Tutta colpa del patriarcato? Forse manca la “cultura del Noi”

di Raimondo Giunta

Si è sperato per qualche giorno che non succedesse l’irreparabile, ma non è stato così. Giulia Cecchettin è stata massacrata dal suo ex ragazzo. Dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato un’ondata di indignazione ha scosso la società, colpita dalla crudeltà con cui è stata stroncata la sua vita ad opera di un giovane, che sembrava molto lontano dalla capacità di compiere questo efferato delitto.

Con forza si è riaperto il dibattito politico e culturale sulle responsabilità delle istituzioni, sui rimedi e sugli strumenti ritenuti adatti per contrastare ogni forma di violenza contro le donne e soprattutto i femminicidi, la cui frequenza in tempi di profonde trasformazioni dei costumi è uno scandalo ingiustificabile.
Il problema interpella drammaticamente la coscienza di ognuno di noi ed esige riflessioni e risoluzioni all’altezza della sua gravità.

I ragionamenti che farò rispecchiano i miei attuali e provvisori convincimenti e non hanno alcuna pretesa, se non quella di fare un po’ di chiarezza per me stesso; sono relativi agli strumenti e alle conoscenze in mio possesso.

Il ricorso sempre più frequente all’uccisione delle donne nei conflitti e nei rapporti interpersonali è un fenomeno che va analizzato in tutti i suoi aspetti, senza alcun preconcetto.  In più di un intervento viene richiamata per i crimini contro le donne la violenza che deriva dai cascami della cultura “patriarcale”, ancora operante a parere di tanti nel comportamento e nelle scelte di molti uomini.

Ragionamento questo che non mi risulta del tutto convincente.  Avrebbe piena validità, se ancora l’istituzione familiare avesse quella struttura e quella stabilità che aveva creato la tradizione del capofamiglia, padrone della sorte dei suoi componenti, sempre pronto ad esigere la sottomissione delle donne, della moglie e delle figlie soprattutto.

Questo tipo di famiglia sopravvive in zone sempre più limitate della società, ma da tempo è stato sostituito da un altro in cui si praticano non facilmente, ma si praticano la parità tra uomo e donna e rapporti tra genitori e figli in cui è difficile trovare l’autoritarismo dei tempi passati.

Parte rilevante degli autori e delle vittime di molti femminicidi hanno un’età che li porta fuori dalla stagione del patriarcato imperante e li colloca nei decenni in cui hanno frequentato la scuola, fino alle superiori, in classi miste, in cui ragazzi e ragazze per tanti giorni e per alcuni anni hanno preso l’abitudine di stare insieme, di conoscersi e di praticarsi.

Certo, se si pensa con quanto entusiasmo donne e uomini hanno affrontato a partire dagli anni ’70 le lotte che hanno trasformato la vita di tutti, la lunga catena dei femminicidi ci ammonisce sul fatto che certe conquiste non sono diventate patrimonio di tutti. Qualcuno è rimasto ai margini assente e anche ostile. Dopo quella stagione, che con qualche ragione si può definire la stagione del Noi, la stagione dei beni comuni, ne è subentrata un’altra in cui si è fatto prevalere il privato sul pubblico, l’egoismo sull’altruismo, fino al punto di storpiarne le ragioni e la serietà affibbiandogli il nome insolente e offensivo di buonismo. Una stagione che ha esaltato la competizione in tutte le varianti, comprese quelle che ricorrono all’aggressività e alla scorrettezza; che ha premiato il ricorso alla menzogna, il dileggio e l’offesa a danno del rispetto; una stagione in cui si è inneggiato sempre ai vincitori e si sono derisi i diversi, gli sconfitti della vita, in cui si sono adulati i ricchi e si sono mortificati e disprezzati i poveri; una stagione in cui la prevaricazione ha cancellato ogni forma di dialogo.

Potevano i frutti velenosi di questa lunga e insopportabile stagione lasciare indenni le relazioni tra le persone e le relazioni tra uomini e donne? Credo proprio di no.

Al peggioramento della qualità delle relazioni umane non sono estranei i messaggi continui e invasivi delle tv, dei film e della pubblicità che riducono la donna al solo suo corpo, facendone preda destinata alle voglie e ai capricci degli uomini; possesso da cercare e mantenere per i propri piaceri e per certe forme aberranti di autostima.

A parte va considerato un altro aspetto del problema, che è quello della difficoltà, dell’imbarazzo e dell’invidia maschili nell’accettazione del crescente successo delle donne nelle occupazioni di rilievo pubblico nella società.

E’ facile inneggiare all’autonomia intellettuale e morale delle donne, ma a non pochi uomini riesce difficile convincersi che le donne possano rivelarsi migliori per qualità e per capacità. La libertà della donna, la sua autonomia, il rispetto delle sue esigenze e delle sue legittime ambizioni vanno collocati al vertice della trasformazione e del miglioramento dei costumi, ma hanno bisogno della pratica quotidiana del dialogo e del rispetto della dignità di ogni persona.

Sia che ci riferisca a giovani coppie, sia che ci si riferisca a coppie mature la violenza e gli assassini delle donne ci riportano ad una cultura sempre più estesa e radicata in cui la vita soprattutto quella degli altri non conta nulla, in cui la ragione appartiene a chi è più forte e chi è più forte crede di avere nelle proprie disponibilità chi è più debole, perché è donna, perché è povero, perché è straniero, perché è meridionale, perché è disabile, perché è disoccupato, perché non ha una casa e nemmeno una macchina.

L’ondata dei femminicidi non proviene solo dai residui della cultura patriarcale, ma anche dall’insieme dei valori praticati che ha reso difficile il rispetto di ogni persona e della donna in molti episodi ed occasioni della vita quotidiana. Il rispetto delle donne non può essere un’eccezione al rispetto che va portato ad ogni persona in ogni ambito dei suoi diritti. E non saranno solo i provvedimenti e le misure più stringenti in ambito penale e processuale, come quelli approvati, a risolverne le sorti, se resta tutto intero l’impianto delle decisioni e della cultura che produce scarti, disuguaglianze e odio sociale. Se rimane in piedi l’apparato dell’informazione e dei media che ha mercificato la donna ed esalta gli istinti predatori degli uomini.

Solo una ripresa in grande stile della cultura del Noi col tempo potrà contenere e sconfiggere il femminicidio; la scuola non ha bisogno di alcun progetto di cultura del rispetto. Per farla funzionare si sa che se non c’è rispetto reciproco non si riesce a fare nemmeno un’ora di educazione fisica e che ci sono tanti di quegli argomenti da cui estrarre ricchi insegnamenti per questo scopo. Sono le famiglie che devono riprendersi la responsabilità educativa, che in questo genere di problemi non ha mai funzionato tanto bene. Sin da piccoli si insegni e si pratichi il rispetto delle bambine e si contrastino le soperchierie dei ragazzi; non si giustifichino e non si coprano le forme di violenze che vengono praticate in casa e fuori e il marito rispetti la moglie, e il fratello la sorella e si considerino fratelli e sorelle tutte le persone con cui si entra in relazione.

E questo il campo in cui le parole, da chiunque pronunciate, non contano niente. Contano solo buoni e costanti esempi.

“Un’educazione davvero valida per i giovani come per gli adulti non consiste nel prodigarsi in consigli, ma nel mostrare che viviamo mettendo in atto i moniti che siamo pronti a rivolgere ad altri” (Platone-Leggi(729 b)

 




Merito e relazione l’ossimoro scolastico

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Giovanni Fioravanti

Non si chiamano materie, neppure discipline, tanto meno aree disciplinari, anche se a volte rivendicano una non ben precisata interdisciplinarità o transdisciplinarità.
Sono le “Educazioni”. Educazione civica, educazione stradale, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione alla salute e potremmo proseguire.
Non hanno vita facile, neppure hanno l’imprimatur dei Programmi o delle Indicazioni nazionali  come le loro antenate Educazione domestica e Educazione fisica, tanto da non meritare né una cattedra né un orario, così col tempo finiscono per infrattarsi in qualche ripostiglio scolastico, salvo che non giunga un PTOF a rispolverarle.

È questo il modo in cui a scuola, luogo di apprendimento delle conoscenze e della cultura della propria specie, si esercita l’educabilità, cioè quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità.

Il teorico dell’educazione umanistica, il francese Louis Meylan, definisce l’educazione “come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.”[1] Meylan, che scriveva nella prima metà del Novecento, doveva però essere consapevole della crisi che già allora attraversava l’educazione, se un secolo prima l’abate Lambruschini dalla sua tenuta di San Cerbone in Toscana avvertiva: “Ma quel che più merita di essere notato […] è la mancanza di principi direttivi, lincertezza nella quale gli educatori ondeggiano sopra un tenore ben ordinato e costante di condotta verso i fanciulli […]. Un naturale un poco ribelle, un caso straordinario li coglie alla sprovvista; […] e s’abbandonano a quel partito che un propizio, ma ceco, buon senso suggerisce loro; o a quello che consiglia loro l’insipienza, la noia, l’amor proprio ferito. L’indocilità invece della sottomissione, la scioperataggine e la mala grazia invece della  applicatezza e delle composte maniere. […] Cosicché si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.[2]

Al di là dello stile e del lessico pare scritto oggi, da questo punto di vista i social sono rivelatori. Prendo da un post di insegnanti a caso: “La riprovazione no, perché altrimenti ci sono i sensi di colpa e guai a sentirsi in colpa quando si sbaglia. E per  evitare i traumi, abbiamo smesso di educare, abbiamo avuto paura di educare, di dire no, di dire che quel comportamento non va bene, di dire che quella cosa non la puoi fare perché non è giusto farla. Abbiamo paura, non ne abbiamo voglia, la coerenza costa energia, fatica, impegno. […] Poi, quando succedono le tragedie, tutti ad interrogarsi, a fare la disamina del disagio psicologico giovanile, a dare la colpa alla malattia mentale.”

Ora il Ministro dell’Istruzione e del Merito decide che è giunto il momento, spinto dallo sgomento che l’assassinio di Giulia Cecchettin ha prodotto nel paese, di sperimentare nelle secondarie di secondo grado una nuova educazione: l’Educazione alle relazioni.
Alla notizia mi è venuto d’istinto pensare che una mela sana posta insieme a mele guaste finisce anche lei per marcire.

Semplicemente perché a scuola le relazioni sono malate e non è che si curano con interventi estemporanei rivolti agli studenti, semplicemente per il fatto che il problema di sapersi relazionare non è questione che riguarda solo i giovani, ma prima di tutto gli adulti a partire da quelli con cui i giovani trattengono rapporti ogni giorno a scuola. E se gli insegnanti sono quelli che scrivono post del tipo di quello sopra riportato non si fa che seminare in un terreno arido.

Quando il primo febbraio del 2023 una ragazza lascia un biglietto: “ho fallito negli studi” e si suicida, lo scalpore non è stato lo stesso che proviamo oggi per la sorte di Giulia e il tema della relazione a partire dalle aule scolastiche non ha sfiorato la mente di nessuno.
Anzi si è ciechi circa cosa può voler dire e può produrre per dei giovani adolescenti quel “Merito” che gli adulti di questo governo hanno voluto aggiungere all’Istruzione.

L’ha spiegato Albert Ellis con la sua RET, la terapia razionale-emotiva per liberarsi dei propri irrational beliefs, convinzioni rigide e irrazionali, come il bisogno dell’approvazione di chi si stima per sentire di valere, che occorre avere successo diversamente si è dei falliti, che la mancanza di rispetto degli altri e l’ostilità del mondo sono orribili e insopportabili.[3]

All’indomani del suicidio della ragazza del biglietto, un’altra ragazza scrive a la Repubblica: “La scuola italiana insegna che valiamo quanto un numero tracciato con la penna rossa. La scuola insegna la competizione, la demonizzazione di ogni sentimento. Se invece che darci un bonus da spendere ci regalaste professori che hanno una formazione, che amano quello che insegnano…”
Allora viene da pensare che il problema vero non sia nella relazione con gli altri, ma nella relazione con se stessi a partire dagli adulti.

Quando si oltrepassa il confine dell’inviolabilità della vita propria o  dell’altro ritengo che si entri in un territorio che va ben oltre l’educazione alle relazioni, all’affettività e alla sessualità.
Ma sono convinto che servirebbe una campagna a tappeto, come si è fatto con la pandemia da Covid, di vaccinazione con la la RET, per liberare adulti e giovani dai costrutti mentali che condizionano i nostri comportamenti.

Qui ritornano le parole con cui Freud chiude la sua lettera di risposta a Einstein che lo interroga sulla guerra: “La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nientaltro potrebbe produrre ununione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. […] Etriste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
“La dittatura della ragione”, ma la nostra scuola è uno dei mulini di Freud.

[1] L. Meylan, Educazione Umanistica, La Nuova Italia, Firenze, 1951
[2] R. Lambruschini, Della Educazione e della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
[3] A. Ellis, R.A. Harper, A guide to rational living, Wilshire Book Co, 1997, pp. 101-127




Maleducazione sentimentale

di Maurizio Parodi

Rispetto alla richiesta di un maggiore coinvolgimento delle scuole nella formazione anche “emotiva” di studentesse e studenti, molti dirigenti e docenti replicano, sovente indignati, che:
a) la scuola sta già facendo tutto ciò che si può fare, come del resto ha sempre fatto;
b) non spetta alla scuola occuparsi di problemi che non riguardino la didattica;
c) tocca alle famiglia educare i figli;
d) la scuola non può farsi carico di ogni, nuova emergenza sociale.

Trovo penosamente ridicolo ipotizzare l’introduzione di una nuova materia di studio da dedicare all’intelligenza emozionale, con l’inevitabile corollario burodidattico: più lezioni, più compiti, più verifiche…, e concordo pienamente sull’ultimo punto: basta sovraccaricare la scuola e gli studenti di “compiti” impropri.
Sono però convinto che la formazione integrale della persona rientri, invece, nei “compiti” propri della scuola, e non sono certo che a scuola sia sempre e da sempre dedicata la giusta attenzione alla persona, nella sua interezza – basterebbe chiedere agli studenti di un qualsiasi istituto quali siano i “sentimenti” che associa alla scuola e allo studio.

Quanto alla maggiore responsabilità delle famiglie in ordine alla maleducazione sentimentale degli studenti, va detto che non si può presumere o pretendere alcunché, dal momento che le scuole non possono scegliersi né gli studenti né le loro famiglie (e già sulla nozione di “famiglia” ci si dovrebbe interrogare), anche se è capito persino che un liceo vantasse l’assenza, tra gli studenti, di incresciose “diversità.

I genitori non devono possedere un titolo di studio per essere tali, non sono reclutati e retribuiti da un’istituzione pubblica, statale, pertanto può darsi “di tutto e di più” oppure il nulla: l’invadenza vs la latitanza, anche quando ci si impegni, doverosamente, per favorire la più ampia collaborazione – che non significa delegare alla famiglia i propri doveri didattico-educativi o invadere spazi di autonomia non sempre rispettati (talvolta, capita che si faccia l’una e l’altra cosa insieme).
Sono i professionisti dell’istruzione e dell’educazione che devono essere preparati, che devono impegnarsi anche per compensare, nei limiti del possibile, le carenze delle famiglie, soprattutto le più disastrate, o, quanto meno, non aggravare i danni già subiti proprio negli ambienti, anche domestici, dai quali provengano.
A ciascuno il suo!

 




Scuola bene comune, un libro che spiega perché la nostra scuola è malata e cosa fare per farla stare meglio

di Stefano Stefanel

È uscito da poco un libro di Aluisi Tosolini, dal titolo molto intelligente: “Scuola bene comune” (Edizioni EMI, Brescia 2023), che parla di scuola e sulla scuola. Che la scuola sia realmente un “bene comune”, come l’acqua, è cosa molto chiara all’Europa, ma molto meno chiara all’Italia, dove riforme raffazzonate e politiche incomprensibili hanno supportato gli interventi della politica, nel complesso tutti tesi a smontare quello che il compianto Luigi Berlinguer aveva costruito. Prevenendo e prevedendo la crisi sistematica dei sistemi dell’istruzione l’Europa ha avviato percorsi di analisi (i “libri bianchi” ed “Education at Glance”, il “periodico” annuale sulla scuola dell’OCSE), poi programmi ambiziosi (Lisbona 2010, EU 2020 e l’attuale Next Generation Eu da noi ribattezzato, chissà perché, PNRR), infine linee di progetto con ampi finanziamenti al seguito. In Italia la risposta è stata inizialmente ottima con la trasformazione della scuola italiana nell’ambito di un’autonomia di rango costituzionale per poi perdersi dentro riforme partitiche, settoriali, casuali. L’Europa ha fatto il suo percorso con una linearità e una consecuzione che Aluisi Tosolini ricostruisce mirabilmente, rimandando ad una serie di importanti documenti con grande precisione e attenzione. Se si segue la linea narrativa di Tosolini si può ricostruire con attenzione il quadro d’insieme che ha portato l’Italia dove è ora (cioè, nelle parti basse dei sistemi dell’istruzione dell’area Ocse). Ma si può anche comprendere come il sistema scolastico italiano, dentro i suoi quotidiani contorcimenti tra modalità ripetitive e ferrei diritti sindacali difficilmente potrà in tempi brevi uscire dalla crisi.

MA COS’E’ QUESTA CRISI

Lasciamo la parola a Tosolini: “il quadro complessivo segnala oggi un aumento significativo a livello mondiale della disuguaglianza in tutti gli ambiti e settori” (pag. 35). Questa disuguaglianza fa il paio con la drammatica ascesa delle povertà educative: “la correlazione tra povertà e povertà educativa è nota e conclamata” (pag. 44) e tutto questo porta ad una progressiva perdita di learning loss, ovvero “perdita di apprendimento” (pag. 45). Questo corto circuito sta avvelenando i sistemi dell’istruzione, a cominciare dai più fragili, cioè da quelli come il nostro. E tutti i soldi che vengono trasmessi oggi alle scuole, senza un quadro di riferimento chiaro, poco potranno fare. Ma come può esserci un quadro di riferimento chiaro, quando il percorso narrato da Tosolini è sconosciuto alla gran parte dei dirigenti e dei docenti italiani, ancora alle prese con le modalità didattiche ed educative sedimentatesi negli Anni Settanta del secolo scorso? Su questo Tosolini è molto chiaro e preciso: senza una comprensione chiara dello scenario digitale e globalizzato in cui è inserita la scuola si può poco o nulla. Tosolini rimanda agli obiettivi dell’OCSE e ne isola due: “la definizione di global competence e l’aggiornamento del concetto di competenza” e “la rivisitazione del concetto di apprendimento e ambiente di apprendimento” (pag. 89). È chiaro che, mentre l’OCSE modifica i suoi parametri, in Italia stiamo tornando ai dibattiti sui voti, sui contenuti, sulla didattica trasmissiva, sulle bocciature, siamo cioè ripiombati nell’altrove più lontano da quelli che sono gli elementi di progresso cognitivo, dentro il poderoso avanzamento della serrata difesa dell’insegnamento da qualunque attacco portato dalle obiettive necessità dell’apprendimento.

Interessante come Aluisi Tosolini analizza l’Obiettivo n° 4 dell’Agenda 2030: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Questo obiettivo, all’apparenza ovvio, contiene un elemento di grande profondità che modifica gli equilibri dei sistemi formativi. Nell’obiettivo si citano la qualità, l’equità, l’inclusività e le opportunità di apprendimento, ma non si parla di eguaglianza? Perché ci si domanda allora? E il libro di Tosolini fornisce il percorso per comprendere come rispondere a questa domanda: perché l’eguaglianza si costruisce dentro una cultura della pace, dentro uno sviluppo delle competenze, dentro un’equità che permetta a tutti di essere inclusi. Purtroppo, quindi, dentro un percorso lontano da quello che prevede il sistema dell’istruzione italiano, in cui all’eguaglianza dichiarata non corrisponde una vera equità di fatto: come si dice spesso, l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. Se la scuola è un bene comune che va rafforzato ecco che allora è necessario riprendere in mano le modalità di costruzione dell’apprendimento: “vanno incoraggiate condizioni di autonomia, flessibilità e agire collaborativo”, cioè quegli elementi che le classi di concorso, i rigidi orari, le valutazioni docimologiche, il rapporto irrisolto col sapere informale e non  formale condizionano in maniera decisiva in ogni serio tentativo di far uscire il sistema scolastico italiano dalle secche delle sua difficoltà. E infatti Aluisi Tosolini ci riporta alla necessità di “rispondere alla crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza” (pag. 73) e quindi non verso una generica eguaglianza dichiarata da tutti e praticata da pochi, con richiami costanti a don Milani di maniera e non di contenuto, ma dentro un sistema equo e riflessivo, più professionale (pag. 72: “l’insegnamento deve essere ulteriormente professionalizzato”).

L’EDUCAZIONE TRASFORMATIVA

Un passaggio essenziale del bel libro di Tosolini è quello che richiama la necessità e l’importanza di ragionare in termini di “educazione trasformativa” (pag. 77), cioè di un sapere sempre in movimento dentro i due grandi elementi della nostra contemporaneità, che Tosolini affronta in due appositi capitoli: il digitale e la pace. Se non comprendiamo che quella del digitale è una sfida ineludibile e quella della pace una cultura che va costruita, ci limiteremo a sperare che improvvisamente gli smartphone spariscano dalla scuola e a constatare che la pace è solo una bandiera colorata da sventolare alle manifestazioni. In realtà il percorso trasformativo della conoscenza passa attraverso la trasformazione di un sapere statico ed autoreferenziale in un sapere trasformativo che può cambiare le cose.  Troppo puntuale per essere eludibile il libro di Tosolini ci aiuta a capire che cosa è successo con una mole documentale che dovrebbe diventare patrimonio comune per farci costruisce quella “scuola bene comune” che poggia su solide fondamenta e che non affonda, invece, nella melma di un dibattito pubblico veramente avvilente.

 




I programmi del ’45 – Le indicazione metodologiche

di Franca Da Re 

Clicca qui per leggere la prima parte di questo saggio

Le indicazioni metodologiche nei programmi della scuola elementare del 1945[1]

Nella Premessa dei Programmi, oltre alle finalità connesse alla formazione del cittadino nel nuovo Stato democratico, si insiste molto sulla necessità di mantenere unità nell’insegnamento, superando la partizione tra materie. Si raccomanda di valorizzare il lavoro di gruppo, la collaborazione tra scolari, l’apprendimento basato sull’esperienza, lo sviluppo delle capacità di autogoverno dei ragazzi, che comprende anche la possibilità che essi partecipino alla definizione delle attività da realizzare.

Non si prescrive ai maestri alcun metodo particolare; essi saranno liberi di utilizzare le tecniche e le strategie che più riterranno opportune, a patto di raggiungere le finalità educative prefissate. Al maestro si raccomanda di “intendere l’intima connessione esistente tra i problemi della cultura e quelli del lavoro”.

I Programmi determinano le materie di insegnamento: 1) Religione; 2) Educazione morale, civile e fisica; 3) Lavoro; 4) Lingua italiana; 5) Storia e geografia; 6) Aritmetica e geometria; 7) Scienze e igiene; 8) Disegno e bella scrittura; 9) Canto.
Non fissano, però un orario delle lezioni predeterminato, richiamandosi proprio all’unità di insegnamento, pur raccomandando ai maestri di formulare un accurato piano di lavoro:

“L’unità dell’insegnamento, che sta alla base di questi programmi e la necessità, da parte dell’insegnante, di svolgere la sua opera in rapporto alle reali condizioni della scolaresca e alle esigenze locali, non hanno consigliato la formulazione di un orario ufficiale delle lezioni. Ciò non toglie che l’insegnante debba seguire un piano di lavoro e formulare un orario settimanale e giornaliero delle lezioni stesse. Nella preparazione di tale piano, e sopratutto nelle inevitabili varianti suggerite dalle circostanze, gli alunni potranno esercitare il diritto d’iniziativa, che consiste nella libertà di proporre al maestro lo svolgimento di particolari argomenti o attività in rapporto a loro reali e sentite esigenze. Così ad esempio un gruppo di alunni potrà prospettare il desiderio di svolgere una determinata attività manuale o di organizzare una data ricerca, provocando in tal modo la revisione del piano di lavoro. (…)

Per quanto concerne le votazioni, l’Educazione morale, civile e fisica comprende anche la condotta. Non si assegnano voti di Lavoro, Storia e geografia, Scienze e igiene, Canto nelle prime due classi.”

Per quanto riguarda la Religione, ricordiamo che il carattere originariamente interconfessionale e laico del testo, più orientato all’educazione religiosa previsto dalla Commissione Alleata, fu rimaneggiato su pressione dei cattolici presenti nel Governo provvisorio. Il testo definitivo, pertanto, è ricondotto pienamente nell’alveo della confessione cattolica. I contenuti si riferiscono alle Scritture, alle preghiere più comuni, alla vita di Gesù e dei Santi, ai Sacramenti e alle Opere di misericordia, alle principali feste religiose e alle tradizioni agiografiche locali. Tuttavia, si raccomanda che:

“Nulla di pesante turbi la spiegazione delle parti dogmatiche del programma. La norma religiosa derivi da una spontanea adesione dello spirito ai principi del Vangelo e dall’evidenza dei rapporti fra tali principi e la legge morale e civile. L’insegnante può trarre argomento di educazione religiosa anche dalle altre materie del programma. Apposite figurazioni e soprattutto riproduzioni di capolavori d’arte sacra, possono giovare all’efficacia di questo insegnamento.”

Dell’educazione morale, civile e fisica si era detto in un precedente contributo.

A proposito della disciplina Lavoro, esso è distinto in tre tipologie: lavoro artigiano, lavoro agricolo, lavoro femminile. La finalità della disciplina è straordinariamente coerente con le previsioni che la nuova Costituzione conterrà a proposito del lavoro. Si afferma che è necessario che le nuove generazioni riconoscano nel lavoro la principale risorsa per l’economia e il mezzo più efficace per la rinascita nazionale. Solo con il lavoro, si dice, si possono stabilire saldi e pacifici rapporti di collaborazione tra i popoli. I lavori proposti ai ragazzi dovrebbero sempre rivestire carattere di utilità. I piccoli lavori di artigianato dovrebbero vertere su semplici sussidi, manufatti a supporto delle materie di studio, arnesi per il lavoro in classe. Il lavoro deve avere sempre valenza educativa: educare l’occhio, la mano, il gusto, l’immaginazione e nello stesso tempo la tensione a fare da sé. Nel lavoro, si dice, confluiscono tutti gli insegnamenti, specialmente quello del disegno, che permette l’ideazione e la progettazione di manufatti precisi. Quando il lavoro lo consente, si incoraggi la costituzione di cooperative tra ragazzi che attuino semplici forme di lavoro collettivo per squadre o per serie progressive. Il lavoro agricolo potrà essere attuato negli appezzamenti di terreno nelle pertinenze delle scuole e potrà essere di supporto anche allo studio delle scienze. La realizzazione di semplici esperimenti agricoli potrà aiutare i futuri piccoli coltivatori ad affrontare il lavoro su un piano più tecnico e razionale. Si potranno anche effettuare visite alle aziende agricole.

Il lavoro femminile dovrà contribuire alla formazione della donna, non solo per l’utilità alla vita domestica, ma anche per la sua funzione rasserenatrice, poiché, si dice, i lavori di cucito, di maglieria, di ricamo, inducono alla calma e richiedono cura e attenzione. La maestra non disdegni il rattoppo e il rammendo, utili all’economia domestica e tenga conto che principalmente alla donna è affidata l’economia della casa. Si evitino, comunque, le mostre dei lavori degli alunni. I manufatti dovranno avere utilità pratica e potranno essere destinati anche a scopi di assistenza sociale.

Con riferimento alla lingua italiana, si raccomanda di dare impulso all’apprendimento della lingua attraverso la lettura e la scrittura. Per l’apprendimento della lettoscrittura non viene prescritto un particolare metodo, ma si raccomanda di tenere sempre sotto controllo il progredire di tutti gli alunni, anche con l’organizzazione di gruppi omogenei, ma senza pretendere di livellare la classe.

Il primo periodo di scolarizzazione sia dedicato alla familiarizzazione con l’ambiente attraverso il disegno, giochi, canti, conversazioni. Le letture e le conversazioni serviranno anche ad introdurre il lavoro sulla lingua. Nel progredire del lavoro, si sconsiglia il dettato ortografico e la correzione collettiva. Il brano da scrivere sarà scelto possibilmente dall’alunno e avrà significato logico. La correzione dovrà privilegiare lo sforzo dell’alunno stesso a trovare l’errore e ad autocorreggerlo. La conversazione ordinata e corretta dovrà essere incoraggiata in tutte le classi, perché il tempo ad esso dedicato “è utilmente impiegato”. Si incoraggi la lettura e si dia molta cura alla biblioteca scolastica, con libri adatti all’età e buoni giornalini. Il prestito dei libri anche a casa, sia dato senza restrizioni, perché “è meglio vedere libri che per l’uso si sono sgualciti, piuttosto che una bella collana di volumetti immacolati e intonsi.” Il maestro dia esempio di buona lettura e abbia cura di educare all’espressività, correggendo false cadenze, enfasi, monotonia, sciatteria. La lettura e la scrittura serviranno anche allo sviluppo delle conoscenze grammaticali e sintattiche. Si raccomanda di non trattare la grammatica con apprendimenti mnemonici di classificazioni e con esercizi privi di significato, ma di reperire dal testo le corrette forme e di riflettere su di esso per evidenziare le strutture della frase e le parti del discorso. La composizione dovrebbe sempre avere senso e significato: una lettera familiare o di affari, una domanda di impiego, una relazione, telegrammi o fonogrammi, tutti scritti con chiarezza e precisione. Dal punto di vista dell’educazione sociale, sarà utile incoraggiare gli alunni a curare da soli la redazione e pubblicazione di un giornalino.

Per quanto riguarda la storia e la geografia, il testo dei programmi è chiaro nell’esplicitarne la finalità.

“La necessità di un’intima connessione tra l’insegnamento della storia e quello della geografia deriva, più che da un semplice e ormai riconosciuto legame di interdipendenza delle due discipline, da una loro profonda concomitanza di fini in rapporto alla vita civile e sociale. Infatti sia la storia che la geografia – quando la prima non si risolva in una cronologia di guerra e di vicende dinastiche, e la seconda in un’arida nomenclatura – mirano a seguire e a spiegare il cammino della civiltà, considerando la terra come la sede dell’uomo. Ne consegue che il maestro dovrà costantemente esaminare i fatti storici nella loro intima connessione con quelli geografici, illustrando al fanciullo, sia pure in forma intuitiva elementarissima, i rapporti del mondo umano con quello naturale. Riuscirà tuttavia vano ogni sforzo per liberare l’insegnamento della storia dal suo groviglio di guerre e di tirannie, di rivalità dinastiche e di sterili combinazioni politiche, se non supereremo, una volta per sempre, la passione nazionalistica che nel recente passato riuscì a sviare anche la geografia dall’obiettiva valutazione delle forze economiche mondiali con la concezione delle utopie autarchiche. L’insegnamento della storia e della geografia dovrà finalmente diventare un insegnamento morale dopo la tragica esperienza sofferta dall’umanità. (…)

È evidente che i motivi programmatici indicati vogliono anche essere un invito rivolto al maestro di rinnovare la propria preparazione storico-geografica nel senso sopra esposto, condizione necessaria questa perché’ l’insegnamento risulti attraente, vivo e veramente efficace per l’educazione morale e civile. Il maestro intelligente saprà, inoltre, fare uso di tutti quei sussidi che contribuiscono alla concretezza di tale insegnamento, come cartine storiche, carte geografiche e topografiche, plastici, illustrazioni e letture scelte, poesie di contenuto storico, visite a monumenti e musei, escursioni d’interesse storico-geografico, osservazione di oggetti caratteristici del passato, corrispondenza interscolastica, esame e valutazione dei fenomeni naturali in rapporto all’economia locale, ecc. Per la geografia, in particolare, si raccomanda l’uso costante della carta geografica, che l’alunno dovrà saper leggere con sicurezza. Ed è inutile aggiungere che anche per questi insegnamenti occorre far leva sull’iniziativa, la spontanea volontà di ricerca e di studio degli scolari.”

 Anche per quanto concerne l’Aritmetica e la Geometria, i Programmi sono attenti all’ aderenza della disciplina all’esperienza concreta e allo sviluppo dell’autonoma capacità di analisi e ragionamento dell’alunno. La matematica, pur con l’attenzione al rigore concettuale e metodologico, è vista come disciplina necessaria alla vita e alla soluzione di problemi e le sue strutture dovrebbero essere acquisite proprio a partire dalle situazioni e dai problemi stessi.

L’insegnamento dell’aritmetica e della geometria, principalmente nelle prime classi, deve tener nel dovuto conto le immagini e le intuizioni di grandezza, di numero, di forma e di distanza che animano e arricchiscono il mondo in cui il bambino si va formando. Contare le cose a giudicarle quantitativamente, rilevare linee e figure è per il bambino esercizio gradito, dal quale deve partire e a cui deve continuamente riferirsi il lavoro di scoperta che egli compie in collaborazione con il maestro e i condiscepoli, in forma libera e autonoma, nuova, varia, attuale, più conversando che scrivendo. Negli esercizi di calcolo, nello studio del sistema metrico, delle frazioni, della geometria, nell’acquisto delle cognizioni di computisteria, nella formazione e risoluzione dei problemi, è necessario che il maestro valorizzi al massimo le possibilità intuitive degli alunni.

(…) Così, ad esempio, le idee di spesa, ricavato, guadagno e dei rapporti relativi a quelle riguardanti l’entità di un lavoro, il numero delle persone ad esso adibite, il tempo necessario all’esecuzione e i rapporti tra tali dati, ben determinate che siano, costituiranno il mezzo sicuro per la risoluzione di ogni questione affine. Nella formulazione di problemi ed esercizi, lavoro da farsi anche questo possibilmente dagli scolari, gioverà utilizzare, correggendole se del caso, le conoscenze che i fanciulli hanno sui prezzi delle cose, sulle tariffe di trasporto, sui salari, sugli stipendi, sui compensi della mano d’opera, ecc., perché’ possa, anche così, stabilirsi una piena aderenza tra la scuola e la vita. Ciò che più importa, nella pratica dell’aritmetica, è di farne intuire il valore sociale, mettendo l’alunno in condizione di vivere reali situazioni di carattere economico, affinché’ possa padroneggiarle. Particolarmente indicate, per questo, sono le forme di cooperativismo scolastico.  Si avrà cura che l’enunciato dei problemi e degli esercizi sia chiaro, per evitare deviazioni ed errori nella risoluzione. Ogni problema venga prima risolto per intero mediante un processo atto a rivelare e formare le possibilità ragionative dello scolaro, il quale soltanto in un secondo momento passerà all’esecuzione delle operazioni. In ogni caso gli alunni saranno condotti a controllare le loro risposte, mediante tipi di domande logiche e progressive, che li inducano alla riflessione sulle soluzioni proposte. Solo così essi riusciranno a costruirsi un sistema coerente, a raggiungere cioè una tecnica aritmetica personale, nei limiti della loro esperienza. Per gli esercizi di numerazione e di calcolo intuitivo nelle prime classi, il buon senso ha ormai condannato il vecchio pallottoliere, come tipica espressione dei sussidi didattici preformati e usati fino alla noia, con scadimento di qualsiasi interesse. Il vario, il nuovo, l’occasionale e tutti i mezzi sussidiari che rispondono a questi requisiti saranno meglio indicati per i predetti esercizi, che possono pure giovarsi dei giochi, del disegno e del lavoro. Anche l’insegnamento del sistema metrico deve essere liberato dai formalismi del passato e dal peso degli interminabili esercizi scritti di riduzione. Oralmente, e sempre per le vie delle misurazioni pratiche, del giudizio e del ragionamento, si riuscirà meglio e più presto a chiarire i concetti di valore ed entità di ciascuna misura e dei rapporti corrispondenti.”

Particolarmente interessante, per contestualizzare la scuola nell’epoca, è il richiamo all’importanza della computisteria e alla tenuta di scritture contabili.

Scienze ed Igiene sono insegnamenti che particolarmente si prestano agli orientamenti dei programmi diretti alla valorizzazione dell’esperienza, all’apprendimento per scoperta e per ricerca e all’acquisizione del metodo scientifico e della capacità di pensare razionalmente, basandosi su dati.

“L’esercizio continuato all’osservazione attenta e alla riflessione, alle prove e agli esperimenti, induce ad essere cauti nelle ipotesi, prudenti nelle affermazioni, equilibrati nel giudizio, a ricercare con pazienza le cause dei fenomeni, a dedurre gli effetti, eliminando quelle forme di superficialità, leggerezza e faciloneria proprie non soltanto dell’età infantile. Occorre quindi che questo insegnamento non si riduca alle consuete classificazioni, alla enunciazione di leggi e di definizioni proprie di altre età e di gradi superiori di studio. Non ha importanza che il fanciullo sappia ripetere meccanicamente determinate nozioni; l’essenziale è che egli vi pervenga attraverso uno sforzo e un contributo personale di ricerca, stimolato da un desiderio di sapere e di ordinare meglio e chiarire le proprie intuizioni.”

Soprattutto dalla classe terza, l’insegnamento si baserà su esperimenti, ricerche, osservazioni sistematiche, escursioni, tenuta di quaderni di campagna, raccolta e classificazione di reperti. Anche per le scienze, si richiama l’importanza delle esperienze di lavori agrari, attraverso le visite alle fattorie e la tenuta dell’orto scolastico.

Molta attenzione è dedicata alle norme di igiene personale e all’educazione a stili di vita sani. Particolare attenzione si riserva alla riflessione sull’igiene e la sicurezza sul lavoro e quindi alla prevenzione di infortuni durante le attività di movimento e di lavoro. Il maestro curerà anche l’esplorazione degli ambienti, proprio alla ricerca di possibili fonti di pericolo e relativi comportamenti di prevenzione. Particolarmente interessante l’indicazione di tenere un quaderno della salute dove gli alunni potranno realizzare questionari e annotare le osservazioni relative all’esplorazione degli ambienti. Infine, i Programmi richiamano all’importanza di sviluppare negli alunni il metodo scientifico e della ricerca.

A Disegno e bella scrittura è riservata un’attenzione non meno importante che agli altri insegnamenti. Si raccomanda ai maestri di curare particolarmente la precisione, accuratezza, chiarezza della scrittura. Attraverso l’esercizio della calligrafia, si eserciteranno anche l’autocontrollo, l’ordine, la pulizia, il senso estetico.

Il disegno partirà nei primi anni dall’espressione libera, via via affinata nella cura delle forme e dei colori, per passare poi al disegno dal vero su soggetti scelti dallo scolaro. Il maestro affinerà le espressioni artistiche dei ragazzi insegnando a correggere le storture, ad usare la prospettiva, come ottenere scorci, gamme di scolori realizzare figure in movimento… Non ci saranno lezioni formali, ma sarà la stessa opera degli alunni la fonte dei progressivi insegnamenti. Il disegno sarà di supporto ai diversi insegnamenti, dalle raffigurazioni utili in storia, ai disegni per le scienze, alla redazione di carte in geografia, di schemi e rappresentazioni di quantità in matematica, al disegno tecnico nel lavoro.

Il Canto, come libera espressione del bambino, sarà progressivamente educato attraverso il canto corale, fino a diventare espressione artistica. Il canto corale verrà esercitato con la riproduzione di canti tradizionali, religiosi, patriottici e di opere dei grandi musicisti. Il canto “educa il sentimento sociale, affratellando gli animi attraverso una forma collettiva d’espressione artistica.”

Particolarmente interessante è l’Allegato B ai Programmi, che detta prescrizioni su come dovrebbero essere organizzati i libri di lettura e i sussidiari.
Anche in questo caso, il richiamo è sempre a realizzare opere accattivanti nei colori e nelle immagini, ad evitare aride classificazioni e invece privilegiare buoni brani di lettura, scritti in buona lingua e che stimolino la riflessione, contribuendo all’educazione morale e civile.

“I sussidiari, quindi, allontanandosi dai sistemi prevalenti del passato, dovranno offrire larga copia di spunti all’iniziativa dello scolaro, di stimoli al suo lavoro di ricerca e problemi pratici perle esercitazioni individuali e per gruppi, a scuola e più ancora a casa. L’ordine e la gradazione con cui onesti motivi, esercizi, quesiti e problemi saranno presentati nel volume, corrisponderà logicamente alla progressione delle relative conoscenze e abilità pratiche. Alle regole e alle definizioni il fanciullo dovrà naturalmente pervenire, attraverso un processo personale e con l’aiuto dell’insegnante, per un bisogno di chiarificazione e di sistemazione del sapere. È inutile aggiungere che, come le singole materie non debbono procedere isolate nell’insegnamento, così nei sussidiari la trattazione esercitativa di ogni singola disciplina deve richiamarsi alle cognizioni relative alle altre. “

In conclusione, pur dovendoli contestualizzare nel periodo, i Programmi del 1945 raccolgono le più avanzate istanze pedagogiche che anche nei decenni successivi animeranno i dibattiti nelle comunità professionali.
I successivi Programmi del 1955 rappresenteranno, a parere di chi scrive, un ritorno indietro rispetto all’idea di alunno, di apprendimento, di metodologia. Soprattutto su pressione delle istanze cattoliche, l’insegnamento religioso viene considerato come   fondamento   e coronamento di tutta l’opera educativa. Scompariranno le tensioni all’apprendimento cooperativo, all’autogoverno, l’imparare facendo si mantiene presente, ma molto sfumato. L’attenzione viene riportata prevalentemente all’individualità del fanciullo, sfumando notevolmente i richiami alla funzione della scuola per la formazione del cittadino alla vita democratica, così presente nei Programmi del 1945.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario

 

 




Ma la maieutica funziona ancora?

di Giovanni Fioravanti

Leggo su Education Week l’articolo di un ricercatore, direttore degli studi sulle politiche educative presso l’American Enterprise Institute. Un articolo dedicato alla riscoperta del metodo socratico, che evidentemente pare essere stato dimenticato dalle scuole americane. Possibile che altrettanto valga per quelle italiane, non dispongo di dati in merito, sempre che si praticasse.

Quando studiavo pedagogia alle magistrali la maieutica socratica andava forte, cioè, ci spiegavano, l’arte della levatrice, quella di fare nascere il sapere dal di dentro dell’alunno, del resto l’etimologia di educazione, l’insegnante ricordava, è ex ducere, cioè condurre fuori. Le implicazioni poi di questo modo di concepire il sapere e l’insegnamento si perdevano nella nebbia del nozionismo scolastico.

Insomma, l’idea che il sapere per essere estratto, o meglio, per essere portato a galla, dovesse essere in qualche modo già posseduto, non era oggetto né di riflessioni né di approfondimenti.
D’altra parte il Socrate che noi si studia è quello che ci ha raccontato Platone col suo iperuranio, le anime che cadono per via dei cavalli imbizzarriti e la conseguente metempsicosi.

Non è che poi ti facevano leggere il Menone, sostanzialmente la dimostrazione pratica di come Socrate metteva in atto attraverso l’arte del dialogo, domanda e risposta, la sua maieutica.
Menone, schiavo illetterato, sollecitato dalle domande del filosofo, giunge a risolvere complessi problemi di geometria. Chi l’ha letto ricorderà che Socrate pone al giovane schiavo un quesito: “Se io ti disegnassi un quadrato, sapresti trovarmi un quadrato dall’area esattamente doppia del primo?” Menone, che nulla sa di geometria, d’istinto risponde: ”Il quadrato con l’area doppia lo ottengo creandone uno nuovo che abbia per lato il doppio del lato del primo quadrato”.
La risposta è sbagliata, ma lo schiavo riflettendo, sollecitato dalle domande del maestro, giunge a dare  quella corretta.
Il dialogo, dunque, è l’esplicazione di come funziona la maieutica socratica. Potremmo dire che Socrate è stato il precursore di ciò che noi oggi chiamiamo problem solving.
Fra parentesi, per coloro che non avessero letto il Menone e fossero curiosi di conoscere la soluzione del problema posto da Socrate, consiglio di disegnare un quadrato e di tracciare le due diagonali, a questo punto la risposta dovrebbe essere intuitiva.

Abbiamo pagine di psicologia e di pedagogia che avrebbero dovuto facilitare la familiarizzazione della didattica con le tecniche del problem solving, rendere naturale il dialogo tra docente e studenti, il saper porre le domande da parte dell’insegnante e il saper ricercare le risposte a sua volta da parte dello studente senza il timore di sbagliare.

La vivacità dialettica non mi sembra un connotato delle nostre classi. Se vogliamo anche per comprensibili ragioni pratiche, come fai a gestire una didattica del dialogo con una classe di venticinque alunni, meno consistenti sono le osservazioni che così facendo non porteresti a termine il programma.
Meglio teste ben fatte, per dirla con Morin, che teste infarcite come uova.

Ma la questione è di grande attualità, la formazione al problem solving, la richiede per primo il mercato del lavoro, ma a prescindere da questo, e per evitare critiche di aziendalismo, pensiamo per davvero di poter formare e crescere generazioni di giovani che non abbiano familiarità e confidenza con la problematizzazione della realtà?  Con l’abitudine a ricercare le risposte, accedere alle banche dati, alle fonti del sapere che possono fornire gli strumenti per confezionare le risposte stesse?
Qualcuno ha parlato, ci ha scritto pure, di risveglio della classe creativa, ma è inconcepibile che ci sia ancora chi pensi che il progresso nel sapere, nella conoscenza, nella ricerca scientifica non richieda di sviluppare forti capacità creative, intelligenze capaci di pensare la realtà oltre la realtà stessa, di interrogarla e formulare ipotesi.

Le televisioni commerciali con la creatività ci fanno i soldi. I giovani devono capire ed essere attrezzati a fare della creatività il loro futuro e non soggiogare le loro menti ai prodotti più deteriori della commercializzazione della creatività umana.
La ricerca scientifica consiste nel risolvere problemi, la vita è costituita da problemi da risolvere e, quindi, apprendere a risolvere problemi significa apprendere a vivere, scriveva Karl Popper, come già più di un secolo fa John Dewey teorizzava la didattica per problemi, per non parlare di quello che è venuto dopo nel campo della ricerca. Ma noi abbiamo fatto la scuola dello spirito, la scuola dell’umanesimo dimenticando di allenare e tenere esercitate le menti dei nostri giovani, troppo faticoso.

E qui viene il dunque, che per praticare la maieutica, il problem solving non solo bisognerebbe organizzarsi in maniera differente da come sono strutturate le nostre scuole, e questo è già un problema, perché menti che lavorano hanno bisogno di laboratori, ma bisogna anche essere competenti, essere preparati.

Se non si è mai fatto, nessuno te l’ha insegnato come fai ad averlo imparato.
Forse è questa la ragione vera per cui nelle scuole americane la maieutica non ha radicato, come del resto nelle scuole di casa nostra, la maieutica moderna intendo, il problem solving, quello dell’insight alla Wertheimer.
Noi al massimo pratichiamo la maieutica del fai da te come canta in Spazio Tempo Francesco Gabbani.

La didattica della nostra scuola è ancora quella delle risposte, le risposte da apprendere dalla voce dell’insegnante, dalle pagine dei libri di testo, le risposte da riferire nelle interrogazioni, da esercitare con i compiti, da verificare con i  test, con le prove oggettive a risposta multipla. Ma formulare le domande giuste per interrogarsi e ricercare è tutta un’altra storia.

E allora il metodo socratico diventa complicato, difficile da applicare bene. Il metodo socratico, osserva l’autore dell’articolo a cui facevo riferimento all’inizio, richiede che un insegnante abbia una profonda conoscenza dell’argomento specifico, una biblioteca di analogie rilevanti, una padronanza delle strade che il dialogo può prendere e la capacità di interpretare l’avvocato del diavolo.
Fare tutto questo bene richiede tempo e pratica, entrambi elementi che scarseggiano per gli insegnanti che corrono per portare a termine il programma, anche questo vecchio retaggio gentiliano.
Pertanto il problema più grosso che ha la nostra scuola e il suo futuro è quale profilo docente sia necessario progettare. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui lo sviluppo professionale, se adeguatamente disegnato può fare una grande differenza.

Oggi, naturalmente, alla faccia della maieutica socratica e della sua versione più moderna, quasi nessun insegnante ha ricevuto nemmeno un briciolo di tale formazione.




I programmi del ’45: 80 anni (o quasi) ma sono modernissimi!

di Franca Da Re

Il 24 maggio 1945, con decreto n. 459 del Luogotenente del Regno, Umberto II di Savoia, furono emanati i primi Programmi per le scuole elementari e materne successivi all’era fascista e alla guerra. L’Italia non era ancora una Repubblica e non aveva una Costituzione democratica, tuttavia il Governo Provvisorio di allora, insediatosi dopo la liberazione di Roma, formato da tutte le componenti del CLN e presieduto da Bonomi, con Ministro dell’Istruzione il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, emanò, insieme a molti altri importanti provvedimenti, i nuovi Programmi per la scuola elementare e materna[1].

Tali programmi erano stati redatti con la collaborazione del Comando Alleato e infatti la Commissione incaricata era diretta dal colonnello Carlton Washburne, eminente pedagogista allievo di John Dewey e ideatore dell’esperimento pedagogico condotto a partire dagli anni ’20 nelle scuole di Winnetka, un sobborgo di Chicago dove egli era Sovrintendente.

Nella Commissione lavorarono anche pedagogisti italiani, tra i quali Gino Ferretti. La Commissione Alleata aveva già operato nei territori del Sud liberati allo scopo di defascistizzare la scuola e le sue pratiche e i libri di testo.

L’impostazione generale dei Programmi è ispirata ai principi dell’attivismo pedagogico e attenta all’educazione civile, allo scopo di educare alla democrazia i giovani cittadini nel nuovo Stato. La Commissione aveva licenziato un testo dove l’educazione civile era preminente rispetto all’educazione religiosa che aveva peraltro una valenza pluriconfessionale, ma l’opposizione dei cattolici determinò un testo definitivo di compromesso dove l’educazione religiosa rientrava nell’alveo cattolico e dove anche gli indirizzi metodologici assunsero un carattere più moderato.

Ciò nonostante, il testo dei Programmi del 1945 ci restituisce passaggi di una impressionante attualità, con suggestioni che possono validamente orientare anche anche oggi le pratiche didattiche nelle nostre scuole.

In questo primo contributo esamineremo la Premessa e la parte dedicata all’Educazione morale e civile, ricavandone i suggerimenti utili per l’attualità.

In un contributo successivo riserveremo attenzione alle indicazioni metodologiche nei diversi insegnamenti e alle indicazioni per la redazione dei libri di testo, contenute in uno degli Allegati al Decreto luogotenenziale.

La Premessa e le finalità della scuola

“I programmi che seguono sono sorti dalla necessità, vivamente sentita, di mettere la scuola elementare italiana nelle condizioni più favorevoli perché possa contribuire alla rinascita della vita nazionale, assumendo la sua parte di responsabilità nell’educazione della fanciullezza. Condizione essenziale di tale rinascita è la formazione di una coscienza operante, che associ finalmente le forze della cultura a quelle del lavoro in modo che la cultura non si risolva in sterile apprendimento di nozioni e il lavoro non sia soltanto inconsapevole espressione di forza fisica. (…)
La scuola elementare, pertanto, non dovrà limitarsi a combattere solo l’analfabetismo strumentale, mentre assai più pernicioso è l’analfabetismo spirituale che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica, empirismo nel campo del lavoro, insensibilità verso i problemi sociali in genere. Essa ha il compito di combattere anche questa grave forma d’ignoranza, educando nel fanciullo, l’uomo e il cittadino.”

Dopo avere auspicato che nella scuola elementare si instaurino sentimenti di viva fraternità umana che superino “l’angusto limite dei nazionalismi” e si concretizzino in serena volontà “di lavorare e di servire il Paese con onestà di propositi”, la Premessa ricorda che tali finalità trovano riferimento in tutte le discipline insegnate, in particolare nella religione, nell’educazione morale, civile e fisica, nella storia e geografia. Il successivo passaggio è particolarmente interessante e attuale, poiché tratta l’unitarietà dell’insegnamento e la necessità di superare la partizione delle materie.

“È da rilevare che con l’educazione morale e civile si mira, più che a una precettistica di vecchia maniera, alla formazione del carattere, con un avveduto esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno. A tal fine è premessa indispensabile l’unità d’insegnamento. La stessa costituzione delle singole materie è sorta da questa esigenza unitaria e dalla critica all’indirizzo dispersivo delle precedenti partizioni, che favorivano un insegnamento frammentario e slegato. Così l’educazione morale e civile, ricostituita come disciplina vera e propria, attira nella sua orbita, non senza significato, la educazione fisica; il lavoro assume valore di attività  sociale; l’insegnamento della lingua italiana si ricostituisce in logica unità; la storia e la geografia si svolgono su di un piano di più concreti rapporti tra l’ambiente e l’uomo; le scienze richiamano nel loro preciso ambito i capitoli dispersi qua e là nelle nozioni varie, che erano l’espressione più patente della trita cultura elementare. Queste materie non debbono essere considerate distinte l’una dall’altra; esse costituiscono un tutto unitario e armonico che si fonde nella coscienza dell’alunno.”

Non solo in questo passaggio si richiama alla necessità di impartire un insegnamento che veda l’integrazione delle diverse discipline per l’analisi della realtà, ma si rammenta anche che ogni insegnamento contribuisce all’educazione morale e civile e tutti insieme contribuiscono alla formazione della persona e del cittadino. L’integrazione dei punti divista disciplinari nell’analisi della realtà fornisce evidentemente gli strumenti perché il giovane sviluppi la capacità di “esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno”.

Tali esortazioni sono tanto attuali quanto scarsamente praticate: la frammentazione disciplinare, solitamente appannaggio della scuola secondaria, sta rapidamente contagiando anche la scuola primaria; gli insegnamenti molto spesso riguardano i contenuti, le teorie, talvolta, non sempre, i metodi, ma non sempre viene evidenziato l’aspetto civico che ogni sapere contiene, ovvero la responsabilità che ciascuno di noi ha nell’utilizzare i saperi per il bene comune e non contro di esso. Autonomia e responsabilità nell’agire conoscenze, abilità, capacità personali e metodologiche sono ciò che caratterizza l’agire della persona competente. Per questo sono necessari spirito critico, capacità di gestire pensiero complesso e tensione etica. Aiutare gli alunni a sviluppare tali dimensioni è ciò che connota educativamente l’insegnamento, distinguendolo dall’addestramento.

La Premessa si occupa anche del profilo del maestro:
“Per l’attuazione di questo piano educativo, che mira soprattutto a preparare il fanciullo alla vita civile, non è quindi sufficiente all’insegnante la sola cultura umanistica, su cui si è fatto finora quasi esclusivo assegnamento per la sua preparazione professionale. Necessita all’educatore un alto senso di responsabilità sociale che l’induca, nella scuola e fuori, ad essere maestro di vita, esempio di probità in ogni sua manifestazione. Solo così egli potrà intendere l’invito, che gli viene da questi programmi, di considerare l’insegnamento come una missione di civiltà. Avrà pure bisogno -sia detto ben chiaro – di una tecnica educativa, cioè di un metodo didattico che dovrà sempre perfezionare, sia meditando sul proprio insegnamento e sui risultati ottenuti, sia partecipando con attivo interesse al movimento pedagogico italiano e straniero.”

L’educazione morale, civile e fisica

“È noto che i soli precetti, le conversazioni e le letture non bastano a formare la volontà morale, perché se possono indicare lavia migliore da seguire, restano pur sempre nel campo dell’astrazione. Ha somma importanza, invece, l’esercizio costante e illuminato della azione, guidata dall’esempio vivente del maestro.
La scuola, ordinata secondo il sistema razionale della libertà disciplinata, deve svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco (…)”

Per lo sviluppo dell’educazione morale e civile è quindi necessario che gli alunni siano attivamente coinvolti nell’attività della scuola, che possano partecipare alla definizione delle attività da affrontare, nella formazione delle decisioni, anche attraverso forse di referendum e di votazione.

Gli alunni dovranno assumersi responsabilità nella gestione della classe e della scuola attraverso lavori di pulizia, di riordino, di piccola manutenzione, di gestione quotidiana e discuterne collettivamente regole e modalità. Il maestro avrà il compito di incoraggiare la discussione e di orientarla. Così l’alunno potrà affinare il senso del giusto e dell’ingiusto e svilupperà senso etico e si renderà “sensibile al valore delle proprie azioni, viste nel quadro degli interessi generali del suo gruppo”. L’alunno sarà guidato ad osservare le forme di vita associata nella sua comunità e così, accanto al costante esercizio dell’autogoverno e della concertazione all’interno della scuola, egli, nel tempo, desumerà “la necessità delle leggi e delle istituzioni che nello Stato tutelano la libertà di ciascuno e di tutti, rendendo così possibile la civile convivenza”.

All’educazione morale e civile contribuisce direttamente l’educazione fisica, attraverso la disciplina del corpo e dei suoi movimenti e l’esercizio delle regole nei giochi di squadra. Nei giochi gli allievi svilupperanno comportamenti di salvaguardia della salute e impareranno i valori della lealtà, del rispetto reciproco, della solidarietà, sperimentando, nel contempo, i propri limiti ed esercitando costantemente la responsabilità. L’educazione civica contribuirà a costruire la socialità e il cameratismo. Il maestro cercherà di attenuare l’esasperato spirito agonistico che potrebbe minacciare gli equilibri del gruppo e scoraggerà in tutti i modi “ogni forma di quel caporalismo che tanto ha mortificato lo spirito della giovinezza nel recente passato”.

In conclusione, nei programmi del 1945 troviamo richiami diretti alla formazione di cittadini tesi al bene comune, alla solidarietà, alla convivenza democratica.

L’unitarietà dell’insegnamento, con il superamento delle partizioni disciplinari è vista come misura imprescindibile per perseguire gli obiettivi dello sviluppo della coscienza morale, civile, etica e dello spirito critico. Tutti gli insegnamenti devono concorrere a queste finalità educando gli alunni alla responsabilità nel proprio agire.

La vita scolastica dovrebbe essere regolata attraverso l’autogoverno, la diretta partecipazione degli allievi, i quali si assumeranno responsabilità nella gestione delle attività quotidiane e nelle scelte di lavoro. Dovrebbero essere costantemente incoraggiate la discussione e l’assunzione di decisioni attraverso meccanismi condivisi e democratici.

Crediamo che le indicazioni dei programmi del 1945 siano ampiamente condivisibili tutt’oggi e siano coerenti con le Indicazioni Nazionali e le Linee Guida. Con animo sereno dovremmo però anche chiederci in quale misura nelle nostre scuole, all’alba del 2024, tali costumi didattici e relazionali siano diffusi, praticati e incoraggiati.

[1] Programmi della scuola elementare, 1945, in: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1945-08-21&atto.codiceRedazionale=045U0459&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario