi, prudenti nelle affermazioni, equilibrati nel giudizio, a ricercare con pazienza le cause dei fenomeni, a dedurre gli effetti, eliminando quelle forme di superficialità, leggerezza e faciloneria proprie non soltanto dell’età infantile. Occorre quindi che questo insegnamento non si riduca alle consuete classificazioni, alla enunciazione di leggi e di definizioni proprie di altre età e di gradi superiori di studio. Non ha importanza che il fanciullo sappia ripetere meccanicamente determinate nozioni; l’essenziale è che egli vi pervenga attraverso uno sforzo e un contributo personale di ricerca, stimolato da un desiderio di sapere e di ordinare meglio e chiarire le proprie intuizioni.”

Soprattutto dalla classe terza, l’insegnamento si baserà su esperimenti, ricerche, osservazioni sistematiche, escursioni, tenuta di quaderni di campagna, raccolta e classificazione di reperti. Anche per le scienze, si richiama l’importanza delle esperienze di lavori agrari, attraverso le visite alle fattorie e la tenuta dell’orto scolastico.

Molta attenzione è dedicata alle norme di igiene personale e all’educazione a stili di vita sani. Particolare attenzione si riserva alla riflessione sull’igiene e la sicurezza sul lavoro e quindi alla prevenzione di infortuni durante le attività di movimento e di lavoro. Il maestro curerà anche l’esplorazione degli ambienti, proprio alla ricerca di possibili fonti di pericolo e relativi comportamenti di prevenzione. Particolarmente interessante l’indicazione di tenere un quaderno della salute dove gli alunni potranno realizzare questionari e annotare le osservazioni relative all’esplorazione degli ambienti. Infine, i Programmi richiamano all’importanza di sviluppare negli alunni il metodo scientifico e della ricerca.

A Disegno e bella scrittura è riservata un’attenzione non meno importante che agli altri insegnamenti. Si raccomanda ai maestri di curare particolarmente la precisione, accuratezza, chiarezza della scrittura. Attraverso l’esercizio della calligrafia, si eserciteranno anche l’autocontrollo, l’ordine, la pulizia, il senso estetico.

Il disegno partirà nei primi anni dall’espressione libera, via via affinata nella cura delle forme e dei colori, per passare poi al disegno dal vero su soggetti scelti dallo scolaro. Il maestro affinerà le espressioni artistiche dei ragazzi insegnando a correggere le storture, ad usare la prospettiva, come ottenere scorci, gamme di scolori realizzare figure in movimento… Non ci saranno lezioni formali, ma sarà la stessa opera degli alunni la fonte dei progressivi insegnamenti. Il disegno sarà di supporto ai diversi insegnamenti, dalle raffigurazioni utili in storia, ai disegni per le scienze, alla redazione di carte in geografia, di schemi e rappresentazioni di quantità in matematica, al disegno tecnico nel lavoro.

Il Canto, come libera espressione del bambino, sarà progressivamente educato attraverso il canto corale, fino a diventare espressione artistica. Il canto corale verrà esercitato con la riproduzione di canti tradizionali, religiosi, patriottici e di opere dei grandi musicisti. Il canto “educa il sentimento sociale, affratellando gli animi attraverso una forma collettiva d’espressione artistica.”

Particolarmente interessante è l’Allegato B ai Programmi, che detta prescrizioni su come dovrebbero essere organizzati i libri di lettura e i sussidiari.
Anche in questo caso, il richiamo è sempre a realizzare opere accattivanti nei colori e nelle immagini, ad evitare aride classificazioni e invece privilegiare buoni brani di lettura, scritti in buona lingua e che stimolino la riflessione, contribuendo all’educazione morale e civile.

“I sussidiari, quindi, allontanandosi dai sistemi prevalenti del passato, dovranno offrire larga copia di spunti all’iniziativa dello scolaro, di stimoli al suo lavoro di ricerca e problemi pratici perle esercitazioni individuali e per gruppi, a scuola e più ancora a casa. L’ordine e la gradazione con cui onesti motivi, esercizi, quesiti e problemi saranno presentati nel volume, corrisponderà logicamente alla progressione delle relative conoscenze e abilità pratiche. Alle regole e alle definizioni il fanciullo dovrà naturalmente pervenire, attraverso un processo personale e con l’aiuto dell’insegnante, per un bisogno di chiarificazione e di sistemazione del sapere. È inutile aggiungere che, come le singole materie non debbono procedere isolate nell’insegnamento, così nei sussidiari la trattazione esercitativa di ogni singola disciplina deve richiamarsi alle cognizioni relative alle altre. “

In conclusione, pur dovendoli contestualizzare nel periodo, i Programmi del 1945 raccolgono le più avanzate istanze pedagogiche che anche nei decenni successivi animeranno i dibattiti nelle comunità professionali.
I successivi Programmi del 1955 rappresenteranno, a parere di chi scrive, un ritorno indietro rispetto all’idea di alunno, di apprendimento, di metodologia. Soprattutto su pressione delle istanze cattoliche, l’insegnamento religioso viene considerato come   fondamento   e coronamento di tutta l’opera educativa. Scompariranno le tensioni all’apprendimento cooperativo, all’autogoverno, l’imparare facendo si mantiene presente, ma molto sfumato. L’attenzione viene riportata prevalentemente all’individualità del fanciullo, sfumando notevolmente i richiami alla funzione della scuola per la formazione del cittadino alla vita democratica, così presente nei Programmi del 1945.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario