Il poliziotto e l’insegnante, entrambi al servizio della “salus”

di Antonio Vigilante

All’età di diciotto anni ho fatto il concorso in Polizia. Ricordo un viaggio in treno di notte, nel corridoio, una mattina al foro romano e un pomeriggio all’hotel Ergife a mettere crocette su un foglio – mi si chiedeva tra l’altro, ricordo, cos’è l’echidna – cercando di non addormentarmi. Lo superai. E per qualche giorno, dunque, mi chiesi se quella non fosse la mia via. Una uscita assolutamente onorevole per uno della mia classe sociale; e del resto il mio professore di musica a lungo aveva cercato di convincermi a lasciare la scuola, evidentemente così poco efficace con me, per fare il poliziotto, un lavoro che, in difetto di qualità intellettuali, avrebbe potuto mettere a buon frutto le mie qualità fisiche.
Decisi di no, alla fine. Avevo cominciato l’università e i primi due esami erano andati molto bene. Forse qualche qualità intellettuale c’era.

Ho ripensato a quel bivio in questi giorni. Alcuni studenti manganellati dai poliziotti in una manifestazione pacifica. Una cosa che ha indignato tutti gli insegnanti. E nei comunicati delle scuole emerge una certa visione della scuola come alternativa radicale alla violenza: il luogo in cui ci si educa al dialogo, alla nonviolenza, al confronto costruttivo, ai valori democratici: eccetera.

Ora, sarà per colpa di quel bivio, ma mi capita spesso di pensare che io e il poliziotto che avrei potuto essere procediamo in parallelo, se non proprio fianco a fianco.
È colpa anche, a dire il vero, di Althusser e della sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato.
Mi capita di chiedermi se, oltre a lavorare entrambi per lo Stato, non si faccia entrambi, in fondo, la stessa cosa: difendere, puntellare, giustificare lo stato di cose esistente. L’assetto sociale, le stratificazioni di classe, le differenze di status, le intermittenze del riconoscimento. Per dirla con Galtung, che è venuto a mancare qualche giorno fa: la violenza strutturale. E, per aggiungere Galtung ad Althusser, siamo sicuri di non avere a che fare, in quanto insegnanti, con quella violenza culturale che giustifica e fonda sia la violenza strutturale che quella fisica?

Il poliziotto e l’insegnante sono entrambi al servizio della salus. Il primo la serve nella forma della sicurezza pubblica, il secondo in quella della salvezza individuale. C’è sicurezza pubblica se nulla giunge a inquietare l’assetto sociale ed economico: se il godimento della proprietà privata, ad esempio, non è turbato dalla figura inquietante del ladro; ma può essere che il poliziotto debba anche intervenire per manganellare qualche operaio che rivendica in modo un po’ troppo insistente i suoi diritti di lavoratore.
Quanto alla salvezza scolastica – salvato è a scuola lo studente cui è stata evitata la bocciatura –, essa consiste nell’acquisizione del pensiero critico.
E il pensiero critico consiste, a sua volta, nell’acquisizione di un insieme di gusti più o meno intellettuali, di abiti linguistici, di stili di vita e di consumo che consentono allo studente di acquisire lo status che la società riconosce alle persone che hanno un titolo di studio – o hanno l’aria di averne uno.

La violenza del poliziotto è visibile, evidente, e dunque suscita indignazione. La violenza del professore è simbolica: introiettata, accettata fino al punto da scomparire.
Quando entro in classe trovo venticinque persone che sono chiuse in una stanza in un edificio dal quale non possono uscire di propria volontà. E non hanno nemmeno, senza chiedere permesso, la libertà di uscire da quella stanza. Così come non hanno la libertà di star seduti, in quella stanza, nel modo che ritengono più comodo. Eccetera. Tutto ciò è vissuto come normale, al punto che se fai osservare loro che normale non è ti guardano stupiti.

Questa è la repressione di base, la struttura detentiva fondamentale della scuola.
Sulla quale si innestano, stante il carattere asimmetrico della relazione, continue violenze, alcune sottili ad altre più evidenti – alcune che lasciano una disagio ineffabile, altre che fanno semplicemente piangere lacrime amare. E queste piccole violenze quotidiane si iscrivono in, e sono al servizio di, una violenza più grande, che è la riduzione della cultura a strumento di selezione sociale – il costringere qualsiasi testo alla funzione deformata, caricaturale e, appunto, violenta del pretesto.

Qualche giorno fa una delle mie migliori studentesse mi ha confessato di avere intenzione di lasciare la scuola. Le ho parlato nel corridoio, perché la scuola italiana non prevede un luogo e un tempo in cui un insegnante possa parlare individualmente con lo studente – il ricevimento periodico è con i genitori. Mi sono reso conto, parlando con lei, di non avere troppe ragioni. Avrei potuto dirle che la cultura è un valore. Ma lei lo sa bene: legge e studia molto, ben al di là degli obblighi scolastici. Avrei potuto, dovuto dirle che uno studio che avvenga al di fuori della scuola non è davvero solido. Ma ne sono persuaso? No. A scuola si studia per il voto e, una volta ottenuto il voto, per lo più si cancella tutto ciò che è stato maldigerito.
Avevo un unico argomento più o meno solido: senza un titolo di studio si precluderà la possibilità di fare molti lavori, di raggiungere una soddisfacente condizione economica e uno status corrispondente.
Ma questo vuol dire ammettere che la cultura scolastica (i docenti usano l’aggettivo scolastico, riferito all’apprendimento, in modo negativo: “L’esposizione è stata scolastica”, e dunque il voto all’esame di stato non sarà granché) non è che uno strumento vuoto – nulla più di un pretesto, appunto – per operare una selezione sociale.




L’economia dell’istruzione non ha titolo per parlare dei saperi del curriculum

di Raimondo Giunta

Cos’è l’economia dell’istruzione

Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e spesso c’è anche la preoccupazione a non aumentarla.
Alcuni suoi cultori, tra le tante affermazioni che fanno, sostengono che non è più sostenibile l’idea che non si debba cambiare la composizione della spesa pubblica per l’istruzione e che questa debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi. Ma è davvero facile definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo?
Ci sono delle difficoltà e “queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”(Ugo Trivellato).

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.  Alle stesse conclusioni arriva E.  Somaini nel suo testo “Scuola e mercato”
L’autore tiene a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà, logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……..  anche possibile”.
Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione, che non abbia eccessive ambizioni, aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo, anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari, redditizi e vantaggiosi per tutti.

Efficacia degli investimenti nel sistema formativo

L’efficacia degli investimenti nel sistema scolastico-formativo e quindi la loro sostenibilità politica si deducono dal contributo dato dalla scuola allo sviluppo delle conoscenze, alla diffusione della cultura, alla crescita del potenziale tecnico e professionale delle nuove generazioni e alla loro capacità d’inserimento nel mondo del lavoro e nella società come cittadini consapevoli.
La giustificazione della spesa per l’istruzione, cioè, viene dimostrata dal ruolo che essa ha nella formazione e nello sviluppo del capitale umano, sociale e culturale disponibile in una comunità, la cui importanza è stata messa in evidenza dagli studi di Coleman, Bourdieu e Putnam. Il valore del “prodotto scolastico”, per usare il lessico congeniale a questa disciplina, quindi, deve essere riferito alla sua qualità, cioè alla sua corrispondenza agli scopi sociali e istituzionali che una nazione si dà in un determinato momento della sua storia per le nuove generazioni. In questo caso la spesa sarebbe efficace e produttiva.
Non lo è più quando parte rilevante della popolazione scolastica viene espulsa dal sistema scolastico e dalla formazione senza il possesso di un bagaglio accettabile di competenze civiche e professionali; quando si allarga la distanza tra il sistema formativo e l’organizzazione sociale del lavoro e viene a mancare qualsiasi collegamento tra istruzione e sbocchi professionali.

E’, però, nell’ordine delle cose che ci sia uno scarto tra istruzione e mondo del lavoro e che sia difficile eliminarlo.
Tutto ciò dipende dal fatto che per quanti cambiamenti possano essere fatti nella scuola si resterà sempre un passo indietro rispetto agli alti e continui sviluppi tecnologici nel mondo della produzione e dei servizi, all’esplosione delle conoscenze e alla rivoluzione dei sistemi che le trattano, le accumulano e le diffondono.
Uno scarto che non dovrebbe diventare inconciliabilità tra i due sistemi.  Il sistema dell’istruzione e il mondo del lavoro con opportune misure di adeguamento devono, ad ogni buon conto dialogare e integrarsi.
Questo non significa auspicare una rigida finalizzazione dell’istruzione al sistema produttivo, impossibile nel breve e nel lungo periodo, anche perché non è l’unica ragione di esistere per il sistema scolastico e formativo.

Servizio alla persona o alla società?

Il sistema scolastico e formativo è servizio alla persona ed è contemporaneamente servizio alla società: nessuna delle due vocazioni può essere trascurata e deve pertanto essere sostenuta sia la sua natura di servizio alla persona, sia la sua crescente prospettiva di essere fattore dello sviluppo economico.
Privilegiando uno dei due aspetti si può lacerare un sistema che si trova all’incrocio di diverse richieste ed esigenze, che vanno armonizzate, ma non alternativamente subordinate. Non si può assecondare un generico e vago desiderio collettivo di istruzione e formazione, di crescita culturale senza chiedersi l’uso che se ne farà; non si può ferreamente legare i processi di istruzione e formazione, in cui si giocano scelte fondamentali del destino individuale dei giovani, alle necessità, ai fabbisogni del sistema socio-economico, predeterminando settori e quote dei vari indirizzi di studio.

L’istruzione è un bene pubblico la cui funzione primaria è la crescita e lo sviluppo integrale della persona di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni giovane che varca la soglia di un istituto scolastico, ma la disciplina economica, invece, la considera solo con l’ottica di un bene di consumo o di un bene di investimento sia individuale, sia collettivo. L’economia dell’istruzione ci porta alla logica dei costi, degli sprechi e dei vantaggi.

Non proprio una dimessa ancilla della pedagogia; anzi finisce per imporre prima il proprio lessico e poi le proprie finalità. Ma sono i costi in sé che vanno ridimensionati a prescindere o le finalità da realizzare che qualcosa sempre costano?
Il criterio di giudizio sulle attività messe in atto dal sistema dell’istruzione è solo economico o può e deve essere invece di natura pedagogica?
L’economia dell’istruzione, purtroppo, è una disciplina che non si mette al servizio di nessun altro sapere di cui deve nutrirsi la scuola e dal proprio punto di vista non potrà che parlare di risultati, di valutazione, di spendibilità del prodotto scolastico. L’economicismo può arrecare danni alla dimensione umana e culturale dell’istruzione e della formazione, se non si sta bene attenti.

Quale rapporto fra istruzione e mondo del lavoro

L’unico problema in cui si arrovella l’economia dell’istruzione è il rapporto tra istruzione e mondo del lavoro.
Gli altri problemi, quelli afferenti ai valori, alle tradizioni, alla conoscenza del mondo e alla cultura dell’integrazione le sono nella migliore delle ipotesi indifferenti. La rude e solida disciplina dell’economia dell’istruzione, infatti, può trascinare verso la diffidenza e la sottovalutazione della pedagogia e farsi portavoce di tutta e di tanta avversione verso ogni idea di scuola, di insegnamento che ci ricorda la complessità in democrazia del compito di crescere e di educare i giovani. Alla scuola da qualche decennio sono state somministrate dosi massicce di questa cultura e non pare che l’abbiano migliorata e che abbia aiutato ad affrontare l’emergenza educativa.
La scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale e non può disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci col mondo del lavoro e con la società. La scuola deve essere autonoma, efficace e giusta, sapendo che gli esclusi dalla cultura e dai saperi sono e saranno i vinti e gli umiliati della nostra società.

La scuola sarà migliore, solo se resta e si sviluppa come comunità educativa.

 




Classi aperte e laboratori

di Giancarlo Cavinato

una scuola comunità
si può fare…scuola al di fuori della classe

Le finalità educative previste dalle Indicazioni Nazionali  possono essere assorbite e soddisfatte completamente nel chiuso di una classe? Noi riteniamo indispensabile l’apertura, la dinamica del comporsi e ricomporsi di gruppi diversi: per età, per incarichi, per percorsi.

 

Nel convegno di Reggio Emilia del 1976 sulla scuola a tempo pieno Daria Ridolfi scriveva: ‘’Noi vogliamo una scuola piena, articolata, multiforme, capace di accogliere ogni bambino con la sua storia, la sua cultura, i suoi interessi, e di porlo in un rapporto utile e stimolante coi coetanei, con gli insegnanti, con l’ambiente.[1]

La proposta che il Movimento di cooperazione educativa sta portando avanti prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte.
L’idea che intendiamo sostenere è la proposta di unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca. Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi come nel caso  delle UDA, che rischiano a volte di  ricalcare  le programmazioni tassonomiche, ma una progettazione in itinere fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature (‘teatri cognitivi’) e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente consentire di produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….

Si tratta di mettere in atto procedure che consentono che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni attorno a cui operino dei gruppi mobili. Quindi non una scuola come sommatoria di classi.

Nel contempo è necessario rinforzare l’idea che la classe stessa è in primis un laboratorio; la classe non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità ( piani di lavoro, ricerche tematiche, tecniche, rivisitazione strumenti di base per rinforzo a piccoli gruppi, attività individuali).

Un gruppo di insegnanti che intenda sperimentare questa formula ha bisogno di scandire le attività dell’anno in modo coordinato, condividendo le attività fondamentali e quelle di integrazione e arricchimento: impostando assieme il lavoro da svolgere nell’arco dell’anno. [2]

Ancora Daria Ridolfi: ‘Per condurre un lavoro qualificato e gratificante per otto ore al giorno, per poter avere incontri interclasse di piccoli gruppi di bambini, per poter proporre un’ampia gamma di attività, è necessario un alto numero di insegnanti; probabilmente una media di due per classe è appena sufficiente se si considera che la maggioranza delle classi della scuola dell’obbligo è costituita da non meno di 25 alunni ciascuna. Quel che ci pare interessante è che la titolarità, almeno nella prassi pedagogica-didattica, possa essere superata dalle classi aperte. Nel gruppo delle classi parallele gli insegnanti possono ruotare con compiti specifici diversi anche se l’unitarietà dell’insegnamento deve essere salvaguardata al massimo.
Non si tratta di fare dei maestri degli specialisti (nemmeno i professori della scuola media inferiore vanno incoraggiati ad essere professionalmente per la monocultura), si tratta di far emergere una struttura in cui i pregi e i difetti di ogni insegnante- o meglio, le competenze, gli interessi, il modo di mettersi in rapporto con gli altri-siano distribuiti tra i bambini in una giusta e buona alternanza, in una proficua e corretta compenetrazione. Importantissimo è curare che ogni attività non sia voluta dal caso, ma che si inserisca profondamente nella dinamica della giornata di scuola. […]
La scuola a tempo pieno acquista fisionomia di scuola vera se è riuscita a far sì che ogni insegnante esca dal suo secolare isolamento e si metta a lavorare con i colleghi nella realizzazione di un piano di lavoro che spinga verso l’uso alternativo degli spazi, degli strumenti, del tempo, cioè di dare ad ogni scolaro tutte le occasioni educative per crescere, esprimersi, ricercare, ecc
[3]

[1] D. Ridolfi ‘Finalità e problemi della scuola a tempo pieno’ in MCE  ‘La realizzazione della scuola a tempo pieno’, La linea, Padova, 1977

[2] Un’esemplificazione di un possibile schema di lavoro si trova nel capitolo sulle classi aperte nel fascicolo MCE sui 4 passi. In esso di propone che ciascun gruppo di classi coinvolte realizzino attività di interclasse e di laboratorio con varietà di orari nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività sia di apprendimento che espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche. Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. i gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono fissi per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

[3] D. Ridolfi, op. cit., pp.79-81




A scuola senza bussola

di Giovanni FioravantiStefanel

Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a  generare mostri, se non ci riscuotiamo.
Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci!

Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.

E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.
Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.

Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.
A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.
Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.

Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per  rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.
Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali.
Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione alla meschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.

Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale.
Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.
Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.
Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.

Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà.
La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.
Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.

Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.

La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe.
Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.
Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.

Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.
Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione.

La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.
Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni,  segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.




L’alfabeto della lingua

a cura del Gruppo Nazionale Lingua MCE

Un tempo in diversi Paesi europei le più remote località erano raggiunte dai ‘colporteurs’, venditori ambulanti che offrivano le più svariate tipologie della cosiddetta ‘letteratura di colportage’, libretti morali, immagini e stampe, testi di canzoni, testi religiosi, storie cavalleresche e romanzi diffusi a puntate.
Oggi le tecniche di diffusione sono molto più raffinate, ma è con lo stesso spirito che come Gruppo Nazionale Lingua MCE intendiamo diffondere un’idea di lingua e di educazione linguistica di cui si riscontra un gran bisogno- e una grande assenza- nella scuola.
Si tratta dell’idea di lingua delineata nel Manifesto ‘Educare alla parola’, nelle ‘Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica’ del Giscel, nelle pubblicazioni curate dal MCE nelle collane Narrare la scuola e RicercAzione.
Contiamo con ciò di contribuire a fare chiarezza sulle teorie, esplicite e implicite, che stanno alla base delle molteplici modalità con cui nella nostra scuola è stata e viene ‘insegnata’ la lingua italiana.
Nella varietà e diversità di teorie, modelli, pratiche, abbiamo scelto una serie di ‘voci’ che pensiamo possano aiutare l’insegnante ad orientarsi e a scegliere, nella scuola, approcci e percorsi con consapevolezza.
L’insieme consiste in una serie di  fascicoli, ciascuno contenente alcune  ‘voci’.

Per saperne di più puoi partecipare al webinar in programma per il giorno 11 marzo con inizio alle ore 17.30.
Per iscriversi, compilare il form disponibile qui

VOLUME 1

VOLUME 2

 




PAROLE PER GIOCARE


Proponiamo ai nostri lettori uno straordinario documento di grande interesse storico.
Si tratta del n. 101-102 della Biblioteca di Lavoro di Mario Lodi del 1979.
Era stato realizzato con testi di Gianni Rodari e disegni di Frato (Francesco Tonucci)
L’interesse del documento risiede anche nella introduzione scritta da Tullio De Mauro.
[ringraziamo Massimo Bondioli che ha reperito il volumetto presso la Biblioteca Comunale di Piadena]

Per approfondire puoi guardare la registrazione del nostro webinar con Vanessa Roghi che parla proprio della Grammatica della fantasia di Gianni Rodari.




Quattro passi per una pedagogia dell’emancipazione

a cura di Giancarlo Cavinato

Il MCE propone 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione. Si tratta di organizzare un impianto sistemico costituito da moduli variamente componibili e adattabili alle esigenze dei singoli contesti. Sono proposte concrete, realizzabili in ogni scuola, in grado di attribuire valore aggiunto all’azione professionale e collegiale, e di rappresentare gli elementi da cui partire per realizzare percorsi di partecipazione e condivisione e dispositivi organizzativi in grado di qualificare i contesti e di aumentare i livelli formativi..
I 4 passi si propongono come ponti fra l’organizzazione e le relazioni e gli strumenti concettuali di ricerca. Ciascuno dei passi si realizza attraverso la  forza e le potenzialità delle esperienze che prevede: discutere e decidere insieme, appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, fare ricerca, possibilità di maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  veder nascere e contribuire a un prodotto come il giornale il libro il video…

Primo passo: gli strumenti di democrazia.

In una delle invarianti pedagogiche Freinet[1] afferma che un regime scolastico autoritario non può formare cittadini democratici. «La democrazia é impegno partecipativo nella costruzione dei valori che regolano la convivenza umana. In tale impegno, l’educazione svolge il ruolo fondamentale dello sviluppo dell’intelligenza, della comprensione, dell’esperienza, dell’apprendimento, della collaborazione e della difesa dell’uguaglianza.»[2]
La democrazia si esercita mediante regole, procedure, strumenti e pratiche attraverso cui si costruiscono e si determinano scelte possibili e condivise. Le idee, le opinioni, i giudizi sulla realtà non sono preesistenti alla loro scoperta da parte dei soggetti, ma si formano attraverso una pratica e un’esperienza di relazionalità e socialità. L’istituzione ad hoc è l’assemblea di classe come iniziazione alla vita democratica, alla solidarietà. Un’assemblea con le sue routine e le sue suddivisioni di compiti. Chi presiede, chi verbalizza, chi dà i tempi degli interventi. Durante la settimana su cartelloni i bambini trascrivono le loro osservazioni, proposte, critiche, suggerimenti da analizzare nell’assemblea. Ogni aspetto della vita scolastica acquista così senso e giustificazione. La finalità gradualmente condivisa è l’uguaglianza di diritti e il successo formativo di tutti. Le forme di partecipazione risultano tanto più efficaci quanto più ai ragazzi viene data parola e possibilità di progettare estendendo il raggio della loro progettualità alla città attraverso l’organizzazione di consulte e consigli.[3]

Secondo passo: gli strumenti per la ricerca

Si tratta di garantire un accesso ai saperi, favorendo la costruzione del pensiero. Ma come reperire informazioni che non siano fornite già confezionate così che ci si formi su una sola versione e non sia prevista una costruzione personale della conoscenza? [4]

Viviamo in un mondo connesso globalmente alla rete, per cui il problema non è più l’acquisizione delle informazioni di base (reperibili attraverso un qualsiasi motore di ricerca), ma la loro messa in relazione, la selezione, l’organizzazione in un quadro composito, la comprensione profonda. Tutte operazioni per attivare le quali i libri di testo non sono di alcuna utilità, sostituendo il già predisposto all’attività dei soggetti, fornendo risposte e soluzioni che non vanno al di là della superficie. La scuola deve diventare il luogo della rielaborazione, del riordino, del confronto delle interpretazioni, delle ipotesi. Per questo il libro di testo è strumento obsoleto: i libri delle discipline propongono serie di informazioni schematiche e non verificabili, che si traducono in una visione tassonomica dei contenuti storici, geografici, scientifici; le antologie di lettura costituiscono raccolte di brani, estrapolati dal contesto letterario a cui appartengono, scelti dagli autori e dagli editori in base a criteri standard. Con gli stessi fondi a disposizione per i testi, ogni classe e, ancor più, ogni scuola può acquistare narrativa, libri di divulgazione, approfondimenti tematici, documentazioni, materiale multimediale, strumenti per la riproduzione e la stampa, disponendo così di una biblioteca ricca di una pluralità di fonti. Leggere versioni diverse di storie, descrizioni di eventi, cogliere punti di vista diversi, confrontare diverse interpretazioni, scoprire i nessi fra eventi sono tutte operazioni che le biblioteche di lavoro disponibili grazie all’adozione alternativa sono favorite.[5]

Terzo passo: lavoro a classi aperte

La proposta prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte. «Un fondamentale elemento qualificante del tempo pieno può essere considerato il superamento della struttura-classe e, di conseguenza, del lavoro strettamente individuale dell’insegnante.»[6]
Il che richiede l’organizzazione di spazi in cui trovare stimoli adeguati, agire, attribuire significati, progettare, coordinare le proprie azioni con quelle degli altri. Non si può realizzare tali percorsi all’interno di gruppi chiusi, sempre con gli stessi componenti, in cui si condividono sempre le stesse attività. Si tratta di mettere in atto procedure che consentano che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni suddividendosi diversi aspetti. Quindi una scuola che non sia una sommatoria di classi non comunicanti.
L’organizzazione di gruppi mobili, eterogenei, con consegne di lavoro diversificate, può creare una dinamica, delle aspettative, la motivazione ad integrare le proprie ricerche con quelle di altri gruppi. La partecipazione a gruppi e classi di età diverse rende possibile agire sulla zona prossimale di sviluppo dei singoli attraverso la guida dell’adulto, la collaborazione tra pari, l’interazione sociale.[7]
Compete alla regia educativa degli insegnanti comporre le diverse realizzazioni dei gruppi, favorire le comunicazioni e gli scambi, proporre ulteriori sviluppi, conferire unitarietà alle attività. Il gruppo attraverso attività di laboratorio funziona da mente collettiva, conferendo significato alle singole parti, correlandole e collegandole. Le pratiche di ricerca che gli alunni affrontano costituiscono una parte dell’oggetto su cui operano, e ciò conferisce un valore relativo alle conoscenze che vengono acquisite, nella consapevolezza che esse saranno integrate dagli apporti di altri gruppi. La proposta prevede di individuare, alunni e insegnanti, delle unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca.
Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi, ma una progettazione in itinere e a ritroso[8] fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….
La classe stessa è in primis un laboratorio; non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità. Ciascun gruppo di classi coinvolte si proporrà di realizzare attività di interclasse e di laboratorio nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche, storiche, interculturali.
Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. I gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono stabiliti per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

Quarto passo: la valutazione formativa

«Ogni ragazzo è in gara con sé stesso per migliorarsi. Il merito non è di chi dà un maggiore rendimento, ma di chi riesce a superarsi e far progressi anche se il suo livello è inferiore a quello di altri.[…]Il fenomeno della selezione non potrà scomparire finché nella scuola non cambieranno certi atteggiamenti e non si capirà che il responsabile del mancato apprendimento, del disadattamento scolastico che porta alla ripetenza e poi all’abbandono, non è il soggetto in difficoltà e nemmeno l’ambiente di provenienza anche se è ‘svantaggiato’, ma è la scuola ad essere ‘disadattata’ in quanto induttrice di disadattamento.»[9]
La valutazione è uno degli aspetti del fare scuola che preoccupa maggiormente perché è lo spazio dove più si consolida la dialettica tra normalizzazione ed emancipazione dei soggetti. E’ un operazione complessa perché deve essere in grado di cogliere e interpretare una realtà in cui si mescolano molteplici aspetti che coinvolgono sia l’alunno che l’insegnante: conoscenze, abilità, motivazione, relazione, effetti alone, aspettative reciproche, ritmi e stili di apprendimento. Il passo sulla valutazione illumina e rinforza i precedenti passi in quanto una didattica trasmissiva non consente una valutazione autentica che richiede tempi lunghi e strumenti narrativi, descrittivi, interpretativi: lettere personalizzate, diari di bordo, monografie, studi di situazioni, aspetti che si adattano alle attività che si fondano su discussioni, partecipazione a progetti, laboratori, in cui accanto ai processi individuali rivestono pari importanza i processi di gruppo.
Mentre la didattica trasmissiva lavora su tempi brevi, risposte automatiche, abituando a un pensiero riflettente. Non richiede la messa alla prova attraverso particolari tecniche e il confronto interattivo, ma una comunicazione unidirezionale e la ripetizione. La grande assente è la relazione significativa che l’insegnante intrattiene attraverso il dialogo pedagogico. Maturana osserva che ogni insegnante che valuta la prestazione degli alunni sta valutando se stesso che valuta la prestazione. Con il suo giudizio non giudica lo studente, ma la relazione che lui intrattiene con lo studente.[10]
Ogni docente dovrebbe potere, alla luce della propria biografia professionale, riconoscere le proprie cornici culturali ed ermeneutiche che ne condizionano la pratica valutativa. Va sostenuta una valutazione intersoggettiva e collegiale come esercizio concreto di responsabilità, come funzione di autoregolazione dei percorsi e dei processi nella scuola dell’autonomia.
Sono necessarie pratiche di autoanalisi e autovalutazione degli alunni e di autointerrogazione degli insegnanti e la sperimentazione di strumenti di osservazione, ascolto dei soggetti, narrazione e problematizzazione. Come per ogni altro aspetto della vita della scuola, anche la valutazione può costituire oggetto di dibattito, esplicitazione dei propri riferimenti, presa di decisioni. Se questo aspetto non viene affrontato, rimane confinato nel potere discrezionale dei docenti e come tale inappellabile e indiscutibile. Il compito di una pedagogia del successo è esplorare con gli alunni le condizioni facilitanti e ostacolanti e i possibili miglioramenti. Agevolare la presa di coscienza delle diverse conseguenze di un lavoro individuale e di un lavoro di aiuto reciproco fra pari. Nel frattempo la scuola non rimane ferma.
La scuola italiana è sottoposta a un altalenarsi di procedure modalità modelli. Si è passati dai voti ai giudizi (una riforma incompleta che ha lasciato fuori la secondaria), per tornare ai voti e con l’ordinanza  172 del 2020 si istituisce una valutazione per livelli soltanto per la scuola primaria. Oggi il ministero del merito punta a tornare alla situazione preesistente, cioè la ‘riforma’ Gelmini del 2010.
A fronte di tale prospettiva sarà necessario ricorrere alle strategie che i Ciari, i Lodi. i Manzi nel tempo hanno utilizzato per una scuola al servizio di tutti, non selettiva, discriminatoria, gerarchizzante. Non va abbandonata la dimensione formativa ed ecologica della valutazione. L’eliminazione del voto numerico, pur tra molte difficoltà dovute a carente formazione e a procedure macchinose quali il registro elettronico,  ha avviato comunque un processo di cambiamento di prospettiva nella cultura e nelle pratiche valutative della scuola mettendo l’accento sull’esigenza di riscontri descrittivi dell’apprendimento in itinere, di differenti forme di comunicazione della valutazione e di maggiore coerenza e retroazione tra progettazione didattica e valutazione: in generale, un intero ripensamento della didattica e della relazione docente-studente.
La valutazione formativa non si limita a registrare esiti ma accompagna i processi. Assume che la responsabilità dell’eventuale mancato apprendimento non é dovuta soltanto a carenze dell’ allievo ma individua fra le cause il tipo di insegnamento del docente, che viene sollecitato  ad innovare le sue competenze psicopedagogiche e didattico-metodologiche e relazionali. Ad operare mantenendo strettamente connesse progettazione e valutazione.

[1] C. Freinet, Les invariants pédagogiques, in Oeuvres pédagpogiqques, Paris, Seuil, 1994, vol 2 pp. 383-413, trad. Ital. A. Goussot
[2] J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1951
[3] M. Marchi, P. Sartori (a cura di), Dall’io al noi. Città e scuola per un’educazione alla responsabilità, Trieste, Asterios, 2023
[4] C. Pontecorvo, A, M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma, Carocci, 2007
[5] M. Rosaria Di Santo, Mario Lodi e la “biblioteca di lavoro” una proposta didattica alternativa ancora attuale, Parma, ed. Junior, 2022
[6] Gruppo torinese MCE, Per una nuova professionalità docente, Milano, Emme, 1978
[7] L.S. Vygotskij. Il processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1980
[8] G.. Wiggins, j. Mc Tighe, Fare progettazione. La “teoria” di un percorso per la comprensione significativa, Roma, LAS, 2004
[9] B. Ciari, La grande disadattata, Bergamo, Junior, 2006
[10] H. R. Maturana, F.S. Varela, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 2001; C, Hadji, Una valutazione dal volto umano oltre i limiti della società della performance, Brescia, Scholé, 2003