L’educazione del giovane fascista si fa sul lago di Garda

di Mario Maviglia

Si scrive “campo estivo” si legge “formazione fascista”. È quanto emerge dall’articolo che Paolo Berizzi su Repubblica dedica al campo estivo organizzato dal 21 al 23 luglio 2023 sul lago di Garda da Gioventù Nazionale-Azione Studentesca[1]. L’iniziativa, giunta alla sesta edizione, è denominata Agoghè (ἀγωγή, guidare). Nel greco antico questo termine indicava l’ammaestramento degli animali; nell’antica Sparta veniva usato in riferimento al processo di addestramento dei ragazzi per prepararli a diventare maschi robusti sul piano fisico e pronti ad affrontare la guerra. (Agoghè è il titolo di una collana editoriale delle edizioni Passaggio al Bosco il cui editore Marco Scatarzi è stato uno dei relatori al raduno oltre che autore di un testo dedicato proprio a Sparta[2]. Passaggio al Bosco è la casa editrice “di riferimento dei giovani camerati che pubblica testi apologetici del fascismo, inneggianti al nazionalismo e alla difesa della razza bianca”[3])
Qualcosa di analogo era già stato organizzato lo scorso anno in una casa scout di Montecolombo, nelle colline riminesi, a cura dell’associazione Evita Perón (braccio “femminile” del movimento di estrema destra Forza Nuova)[4].

Il raduno organizzato quest’anno sul lago di Garda ha registrato l’autorevole presenza della Sottosegretaria del Ministero dell’Istruzione e del Merito, Paola Frassinetti, che non ha mai nascosto le sue simpatie verso l’estrema destra.
Da quel che è dato capire, queste manifestazioni riesumano, sotto mentite spoglie, le attività che il partito fascista organizzava tramite l’Opera Nazionale Balilla, istituita nel 1926, “con il compito di controllare tutta l’attività giovanile, all’interno di un apparato strutturato per fasce di età: Figli della Lupa (6-8 anni), Balilla (8-14 anni), Avanguardisti (14-18 anni), iscritti ai Fasci giovanili di combattimento (18-21 anni). Queste organizzazioni svolgevano attività ricreative, sportive e assistenziali, con lo scopo di inquadramento e indottrinamento dei giovani. Nel 1937 confluirono tutte nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), che aveva 8 milioni di aderenti e dipendeva direttamente dal segretario del PNF, Achille Starace. Nel 1941-42 il 99,9% degli studenti delle scuole superiori risultava iscritto a queste organizzazioni.”[5]
È facile immaginare che nel nuovo clima politico creatosi oggi in Italia queste manifestazioni, di chiaro stampo parafascista, abbiano maggiori opportunità di manifestarsi e addirittura di avere l’imprimatur di figure istituzionali.

Non abbiamo notizie sui programmi di formazione di questi campi estivi, ma, leggendo i documenti reperibili in rete e analizzando l’apparato iconografico disponibile, è facile inferire che tutto sia incentrato sull’esaltazione della forza e dell’obbedienza, parenti prossimi di quel mito della violenza studiato dagli storici[6] e ancora fortemente presente nelle organizzazioni di estrema destra. Un altro dato è il disprezzo verso la diversità, soprattutto di tipo culturale. È emblematico che nella colonia estiva di Montecolombo non venissero accettati i ragazzi stranieri. E d’altro canto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, in un intervento tenuto al congresso del sindacato Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori (Cisal) il 18 marzo 2023, ha paventato il pericolo di una “sostituzione etnica” parlando di denatalità in Italia. Il terreno di coltura di queste idee è l’ideologia della supremazia ariana sulle altre razze, teorizzata tanto dal fascismo[7] quanto dal nazismo[8].

Nel campo estivo tenuto sul lago di Garda tutti i partecipanti erano di sesso maschile; il posto delle femmine, ça va sans dire, è a casa, ad accudire alle faccende domestiche e a procreare per la Nazione per evitare la “sostituzione etnica” di cui sopra.
Tra le attività proposte ai ragazzi, la parte da leone viene svolta dall’attività fisica, in tutte le sue varie forme: esercizi ginnici, gare, prove di resistenza e di coraggio. Per quanto riguarda la parte “spirituale”, è facile desumere che l’indottrinamento ideologico sia alla base degli interventi degli autorevoli relatori, tutti esponenti di estrema destra e soprattutto di Fratelli d’Italia (Frassinetti, Mollicone, Roscani, Punzio, Maschio, Donazzan, Scatarzi).
In maniera del tutto arbitraria e sapendo di fare una forzatura (ma qualche politico del passato aveva detto che “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”[9]), possiamo immaginare gli argomenti prediletti da tali esponenti, almeno a livello inconscio: a) Dio, Patria, Famiglia; b) Credere, Obbedire, Combattere; c) L’olio di ricino e i suoi derivati; d) Gli ariani e i rapporti con le sottospecie umane; e) L’obbedienza come forma suprema di identità col capo; f) Vitalità della destra vs pappamollismo della sinistra; g) La violenza come atto naturale e viscerale di controllo politico[10]; h) Foibe e faziosità dei libri di testo; i) Gli eroi della RSI; j) La disuguaglianza contro l’omologazione.
La sottosegretaria Frassinetti avrà sicuramente tratto molti spunti che le torneranno utili per la gestione del sistema scolastico italiano. Le vogliamo solo ricordare un piccolo particolare che le consigliamo di condividere con i giovani che incontra nei campi estivi: l’Italia è una Repubblica democratica e antifascista nata dalla Resistenza.

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[1] P. Berizzi, Coraggio e addestramenti: così i campi estivi in stile ‘Sparta’ formano i baby-patrioti della destra meloniana, “La Repubblica”, 1 agosto 2023, https://www.repubblica.it/politica/2023/08/01/news/giovani_destra_meloni_campi_estivi_lago_di_garda-409685661/

[2] M. Scatarzi (a cura di), L’ esempio di Sparta. Storia, eredità e mito di una civiltà immortale, Passaggio al Bosco, Roma, 2021

[3] P. Berizzi, op. cit.

[4] C. Tadini, La “colonia estiva fascista” dove i bambini intonano inni patriottici e gli stranieri restano fuori,
https://www.today.it/cronaca/colonia-estiva-fascista-ravenna.html

[5] https://www.istitutostorico.com/la_fascistizzazione_dei_giovani

[6] E. Gentile, Storia del fascismo, Editori Laterza, Bari-Roma, 2022

[7]Oltre alle leggi razziali approvate dal regime fascista nel 1938, si veda il Manifesto della razza, pubblicato, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia, e la rivista quindicinale La difesa della razza, diretta (5 agosto 1938) da Telesio Interlandi e pubblicata dal 1938 e fino al 1943

[8] R. Cecil, Il mito della razza nella Germania nazista. Vita di Alfred Rosenberg, Feltrinelli, Milano, 1973

[9]https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-06/pensare-male-altri-peccato-144959.shtml?uuid=Abb06WtH&refresh_ce=1

[10] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014

 




Lamberto Borghi, un grande pedagogista da non dimenticare


Educazione e autorità nell’età moderna
 è il titolo di un importante libro di Lamberto Borghi pubblicato per la prima volta nel 1951 ma riproposto di recente in una nuova edizione curata da Carmen Betti e Franco Cambi.
Lamberto Borghi è stato uno dei più noti pedagogisti italiani del secondo dopoguerra, autore di saggi di straordinario interesse.
Profondo conoscitore del pensiero di John Dewey si deve proprio a lui il merito di aver diffuso in Italia le opere del grande pedagogista statunitense.
Essendo di origine ebraica alla fine degli anni ’30 emigrò negli Stati Uniti e rientrò in Italia solamente nel 1948 iniziando subito a collaborare con Ernesto Codignola sia presso l’Università di Firenze sia per il lavoro editoriale con Nuova Italia.
Lamberto Borghi era un convinto difensore dell’attivismo pedagogico e della laicità della scuola; era lontano dall’idealismo gentiliano ma anche dai rischi del dogmatismo “di sinistra”.
Quella di Borghi può essere considerata un pedagogia “libertaria” tanto che alcuni lo considerano un pedagogista anarchico.
Risale al 1964 un altro suo importante volume (Scuola e comunità) in cui mette in evidenza il ruolo della scuola e dell’educazione rispetto allo sviluppo sociale e la necessità di promuovere l’autonomia della scuola e delle strutture educative in modo da garantire un corretto rapporto fra scuola e società.
Di Borghi, del suo pensiero e della sua opera parliamo in questa bella intervista a Carmen Betti, già docente di pedagogia all’università di Firenze.




Album di famiglia, a proposito del “kennediano di Piadena”

di Enrico Bottero

Una delle ragioni per cui in Italia le pedagogie attive non sono riuscite a incidere nell’Istituzione scuola e la sua pedagogia è la divisione tra due interpretazioni politiche delle stesse: a sinistra c’era chi le considerava un modo importante per cambiare la società a partire dalla scuola e chi, invece, ritenendo prioritaria anche temporalmente la battaglia politica contro il capitalismo, pensava che fosse del tutto inutile, anzi controproducente, cercare di cambiare un’istituzione borghese che sarebbe di per sé repressiva e quindi meritava di sprofondare. Quest’ultima posizione era sostenuta, ad esempio, dai Quaderni Piacentini.
Quaderni Piacentini era una Rivista politica trimestrale fondata da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi nel 1962. E’ stata un’importante rivista della sinistra extraparlamentare.

In questo articolo del 1971 (è pubblicato integralmente sul sito di Gessetti Colorati) Mario Lodi, definito il “kennediano di Piadena” viene accusato di “riformismo didattico”. Il riformismo sarebbe ingenuo e pericoloso perché manipolerebbe i ragazzi con una forma edulcorata di potere invece di renderli consapevoli della lotta di classe in cui l’avversario sarebbe anche l’insegnante (viene alla mente, ad esempio, “Quel brutale, finalmente? “  un classico di quegli anni).
Il rapporto educativo sarebbe di per sé autoritario, dunque la classe cooperativa non sarebbe altro che un mito borghese, un inganno.
Le riforme con cui Lodi (e molti come me) lavoravano negli anni Settanta e le tecniche didattiche sarebbero stati dunque una manovra del potere per mantenere il suo sfruttamento di classe. E via discorrendo. In questo articolo (mancano le firme delle persone, secondo una consolidata prassi per cui non ci si assume la responsabilità personale ma solo quella del collettivo) l’intolleranza ideologica prevale su tutto. Non si lavora per un’educazione alla tolleranza e alla democrazia ma per radicalizzare un conflitto radicale tra il bene e il male, dove il bene sta naturalmente dalla parte degli autori dell’articolo. Tutte le utopie, quando si trasformano in concezioni provvidenziali della storia, finiscono lì.
L’utopia della speranza si trasforma in utopia della certezza, dei detentori della verità. Questo articolo è importante perché, riaprendo l’armadio dei ricordi della sinistra, svela ambiguità presenti ancor oggi e su cui non si è ancora ampiamente riflettuto.
Cadute le illusioni palingenetiche, queste posizioni oggi si ripresentano sotto una veste diversa, quella della deistituzionalizzazione e della critica radicale della scuola in nome di un’idea di rifiuto totale di qualsiasi autorità, considerata di per sé repressiva (rifiuto che, questo sì, è un mito: il rifiuto totale di qualsiasi autorità non elimina l’autorità ma ne introduce una forma più sottile, quella della seduzione).
E’ un rifiuto a cui vengono spesso arruolati educatori come Oury o Freinet, che però non sostenevano affatto queste tesi. Oggi tutti osannano Mario Lodi ma allora molti a sinistra lo condannavano duramente.
Se non vogliamo comportarci come le Chiese laiche o religiose più integraliste (da vivi li condannano come eretici, e dopo morti li fanno santi, tanto non possono più parlare) sarebbe bene ragionare su tutto questo e chiedersi se non siano ancora presenti logiche settarie che non fanno che ostacolare l’impegno comune a favore delle pedagogie attive e dell’impegno per una società più giusta e solidale.




Francesco De Bartolomeis: la pedagogia oltre la pedagogia

di Renzo Stio

È davvero ampio, non solo come arco temporale, il contributo di Francesco De Bartolomeis alla pedagogia della seconda metà del ‘900 e degli anni a seguire. Molti temi sono noti, tanti ancora da esplorare. Avendo avuto la fortuna di stringere con lui un rapporto di sincera amicizia, vorrei provare a tratteggiare il profilo dell’uomo, e dell’uomo di scienza, attraverso qualche nota che va oltre, pur rimanendo assolutamente coerente, l’ambito strettamente pedagogico.

De Bartolomeis è noto nella storia della pedagogia italiana come uno dei principali interpreti dell’attivismo e come il teorico dell’”antipedagogia”, intesa come antidoto alla mera trasmissione del sapere quando questo serve solo ad affermare l’egemonia di una cultura dominante classista e reazionaria.
Molti di meno sono quelli che hanno conosciuto il De Bartolomeis attratto dal mondo fatto di problemi, enigmi, domande, esplorazioni, sperimentazioni di cui si nutre l’esperienza artistica.
Insignito a 99 anni del titolo di “Accademico ad honorem” della storica Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, è stato tra i più attenti estimatori e studiosi del genio di Lucio Fontana[1], col quale trascorse lunghe giornate a osservarlo nel suo studio per comprenderne il lavoro.

È stato anche tra i pochi a dichiarare con onestà e senza infingimento alcuno, che i famosi “tagli” dell’artista – tratto di riconoscimento divenuto marchio internazionale – ad un certo punto hanno assunto interesse da supermercato a dispetto di tanti altri ambiti di ricerca di Fontana molto più promettenti sul piano della capacità di indagine dei problemi formali dell’arte. Un atteggiamento che lo ha sempre portato ad esprimersi con radicale e autentica onestà rispetto alla qualità dell’arte e degli artisti, con quella stessa limpidezza mentale e di coscienza che lo condusse a sviluppare argomentazioni critiche sull’idealismo di Benedetto Croce, il quale pure gli scrisse “… il suo lavoro è ben altro che dei soliti” [2], rintracciando peraltro una consonanza col suo pensiero che in verità De Bartolomeis non ha mai avuto. Ma erano tempi in cui, probabilmente, l’onestà intellettuale e la sincerità dei rapporti avevano un valore almeno pari alla tensione all’affermazione di sé e delle proprie idee.

Ha scritto tanto di arte e – come ebbe a dichiarare in un breve saggio [3] – ha dipinto anche lui, proprio per quella sua tendenza a discutere solo di ciò di cui “realmente” aveva contezza. Oltre al merito di aver contribuito alla conoscenza del lavoro di Fontana, è opportuno ricordare saggi quali: L’esperienza dell’arte (1989); La tridimensionalità nell’arte contemporanea (2004); Con l’arte con gli artisti, amici, parole, segni (2004); Arte oggi: il nuovo, il banale, l’offensivo (2007); Insieme agli artisti cerco di capire (2017); Se Lucio Fontana non avesse fatto buchi e tagli (2021); La cultura dell’arte (2022); La realtà dell’arte (2022); I bambini, l’arte, la cultura (2022).

Per tornare al lavoro di pedagogista e formatore, a lui si devono alcune “invenzioni” come la formula ante litteram scuola dell’infanzia sostitutiva dell’anacronistica e fuorviante scuola materna; l’idea del sistema formativo integrato, anticipatore dei concetti di continuità orizzontale e verticale; l’idea di una scuola-laboratorio, che traduce l’attivismo in forme di lavoro cooperativo attraverso quelli che oggi chiamiamo “compiti di realtà”; la necessità di considerare come corpo unico il sistema 0-6, oggi all’attenzione delle riforme finanziate con il PNRR. E ancora giova ricordare le collaborazioni con Ernesto Codignola – di cui fu assistente –, Lamberto Borghi, Loris Malaguzzi. Non vado oltre per non lasciare dietro tanti altri nomi di spicco del panorama nazionale.

Mi sia consentito di ricordare un episodio che forse racconta meglio di ogni altro esempio il profilo umano – non dissociabile da quello scientifico – di Francesco De Bartolomeis. Il 15 novembre del 2005 ebbi il mio primo incontro con Francesco. Ebbi la fortuna e l’onore di averlo ospite a Salerno nell’ambito di un convegno, del quale curai l’organizzazione, dal titolo “Pedagogia, arte, epistemologia”. Nel corso del convegno ci fu spazio anche per la presentazione di un mio libro appena pubblicato che trattava proprio delle intersezioni tra pensiero artistico e prospettive pedagogiche. Fu l’ispettore Umberto Landi, al quale non finirò mai di essere grato, a proporre di invitare De Bartolomeis, sapendo del suo interesse per l’arte. Con mio stupore e piacere, accettò l’invito anche perché fu per lui l’occasione di ritornare nei suoi luoghi di origine (Pellezzano, Comune in provincia di Salerno). Si trattenne qualche giorno e, ovviamente, volle visitare il suo paese. Era la sera che precedeva l’evento. Un saluto istituzionale del Sindaco nella Casa Comunale e poi la visita al luogo della sua casa natia. Quando arrivammo sul posto l’edificio – una sorta di casolare di campagna – era ancora lì. Francesco lo osservò attentamente, poi mi guardò e disse: “Lo ricordavo più piccolo, sarà la mia tendenza a ridimensionare ogni cosa”.
Una risposta che va decisamente contro l’esperienza comune di ogni adulto che, a distanza di anni, rivede i luoghi della sua infanzia, inevitabilmente sovradimensionati nella percezione fisica ed emotiva di un bambino. Una risposta “controcorrente”, come la sua antipedagogia. Una risposta intrisa di umiltà, modestia, senso della realtà, consapevolezza dei limiti delle nostre tesi.

Da quel momento ci siamo incontrati diverse altre volte a casa sua a Torino. Il piacere di ascoltare il racconto di un secolo di storia della cultura del nostro Paese dalla viva voce di chi quegli episodi li aveva vissuti dall’interno e con grande coinvolgimento, era per me un incredibile dono. In tutti questi anni gli ho scritto spesso e ogni volta, puntualmente, mi ha risposto col linguaggio asciutto di chi sa che è sempre meglio dire con dieci parole ciò che vorremmo dire con cento. Abbiamo discusso di scuola, di politica e di arte. Non gli ho mai telefonato. Con una sorta di implicito accordo, abbiamo costruito il nostro dialogo coltivando l’esperienza sempre più marginale e sincopata della scrittura epistolare, capace di dare la forma migliore alle idee prima di esprimerle, dotandole di quel senso che altrimenti rischierebbe di evaporare.

Francesco De Bartolomeis ci consegna il testimone di una ricerca senza fine. Temi su cui continuare a riflettere, “Pensieri su cui pensare” (De Bartolomeis, 2022) e per i quali vale la pena continuare a spendersi.

[1] F. De Bartolomeis, Segno antidisegno in Lucio Fontana, Edizioni d’arte Pozzo, Torino, 1967.
[2] F. De Bartolomeis, Percorsi educativi nelllo spazio e nel tempo, Zeroseiup, Città di Castello, 2022, p. 8.
[3] F. De Bartolomeis, Io e l’arte. Riflessioni Fantasie Disorientamenti, Comune di Pellezzano, novembre 2005.




Intelligenza artificiale, libri di testo, riassunti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Stefanel

L’intelligenza artificiale e, soprattutto, il suo uso umanistico ha preso alla sprovvista tutti. La scuola, come sempre avviene, tende ad arretrare davanti ad ogni novità e la scandaglia con i crismi della conservazione, chiedendosi, piuttosto attonita, in che modo la sua tradizionale concezione del sapere venga scossa da ogni nuova “diavoleria” in arrivo. L’intelligenza artificiale, sotto le spoglie nemmeno troppo anonime di Chapt A.I., sta dando alle certezze della scuola una scossa quasi pari a quella data dalla pandemia, che ha trasformato in una settimana gli insegnanti in “esperti” sull’utilizzo delle piattaforme digitali, con modalità di apprendimento molto veloci anche se un po’ caserecce e artigianali.

La prima domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla proprietà di un testo e quindi al confine che deve esistere tra plagio, citazione, rielaborazione. Il plagio è quando copio qualcosa da qualcuno e non dico che l’ho copiata; la citazione è quando copio qualcosa da qualcuno ed evidenzio chiaramente che cosa ho copiato e dico pubblicamente da chi l’ho copiato (di solito in nota), la rielaborazione è quando prendo spunto da qualcosa scritta o detta da qualcuno, la rielaboro e me ne approprio (e a volte “questo qualcuno” lo cito, mentre altre volte non lo cito). Personalmente sono stato convinto da quanto sosteneva San Tommaso D’Aquino, l’ho imparato all’Università quasi cinquant’anni fa, non ho mai avuto dubbi che alla base di ogni corretta pedagogia ci fosse quel pensiero.
Durante i quolibet all’Università di Parigi nel Trecento gli studenti dovevano sostenere una discussione su un tema introdotto dal San Tommaso. Lo dovevano fare appoggiandosi alle autorità del passato classico o alla contemporaneità del sapere cristiano, spesso contaminata da elementi arabi.

Su una cosa San Tommaso non transigeva: lo studente doveva citare la fonte da cui aveva tratto la sua argomentazione. Se non lo faceva veniva punito duramente o addirittura espulso dall’Università parigina perché aveva peccato contro Dio che lo favoriva facendolo studiare e contro la sua famiglia che pagava gli studi.
E aveva peccato di un peccato gravissimo per San Tommaso: l’arroganza di ritenere, da studente, di aver pensato qualcosa di originale, che qualche grande maestro del passato o del presente non aveva mai pensato prima. Quindi per San Tommaso l’unico sapere vero è quello che si riferisce ad una fonte, autorevole (nel caso suo spesso anche un po’ troppo autoritaria) e certa. Quindi bisognava copiare, dire cosa si aveva copiato e da che autore ci era “abbeverati”.

Questa idea non è quella della scuola italiana, che invece pare amare l’originalità degli adolescenti, spesso costruita su orribili argomentazioni nate non si sa bene dove ed ha orrore assoluto della copiatura, sia questa un ingiustificabile plagio, sia questa una corretta citazione. La scuola italiana ritiene che il riassunto sia invece ciò che produce apprendimento. Il libro di testo manualistico è un riassunto, le citazioni antologiche toccano i punti salienti di un testo e quindi ne riassumono i tratti essenziali, la spiegazione frontale del docente è un riassunto spesso di un altro riassunto (il manuale). Tutto insomma si tende a fare a scuola, tranne un sano lavoro sul testo senza mediazione alcuna.

Su questo meccanismo che continua a ritenere che la lezione frontale sia il metodo migliore per trasferire apprendimenti da una testa ben piena (quella del docente) ad una testa ben vuota (quella dello studente) si è abbattuta l’intelligenza artificiale e soprattutto Chapt A.I. che, a velocità irraggiungibile per qualunque essere umano (sulle possibilità dei replicanti si sa poco), produce testi ben scritti, corretti, banali, informati. Testi che comunque possono far prendere bei voti, perché spesso sono molto migliori di quelli prodotti con grande fatica da molti studenti. Personalmente ritengo che se un testo qualcuno lo scrive meglio di me sia corretto che lo scriva lui o lei e non io. Se poi l’intelligenza artificiale mi aiuta a produrre relazioni o testi divulgativi che io poi rielaboro e faccio miei non avrò scrupoli ad usarla, magari citando in calce l’aiuto che ho ricevuto. In questo momento sto scrivendo di mio pugno, anche perché sto esponendo una tesi che trovo molto difficile far interagire con Chapt A.I.

La tesi è questa: perché studiare su un libro di testo (manuale) che riassume qualcosa sia migliore che interrogare Chapt A.I. (o un motore di ricerca) su un qualunque argomento?
Personalmente sono da sempre contrario ai libri di testo e alla loro adozione, perché in un’ottica curricolare non capisco che cosa si possa realmente apprendere dentro un sapere stantio e immobile prodotto altrove in rapporto molto stretto con i vecchi programmi ministeriali. Ma ai docenti italiani piace il libro di testo (manuale), piace spiegarlo, piace risentirlo raccontato dai propri studenti, piace decidere di non utilizzarlo anche se è stato fatto comprare, piace corredarlo di molte fotocopie. E allora perché non piace anche l’intelligenza artificiale, che trasmette, in tempo reale, il libro di testo nella sua realizzazione più immediata e aggiornata? Questa domanda permette di entrare nella logica della scuola (non solo italiana) dove il sapere è controllo e non ricerca.
Una delle idee-base è che è necessario riferirsi ad un sapere certo e codificato per poterlo trasmettere, perché la base dell’apprendimento è comunque di tipo trasmissivo. Da qui ci si sposta poco e lentamente: un salto era stato fatto con la pandemia che aveva imposto idee nuove e nuovi orizzonti. Ma la fine della pandemia ha prodotto il più grande tentativo di restaurazione della storia della pedagogia italiana: tentativo molto forte che sta producendo danni irreparabili ed esiti di apprendimento con molti elementi critici.
A chi chiede un ritorno indietro (magati al 1967) bisogna rispondere che il ritorno c’è già ed è forte, ma trova qualche impedimento e l’intelligenza artificiale, nel campo umanistico, è uno di questi.

Molto spesso intellettuali, docenti e giornalisti irridono l’intelligenza artificiale perché fornisce risposte sbagliate. E’ balzato alle cronache mondiali un avvocato americano che ha citato in dibattimento sentenze inventate dall’intelligenza artificiale, che, successivamente interrogata sul motivo della sua trasmissione di dati falsi, ha chiarito  che aveva solo fatto un esempio tecnico di come si doveva strutturare una mozione che facesse riferimento a vecchie sentenze, che erano state inventate per meglio esemplificare. Tutti sostengono che la mente umane sia più profonda dell’intelligenza artificiale, anche se nessuno sostiene che è più veloce. Ma allora chiedo io: perché il libro di testo sì e l’intelligenza artificiale no? Visto che entrambi non vanno direttamente alla fonte se non in forma antologica o riassuntiva, non vanno direttamente sul testo ma lo selezionano antologizzandolo? Tra un riassunto manualistico e un riassunto dell’intelligenza artificiale c’è solo una differenza:   il manuale trasmette ciò che gli autori sanno mentre lo scrivono, l’intelligenza artificiale sa ciò che i suoi “gestori” in quel momento hanno immesso, e che cambia e si alimenta ogni giorno. Perché il riassunto del sapere posseduto dal soggetto che scrive il libro di testo vale più del sapere posseduto da un motore di ricerca o dall’elaborazione fatta in questo momento dall’intelligenza artificiale?

Il problema dell’apprendimento è stato messo a nudo da Chapt A.I.: se non si va direttamente al testo, si deve procedere per riassunti e tutti i riassunti, vanno rielaborati, analizzati, compresi, rifatti. Il problema si sposta dalla trasmissione del sapere riassunto all’elaborazioni di una argomentazione che poggia su un sapere conosciuto.
Mi sfugge perché le scuole adottino manuali di storia e non semplicemente Wikipedia (facendo risparmiare un sacco di soli ai propri studenti), che in tempo reale, può portarci dentro l’argomento che in quel momento ci interessa. Non mi soffermo su una dato certo: i manuali contengono più errori di Wikipedia, infatti nessuno adotta il manuale nell’edizione del 1998, ma sempre quella del 2023 per il semplice motivo che quella del 1998 è un’edizione con troppi errori, imperfezione, cose superate. Che però sono state insegnate fino a poco prima. Chapt A.I. fa lo stesso: è un manuale a domanda, che interagisce col soggetto che fa le domande. Si tratta di passare dalla valutazione dell’elaborazione e della sua originalità, alla valutazione delle competenze di controllo e rielaborazione. Quindi lo studente non deve “ripetere”, ma deve rielaborare e argomentare imparando a citare correttamente la fonte.

Il passare dal sapere trasmesso al sapere costruito, dalla riscrittura o ripetizione del riassunto alla gestione argomentata del riassunto, dalla staticità delle informazioni ad informazioni in movimento, dai dati acquisiti ai dati cercati può essere aiutato e non poco dall’intelligenza artificiale. Allora forse è il momento di rimuovere la diffidenza verso la tecnologia per far comprendere agli insegnanti la tecnologia e il suo uso, dentro formazioni di senso e non procedure “fai da te”. Credo si debba riflettere su questo: l’intelligenza artificiale è un libro di testo che risponde solo alle domande che vengono fatte. Quindi bisogna insegnare a farle.

Ah, dimenticavo, poi ci sono i testi. La Critica della ragion pura di Kant non teme l’intelligenza artificiale. E’ stata scritta così e così va letta. E’ perfetta perché non c’è nulla da cambiare. Ma questa è, veramente, un’altra scuola.

 




T come tempo scuola e tempo pieno

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet assume grande rilevanza l’organizzazione della classe e della scuola, quindi l’uso degli spazi e dei tempi.
Bambini che vivono in un ambiente ‘disordinato’ come i piccoli alunni di borgata del maestro Albino Bernardini  negli anni 60 in cui ‘imparano che i “duri” resistono meglio degli altri” o viceversa in un ambiente iperorganizzato in cui i ritmi e i diversi momenti sono tutti eterodiretti attraverso un’organizzazione cooperativa interiorizzano gradualmente e fanno propri dispositivi e ritmi che consentono collaborazione e sforzo comune. Quanto l’organizzazione del contesto e di ‘sistemi’ diversificati incidano sullo sviluppo umano è stato dimostrato dalle ricerche sull’ecologia dello sviluppo di U. Bronfenbrenner.[1]

L’organizzazione non è neutra ma incide sul sistema di aspettative, sulle interazioni, sull’autostima, sulla fiducia in sé e negli altri, sulle risorse personali e del gruppo.
Nelle scuole francesi ai tempi di Freinet e anche oltre il ritmo della giornata era costituito da un orario antimeridiano di tre ore e un ritorno pomeridiano di due ore in 5 o 6 giorni. Con un unico maestro, spesso in piccole scuole rurali.
Un’organizzazione analoga la condividevano i maestri della cooperazione educativa fino agli anni 70: era l’esperienza di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Giovanna Legatti e tanti altri. Ma con il diffondersi del movimento, della sensibilità nella società civile, di una conoscenza pedagogica adeguata ai tempi dello sviluppo economico e sociale negli anni 60-70, si pose il problema delle grandi scuole cittadine, dell’inurbamento  dalle campagne e dell’emigrazione dal sud di grandi masse che approdavano al mondo dell’industria.
Se a una parte dei bambini che frequentavano la scuola dell’obbligo, scriveva Francesco Tonucci, era garantito il rifornimento culturale composto di antipasto, pasto e dessert, per un’altra gran parte al massimo si prospettava un primo scarso. I primi possedevano già i codici, erano già immersi in cornici culturali omogenee e quanto la scuola offriva (per loro era una specie di surplus), per i secondi l’esperienza e le richieste erano spesso di spiazzamento e incomprensione, così da farli ritenere ‘disadattati’.

La risposta che il mondo della scuola, della ricerca, la nascente sindacalizzazione degli insegnanti e associazioni come il MCE, grazie anche all’immissione di giovani insegnanti disponibili a mettersi in gioco seppero elaborare fu il tempo pieno.
Già nell’esperienza di Lodi e altri/e il tempo scuola risultava insufficiente per sviluppare attività significative che lasciassero traccia negli alunni costruendo reali strumenti di lettura, comprensione e intervento sulla realtà. I maestri del Movimento spesso rientravano a scuola nel pomeriggio con i loro alunni (il doppio tempo, antimeridiano e pomeridiano, era ormai residuale nelle zone rurali; nelle cittadine e nelle città spesso si doveva ricorrere ai doppi turni, quindi o un orario di 4 ore al mattino o di tre ore al pomeriggio a mesi alterni). Si ‘preparavano’ andando a ricercare fonti e materiali, svolgendo una preindagine d’ambiente. Cercavano ‘testimoni’ da portare a scuola e da far intervistare dai ragazzi.

Il tempo pieno, cioè la costituzione di una giornata ricca, varia, stimolante, con attività diversificate al suo interno, con l’apertura delle classi, la contitolarità di due docenti, l’uso di strumenti e tecniche moderne sembrò la risposta alle povertà educative e all’isolamento e alla sopravvalutazione dei ragazzi dei ceti abbienti per una integrazione di modalità, codici, strategie. Una giornata completa di otto ore (forse una formula un po’ ‘operaistica’) comprensiva del tempo mensa (non la ‘mensa dei poveri’ del doposcuola comunale) ritenuto estremamente importante sia per un avvicinamento di gruppi umani spesso incomunicanti una volta adulti sia per il valore educativo del mangiare insieme, del condividere, del superare resistenze e gusti.

Facciamo parlare a questo proposito il grande pedagogista Francesco De Bartolomeis con il suo ‘Scuola a tempo pieno’ del 1972, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge 820 che istituiva non il tempo pieno ma posti docenti per ‘attività integrative pomeridiane’ e ‘insegnamenti speciali’. Una formula che venne totalmente rovesciata dalla mobilitazione di insegnanti, famiglie, associazioni e sindacati attraverso lotte che portarono alla formula organica con due insegnanti, attività ‘strumentali’ e laboratori, alternanza dei due docenti senza separatezze mattina-pomeriggio, anche sulla base delle preoccupazioni espresse da pedagogisti quali De Bartolomeis.

De Bartolomeis lucidamente metteva in guardia dai rischi e dagli ostacoli.
[…] Si chiede (alla ricerca) di fare proposte attuabili. Ma a chi? A una classe politica che ha come programma di attuare soltanto la perpetuazione del suo potere di parte. […] L’avvio del tempo pieno nel nostro paese non promette sostanziali rinnovamenti, anzitutto a causa di un tipo di organizzazione sociale che non può esprimere una scuola che lo neghi. Effetti di questo impedimento di base sono, tra l’altro, l’assenza di una impostazione sperimentale, di un piano e di iniziative per la riqualificazione degli insegnanti o per la formazione di nuovi insegnanti, la permanenza della gerarchizzazione tra materie fondamentali e attività integrative. Se manca un rapporto critico con i problemi di radicali mutamenti sociali e politici, entra nel gioco delle deformazioni e delle riduzioni didattiche la richiesta, del resto generica, di definire nuovi contenuti e nuovi metodi, e di provvedere a una diversa organizzazione dello spazio educativo. […] Questa la contraddizione più grave: la scuola di una società classista dovrebbe lavorare contro il classismo.

Alcune delle condizioni per un tempo pieno che quanto meno limiti i danni di una scuola del consenso sono indicati da De Bartolomeis nell’ordine: […] considerare il modulo organizzativo della scuola in termini di struttura fisico-spaziale (aule laboratorio, spazi per la socialità,..)
[…] è in questione non l’insegnante singolo ma la progettazione educativa del gruppo di insegnanti e di altri esperti, e l’insieme dei materiali, degli strumenti e delle procedure indispensabili per l’attuazione
[…] i problemi dei rapporti interpersonali e della dinamica di gruppo. La trattazione di questi problemi richiede tra l’altro una competenza psico-pedagogica (conoscenze e abilità) capace di vedere nella cosiddetta normalità le difficoltà di adattamento, i conflitti, le contraddizioni, le frustrazioni, l’ansia, le difese dall’ansia,.ecc.
[] non una dilatazione dell’orario che lasci immutato tutto il resto: scuola senza classi, collaborazione degli insegnanti in compiti non solo di educazione ma anche di programmazione, grande varietà di attività,  conformità ai ritmi biopsichici, nuovi contenuti, ricerca, sostituzione delle aule  con i laboratori, vita sociale abolizione di un orario avverso ai processi di incubazione, a quella che possiamo chiamare creatività temporaneamente improduttiva
[…] la collocazione di ogni individuo nel sistema sociale, quindi la sua mobilità in esso, le aree di attività e di decisione che può raggiungere [2]

Forti di questo viatico, giovani insegnanti neoimmessi in ruolo, ci accingemmo all’opera. Con molti dubbi e interrogativi. Ad esempio. Quello che funzionava così bene nella classe di Mario Lodi o di Bruno Ciari, il piano di lavoro, la discussione, la corrispondenza, il testo libero, la stampa, il calcolo vivente, la ricerca… ma con ragazzi di ambienti molto disomogenei, classi numerose, in città, avrebbe funzionato lo stesso? E come si componeva con gli orari della nuova scuola, le attività di classe e i laboratori?

[1] Bronfenbrenner U. (2002) Ecologia dello sviluppo umano Il Mulino, Bologna
[2] De Bartolomeis F. (1972) Scuola a tempo pieno, Feltrinelli




Chat GPT non sa nulla di De Bartolomeis! Ma, ce ne facciamo qualcosa?

di Marco Guastavigna

ChatGPT, chi è il pedagogista Francesco De Bartolomeis?

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Mi dispiace, ma al mio attuale livello di conoscenza, non sono a conoscenza di un pedagogista di nome Francesco De Bartolomeis. Potrebbe essere una persona poco conosciuta o potrebbe non esserci informazioni sufficienti disponibili su di lui al momento. È possibile che sia un professionista meno noto nel campo della pedagogia o potrebbe essere una persona privata con lo stesso nome. In ogni caso, non posso fornire ulteriori dettagli su di lui o sul suo lavoro.

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Who is the pedagogist Francesco De Bartolomeis?

Francesco De Bartolomeis was an Italian pedagogist, critic of art and politician. He was born in Pellezzano, Salerno, Italy, on January 20, 1918, and died in Turin, Italy, on June 29, 2023. He was a professor of pedagogy at the University of Turin from 1956 to 1988
De Bartolomeis was a student of Ernesto Codignola, and he was influenced by the theories of John Dewey. He was also interested in existentialism, and he wrote a book on the subject titled “Esistenzialismo e idealismo” (Existentialism and Idealism).

De Bartolomeis was a proponent of the school of thought known as “pedagogia attiva” (active pedagogy), which emphasizes the importance of student participation and experiential learning. He was also interested in the reform of education, and he played a role in the creation of full-time schools in Italy.
De Bartolomeis was a prolific writer, and he published over 100 books on pedagogy, art criticism, and politics. He was also a regular contributor to newspapers and magazines.
De Bartolomeis is considered to be one of the most important Italian pedagogists of the 20th century. His work has had a significant impact on the development of education in Italy.

Here are some of his most notable works:

  • La pedagogia come scienza (Pedagogy as a science)
  • Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism)
  • La scuola attiva (The Active School)
  • La riforma della scuola (The Reform of Education)
  • L’arte come esperienza (Art as Experience)

De Bartolomeis was a respected and influential figure in the field of pedagogy. His work continues to be studied and debated today.

Francesco De Bartolomeis è stato un pedagogista, critico d’arte e politico italiano. Era nato a Pellezzano, Salerno, Italia, il 20 gennaio 1918, ed è morto a Torino, Italia, il 29 giugno 2023. È stato professore di pedagogia all’Università di Torino dal 1956 al 1988. De Bartolomeis fu allievo di Ernesto Codignola, e fu influenzato dalle teorie di John Dewey.
Si interessò anche di esistenzialismo e scrisse un libro sull’argomento intitolato “Esistenzialismo e idealismo”.
De Bartolomeis è stato un sostenitore della scuola di pensiero nota come “pedagogia attiva”, che sottolinea l’importanza della partecipazione degli studenti e dell’apprendimento esperienziale.
Era anche interessato alla riforma dell’istruzione e ha svolto un ruolo nella creazione di scuole a tempo pieno in Italia. De Bartolomeis fu uno scrittore prolifico e pubblicò oltre 100 libri di pedagogia, critica d’arte e politica. Collaborò regolarmente con giornali e riviste. De Bartolomeis è considerato uno dei più importanti pedagogisti italiani del 20 ° secolo. Il suo lavoro ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo dell’istruzione in Italia.
Ecco alcune delle sue opere più notevoli: La pedagogia come scienza Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism) La scuola attiva (The Active School) La riforma della scuola (The Reform of Education) L’arte come esperienza (Art as Experience)
De Bartolomeis fu una figura rispettata e influente nel campo della pedagogia.
Il suo lavoro continua ad essere studiato e dibattuto oggi.