Vogliamo dare credito al Ministro Valditara e al suo Piano estate per il biennio 2023-2024 e 2024-2025. Sul sito del MIM il Ministro sostiene che l’obiettivo del Piano è quello di considerare la scuola come “punto di riferimento per gli studenti e per le famiglie anche d’estate, con sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento, ricorrendo a tutte le sinergie positive possibili, dagli enti locali alle associazioni del terzo settore. Una scuola che sia sempre più un luogo aperto, parte integrante della comunità per tutto l’anno, realizzando attività di aggregazione e formazione soprattutto per i bambini e i ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari”.
Parole assolutamente condivisibili.
Il problema è valutare se le misure proposte (e i comportamenti del Ministero stesso) sono in grado di conseguire questi obiettivi tenendo conto della specifica realtà delle scuole, che hanno tempo fino al 24 maggio 2024 per avanzare la loro candidatura (l’adesione al piano è, com’è noto, su base volontaria).
I tempi
Questo è già un primo problema, sia nel breve che nel medio periodo. Pensare che le scuole abbiano lo spazio mentale, prim’ancora che progettuale, di condurre una progettazione adeguata delle attività estive in collaborazione con le agenzie del territorio in questa fase conclusiva dell’anno scolastica (già affollata da altri adempimenti rituali) vuol dire non conoscere le scuole e l’affanno che vivono in questo periodo dell’anno scolastico, oppure considerare l’intero Piano come un’operazione per spendere soldi perché debbono essere spesi. A prescindere.
La durata biennale del Piano, peraltro, non dà alcuna garanzia che – esaurito questo arco temporale – le attività possano proseguire. Questo limite temporale del progetto e l’adesione volontaria delle scuole potevano avere senso all’interno di una esperienza controllata in vista di una generalizzazione nel prossimo futuro. Infatti è plausibile immaginare che anche fra qualche anno si porrà il problema di dare l’opportunità a quei “bambini e ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari” di fruire delle attività previste dal Piano estate. La mancanza di una visione a medio-lungo termine (se non è dettata da verifiche empiriche che suggeriscano la necessità di abbandonare determinate scelte per gli accertati esiti negativi) rischia di trasformare queste iniziative in spot sospesi nel vuoto.
Peraltro i tempi così ristretti nella progettazione delle attività si trasformano, ancora una volta, in una sorta di tour de force per quelle scuole che intendono aderire al Piano. Un progetto di questo tipo deve essere annunciato a settembre, non nel mese di aprile. I tempi di reazione della scuola non sono quelli delle aziende private; al Ministero ciò dovrebbe essere noto.
Le scuole e i docenti
In che cosa si distinguono le attività proposte dalla scuola all’interno del Piano estate rispetto a quelle tradizionalmente realizzate dai centri ricreativi estivi gestiti dagli enti locali o da altre agenzie del territorio? O rispetto ad altre forme aggregative estive come summer camp, campi scout ecc.? La domanda non è peregrina per almeno due ordini di motivi: se non si definiscono le caratteristiche dell’offerta ministeriale rispetto alle altre proposte estive non si rischia di fare concorrenza a queste ultime? E perché l’utenza dovrebbe scegliere le proposte della scuola, a parte gli eventuali vantaggi economici? L’altro aspetto riguarda la preparazione professionale dei docenti: essi sono “formati” per trasmettere conoscenze in modi più o meno formalizzati e attraverso percorsi più o meno strutturati, spesso privilegiando approcci comunicativi unidirezionali (la lezione); quando il Ministro parla di attività quali “sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento”, sembra alludere ad ambiti del fare e dell’agire non così presenti nella liturgia scolastica canonica. I docenti sono in grado di gestire attività di questo tipo al di fuori della ritualità consolidata che costituisce il loro normale contesto professionale?
Insomma, se i docenti affrontano queste attività da “animatori” o “educatori” evidentemente fanno riferimento ad una serie di competenze del tutto specifiche e personali, non certo istituzionali (e dunque non diffuse allo stesso modo all’interno delle scuole); se invece le gestiscono secondo le loro abituali competenze allora c’è il fondato rischio che vengano “scolasticizzate” con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità e appeal per gli studenti. Si può obiettare (giustamente) che vi sono tante scuole in cui l’approccio laboratoriale è fortemente presente e dunque non dovrebbero sorgere problemi nella gestione delle attività previste dal Piano estate; ma queste scuole aderiranno al Piano estate?
In realtà, se si va a leggere l’Avviso pubblico con il quale il MIM invita le scuole a proporre la loro candidatura per i “percorsi educativi e formativi per il potenziamento delle competenze, l’inclusione e la socialità nel periodo di sospensione estiva delle lezioni negli anni scolastici 2023-2024 e 2024-2025” (prot. 59369 del 19/04/2024) si ricava una generale impressione di impostazione fortemente “scolasticistica” e verticistica in ordine alla progettazione delle attività. E infatti vengono individuati 9 moduli di intervento: Lingua madre, Matematica, scienze e tecnologie, Lingua straniera (inglese per gli allievi della scuola primaria) Competenze in materia di cittadinanza, Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare, Competenza imprenditoriale, Consapevolezza ed espressione culturale, Educazione motoria, Pensiero computazionale e creatività e cittadinanza digitali.
E se una scuola intende agire su altri ambiti in relazione alle specifiche esigenze della realtà in cui opera?
Per ogni modulo è prevista una durata di 30 e 60 ore, a scelta della scuola proponente, nel limite del massimale di spesa; i soli percorsi di lingua straniera possono avere durata anche di 100 ore. Viene specificato che “i moduli rappresentano l’unità minima di progettazione e sono contraddistinti da una specifica configurazione in termini di ambito disciplinare/tematico, durata e figure professionali coinvolte (alcune obbligatorie – “esperto” e “tutor” – e altre facoltative).” Anche in questo sarebbe interessante capire se questo perimetro temporale scaturisce da un’analisi tecnico-scientifica riguardo lo sviluppo di un modulo o da ragioni amministrativo-contabili o da altre imperscrutabili ragioni. Definito un tetto di spesa (sulla base del numero di studenti iscritti ai moduli) le scuole non sono in grado di stabilire la durata dei moduli stessi? Non hanno il know how adeguato? Il MIM ce l’ha?
Più in generale, c’è da chiedersi che fine ha fatto l’autonomia delle scuole. Ma anche che fine hanno fatto quei “progetti che prevedono attività di potenziamento didattico, sportive, musicali, teatrali, ludiche e ricreative, a tema ambientale e, più in generale, tutte quelle iniziative che favoriscono la relazionalità, l’aggregazione, l’inclusione, la socialità, l’accoglienza e la vita di gruppo” richiamati dal Ministro nella nota prot. 56244 dell’11/04/2024. Sembra quasi che nel passaggio dall’ufficio politico del Ministro a quello del management amministrativo il Piano estate sia diventato un sottoprodotto della normale attività scolastica con lacci, lacciuoli e ammennicoli vari che ormai contraddistinguono la vita della scuola nell’impostazione mentale e operativa del MIM. Ma che problemi ha il Ministero con l’autonomia delle scuole? Ha paura che non siano in grado di partorire idee in autonomia? O teme che sperperino il pubblico denaro? Sembra che, parafrasando un incipit molto pericoloso, “uno spettro si aggira per viale Trastevere: lo spettro dell’autonomia scolastica.” Non sia mai!
Il territorio
Attivare “sinergie positive possibili” con gli enti locali e le associazioni del terzo settore per realizzare il Paino estate sembra costituire il mantra del Ministro. Prospettiva suggestiva, senza dubbio, e va sottolineato che non si parte da zero, anche se la situazione appare molto differenziata a livello nazionale, con punte di eccellenza e altre di grande difficoltà. Per la verità, perfidamente, si potrebbe far notare che è lo stesso Ministero a non ricercare queste “sinergie positive”. Infatti il DM 11/04/2024 n. 72 che lancia il Piano estate non sembra sia stato concordato con gli Enti locali; e d’altro canto, quasi contemporaneamente all’emanazione di questo decreto, il Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, in un’intervista ad un giornale nazionale, rassicura le famiglie e i Comuni che i centri estivi saranno finanziati anche nel 2024 con 60 milioni di euro. Un supporto concreto, dice il Ministro per la Famiglia, che si aggiunge alle attività estive organizzate dalle scuole. Insomma, nella compagine governativa non sembra esservi quella sinergia di interventi che pure viene richiesta alle scuole. “Fate quel che dico, non quel che faccio!”
La verità è che i rapporti con il territorio rappresentano un rebus molto complicato e le “sinergie” non si creano in un mese. Non è un caso che lo stesso Ministero è ondivago al riguardo. Infatti, mentre nelle dichiarazioni ufficiali (sito web MIM) si dice “nell’ambito dell’autonomia organizzativa di cui dispongono, le istituzioni scolastiche potranno ulteriormente arricchire l’offerta del Piano Estate, singolarmente o in rete tra loro, grazie alle alleanze tra la scuola e il territorio, gli enti locali, le comunità locali, le Università, le associazioni sportive, le organizzazioni di volontariato e del terzo settore, nonché attraverso il coinvolgimento attivo delle famiglie e delle loro associazioni”, nell’Avviso pubblico richiamato sopra si afferma, in maniera più lasca e indefinita, che “è favorita la collaborazione con gli enti locali, le associazioni del Terzo settore, le organizzazioni e i centri di volontariato, le associazioni sportive, gli attori del territorio, le comunità locali, gli enti, le università e i centri di ricerca, nonché il coinvolgimento attivo di studenti universitari e delle famiglie e delle loro associazioni”. Anche in questo caso troviamo una progressiva diminutio nel passaggio dalle enunciazioni di principio alle istruzioni operative.
Probabilmente il Piano estate produrrà buoni risultati grazie all’impegno e alla competenza delle scuole che vi vorranno aderire. Ma quanta fatica e quanto merito ci vuole per educare un Ministero dell’Istruzione e del Merito!
Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?
Composizione geometrica di Gabriella Romano
di Raimondo Giunta
L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.
Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.
Ma che cosa sono le competenze?
Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione. Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M. Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009).
Per Ph. Perrenoud la competenza è un costrutto sociale e in quanto tale è un concetto necessariamente provvisorio, il cui valore è il valore d’uso.
Lo si misura dalla sua fecondità, non dalla sua verità assoluta. Opinione questa condivisa da G. Di Francesco. A suo parere ci sono processi che stanno costruendo il valore d’uso del concetto di competenza e ne verificano in questo modo la possibilità di essere funzionale come modello di riferimento.
La costitutiva polivalenza del concetto di competenza non impedirebbe che si formino comunità di pratiche che lo utilizzano con efficacia rispetto alle diverse finalità.
Si tratterebbe di una soluzione pragmatica che consiste nell’accettare la provvisorietà e l’ambivalenza teorica e nel distinguere tra definibilità teorica ed utilizzabilità pratica del concetto di competenza. (cfr “Il laboratorio della riforma-Annali P.I. 1999). S. Monchatre con esemplare semplicità: “La nozione di competenza rende dei servizi, se si mettono in secondo piano i suoi limiti teorici”.
”Gli usi che sono stati fatti della nozione di competenza non aiutano alla sua definizione e la difficoltà di definirla cresce col bisogno di utilizzarla”(J. Dolz-E. Ollagnier).
E’ proprio questo il problema: un concetto polisemico e non ancora stabilizzato come può diventare un principio sicuro ed affidabile di regolazione e di organizzazione dei curricoli?
Perché proporre curricoli per competenze se le difficoltà d’uso del concetto sono non solo di ordine epistemologico e teorico, ma anche pratico?
Per Jonnaert -Barrette-Masciotra-Yaya la competenza “è la messa in opera di una persona in situazione, in un contesto determinato, di un insieme diversificato ma coordinato di risorse. Questa messa in opera riposa sulla scelta, sulla mobilitazione e sull’organizzazione di queste risorse e sulle azioni pertinenti che esse permettono per un trattamento riuscito di questa situazione” (2006-Ginevra IBE-UNESCO).
Non è per nulla facile redigere un curriculum di studi sulla base di questa idea di competenza, innanzi tutto perché nemmeno si parla del ruolo e della funzione delle conoscenze e poi perché con tutta la buona volontà di questo mondo e con buona pace di tutti la scuola non è il luogo delle situazioni concrete, dove si esercita e si rivela una competenza, ma quello dove si apprendono saperi che sono alcune delle sue risorse e dove con propri mezzi si cerca di capire (stage/simulazioni/attività laboratoriali) l’effetto che fanno.
”Una persona o un collettivo di persone non possono essere dichiarati competenti, se non dopo avere trattato con successo la situazione con la quale si sono confrontati, non prima”(Ph. Jonnaert).
Lo studioso canadese non si è mai scostato da questa concezione della competenza.
LE COMPETENZE E LE CONOSCENZE
Che il sapere, di cui istituzionalmente tutte le scuole del mondo dovrebbero ancora essere luoghi di trasmissione e di rielaborazione, possa finire per contare poco in orientamenti di questo genere si desume anche da ciò che viene detto in altri parti del documento citato (un documento con l’imprimatur dell’Unesco).
“L’agire competente in situazione si appoggia su una pluralità di risorse e non soltanto su dei saperi disciplinari” e altrove “Il riferimento unico e costante ai programmi disciplinari tradizionali della scuola è un vero ostacolo epistemologico in senso bachelardiano per lo sviluppo situato delle competenze”.
E’ una posizione estremistica dell’approccio per competenze, ma che non è estranea alla sua logica e che apre all’idea sciagurata di opporre conoscenze e competenze. Per lavorare bene con le competenze si deve dar prova, come dice Perrenoud, che con esse non si voltano le spalle ai saperi.
Si riportano di seguito due definizioni che costituiscono un ragionevole fondamento per l’approccio per competenze e che legano in modo persuasivo le conoscenze e le competenze.
La prima delle due è stata rifatta, dopo 10 anni, con modifiche non del tutto soddisfacenti
(1*cfr. nota a piè di pagina).
A) ”Una competenza è la comprovata capacità di UTILIZZARE CONOSCENZE, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale personale. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Allegato 1 alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-4-2008).
B) ”La competenza è la capacità di METTERE IN MOTO e di COORDINARE le risorse interne possedute(CONOSCENZE, abilità, disposizioni interne stabili) e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti o di situazioni sfidanti”(M. Pellerey-2008).
Queste due definizioni, molto autorevoli, ci dicono che le competenze non sono esse stesse dei saperi, ma che li UTLIZZANO, li MOBILITANO e li COORDINANO insieme ad altre risorse personali; ci dicono anche che utilizzazione e mobilitazione sono pertinenti soprattutto in situazione. Se le competenze funzionano così è evidente che si pongono due seri e grandi problemi: il primo è quello dei contenuti e il secondo è quello delle metodologie. Non tutti i contenuti, infatti, (o tutte le discipline o tutti i saperi) si piegano ad alcune particolari logiche di utilizzazione, anche se universalmente sono parte imprescindibile dei curricoli.
Le metodologie, poi, devono innestarsi sulle “situazioni” o riproporne il modello per essere idonee ad esercitare gli alunni alla mobilitazione, all’integrazione, al coordinamento delle risorse interne possedute e a quelle esterne disponibili.
DAL MONDO DEL LAVORO ALLA SCUOLA
La competenza entra con forza nel mondo della scuola, perchè è diventata la parola d’ordine degli accadimenti e delle relazioni sociali dei nostri giorni, ma ha cambiato molto dell’antico significato che aveva nelle attività formative. Il nuovo senso della nozione di competenza nasce nelle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, dove è diventata strumento di analisi della professionalità, modalità di classificazione dei lavori, categoria giuridica per la definizione dei rapporti di lavoro, modello di riferimento per la formazione, assumendo un significato socio-professionale, contrattuale e formativo (D. Nicoli).
Il possesso di competenze pregiate, direbbe la Di Francesco, che il sistema di istruzione si dovrebbe preoccupare di formare, viene ritenuto la condizione per affrontare le molteplici sfide della complessità della nostra società.
E’ indubitabile il rapporto tra l’emergenza del concetto di competenza e le esigenze attuali del mondo economico-aziendale. La nozione di competenza, infatti, esalta la disposizione all’adattabilità, alla mobilità e al senso dell’iniziativa, qualità umane non solo richieste, ma quasi prescritte oggi dal mercato del lavoro. Non c’è, però, da sciogliere inni e canti di gioia. Nel mondo del lavoro il ricorso alle competenze fa parte di un’offensiva contro i diplomi e le qualifiche, per indebolirli più che per sostituirli per inefficacia (M. Stroobants).
”La logica delle competenze è innanzitutto una tecnica manageriale di gestione che mira a sostituire con nuove regole le antiche.
Una logica di risultato che sostituisce la logica del posto; il riconoscimento del merito individuale che sostituisce la progressione sistematica per anzianità; la retribuzione delle competenze che sostituisce la remunerazione del livello” (A. Dietrich).
Nei posti di lavoro la gestione delle competenze è una tecnica al servizio di obiettivi di razionalizzazione.
”Il concetto di competenza permette di fare dell’uomo un oggetto di gestione. Se Taylor scomponeva il lavoro in gesti elementari per impiantare la misura dei tempi e dei movimenti e ottimizzare il rendimento, la nozione di competenza identifica e scompone le capacità e le attitudini di un individuo per mobilizzarle e ottimizzarle in un contesto dove la reattività organizzativa diventa essenziale. Ciascuna di queste capacità puo’ essere misurata, sviluppata con l’apprendimento, accresciuta con la formazione, trasferita con la mobilità o il tutorato” (D.Cazal-A.Dietrich).
L’azienda con le competenze si appropria della dimensione personale interna e soggettiva del lavoratore.
Il giudizio di competenza, funzionale alla carriera interna e alla progressione economica, rischia di essere a differenza di quello inerente alla qualifica un giudizio su una persona in quanto persona e non in quanto lavoratore.
C’è di più. Mobilità, flessibilità e competenze, tratti strutturali dell’attuale organizzazione del lavoro, cambiano le relazioni sociali e rendono transitori e fragili i legami tra i lavoratori.
La gestione delle risorse umane attraverso le competenze può facilmente diventare funzionale alla strategia di disfare ogni forma di solidarietà di categoria nel posto di lavoro.
Le competenze possono essere utilizzate, inoltre, per sottrarre potere contrattuale al lavoratore, il cui patrimonio cognitivo-professionale potrà essere riconosciuto e valorizzato non in sede di contrattazione, ma in quello del giudizio non sempre sindacabile della controparte.
LA SFIDA DELLE COMPETENZE
Se nella sociologia del lavoro si incominciano a intravedere i rischi della gestione delle competenze, nel mondo della scuola si continuano, a prescindere, a celebrarne le magnifiche sorti progressive.
E questo non è un fatto positivo. La mancanza di senso critico può condurre ad esiti negativi nel processo di formazione.
Se è corretto contrastare il rifiuto pregiudiziale dell’approccio per competenze, è anche necessario guardarsi bene dall’assunzione dogmatica delle indicazioni istituzionali e dalle suggestioni economicistiche del modello aziendale-economico.
Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare curricoli che formano le competenze richieste, in una data fase storica, dalla società nel suo insieme. La formazione dovrebbe garantire alle nuove generazioni gli strumenti che consentono l’adattamento al proprio ambiente, al proprio tempo, al proprio mondo del lavoro. La scuola è servizio alla società; ma è anche servizio alla persona: due compiti che devono armonizzarsi senza il bisogno di doverne sacrificare uno dei due.
”L’istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l’integrazione sociale e lo sviluppo personale mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia. Ma oggi questa funzione essenziale è minacciata, se non è accompagnata dall’apertura di una prospettiva in materia di occupazione” (Libro Bianco ‘95).
Per dare a scuola un orientamento corretto all’approccio per competenze bisogna tenere sempre presente che “La competenza è una nozione di frontiera tra economia ed educazione” (S. Monchatre) e che a scuola il lato proprio della competenza è quello dell’educazione, anche se questo non autorizza nessuno a chiuderla in un anacronistico isolamento autoreferenziale. L’aspetto più significativo dell’approccio per competenze è la forte sollecitazione a scoprire il senso dei saperi, a renderli in prospettiva utili e significativi per lo sviluppo personale e quello della società. L’approccio per competenze esige il protagonismo della persona in contesti di esperienza variabili per impegno cognitivo e relazionale. ”La nozione di competenza si inscrive nel quadro di una pedagogia decisamente centrata sull’allievo” (B. Rey).
Il rischio più grave che bisogna evitare è quello di circoscrivere le ambizioni del sistema di istruzione e formazione, appiattendolo e costringendolo in una prospettiva utilitaristica di saperi immediatamente spendibili. Se l’aria dei tempi esalta l’uomo d’azione efficace, che sa risolvere i problemi che gli si presentano, la scuola per responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni non può inchinarsi agli idoli del momento e deve lavorare per le altre dimensioni della persona umana, per il suo integrale sviluppo, in modo da renderla capace di comprendere il mondo, la società, l’altro e se stesso e di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza attiva. La cultura è plurale e nessuna componente (scientifica, umanistica, professionale etc) può essere trascurata. E’ la cultura nel suo insieme che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili. (J. Bruner).
Nell’approccio per competenze è insita una logica di adattamento che può mortificare o cancellare la funzione emancipatrice della conoscenza e rendere residuale il mondo dei valori; una logica che finisce, se viene acriticamente sposata, per esaltare l’addestramento a svantaggio della trasmissione dei saperi e della cultura.
“Per sviluppare competenze occorre lavorare perchè l’alunno possegga in modo significativo, stabile e fruibile concetti e quadri concettuali, saperi e conoscenze desunti dalle discipline e raggiunga adeguate abilità intellettuali e pratiche sapendo come, quando e perchè utilizzarle” (M. Pellerey).
Le competenze non si insegnano direttamente: si creano le condizioni del loro sviluppo grazie a situazioni d’apprendimento, a dispositivi di esercitazioni e di riflessione sulle esperienze fatte. L’approccio per competenze richiede l’ancoraggio all’esperienza, alle pratiche sociali, alla realtà. Formare competenze significa richiedere prestazioni complesse e sfidanti basate sulla produzione di soluzioni a problemi tratti dal mondo reale. Per garantire, però, un percorso strutturato e sequenziale di formazione i problemi, i casi concreti, i contesti lavorativi devono essere sistemati in una successione razionale ed organica, altrimenti rischia di far saltare il curriculum, frantumandolo in una raccolta casuale di iniziative, di progetti, di attività.
Fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le conoscenze comporta un lavoro di innovazione serio e rigoroso. Bisogna saperlo che il cantiere per raggiungere questo obiettivo è aperto da molto tempo, ma che i risultati nella pratica quotidiana possono ancora modesti o limitati
L’approccio per competenze pone nuovi problemi e suscita perplessità in alcuni settori del mondo degli insegnanti, perchè confligge con le tradizioni più accreditate e seguite del sistema scolastico e con le consuetudini professionali. Richiede, infatti, un cambiamento significativo nelle procedure didattiche e nel modo di pensare e agire nei processi formativi.
La preparazione delle attività, il processo formativo e il coordinamento didattico in un curriculum per competenze esigono tempo di lavoro molto più ampio di quello attualmente contrattualizzato e soprattutto insegnanti stabili, provetti, con notevoli capacità progettuali. L’approccio per competenze mette in crisi l’individualismo magistrale, ma non può svilupparsi in un contesto di precarietà e di sudditanza professionale.
La pedagogia per amica
di Raimondo Giunta
Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.
Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.
L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi.
Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati.
Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.
Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perchè gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perchè comprendevo i loro errori, perchè rispettavo i loro tempi, perchè per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.
Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perchè senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.
Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola.
L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.
Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.
A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire.
C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perchè anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.
Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”. E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non puo’ essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.
Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti. Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti. ”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.
Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo puo’ essere discreditata, perchè non può fare a meno di servirsene.
La pedagogia come Pratica-teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontanandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .
La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza. E se per caso non lo possa essere, perchè mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta. Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.
La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perchè è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni. Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.
“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).
Francesco De Bartolomeis, un maestro della pedagogia contemporanea, e di molti di noi
di Gianni Giardiello
Vi racconto di Francesco De Bartolomeis, un importante maestro della pedagogia contemporanea, docente emerito della Università di Torino, insignito del titolo d’onore dell’Accademia Albertina delle Arti di Torino per i suoi meriti di critico d’arte.
Christian Raimo nel gennaio del 2020, in un articolo sulla rivista “Internazionale” pubblicato in occasione del 102esimo compleanno del prof., lo presentava così:
“E’ nato a Salerno mentre finiva la prima guerra mondiale e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 anni ha pubblicato –per intercessione di Benedetto Croce- il suo primo saggio “Idealismo e Esistenzialismo”, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità idealogica del fascismo. E’ un antifascista convinto. …. Da molti anni vive a Torino e la sua storia è la storia della migliore classe intellettuale che questo Paese abbia avuto. … Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è molto più che lucido: è analitico, puntualissimo, idiosincratico, aggiornato, combattivo.”
Il racconto che mi accingo a fare riguarda un paio di decenni della sua, mia /nostra vita, quelli in cui noi ci siamo formati umanamente e professionalmente che vanno grosso modo dalla seconda metà degli anni ’50 o giù di lì, ai primi anni ’70. Uso il noi plurale con un po’ di supponenza, ma senza timore di sbagliare, poiché sono certo che in questa storia non ci sono solo Francesco ed io, ma anche molti di voi, colleghi e amici e miei contemporanei, che mi state leggendo. Poi ci stanno molte altre cose, le nostre scuole, le idee sociali, i principi per una nuova educazione, le teorie pedagogiche, le vicende di un Paese che cercava di rimettersi in sesto e rilanciarsi dopo gli anni orribili del ventennio fascista e le conseguenze di una guerra rovinosa.
Francesco De Bartolomeis è stato uomo di grande cultura, esponente della migliore classe di intellettuali che abbia avuto il nostro Paese “Quella classe –come dice Raimo nella già citata sua presentazione – che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste”.
De Bartolomeis è stato maestro per molti di noi, soprattutto in quegli anni giovanili, quelli della nostra formazione umana e professionale, e anche in questi ultimi tempi, alla veneranda età di 105 anni, sembrava non avere nessuna intenzione di mollarci, anzi. Erano molti di noi ad avere il fiatone a volergli stare dietro. Ogni tanto lo incontravamo in un convegno sulla scuola, alla presentazione di un suo ennesimo libro, dietro la cattedra dell’Accademia Albertina a dialogare con pittori, scultori o giovani di street art., sempre attivo, sempre un po’insofferente verso i propri malanni, sempre critico e pungente con i molti altri, anzi con quasi tutti. Un giorno lui aveva già 104 anni, con la posta elettronica, gli chiesi cosa pensava del nuovo ministro dell’Istruzione Valditara. Mi rispose come sempre con poche parole perché, diceva, aveva gravi difficoltà di vista: “E’ una disgrazia, una delle tante disgrazie di questo governo”. E in un intervista rilasciata al quotidiano Domani precisava: “Mi sembra assolutamente inadeguato, farebbe bene a stare zitto, dice delle autentiche sciocchezze. Lei si sentirebbe di umiliare una persona e poi dire che l’ha migliorata? E’ una frase molto significativa per la sua mancanza di senso”.
Sempre in movimento e, come lui stesso amava dire, sempre un po’ smodato, nel senso di fuori moda, continuava imperterrito il suo percorso di ricerca fra pedagogia, problematiche dell’educazione e della scuola, critica d’arte, estetica, creatività, e un sacco di scrittura e, negli ultimi anni soprattutto, anche di pittura.
Un “viaggiatore” smodato o non piuttosto, come distingueva Umberto Galimberti sulla pagina culturale de La Stampa di qualche settimana fa , un “viandante”, cioè uno che, a differenza del viaggiatore, rinuncia a dominare il tempo, viaggia per viaggiare e non per arrivare; è un nomade che trova il senso della vita nella ricerca”
Una definizione, quella di viandante, che calza a pennello con molti aspetti della personalità e della maniera di vivere di Francesco De Bartolomeis. Intervistato in occasione del suo 102 esimo compleanno diceva: “La mia carriera continua, non spetta a me valutarne i risultati recenti, ho sempre cercato di fare cultura e nella cultura non ci sono i master come nelle attività sportive. Spero che quello che continuo a dire e a fare nelle mie conferenze, nei miei libri, sia giudicato attuale. Il mio viaggio continua…”.
In effetti non si è mai fermato. Ha continuato a percorre i sentieri della ricerca e della cultura, della filosofia e della pedagogia, scoprendosi financo artista dopo essere stato importante critico d’arte, creativo sempre. In uno dei miei ultimi incontri con lui nel suo studio di corso Vittorio Emanuele, notai che sul suo computer si stavano allineando le pagine di un nuovo, ennesimo libro. Riuscì anche in quella occasione a sorprendermi ricordando i miei precedenti interessi per la didattica della storia e della geografia e chiedendomi di poter consultare un volumetto edito da Loescher nella collana “Scienze dell’educazione” (1976), che conteneva una sua ampia relazione sul metodo della ricerca nello studio della geografia svolta nell’ambito delle Giornate di studio su “Scuola e trasformazione sociale: il ruolo della geografia” organizzate dall’associazione AIIG insieme alla Università di Torino, volumetto che non riusciva a trovare nella sua biblioteca. In effetti quel testo io possedevo e fui ben lieto di far gli avere. Mi resi conto che, con tutta evidenza la sua ricerca continuava, inarrestabile e vitale, a dispetto dei limiti fisici che inevitabilmente stavano sopravvenendo: “non riesco più a fare le 20 vasche in piscina che pure nuotavo giornalmente fino a pochi mesi fa …”.
E’ stato protagonista intellettuale fin da subito.
A Firenze scriveva saggi di filosofia e pedagogia per la rivista Il Ponte di Piero Calamandrei e collaborava alla rivista Comunità di Adriano Olivetti, seguendo da vicino il lavoro della Montessori, e la sperimentazione pedagogica del gruppo accademico guidato da Ernesto Codignola con Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi e altri ma, soprattutto collaborando alla nascita del Movimento di Cooperazione educativa insieme a giovani insegnanti elementari come Bruno Ciari, Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Mario Lodi, che cominciavano ad applicare nelle loro classi le tecniche di Celestine Freinet. Studiava soprattutto il funzionamento delle cosiddette nuove scuole italiane e europee, occupandosi in particolare della prima infanzia con Margherita Zoebel fondatrice dell’Asilo italo svizzero di Rimini, e, successivamente, delle scuole dell’infanzia messe in piedi da Adriano Olivetti.
E’ il periodo in cui De Ba esplora e approfondisce le nuove pedagogie e didattiche antigentiliane sviluppatesi in Europa sull’onda del pragmatismo americano di Dewey. Di questo filosofo e pedagogista statunitense, il De Bartolomeis in collaborazione con quel gruppo di intellettuali e docenti fiorentini guidati da Ernesto Codignola traduce e propone alcune opere. La Nuova Italia, ne pubblica alcune, a cominciare da “Il mio credo pedagogico” (tit. it. “L’educazione di oggi” 1950) introducendo nella pedagogia italiana, una ventata culturale decisamente nuova e stimolante.
“Io credo che … ogni vera educazione derivi dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie …, la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale …. Io credo che .. l’educazione sia perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro…io credo che …” ecc.
In poco più di una decina di pagine Dewey già alla fine dell’800, diceva agli americani del valore decisivo dell’educazione, del rilievo sociale e civile della scuola e del lavoro degli insegnanti, chiarendo con forza che i processi di acquisizione delle conoscenze erano determinati principalmente dalle esperienze e dagli interessi di chi impara, e che di questi va tenuto gran conto nell’insegnamento, dal suo rapporto con la società e con la natura, sottolineando l’importanza delle attività e in particolare delle attività cooperative, e del linguaggio come strumento per comunicare e interagire con gli altri.
In una delle sue opere successive più interessanti : “Scuola e società”, Dewey affermava una sorta di circolarità fra educazione e società dicendo che “l’educazione deve essere concepita come ricostruzione continua dell’esperienza” e quindi: “… se tutto quello che si fa a scuola non ha una ricaduta sulla società è del tutto inutile”: e il giovane De Bartolomeis, fresco vincitore di una libera docenza e un paio di anni dopo in cattedra a Torino, di quel credo fa una sua personale lezione nella vita e anche nell’insegnamento accademico.
Che “accademico” non fu mai: “Non faccio lezioni sul lavoro di gruppo, ma faccio lavorare in gruppo”.
In effetti con lui non facemmo quasi mai lezioni di tipo accademico. In quei primi anni ’60 ci portò molto in giro per l’Italia. Osservando, e ragionandoci insieme, scoprimmo e documentammo molte cose interessanti sull’organizzazione e i metodi di insegnamento di alcune scuole sperimentali italiane come Città- Pestalozzi di Firenze, l’Umanitaria di Milano, o l”Asilo Italo /Svizzero” di Rimini. Con lo stesso spirito di ricerca con lui facemmo seminari residenziali e frequentammo alcuni laboratori di pittori torinesi confrontandoci direttamente con i problemi e le difficoltà dell’operare in campo espressivo e creativo. La creatività è stato sicuramente il campo della personalità infantile più studiato e più valorizzato nella ricerca psicopedagogica di De Bartolomeis.
Contestualmente Francesco De Bartolomeis andava raccogliendo in alcune pubblicazioni la sua lezione pedagogica antigentiliana. Ne ricordo soprattutto tre importanti, soprattutto perché furono i testi che portai al mio primo esame di pedagogia.
Il corposo volume de “La Pedagogia come scienza”, editrice “Nuova Italia”, e i due volumetti: “Cos’è la scuola attiva” e “I metodi della pedagogia contemporanea” per le edizioni universitarie Giannasso e successivamente per le edizioni Loescher, rappresentano la documentazione più completa e approfondita di quella rivoluzione copernicana che aveva investito la pedagogia e la didattica in quel decennio. Una combinazione esplosiva fra le nuove idee sull’educazione, le teorie pedagogiche capaci di finalizzarle e sostenerle, e i metodi didattici attivi per dar loro corpo nel concreto processo di insegnamento e apprendimento. Per gli insegnanti che lo lessero significò, non solo l’acquisizione di un orientamento scientifico nei confronti del proprio mestiere, quanto soprattutto la capacità di “non volgere le spalle ai fatti” che ogni insegnante ha sempre di fronte.
Diceva De Bartolomeis, a dire il vero anche con una certa brutalità, in una sua prefazione: “Non esitiamo ad affermare che la incapacità educativa della maggioranza degli insegnanti, dipende dalla mancanza non meno di idee chiare sulla scuola attiva che di metodi efficienti per realizzarla (…) A che serve riempirsi la bocca della “libertà”, della “spontaneità”, della “creatività” del fanciullo, quando non sappiamo che cosa esse esattamente comportano dal punto di vista di esperienze concrete, quali problemi implicano, in quali forme si esprimono, quali sono le condizioni favorevoli o sfavorevoli del loro operare?”.
Uno dei principi più importanti che appresi dai quei testi che raccontavano di una educazione nuova possibile, è che il buon insegnamento riconosce, rispetta, e soprattutto cerca di “liberare” i bisogni di fondo degli allievi, I bisogni di conoscere, di esplorare il mondo, di esprimersi, di muoversi e di comunicare, di costruire relazioni affettive. ecc. Per questo era decisivo il ricorso ad un metodo di insegnamento e di apprendimento basato sulle attività, sul fare, sullo scoprire insieme sia sul campo che sui libri. Il compito dell’insegnante diventa quindi quello di predisporre le condizioni culturali, ambientali, materiali e strumentali perché questo processo di autoorganizzazione del sapere possa avvenire.
Ma le conoscenze e gli stimoli culturali pur acquisite nell’originale percorso di ricerca predisposto e proposto dai suoi libri, non sarebbero certo bastate se non ci fosse stato l’aiuto di quel magnifico gruppo di insegnanti del Movimento torinese di Cooperazione Educativa (con F.Alfieri, M.T.Fontana, D.Ridolfi, S. Mosca, M.Dina, B.Chiesa e molti altri) con il quale ho costruito dopo la laurea, poco alla volta, le mie competenze di insegnante nella scuola elementare prima e nella scuola media, poi, imparando ad affrontare e a superare l’ansia e i timori di un lavoro professionalmente e umanamente complesso. Imparando soprattutto quanto fosse importante il potersi confrontare e cooperare fra pari, il poter costruire insieme e poi sperimentare in classe, strumenti, schede e percorsi didattici, e l’imparare dalle buone esperienze altrui. In altre parole utilizzare le metodologie laboratoriali fra adulti, per costruire e sperimentare condizioni laboratoriali per l’apprendimento degli alunni.
A Torino De Bartolomeis incontra il mondo del lavoro, la fabbrica, gli operai e accetta anche una consulenza alla Olivetti.
”A Firenze mi mancava il rapporto con la realtà del lavoro, la conoscenza da vicino delle tecnologie produttive, della condizione dei lavoratori, della cultura del lavoro. A Torino invece c’era la Fiat: mi è sempre interessata questa città e questa realtà che esprimeva molto della condizione sociale e culturale italiana di quegli anni. Ed è questa la ragione per cui finii di accettare un ruolo di consulente alla Olivetti di Ivrea.”
Ne è testimonianza concreta il volume “Cultura, lavoro e tempo libero” pubblicato nel ’65 dalle Edizioni di Comunità in cui De Bartolomeis compie un primo tentativo di definire i caratteri di una nuova cultura pedagogica, necessari ad affrontare i mutamenti, sociali, educativi e formativi, posti dal profilarsi di una civiltà in cui è compresente il lavoro e il cosiddetto tempo libero, il tempo del non-lavoro.
Era un ulteriore tratto del suo percorso di “viandante” pedagogico “smodato”, “capace di comprendere e far convivere la scienza, l’arte, la musica, la pittura, la psicologia clinica “non a livelli patologici”.
Intanto per fare la mia tesi di laurea mi toccò di lavorare in fabbrica. Il Professore mi invitò a compiere una vera e propria esperienza lavorativa nella fabbrica Olivetti di Ivrea, di cui lui era nel frattempo diventato consulente pedagogico. Per questo, con una buona dose di presunzione e faccia tosta, posso dire di aver “contribuito” a costruire l’ipotesi di una nascente branca della pedagogia, la pedagogia industriale. Nell’arco di tre mesi ho potuto frequentare e “mettere concretamente le mani” nelle lavorazioni dei principali settori di quella che allora era la più importante industria italiana per la produzione delle macchine per scrivere: dalle linee di montaggio dei vari segmenti di prodotto, alla costruzione degli stampi e degli attrezzi per poterli produrre, alla produzione degli stessi, fino ai sacri luoghi della loro progettazione e della loro sperimentazione. Inserendomi direttamente nelle “giostre” di montaggio (almeno per quanto riguarda le procedure più semplici) e lavorando insieme a operaie e operai, oppure accontentandomi di restare loro accanto come aiuto (poco esperto, ma volenteroso), potei raccogliere molte informazioni e qualche pensiero, intorno al tema che avevo scelto per sviluppare la mia tesi: quello relativo all’analisi dei linguaggi che caratterizzavano le interazioni fra i diversi attori del processo produttivo e degli stessi con i diversi tipi di produzione. In un secondo momento anche con l’aiuto di alcuni docenti ed esperti di notevole qualità scientifica e culturale (a Ivrea conobbi personalità come Luciano Gallino sociologo del lavoro, Tilde Giani Gallino psicologa e psicoterapeuta, Francesco Novara psicologo del lavoro,) che insieme allo stesso De Bartolomeis svolgevano compiti di consulenza nei vari servizi funzionali alla organizzazione del lavoro della fabbrica (reclutamento, mobilità, formazione, ecc.),potei mettere in relazione quei dati con le problematiche della formazione professionale e con la realtà socioculturale del territorio e della comunità locale.
Il mio incerto tentativo pre-accademico, la tesi di laurea, si poneva all’interno della elaborazione teorica di De Bartolomeis per il quale la pedagogia doveva acquisire una propria specifica autonomia nell’ambito delle scienze sociali. Già nel 1953 con la già citata opera “La pedagogia come scienza” il De Ba, sostenendo che le politiche dell’educazione non avevano a che fare solo con la scuola, ma con la società tutta, si propone di rompere gli steccati che confinano la pedagogia al solo ambito scolastico, auspicando un passaggio dal sistema educativo a quello formativo, ponendo cosi la base concettuale per una seria innovazione della questione riguardante la natura e il ruolo della formazione professionale.
Per quanto mi riguardava, che non mi si chiedesse più di tanto! De Bartolomeis ci provò, ma io preferii tornare alla pedagogia e alla didattica della scuola attiva e alla mia prima prova da insegnante elementare del MCE, abbandonando al suo destino la, almeno per me, mai veramente nata “pedagogia dell’industria” una ipotesi epistemologica che in verità, forse oggi in tempi di così intense e continue novità tecnologiche e digitali, dovrebbe e potrebbe essere ripresa in considerazione.
Erano anni politicamente e socialmente e culturalmente molto intensi e molto interessanti.
Alla lezione critica di Don Milani ad una scuola vecchia, incapace di affrontare i problemi posti dalle diseguaglianze sociali, economiche e culturali del Paese, e dalle nuove sfide poste, a grandi e piccini, da uno sviluppo economico e sociale impetuoso e scoordinato, si univa la contestazione studentesca e operaia del ‘68/69 sulla necessità di una cultura nuova capace di contrastare il carattere selettivo e non inclusivo di quella che veniva definita la scuola “di classe” o la “scuola dei padroni”. La cultura e i modelli pedagogici della vecchia scuola gentiliana, a cominciare da quella che De Bartolomeis segnalava come la “triade malefica” (lezione – studio a casa – interrogazione) continuavano, ostinatamente, ad essere proposti come base dei programmi, degli orari scolastici e dei metodi di insegnamento, di ogni livello di scuola, dall’elementare fino all’Università.
In risposta ad una scuola di base, che attraverso voti e pagelle continuava nella sua opera selezionatrice, escludendo, allontanando, discriminando soprattutto i più deboli, molti insegnanti elementari e della media inferiore, a cominciare da quelli del MCE decisero per protesta di rinunciare a classificare gli alunni con i voti numerici e di dare sulle pagelle i voti uguali per tutti. Alle famiglie un po’ sconcertate, veniva proposto un colloquio per chiarire il significato di questa forma singolare di protesta proponendo agli alunni un tipo di valutazione non basata sui numeri, ma su indicazioni e consigli di carattere formativo. Con un documento “ciclostilato”, sottoscritto anche da pedagogisti, come lo stesso Francesco De Bartolomeis, e da alcuni presidi e docenti di scuola media, e inviato alle autorità scolastiche, i maestri del MCE e non solo, rivendicavano la necessità di una pedagogia non selettiva, capace di accogliere e includere tutti ragazzi, insieme alla richiesta di una scuola più ricca di tempo, di spazi attrezzati, di libri e di sussidi didattici. Un documento che pur nella sua fragilità rivendicativa poneva però le basi per la proposta di una scuola elementare che abolendo il vecchio doposcuola frequentato solo da quelli del “patronato scolastico”, promuovesse una scuola a Tempo Pieno, per tutti gli allievi, e con due docenti per ogni classe. Un modello che si sviluppò a partire dalle zone più periferiche di Torino in cui erano presenti soprattutto ragazzi provenienti dalle fasce di popolazione meno culturalizzate, con genitori impossibilitati perché impegnati entrambi nelle attività di lavoro a occuparsi dei figli. Ma questa è una parte della storia che merita un capitolo a parte.
In quegli anni a cavallo del 1970 trovarono nuovamente terreno fertile nell’elaborazione critica della pedagogia di De Bartolomeis le questioni della innovazione dei contenuti programmatici e dei metodi di lavoro attraverso cui processarli nei percorsi di insegnamento / apprendimento. E’ del 1969 la pubblicazione de “La ricerca come antipedagogia”, il libro che segna in qualche modo il punto terminale del suo itinerarrio di elaborazione e proposta nel campo della educazione e della formazione.
Il titolo “La ricerca come antipedagogia” ne qualifica la caratura e gli intendimenti programmatici in maniera del tutto evidente, suscitando grande interesse nel mondo dell’educazione. Il libro ebbe anche il merito di confrontarsi con le idee e le speranze del movimento studentesco del ’68, che ne apprezzò soprattutto l’intento innovatore dei vecchi sistemi di educazione scolastica e universitaria, e la rivendicazione di una nuova cultura come condizione essenziale per giungere ad un vero rinnovamento sociale.
In quegli stessi anni il prof. De Bartolomeis, inimicandosi quasi tutto il Senato accademico, propone e realizza il suo “sistema dei laboratori” che sostituiscono totalmente il sistema delle lezioni e degli esami basati su una cultura puramente libresca, garantendo agli studenti di pedagogia una serie di occasioni di progettazione, di operatività diretta sui materiali, di creatività e, soprattutto, di ricerca e sperimentazione attraverso cui apprendere. Qualità degli apprendimenti che solo l’utilizzo di spazi laboratoriali attrezzati (e non certo delle vetuste aule a gradoni di Palazzo Campana) poteva garantire.
Il mio racconto per ora si ferma qui: ma molto resta da raccontare!
Il tanto che ho raccontato della sua vita e delle sue opere copre, in verità, solo un arco biografico temporalmente ristretto (dagli anni 50 agli anni 70) e riguarda solo alcuni aspetti del suo pensiero, dei suoi scritti e dei suoi interventi nel mondo della educazione e della scuola. Sono tra l’altro quegli aspetti del suo lavoro che più hanno avuto a che fare con i miei primi passi nel mondo della scuola come insegnante nella scuola elementare e media e successivamente come direttore didattico.
D’altra parte il suo contributo più importante alla Pedagogia l’aveva già dato, liberandola dall’univoco riferimento alla scuola e alla didattica, per indicarne invece una funzione indispensabile per affrontare la complessità del sistema formativo.
Negli anni 80 continua però a occuparsi di scuola affrontando le molteplici implicazioni del rapporto fra scuola e territorio, (“fare scuola fuori della scuola” è il titolo di una pubblicazione Stampatori del 1980), riprendendo e approfondendo soprattutto le questioni riguardanti la conduzione delle sempre più numerose scuole a Tempo Pieno che egli ritiene indispensabile come tempo necessario per apprendere.
Questa è quindi ben lontana dall’essere la sua biografia. Piuttosto è il racconto di quegli aspetti del suo pensiero e della sua azione culturale e professionale che più hanno avuto a che fare con un tratto significativo della mia vita.
Poi a partire dagli 80 anni me lo sono perso. O meglio è stato lui che ha svoltato con decisione verso nuovi territori da esplorare, preferendo dedicarsi prioritariamente alla ricerca e alla approfondimento delle questioni riguardanti la creatività, l’estetica e la produzione artistica, attraverso quella che giustamente Claudio Strinati definisce nell’introduzione dell’ultimo libro scritto e pubblicato nel 2022 a 103 anni dal nostro prof, intitolato “La realtà dell’Arte” (edito da Rosemberg &Sellier), una “vastissima meditazione sull’arte contemporanea”.
Far amare agli allievi il sapere che devono possedere
di Raimondo Giunta
A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.
Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare.
E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).
Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione “delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, e di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.
Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.
Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.
Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante, risorse di apprendimento per i propri pari. Il docente favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.
Il docente è presenza fondamentale nei momenti preliminari e soprattutto durante l’attività didattica.
E’ un ruolo di guida, ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche.
Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità.
Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere .
Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca. Deve far vedere che ha in sè il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.
Il diritto all’educazione nel mondo attuale
Il diritto alla educazione nel mondo attualeè un piccolo volume di Jean Piaget pubblicato nel 1951 dalle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano Olivetti.
Il volumetto faceva parte della collana Diritti dell’Uomo curata dalla Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) ed era stato tradotto in italiano da Carla Musatti.
Nel libro Piaget affronta la questione del diritto all’educazione nel mondo attuale, diritto che, a suo parere, dovrebbe garantire che tutti gli individui abbiano accesso a un’istruzione che rispetti il loro sviluppo cognitivo unico e che promuova l’apprendimento attivo e significativo. Ciò implica la necessità di un sistema educativo che sia flessibile, inclusivo e in grado di adattarsi alle esigenze di una società in rapido cambiamento.
Un breve passaggio tratto dalle prime pagine del libro ben chiarisce cosa intendesse Piaget per diritto alla educazione:
Affermare il diritto della persona umana all’educazione è assumersi una responsabilità assai più grave che non quella di assicurare a ciascuno il possesso della lettura, della scrittura e del calcolo: è garantire effettivamente a ogni bambino l’intero sviluppo delle sue funzioni mentali e l’acquisizione delle conoscenze e dei valori morali che corrispondono all’esercizio di tali funzioni, fino all’adattamento alla vita sociale attuale. Di conseguenza significa soprattutto assumersi l’obbligo- tenendo conto della costituzione e delle attitudini che distinguono ogni individuo – di non distruggere nè sprecare alcuna delle possibilità che egli racchiude in sè e di cui per prima la società è chiamata a beneficiare, evitando di lasciare che se ne perdano importanti frazioni e che altre rimangano soffocate.
Il poliziotto e l’insegnante, entrambi al servizio della “salus”
di Antonio Vigilante
All’età di diciotto anni ho fatto il concorso in Polizia. Ricordo un viaggio in treno di notte, nel corridoio, una mattina al foro romano e un pomeriggio all’hotel Ergife a mettere crocette su un foglio – mi si chiedeva tra l’altro, ricordo, cos’è l’echidna – cercando di non addormentarmi. Lo superai. E per qualche giorno, dunque, mi chiesi se quella non fosse la mia via. Una uscita assolutamente onorevole per uno della mia classe sociale; e del resto il mio professore di musica a lungo aveva cercato di convincermi a lasciare la scuola, evidentemente così poco efficace con me, per fare il poliziotto, un lavoro che, in difetto di qualità intellettuali, avrebbe potuto mettere a buon frutto le mie qualità fisiche.
Decisi di no, alla fine. Avevo cominciato l’università e i primi due esami erano andati molto bene. Forse qualche qualità intellettuale c’era.
Ho ripensato a quel bivio in questi giorni. Alcuni studenti manganellati dai poliziotti in una manifestazione pacifica. Una cosa che ha indignato tutti gli insegnanti. E nei comunicati delle scuole emerge una certa visione della scuola come alternativa radicale alla violenza: il luogo in cui ci si educa al dialogo, alla nonviolenza, al confronto costruttivo, ai valori democratici: eccetera.
Ora, sarà per colpa di quel bivio, ma mi capita spesso di pensare che io e il poliziotto che avrei potuto essere procediamo in parallelo, se non proprio fianco a fianco. È colpa anche, a dire il vero, di Althusser e della sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato.
Mi capita di chiedermi se, oltre a lavorare entrambi per lo Stato, non si faccia entrambi, in fondo, la stessa cosa: difendere, puntellare, giustificare lo stato di cose esistente. L’assetto sociale, le stratificazioni di classe, le differenze di status, le intermittenze del riconoscimento. Per dirla con Galtung, che è venuto a mancare qualche giorno fa: la violenza strutturale. E, per aggiungere Galtung ad Althusser, siamo sicuri di non avere a che fare, in quanto insegnanti, con quella violenza culturale che giustifica e fonda sia la violenza strutturale che quella fisica?
Il poliziotto e l’insegnante sono entrambi al servizio della salus. Il primo la serve nella forma della sicurezza pubblica, il secondo in quella della salvezza individuale. C’è sicurezza pubblica se nulla giunge a inquietare l’assetto sociale ed economico: se il godimento della proprietà privata, ad esempio, non è turbato dalla figura inquietante del ladro; ma può essere che il poliziotto debba anche intervenire per manganellare qualche operaio che rivendica in modo un po’ troppo insistente i suoi diritti di lavoratore.
Quanto alla salvezza scolastica – salvato è a scuola lo studente cui è stata evitata la bocciatura –, essa consiste nell’acquisizione del pensiero critico.
E il pensiero critico consiste, a sua volta, nell’acquisizione di un insieme di gusti più o meno intellettuali, di abiti linguistici, di stili di vita e di consumo che consentono allo studente di acquisire lo status che la società riconosce alle persone che hanno un titolo di studio – o hanno l’aria di averne uno.
La violenza del poliziotto è visibile, evidente, e dunque suscita indignazione. La violenza del professore è simbolica: introiettata, accettata fino al punto da scomparire.
Quando entro in classe trovo venticinque persone che sono chiuse in una stanza in un edificio dal quale non possono uscire di propria volontà. E non hanno nemmeno, senza chiedere permesso, la libertà di uscire da quella stanza. Così come non hanno la libertà di star seduti, in quella stanza, nel modo che ritengono più comodo. Eccetera. Tutto ciò è vissuto come normale, al punto che se fai osservare loro che normale non è ti guardano stupiti.
Questa è la repressione di base, la struttura detentiva fondamentale della scuola.
Sulla quale si innestano, stante il carattere asimmetrico della relazione, continue violenze, alcune sottili ad altre più evidenti – alcune che lasciano una disagio ineffabile, altre che fanno semplicemente piangere lacrime amare. E queste piccole violenze quotidiane si iscrivono in, e sono al servizio di, una violenza più grande, che è la riduzione della cultura a strumento di selezione sociale – il costringere qualsiasi testo alla funzione deformata, caricaturale e, appunto, violenta del pretesto.
Qualche giorno fa una delle mie migliori studentesse mi ha confessato di avere intenzione di lasciare la scuola. Le ho parlato nel corridoio, perché la scuola italiana non prevede un luogo e un tempo in cui un insegnante possa parlare individualmente con lo studente – il ricevimento periodico è con i genitori. Mi sono reso conto, parlando con lei, di non avere troppe ragioni. Avrei potuto dirle che la cultura è un valore. Ma lei lo sa bene: legge e studia molto, ben al di là degli obblighi scolastici. Avrei potuto, dovuto dirle che uno studio che avvenga al di fuori della scuola non è davvero solido. Ma ne sono persuaso? No. A scuola si studia per il voto e, una volta ottenuto il voto, per lo più si cancella tutto ciò che è stato maldigerito.
Avevo un unico argomento più o meno solido: senza un titolo di studio si precluderà la possibilità di fare molti lavori, di raggiungere una soddisfacente condizione economica e uno status corrispondente.
Ma questo vuol dire ammettere che la cultura scolastica (i docenti usano l’aggettivo scolastico, riferito all’apprendimento, in modo negativo: “L’esposizione è stata scolastica”, e dunque il voto all’esame di stato non sarà granché) non è che uno strumento vuoto – nulla più di un pretesto, appunto – per operare una selezione sociale.