Dell’educazione, modernità di Lambruschini

di Giovanni Fioravanti

L’educabilità è quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità. Per Louis Meylan, autore di Educazione Umanistica, pubblicato nel 1951 da La Nuova Italia, l’educazione può definirsi come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.
Se questa è l’idea di educazione che si intende perseguire, l’educazione non sarà mai diversa dal modo di pensare di chi l’ha concepita. È un’idea che ha sfidato i secoli fino a approdare tra noi sostanzialmente immutata.

Così capita di leggere una pagina scritta dall’abate Lambruschini verso la seconda metà dell’Ottocento: L’educazione del nostro tempo: Mancanza di principi direttivi, e provare la sensazione che potrebbe essere stata scritta oggi, non tanto e non solo da autori come il generale del Mondo al contrario.

La riporto senza usare né virgolette né corsivo per via del restyling che ho dovuto operare relativamente al lessico datato, che però nulla ha alterato del suo autentico contenuto, ma anche per il sottile piacere che provo all’idea del lettore che nello scorrere queste righe potrebbe essere inquietato dal dubbio circa quanto di queste parole giunge dal passato e quante viene dal presente.

Quello che più merita di essere notato e che ostacola una retta educazione è la mancanza di principi direttivi, l’incertezza nella quale gli educatori, insegnanti, adulti, genitori, ondeggiano nei confronti dei giovani, manca loro la coscienza sicura di quello che fanno e di quello che dicono. Di fronte a un comportamento un poco ribelle, a un caso straordinario sono colti alla sprovvista, non sanno cosa fare. Cedono all’indocilità invece di imporre la sottomissione, favoriscono la scioperataggine e la mala grazia invece di pretendere applicazione e maniere composte. Cosicché gli adulti si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.

Oggi nella casa i figli conversano continuamente con i loro genitori e parenti, ricevono carezze e lodi, insegnamenti, ammonizioni da voci e mani che sono loro care.
Ma i figlioli che una volta obbedivano e tremavano innanzi ai genitori, oggi non tremano e non obbediscono, prima erano sottomessi nella famiglia, ora sono padroni. Prima non aprivano bocca, fissavano gli occhi a terra, stavano immobili e composti, ora chiacchierano senza posa, urlano, s’abbracciano, interrompono il discoro altrui, non accettano la correzione se non è addolcita da parole soavi, quasi direi da scuse.

E (mi costa dirlo, ma lo devo dire) le madri hanno in ciò la colpa maggiore. Gustano la dolcezza, le delizie dell’amore materno e ne sono inebriate, si dolgono talvolta, si sdegnano anche per le molestie arrecate dalla baldanza dei loro figlioli, dal loro essere indocili, ma questi stessi sdegni sono segno della loro debolezza.
Quando i figlioli sono tranquilli, allora si abbandonano alla tenerezza, li guardano con ammirazione come idoli, li adorano, prevengono i loro desideri, cedono volonterose a tutte o quasi tutte le loro voglie.
Ma io noto ora l’amore cieco come pernicioso, l’amore debole, l’amore che in luogo di governare si sottomette, l’amore che rende i figlioli arroganti, inquieti, li rende per di più insofferenti d’ogni più lieve disagio.

Ora questa forza di negare ai fanciulli certe delicatezze, di avvezzarli per tempo ad una vita sobria e un poco dura, è rarità miracolosa tra noi.
La nostra gioventù è svagata, non sa piegarsi all’applicazione profonda e costante, a questa svagatezza e svogliatezza, a questo leggero svolazzare dello spirito sopra le più gravi cose conduce in primo luogo l’instabilità del loro animo, la vivacità della loro immaginazione eccitati oggi più di prima dalla maggior confidenza che si dà loro e dal loro vivere più libero e più allegro.[1]

Ne emerge una visione dell’educazione come strumento di direzione e di subordinazione nei confronti di chi ancora non è adulto, di chi è immaturo e ancora sta crescendo. Un’idea di sottomissione del minor al major come condizione dell’età evolutiva.
Ora che si pensi che l’educazione è fallita, e con essa il ruolo degli adulti e delle istituzioni educative, perché non è più quella di ieri, fa sorgere il dubbio che il fallimento non sia dell’educazione ma della società e della sua cultura quando questa convinzione si fa diffusa fino a divenire un luogo comune.

Perché, se tutto per essere corretto e giusto dovesse corrispondere al passato, significherebbe che si vive una vita disancorata, incapaci di riadattarsi ai continui cambiamenti culturali, sociali  e ambientali. Significherebbe essere inanimati, perché la distinzione più notevole tra gli esseri viventi e gli esseri inanimati consiste proprio nel fatto che i primi si mantengono rinnovandosi.

Ma la cecità e l’arroganza culturale che fanno ritenere che educare significhi forgiare l’altro a propria immagine e somiglianza sono di per sé già ciò che impedisce ogni possibile rinnovamento. Portano a non considerare che l’educazione è partecipazione, è coinvolgimento, è relazione, è comunicazione per divenire attivi protagonisti  della vita sociale della propria specie, per dirla con Dewey.

Relazione e comunicazione stanno a significare che venendo al mondo non si è ingranaggi di una macchina e neppure animali da addestrare, ma vite che assumono significato in relazione agli altri, all’ambiente sociale, non attraverso indottrinamenti ma attraverso la comunicazione, che significa possedere insieme, appunto in comune.
Ora il rischio è essere espressione di una generazione di adulti che non sa porre in “relazione” con il proprio ambiente sociale e culturale le giovani generazioni, proprio perché non sa “comunicare”, cioè non è capace di condividere, di porre in comune su un piano di parità tra chi cresce e chi, in quanto adulto, è già cresciuto.

C’è un’autorità che presiede alla formazione di ciascun essere umano che è il processo della vita nel suo insieme, ed è questo processo ad essere educativo. La vera natura della vita è quella di lottare per continuare ad essere.[2] E l’educazione serve ad apprendere come lottare per essere.
Relazione e comunicazione dovrebbero, dunque,  esprimersi nella naturale empatia degli adulti nei confronti dell’infanzia e dei giovani.
La solidarietà e la comprensione verso età che sono state anche le nostre, verso quelle condizioni, quegli stati, che a nostra volta abbiamo vissuto. Questa consapevolezza dovrebbe portare a stare a fianco dei giovani, senza sostituirsi a loro, di modo che ciascuno trovi le vie d’uscita e le soluzioni che gli confanno, come anche a noi è capitato. Essere vicini significa anche essere sempre disposti a dare una mano se richiesti, a porsi in relazione per comunicare, per stare in comunione.

[1] R. Lambruschini, Della Educazione e Della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
[2] J. Dewey, Democrazia e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 12




Spunti di riflessione per una educazione buona

di Raimondo Giunta

disegno di Matilde Gallo, anni 10

  1. La scuola è un luogo strano dove chi sa, fa le domande a chi non sa. Non sarebbe meglio il contrario? L’alunno pone le domande e l’insegnante cerca di rispondere. Sarebbe la scuola ideale: alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
    Ogni lezione dovrebbe essere una risposta ad una domanda (Dewey).
  2. “Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B. Rey): l’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che ascolta e che è tenuta ad ascoltare. Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali. L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. Una scuola a misura di ciascuno non è possibile, ma nobilita tutto l’impegno per farne un dovere professionale.
  3. Una scuola non è un’azienda: bisogna smetterla di farne un metro di paragone, di assumerne cultura e valori e di farla finita con l’accanimento docimologico e metodologico che ne è derivato.
    Gli alunni non si possono programmare come la produzione dei pezzi di ricambio.  Per accendere il desiderio di apprendere bisogna recuperare la dimensione esistenziale del crescere nel sapere: “Fatti non foste per viver come bruti/ma per seguir vertute e canoscenza”(Dante).
    Bisogna fare rientrare la didattica in una condivisibile filosofia dell’educazione, se si vuole dare un senso e un orientamento alla nostra presenza accanto ai giovani.
  4. I giovani con la loro “estraneità” ai codici e alle tradizioni del sistema scuola ci sfidano e ci impegnano a trovare le ragioni dell’esistenza e delle finalità del sistema di istruzione e formazione; ci interpellano con i loro problemi, con la loro inquietudine, con la loro avversione, con la loro opacità. Pongono problemi di senso, di motivazione, di prospettiva: troppo grandi e spesso inafferrabili per la scuola e gli insegnanti, se vengono lasciati soli o peggio ancora se sono fatti oggetto di campagne mediatiche di denigrazione.
  5. La motivazione ad apprendere è diventato un problema di prima grandezza nella nostra società. Per dargli una soluzione bisognerebbe che nella società si aprisse una lotta aperta e vigorosa contro la svalorizzazione del sapere, contro gli scandali permanenti degli incompetenti al potere, contro le pratiche diffuse e offensive di nepotismo e di clientelismo nelle assunzioni, contro gli arricchimenti facili e cospicui derivanti da ogni tipo di illegalità, contro il ciarpame di un edonismo volgare promosso dai media ai danni della serietà, dell’impegno e dello spirito di sacrificio.
  6. Nel problema della motivazione ci sono anche aspetti didattici e pedagogici. Credo che la soluzione consista nel dare “senso” ai saperi e nel dare spazio al protagonismo dei giovani nei processi di apprendimento. Bisogna passare da una pedagogia della sottomissione e dell’obbedienza, ad una pedagogia della libertà, dell’autonomia intellettuale; da una pedagogia della risposta ad una pedagogia della domanda. “La classe dovrebbe essere il luogo dove la verità della parola non è relativa allo status di chi la pronuncia”(B. Rey).
  7. L’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’uomo (Kant) e proprio per questo diventa un diritto inalienabile; ma è anche un elemento fondamentale per la costruzione della democrazia. (Dewey)

 




La filosofia: come insegnarla (o NON insegnarla). Un bel libro di Massimo Mugnai

Stefaneldi Stefano Stefanel 

Premessa biografica
Mi sono laureato in filosofia a Trieste nel 1979 con una tesi su Ernst Mach e la filosofia della scienza dal titolo Per un dibattito sui rapporti tra il machismo e il materialismo dialettico (relatore Pier Aldo Rovatti) con 110/110. Nel 1981 mi sono diplomato a Padova nella Scuola di specializzazione in Filosofia (indirizzo Estetica) con 70/0 e lode e una tesi dal titolo Percorsi filosofici tra Mach e Musil[1] (relatore Giangiorgio Pasqualotto), poi pubblicata col medesimo titolo. Ho anche partecipato ad un concorso universitario arrivando al terzo posto ma con 100/100 di voto complessivo nelle tre prove (40/40 e 40/40 nei due scritti: uno sull’ontologia in Kant e Hegel e l’altro sulla critica alla metafisica in Nietzsche e Heidegger; 20/20 nell’orale), ma con meno titoli di chi mi ha superato. Ho poi superato 5-6 concorsi a cattedra in filosofia, rinunciando sempre al ruolo nei Licei che avevo vinto per continuare a insegnare alle Scuole medie. Poi dal 2001 ho iniziato a fare il dirigente scolastico e dal 2012 dirigo un Liceo scientifico (quello che ho frequentato da studente). La scelta di rimanere alle medie ha avuto due motivazioni: la prima era che mi sentivo più vicino alla didattica dei Lehrjahren (“veder crescere l’apprendimento dalla parte delle radici” dicevo parafrasando il titolo di un libro degli anni Settanta); la seconda che non intendevo insegnare Storia della filosofia e che per non insegnarla al Liceo avrei dovuto mettermi in conflitto con scuola, colleghi, studenti e famiglie. E quindi ho “fatto” filosofia alle medie (Kinderphilosophie) finché sono diventato dirigente. Oltre al libro sopra citato ho pubblicato molti articoli su riviste filosofiche (Edizione della Società Filosofia Italiana – Sezione Friuli-Venezia Giulia di cui sono stato fondatore e Presidente per 7 anni; Testi & Contesti, Bollettino della SFI Nazionale e altre riviste).

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Il motivo per cui ho tediato il lettore con la tiritera di cui sopra è che il libro di Massimo Mugnai uscito da pochissimo dal titolo Come NON insegnare la filosofia[2] (Raffaello Cortina Editore, Milano 2023) racconta la mia storia ed esprime il mio pensiero come meglio non avrei saputo fare.


La mia adesione alle tesi di Mugnai è assoluta e il dissenso in un paio di punti nasce probabilmente dalla diversità dei nostri percorsi di vita e di studio, più che da una diversa visione della questione. Alla base della tesi di Mugnai c’è quello che io ho sempre pensato: per uccidere la filosofia bisogna insegnare Storia della filosofia agli adolescenti[3]. Il “braccio armato” della storia della filosofia è il manuale liceale. Mugnai descrive il problema così: “La struttura portante del manuale, però, è la stessa da quasi settant’anni: una narrazione della storia della disciplina, secondo la quale le varie teorie e concezioni filosofiche si susseguono nel tempo; è un immane racconto dossografico senza capo né coda[4]”.

Dirlo meglio di così è impossibile e difatti non lo dico. Aggiungo solamente che contestualizzare storicamente il pensiero di un filosofo (o anche di un’opera letteraria) significa sminuirne la forza e tradurre tutto in riassunto, cosa certo utile per gli studiosi, terribile per gli studenti. Quando Protagora scrive che “l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono” e quando Anassimandro dice che “le cose fanno ritorno là da dove sono venute secondo la necessità. In questo modo pagano reciprocamente la colpa di essere mortali” mi pare ci sia poco da aggiungere: c’è solo da argomentare, studiare, analizzare, dibattere, cioè, fare filosofia. Cosa aggiunga il contesto, in cui sono state scritte, alle due frasi sopra riportate proprio non lo vedo. La Storia della filosofia è molto bella (li ho fatti tutti da giovane, quegli esami: Storia della filosofia antica, Storia della filosofia medievale, Storia della filosofia moderna, Storia della filosofia contemporanea: altro a Trieste non c’era, sennò facevo anche quello), ma per gli studiosi, non per gli studenti (anche se studiosi).

La critica ai manuali di Mugnai è perfetta con un unico neo: propone anche lui un manuale sistematico (cioè, sugli argomenti) sulla scia di quello che si fa in varie nazioni che lui cita.
Il manuale sistematico è una bella cosa, ma non è un manuale, è semmai un testo di proposta. Mugnai ricorderà, però, il naufragio di Mario dal Prà, in questo senso, col suo manuale sistematico di Storia della filosofia per i Licei degli Anni Sessanta[5], schiacciato poi dai vari Geymonat, Abbagnano e Fornero, Ferraris, ecc.
Poiché però il rapporto col testo diventa sempre più debole e il tempo sfugge ritengo che la strada da seguire sia quella di fare filosofia a scuola senza alcun manuale, andando sui testi a vedere cosa c’è di interessante. Esemplifico brevemente: per introdurre i Presocratici partirei da quello che di loro dice Aristotele nella Metafisica e andrei a leggere con gli studenti i frammenti che ci sono stati tramandati per vedere se su questo punto Aristotele aveva ragione e se aveva preso un abbaglio (ovviamente io sono per la seconda che ho scritto). E via di seguito: provate a ragionare con gli studenti sulla traduzione di “intelligo id” di Spinoza e fatemi sapere a cosa serva contestualizzare storicamente la prima parte dell’Ethica. [6]

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Esiste anche il problema dei docenti di filosofia su cui Mugnai dice parole definitive. Per cui aggiungo solo alcune considerazioni: molti sono laureati in storia e dunque non hanno un grande background filosofico e quindi hanno oggettive difficoltà ad insegnare filosofia senza i riassunti. Quelli laureati in filosofia per lo più continuano a studiare e ad interessarsi alla filosofia o cercano di agganciare una carriera universitaria. Anch’io avevo quell’idea, pensavo che il mio scopo filosofico fosse quello di dimostrare che Ernst Mach è un Grande Filosofo e non un Filosofo Minore e che con lui lo spinozismo era entrato nelle scienze. Da giovane ero un teoretico antistoricista che avrebbe dovuto per forza di cose insegnare in un Liceo, visto che all’Università non era aria. Ho continuato a studiare filosofia e lo faccio anche ora (ho appena finito di leggere un libro su quel gran pasticcio che si autodefinisce “nuovi realismi”) e mi sono accorto che gli insegnanti di filosofia al mattino parlano e spiegano i Filosofi Maggiori, al pomeriggio si occupano ossessivamente di Filosofi Minori, una volta erano gli epigoni del marxismo, oggi francesi vari e qualche tedesco, mantenendo un certo disprezzo italico per la filosofia analitica.
Leggendo il libro di Mugnai mi è venuta questa domanda: perché gli insegnanti si occupano nei loro studi (pomeridiani) dei Filosofi Minori e spiegano al mattino i Filosofi Maggiori attraverso riassunti (manuali) a giovani di 16, 17, 18 anni? Se è vero che nel mondo gli Studiosi Maggiori (cioè gli studiosi di rango, gli ordinari) si occupano dei Filosofi Maggiori è altrettanto vero all’università gli Studiosi Minori (quelli che vogliono entrare, i ricercatori, gli accoliti, i volontari, gli “sgomitatori”, ecc.) si occupano di Filosofi Minori o di Minuzie Filosofiche.
Allora mi chiedo per quale motivo gli studenti liceali devono sapere cosa pensano i Filosofi Maggiori attraverso riassunti, mentre i loro docenti al pomeriggio dei Filosofia Maggiori non si occupano più (chiedo al lettore di non farsi venire la tentazione di dire perché li hanno già letti tutti). Mugnai tutto questo lo mette in evidenza con grande maestria: “acquisire competenze nell’ambito della storia della filosofia non equivale ad acquisire competenze nell’ambito del ragionamento filosofico[7]”.

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E arriviamo al punto su cui penso che Mugnai ragioni da professore ordinario e quindi non abbia il punto di vista di chi la scuola la vive dal basso. Scrive Mugnai: “Le competenze, perciò, fanno riferimento soprattutto a conoscenze parziali, finalizzate al raggiungimento di determinati scopi: rendere competente uno studente significa dargli la possibilità di mettere in pratica, prima possibile, le conoscenze acquisite[8]”.
A livello altissimo (diciamo, generalizzando, a quello degli ordinari, anche se non proprio di tutti loro) conoscenze e competenze coincidono: chi è esperto sulle ginocchia, sulla guerra del Peloponneso, sugli enzimi o su Pomponazzi ha tutte le conoscenze necessarie e sufficienti che gli servono per essere competente.
Dunque, a livello alto (ho scritto ordinari, non professori di Liceo) spesso il proprio sapere crea confusione sul concetto di competenza. A livello liceale deve esserci un equilibrio tra conoscenze e competenze, perché le competenze senza conoscenze non esistono, mentre troppa conoscenza assemblata e memorizzata uccide la competenza (agli esami di maturità studenti bravissimi a cui si chiede di deviare da quello su cui si sono preparati spesso si perdono tra lo sconcerto dei docenti interni che non si capacitano dell’intoppo). Quindi le competenze non sono uno stratagemma per studenti che valgono poco, ma sono l’unica possibilità che un sapere si cementi in modo da formare quella base su cui far crescere l’apprendimento[9]. “Intelligo id”, dove senza “id” non c’è alcun “intelligo”.

Su un punto Massimo Mugnai coglie quello che è il problema centrale della filosofia in Italia: “se ci domandiamo se è possibile fare filosofia (buona filosofia) senza conoscere la storia della disciplina, la risposta è banale: sì, è possibile[10]. Resta, dunque, incomprensibile perché si voglia continuare ad avere pessimi conoscitori di Storia della filosofia (e anche di Storia della letteratura italiana) quali sono certamente gli studenti e non si va nella direzione delle competenze filosofiche, che sono comunque un’ottima modalità per abituare la mente ad argomentare e ad approfondire. Certamente con i manuali in adozione e le modalità di spiegazione della Storia della filosofia attraverso riassunti di filosofi e dei pensieri filosofici, spesso astrusi, non si sviluppa alcuna competenza e ci si impedisce di riconoscere le competenze che gli studenti nel loro Zeitgeist (spirito del tempo) stanno sviluppando in modo autonomo, come facevamo noi 50 anni fa. Quindi va cercata un’altra strada e io penso sia quella indicata da Mugnai.

In chiusura, dunque, un grande grazie a Massimo Mugnai, sperando che il folle mondo della filosofia (che non è pop [11], nemmeno un po’) cominci ad avere pietà dei suoi studenti e metta fine allo strazio del riassunto raccontato.

[1] Stefano Stefanel, Percorsi filosofici tra Mach e Musil, Lalli, Poggibonsi 1984.

[2] Massimo Mugnai, Come NON insegnare la filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023.

[3] Nel 2014 sul sito Pavone Risorse ho pubblicato un breve articolo dal titolo: Filosofia nei Licei: ripartire da zero, che ha avuto un effetto pressoché nullo. (http://www.pavonerisorse.it/scuolaoggi/filosofia_nei_licei.htm).

[4] Ibid, pag. 76.

[5] Mario Dal Prà, Sommario di storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1964 e successive ristampe.

[6] Sempre dalla mia (noiosa) biografia: ho insegnato per 22 anni alle scuole medie e non ho mai – dico mai – adottato un manuale. I ragazzi hanno sempre comprato libri, non manuali. Libri integrali, non per le medie. Si sono laureati, lavorano, hanno filosofato da ragazzi. Di questo ho scritto in alcuni interventi pubblicati sulla Kinderphilosophie.

[7] Mugnai, cit, pag. 174.

[8] Ibid, pag. 72. A completamento di questo passo rimando alla perfetta fotografia del passato, una sorta di descrizione della mia vita da studente liceale: “Si può dire che la scuola degli anni Sessanta fornisse agli studenti molta informazione, ma che la formazione fosse il frutto di un’attività di acculturazione in buona parte autonoma e individuale”, pag. 167.

[9] La frase: “E’ evidente che, negli ultimi dieci anni, il livello delle competenze degli studenti delle superiori si è notevolmente abbassato, in quasi tutte le materie” (Ibid, pag.. 165) tradisce il punto di vista del professore ordinario. Non si è abbassato proprio un bel niente, anzi nei giovani c’è un notevole aumento di competenze, che però non sono ancora state rubricate dalle università e dalla scuola e quindi vengono ritenute inutili. Invito il prof. Mugnai (si fa per dire, credo non leggerà nemmeno una riga di quello che ho scritto) a verificare il tasso di resistenza e resilienza dei giovani rispetto a saperi obsoleti, stantii, baronali che vengono dispensati come sapere assoluto e la loro capacità di uscirne con grandi disposizioni verso un futuro molto più incerto e incerto del nostro.  L’opinione del prof. Mugnai su Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, pag. 167 mi trova lontanissimo: sono due personaggi oscuri, che scambiano un liceo classico di Torino per il sistema scolastico nazionale.

[10] Ibid, pag. 48.

[11] Ibid, “Filosofia pop e filosofia tradizionale”, pag. 146.




Didattica cooperativa d’altri tempi, ovvero quando le maestre e i maestri lasciano un segno

Correva l’anno 2022 e in occasione dell’assegnazione di una benemerenza assegnata dal Comune di Treviso su sollecitazione della commissione PPOO, a Cinzia Mion, una ex-allieva di scuola elementare ha letto questa lettera che pubblichiamo perché è un inno alle tecniche Freinet e alla corrispondenza interscolastica.

Questa bella storia ha inizio nel 1964, in un paesino a metà strada tra Conegliano e Sacile, a Codognè. Io ero in prima elementare, la Maestra Cinzia ai suoi esordi nel mondo dell’insegnamento, in questo paesello di campagna, gente semplice e genuina, arriva Lei giovane maestra, bellissima donna, una classe di 15 alunni, con soli 4 maschietti scatenati.

Ricordiamo tutti noi con molto piacere le esperienze vissute in quegli anni, potrei parlarvene per ore:
-del terrario costruito in classe, con attenzione al mondo degli animali;
-l’anemometro in cortile, con riflessioni su aria pulita, venti,  oggi lo chiameremo ambiente;
-la ricreazione con i giochi organizzati e definiti sport, componente fondamentale di una vita sana.

Giusto per essere certa che non vi sia sfuggito, stiamo parlando degli anni 60, la Maestra Cinzia è stata la mia insegnante dalla prima alla quarta elementare, gli argomenti su cui erano basate le nostre giornate, oggi sarebbero argomenti noti, in uso quotidiano, ma qui eravamo nel 1964, erano tempi non sospetti per questi temi, ma non per Lei.
Però non voglio parlarvi di questi argomenti, ho fatto solo un accenno, voglio invece raccontarvi di un’altra esperienza vissuta in quel periodo e per me esaltante, la corrispondenza con un’altra classe di coetanei. Tramite le conoscenze della Maestra, siamo stati in contatto con una classe di Aggius in provincia di Sassari, paesetto delizioso nelle colline sarde, qui insegnava il Maestro Andrea Suelzu, altro insegnante innovativo.
Abbiamo iniziato a scriverci, la scrittura delle letterine per i ns amici era un evento, ma l’arrivo del pacco con le loro letterine, lo era molto di più…
Poi sono venuti i pensierini per il Natale, noi avevamo il mega pacco che arrivava da Aggius e loro quello che arrivava da Codognè, momenti densi di gioia e di entusiasmo.

Ma ancora non è finita la storia, ci sono anche i nastri con la nostra voce registrata con i saluti reciproci, la stampa dei giornalini di classe, ed intanto scorrevano gli anni delle elementari con questa affettuosa vicinanza, senza mai incontrarci naturalmente.
Bello bellissimo, poi finisce la 4° elementare e la maestra Cinzia si occuperà di un’altra classe, in un altro paese, tutte queste belle cose non avranno seguito.
Ma l’entusiasmo seminato,  ha continuato a germogliare, io personalmente ho continuato a scrivere alla mia compagna di penna, Giovanna, per anni.

Poi gli eventi della vita hanno messo in pausa questo ricordo.
Però il paesello sardo, il nome e cognome della mia amica, sono sempre rimasti archiviati da qualche parte nella mia memoria, finchè un giorno molti anni dopo, esattamente nel 2010, 45 anni dopo, decido di provare a ritrovarla, mi butto sul web e ci riesco pure!!

Entusiasta di averla trovata, e felice che anche Giovanna, ricordasse tutto, prenoto il primo volo, ed emozionata volo ad Aggius, per vivere questa avventura. La loro accoglienza è stata memorabile, paesetto piccolo dove tutti si conoscono, stavano attendendo il mio arrivo, visita guidata al Comune del Paese con il vice Sindaco, ed un sacco di altre bellissime emozioni…
Naturalmente erano giorni in cui la Maestra Cinzia era presente nei miei pensieri costantemente, ma dopo la 4° elementare non avevo più avuto contatti con Lei, piano piano, la mia idea prende forma, e con il supporto del web, di sabato sera, in questo paesino delle montagne sarde, mi accingo a cercarla, trovo tanto su di lei, ma non quello che serviva a me, il telefono naturalmente. Scoraggiata, ad un certo punto ricordo che lei a volte portava a scuola una bimbetta, sua figlia, della quale per qualche ragione io ricordavo nome e cognome, questa strada è stata più semplice, Tiziana mi ha ascoltato, si è fidata, ha capito che non ero una truffatrice ma una sognatrice, mi ha dato il telefono desiderato, che io ho prontamente usato.

Non senza preoccupazione, visti gli anni trascorsi, contatto la Maestra Cinzia, era sabato sera, sono entrata in punta di piedi in casa sua per non disturbare, scusandomi, imbarazzata ma decisa cerco di spiegare chi ero io, pensando di doverla aiutare nel ricordo, del resto erano trascorsi quasi 50 anni, ma come le ho detto il mio nome e cognome, lei era prontamente connessa e mi ha immediatamente detto tutti i nomi della classe, chiedendo riscontro su tutti,  con la passione che è parte di Lei, ricordava tutto e tutti !

Orgogliosa che io fosse ad Aggius, felice di condividere con me, c’è stata una mega call alla cena del paese, con solenne promessa di vederci al mio rientro, cosa che è avvenuta immediatamente, con conseguenti rimpatriate di ex alunni, scambi di foto e di ricordi. Poi lo scambio di visita di Giovanna, che arriva a Codognè, fino al viaggio ad Aggius della Maestra Cinzia per la presentazione di un libro.

Il mio racconto per oggi finisce qui, i miei ricordi ed il grazie vivo e sentito, non solo mio ma di tutta la classe elementare di Codognè, non finisce qui, continuerà per sempre.

 




Mario Lodi: “La pace va fatta prima della guerra”. Firma l’appello

di Roberto Lovattini

Mario Lodi era convinto che la Pace andasse fatta prima della guerra e non dopo. Per questo motivo dedicò tutto il suo impegno come maestro, educatore e scrittore all’educazione alla Pace.

Con l’appello che noi del Comitato Scuola Pace Costituzione abbiamo promosso nelle scuole e nel mondo educativo, è a lui e al suo lavoro di professionista militante che pensiamo mentre siamo impegnati a  raccogliere adesioni chiedendo, non una generica firma, ma  l’impegno personale di uomini e donne che lavorano nel campo dell’educazione.

Pensiamo che spetti a noi, adulti ed educatori, parlare con bambini e ragazzi, fare in modo che  possano acquisire l’abitudine a confrontarsi, esprimere pareri e partecipare alle decisioni che li riguardano come prescrive la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia.

Questa abitudine possono impararla se compiono tante esperienze pratiche partendo dalla  vita reale, quella vissuta a scuola ma anche e soprattutto in quella grande scuola che è il mondo. Dai problemi scolastici e relazionali, ai conflitti bellici che rischiano di spazzare via l’umanità intera.

Infatti sempre Mario Lodi nel numero 3 di A&B (A come Adulti e B come Bambini) nel 1983 proponeva “di usare i soldi, invece che per le armi, per costruire case, ospedali, scuole e infine fare un referendum in tutto il mondo, facendo votare anche i bambini, per decidere se il popolo vuole i missili o no sul suo territorio.”

Qualche anno fa la classe 5^ della scuola primaria Caduti sul Lavoro –  anno scolastico 2006/07, al termine di uno studio approfondito, propose la creazione del Ministero per la Pace.

Ecco: facciamo affidamento sui docenti, ma non solo, per educare alla Pace e alla nonviolenza nelle scuole e nei luoghi dove i giovani si ritrovano ( centri educativi, parrocchie, centri culturali e ricreativi, dopo scuola). Sappiamo che  in questo momento anche a scuola, è difficile  parlare la lingua della nonviolenza, del dialogo e del confronto. Esiste una certa tendenza, speriamo minoritaria e che non faccia breccia nella scuola, a rivalutare linguaggi e idee messe al bando dalla storia, a distinguere popoli buoni da altri cattivi e a non confrontare le ragioni degli uni e degli altri. Si tenta di far rientrare a scuola messaggi e contenuti che richiamano lo spirito militaresco, come il tentativo, ritirato per le proteste, di introdurre nelle scuole zainetti con scritte militari.

Occorre però resistere, dobbiamo farlo come forma di rispetto nei nostri confronti e nei confronti dei nostri alunni che devono vedere in noi dei punti di riferimento e come forma di solidarietà per i  morti nelle guerre in corso, tra cui tanti bambini.

Sappiamo però che il pericolo più grande è quella forma di indifferenza, il non voler prendere posizione, che è tutto il contrario del motto milaniano ”I care” (mi interessa, me ne faccio carico), che è l’unico che può coinvolgere e appassionare studenti e studentesse.

Oggi come ai tempi di Lodi abbiamo la necessità di non lasciare soli i bambini con le loro domande e le loro paure “I bambini  […] sanno che l’uomo, con la sua intelligenza ha inventato una quantità di macchine utili, ma nello stesso tempo ha prodotto armi che possono distruggere la vita sul pianeta. Essi sanno che il mondo è diviso e che su ogni parte stanno puntati missili pronti a partire, carichi di bombe. Sanno che in pochi minuti la terra può essere distrutta e gli uomini morire. E loro, i bambini, non avere il diritto di vivere la loro vita.” ( sempre Lodi “La Pace nelle poesie di bambini e adulti).

A scuola i bambini e i ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento, di persone che vivano l’ “I care”.

Sta a noi con il nostro lavoro quotidiano contribuire alla formazione di una mentalità pacifica e che rifiuta l’uso della violenza per risolvere le questioni, dai litigi personali ai conflitti tra gli stati. E’ così che possiamo dare concretezza alla nostra Costituzione e a quanto scritto nelle “Indicazioni Nazionali per il curricolo.”

Per questo motivo invitiamo tutto il mondo della scuola, dell’università e dell’educazione a sottoscrivere il nostro appello compilando il form che trova sulla nostra pagina facebook -scuola pace costituzione – oppure direttamente cliccando qui.
Senza la Pace tutto è perduto! Con la Pace tutto si può sperare di ottenere!




Non voltare mai le spalle al sapere. Qualche riflessione su saperi e competenze

di Raimondo Giunta

Un’idea nuova di istruzione e formazione

Pluralità dei saperi, pluralità dei linguaggi, pluralità delle culture: complesso è il mondo in cui si collocano le scuole del terzo millennio. La scuola è costretta a rinnovarsi e a proporre un’idea nuova di istruzione e formazione. Per farlo è necessario innanzitutto chiedersi se gli attuali processi di istruzione e formazione sono ancora in grado di preparare gli studenti ad affrontare i problemi e le sfide della società contemporanea; se li preparano a capire le trasformazioni in atto e i riflessi che hanno sulla vita quotidiana; se gli forniscono strumenti per un proprio progetto di vita e per l’inserimento nel mondo del lavoro; se consentono un’appropriata assimilazione dei diritti di cittadinanza.
La missione della scuola, infatti, non è solo quella di arricchire una persona di sempre più varie e complesse conoscenze, ma anche quella di formare cittadini consapevoli dei propri mezzi, in grado di sviluppare le strategie personali più opportune di interazione con la realtà. Le qualità intellettuali e la conoscenza sono sempre attributi strategici della persona, ma non gli unici e quindi devono essere messe in sintonia e a disposizione di altri aspetti della persona; non possono essere gli unici oggetti dell’attività formativa.

Per una formazione che si dia questi obiettivi è necessario liberare del tempo scolastico, occupato da un’infinità di argomenti, impiegandolo in attività in cui gli studenti possono mobilitare le proprie conoscenze per affrontare quei problemi che danno un senso al sapere che deve essere posseduto.
La giustificazione dell’esistenza e del mantenimento delle istituzioni educative è costituita dalla convinzione che i saperi acquisiti a scuola siano necessari per preparare un giovane a collocarsi utilmente e nel modo migliore nel mondo del lavoro e nella società.

In funzione di questi obiettivi si sono susseguite indicazioni e prescrizioni per pensare, elaborare e realizzare curricoli orientati alla formazione di competenze chiave o strategiche o trasversali, come dir si voglia.  E ora orientate anche alla formazione delle soft skills, di competenze non cognitive come:  autonomia;  fiducia in se stessi ; flessibilità;  resistenza allo stress; capacità di pianificare ed organizzare; attenzione ai dettagli;  essere intraprendente;  capacità comunicativa.

Parliamo allora di competenze

La questione è molto seria, soprattutto quella delle competenze non cognitive, e solleva importanti interrogativi e non poche difficoltà.
Riguardo al concetto di competenza che viene evocato in questi orientamenti curriculari dovrebbe ritenersi ancora valida la definizione che ne diede M. Pellerey nel 2004: “Una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, AFFETTIVE ed EVOLUTIVE, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo “.

La definizione di Pellerey è quanto mai opportuna per comprendere come nella sollecitazione ad occuparsi delle competenze trasversali e soprattutto di quelle non cognitive può annidarsi il rischio di dividere ciò che è unito e deve restare unito: istruzione ed educazione

COMPETENZE/CHIAVE.
Un diverso trattamento occorrerebbe per le competenze/chiave, per la loro necessaria connessione con i saperi che bisogna possedere.  Infatti una competenza può essere definita chiave “in quanto gli elementi che la costituiscono (conoscenze concettuali, abilità operative, intellettuali e pratiche, disposizioni interne stabili) sono aperti a un loro sviluppo e approfondimento. Essi, cioè, costituiscono un patrimonio personale posseduto a un livello di comprensione, stabilità e utilizzabilità tale da potere essere valorizzato nei processi di trasferimento e adattamento in altri contesti diversi o più impegnativi” (M. Pellerey).

Per la scuola dell’obbligo da tempo si parla di competenze chiave, come competenze per la cittadinanza attiva. Queste competenze investono le aree dell’identità, dell’autonomia personale e della responsabilità sociale. Vanno oltre gli insegnamenti disciplinari, ma non vogliono essere alternative ad essi.
Esse si riferiscono a tre ambiti formativi tra di loro connessi, che riguardano
LA COSTRUZIONE DEL SE'(Imparare ad imparare; progettare);
RELAZIONI CON GLI ALTRI: a)Comunicare; b) Collaborare e partecipare; c)Agire in modo autonomo e responsabile;
RAPPORTO CON LA REALTA’ NATURALE E SOCIALE: a) Risolvere problemi; b)Individuare collegamenti e relazioni; c)Acquisire ed interpretare l’informazione

Le competenze chiave della cittadinanza devono scaturire dai saperi contenuti nell’asse dei linguaggi, nell’asse matematico, nell’asse scientifico-tecnologico, nell’asse storico-sociale.  
Le competenze-chiave vengono pensate come il risultato che si può conseguire nel processo d’insegnamento/apprendimento attraverso la reciproca integrazione e interdipendenza dei saperi e delle competenze propri di ognuno degli assi culturali
”Le competenze sviluppate nell’ambito delle singole discipline concorrono alla promozione di competenze più ampie e trasversali,  che rappresentano una condizione essenziale per la piena realizzazione personale e per la partecipazione attiva alla vita sociale nella misura in cui sono orientate ai valori della convivenza civile e del bene comune”
(Indicazioni per il curricolo dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione-Allegato al D. M.  31/72007).

Le mete educative relative alla costruzione dell’identità e dell’autonomia personale oltrepassano i risultati che si conseguono con i saperi disciplinari, ma non possono prescinderne a scuola. Il profilo che viene disegnato con le competenze chiave dell’obbligo scolastico è quello di una persona responsabile, capace, disponibile al confronto, sensibile alle innovazioni.

SOFT SKILLS
Con le soft skills si va un po’ oltre, perché si vorrebbe dare spazio alla formazione di attitudini appropriate allo stile di vita conforme allo spirito del tempo, al sapere essere come si preferirebbe che fosse nei nostri giorni, con il rischio di trattarle come se costituissero uno specifico settore della formazione e non il risultato complicato, eventuale e sperato della cura dei contenuti delle discipline scolastiche.  Per questo vale la pena di vigilare.
La formazione delle soft skills, delle competenze del sapere-essere, senza la dovuta consapevolezza critica, rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione nel mondo del lavoro.
In questo caso non avremmo con soft skills e con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.  Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.

COMPETENZE TRASVERSALI
Discorso a parte bisogna fare con le competenze trasversali; emergono con forza nell’ambito lavoristico e nella pratica formativa per e sul lavoro, ma da tempo ci si è spostati con esse nel campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.  Come competenze trasversali vengono indicate, secondo le varie scuole di pensiero, operazioni mentali come comprendere, dedurre, coordinare, applicare, analizzare, trasferire, interpretare, valutare; saper-fare metodologici come prender nota, strutturare un discorso, manipolare dei concetti, padroneggiare dei processi d’astrazione; e anche attitudini del sapere essere come collaborare, partecipare, realizzare progetti personali e/o professionali, sapere ascoltare e dialogare, parlare in pubblico, sapersi destreggiare

In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta. Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite. “Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione(. . . ), ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse, attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere, delle relazioni che sa instaurare, dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G. Di Francesco).

La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche. Non è attributo delle ”cose” (le competenze), ma del soggetto. Messa in discussione come attributo delle competenze, è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R. Frega). Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico,  irriflessa ripetizione di procedure d’azione

Che le competenze trasversali siano mete educative di alto livello non è difficile accettarlo; lo è invece l’opinione che per arrivarci bisogna passare per forza dalle pratiche delle attività interdisciplinari.  Ogni disciplina ha un proprio statuto epistemologico, a volte irriducibile a quelli di altre discipline ; un fatto questo che dovrebbe fare riflettere ed invitare ad un certo grado di prudenza nel tentare il percorso dell’interdisciplinarità e della transdisciplinarità.
L’interdisciplinarietà, come presupposto della trasversalità, non si decreta. Scaturisce dai problemi che bisogna affrontare.
“La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale. (. . . )Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare”(PH. Perrenoud).  Uno studioso come B. Rey afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare, a comparare, a pensare, a dedurre ad adottare delle strategie riflessive etc, etc, . Che essi imparino, piuttosto, un po’ di matematica, un po’ di letteratura, un po’ di storia, un po’ di biologia, un po’ di lingue straniere”.
Non hanno proprio torto…

Si voltano allora le spalle al sapere e alle conoscenze?

A scuola non si dovrebbe pretendere di formare un particolare e condiviso tipo di soggettività.  Ogni persona vive e sviluppa la propria identità dentro un sistema di relazioni sociali che la precede e le sopravvive e il compito del sistema di istruzione e formazione è quello di liberarla dai condizionamenti sociali e di offrirle gli strumenti per individuare e cogliere tutte le opportunità di cambiamento e di partecipazione, che una società può offrire.
La scuola deve assolvere a compiti di socializzazione, come si aspetta la società, ma deve assolvere a compiti di educazione nei confronti di ogni singola persona per renderla libera e autonoma con lo sviluppo e l’esercizio libero della propria ragione e delle proprie facoltà.

Con la formazione delle competenze chiave, trasversali e delle softskills, al netto delle preoccupazioni che al riguardo bisogna avere, si cerca di passare dalla pedagogia del sapere e della conoscenza alla pedagogia del saper fare e del sapere agire. Questo comporta spostare l’attenzione dell’attività formativa dai contenuti alla persona, dal sapere alla capacità di apprendere, dall’insegnamento all’apprendimento. Le conoscenze e i saperi assumono rilievo come ambito e mezzi dell’azione formativa.  Si sollecita un cambio di sguardo, di prospettiva per fare della persona la misura del sapere e per assegnare un senso all’apprendimento. Per contrastare procedure didattiche che renderebbero inerti, astratti e formali i saperi e le conoscenze; per dare spazio alla responsabilità e al protagonismo dell’alunno non è affatto detto, però, e necessario che si debba ridimensionare il valore dei contenuti nei processi formativi.
Lo sviluppo e l’incoraggiamento di un atteggiamento attivo dello studente a rigore implica un sovvertimento dei metodi di insegnamento, delle procedure didattiche, ma non l’irrilevanza dei contenuti e dei saperi.

Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza bisogna prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita, riesce a portarsi all’altezza delle conoscenze e dei saperi che è necessario possedere. Nell’enciclopedia del sapere scolastico ci devono essere contenuti che sono FINI e ci possono e debbono essere contenuti che senza scandalo sono MEZZI per gli scopi e gli interessi che di volta in volta devono essere presi in considerazione per rispondere alle esigenze della società.  Ci si attende che la scuola prepari per l’avvenire, ma ci si attende anche che la scuola sia il luogo della trasmissione dei valori e della cultura, delle tradizioni, della storia della società alla quale appartiene. Questa duplice esigenza crea delle tensioni, che occorre stabilizzare; le antinomie a scuola hanno una soluzione nella gestione della complessità e non nella loro semplificazione. Cambiare prospettiva, punto d’osservazione non deve significare indebolire il ruolo e il significato dei saperi scolastici. Non se ne ricaverebbe alcuna utilità.

La scuola è l’unico luogo dove è possibile trasmettere e fare appropriare alle nuove generazioni le basi di una cultura comune, unico fondamento per la convivenza e la cittadinanza. La cultura comune è data, però, da alcune discipline, da alcuni specifici contenuti, da principi e valori storicamente determinati e condivisi e non si riduce ad un insieme di competenze chiave, trasversali o alle softskills…

 




Per una scuola davvero efficace ci vuole della buona pedagogia

Stefaneldi Raimondo Giunta

La missione della scuola è stata sempre quella di educare a vivere con gli altri; ma oggi gli altri sono quelli che vengono da molto lontano e sono diversi da noi e diversi tra di loro.

La scuola oggi ha responsabilità di fare vivere armoniosamente e quotidianamente le diversità, di porsi consapevolmente come antidoto contro l’imperversare di sentimenti di odio, contro la manipolazione dell’informazione che di fatto ne è strumento; la scuola oggi o diventa scuola del dialogo o non è scuola; dialogo tra gli alunni; dialogo tra docenti e docenti; tra alunni e docenti; dialogo tra alunni e il sapere; dialogo tra scuola e società.

Dopo ogni indagine sullo stato di salute della scuola, così come dopo ogni fatto che documenta la condizione di fragilità e di disorientamento delle nuove generazioni si alzano le voci per reclamare una scuola nuova e diversa rispetto a quella di cui si dispone. Puntualmente.
E allora diciamolo.  La scuola intrinsecamente nuova, naturalmente nuova è quella che insegna a pensare, che educa all’autonomia intellettuale e del giudizio morale. Non è la ricchezza della strumentazione, né l’attrattività degli ambienti di apprendimento a farla diventare nuova. Nemmeno l’articolazione del curriculum.
La scuola, anche quella sgarrupata è veramente nuova se aspira nelle sue date condizioni a rendere l’alunno protagonista, contento del proprio apprendimento. Consapevole della propria crescita.

La scuola ha una propria costitutiva proiezione verso il futuro e fa bene il proprio mestiere se del futuro non restringe l’orizzonte, non amputa le sue possibilità. Se tutto ciò ha un senso, la scuola che prepara al futuro non è quella che si piega al diffusissimo mito dell’impiegabilità, perché colloca la scuola su una prospettiva di breve durata e ne impoverisce l’orizzonte sotto molti aspetti.

”La cultura scolastica ridotta a competenze strumentali evapora in una moltitudine di saper fare senza altra legittimità se non provvisoria, aleatoria e dunque del tutto discutibile”(Meirieu).

Guardando con preoccupazione a quel che succede nel mondo, si comprende senza tante complicazioni che la scuola è davvero efficace non soltanto quando riesce a istituire rapporti fecondi con il mondo del lavoro, ma anche e soprattutto se sviluppa e difende i propri tratti di comunità educativa, se prende in carico il compito di fare crescere bene gli alunni nel sapere, nel rispetto del prossimo e dell’ambiente. Si dovrebbe dire ad alta voce non solo che cosa si pretende che gli alunni sappiano e sappiano fare; non solo che cosa si pretende che diventino, ma anche che cosa ci vuole, perchè siano partecipi di una comunità e di una storia.

La scuola come istituzione pubblica deve educare al bene comune e contrastare, come sarebbe logico, le strategie individualistiche e consumistiche delle famiglie e degli alunni, perché ne snaturano la missione. La scuola a domanda individuale come periodicamente e pubblicamente si reclama è un obbrobrio; un tradimento della sua funzione sociale. La scuola non è e mai dovrebbe essere uno dei tanti prodotti messi in concorrenza nel mercato delle merci, dei beni e dei servizi. L’oscuramento delle mete collettive (cittadinanza, valori costituzionali, sviluppo umano e culturale) ha fatto sparire il “noi” per il quale i sistemi scolastici sono stati costruiti.

La scuola che va salvata, protetta e sviluppata ha come suo scopo fondamentale l’emancipazione, la liberazione dai pregiudizi e dall’ignoranza, la speranza di una vita buona. Ne consegue che una scuola che si rispetti, quindi, mai dovrebbe darsi come obiettivo l’esclusione di una parte dei suoi alunni dalla trasmissione dei saperi e della cultura.

Per contrastare la disperazione degli esclusi e l’individualismo senza mete collettive ci vuole della buona pedagogia ed è indecente opporla ai saperi, associarla al lassismo, al ribasso delle esigenze. La buona pedagogia è l’arte di condurre al sapere gli alunni che pensano di non esservi predisposti. Non è vero che la scuola, così, sacrifica i migliori, perché abbiamo, invece, una scuola che non dà a tutti gli strumenti necessari per la vita.
La buona pedagogia aiuta gli insegnanti a liberarsi dal delirio di onnipotenza, dalla pretesa di vedere tutto e di saper tutto per tutto controllare. Non nasconde il ruolo delle famiglie, della nascita, del luogo di appartenenza, delle risorse disponibili nella diversità del rendimento scolastico degli alunni. Non dimentica che non si ha potere sulla coscienza degli alunni e riconosce la propria impotenza di fronte alla coscienza e alla volontà degli alunni. Crea spazi, fornisce strumenti, fa della classe un luogo sicuro senza pressioni e senza forzature; ha lo sguardo positivo su quel che succede; non blocca e non irrigidisce, si meraviglia dell’imprevedibile, fa appello all’immaginazione.

La buona pedagogia fa capire che la scuola è un altro mondo; non è la prosecuzione della famiglia, nè dell’ambiente esterno; non è un luogo ordinario ed esige particolari comportamenti, perché è retto da alcuni propri principi sui quali non si può transigere.

A sostegno di quella pedagogia che si vorrebbe buona non c’è una verità inconfutabile, perchè l’educazione è scritta nell’irreversibilità del tempo e nella singolarità delle situazioni individuali, perchè mai due situazioni si presenteranno allo stesso modo e perchè la pedagogia è condannata al rischio e all’incertezza (P. Meirieu).
A sostegno della buona pedagogia c’è l’impegno quotidiano di ogni insegnante che ama il proprio lavoro e ne condivide l’alto valore umano e sociale; c’è la sua capacità di discernimento, che nell’attività didattica mette in relazione la norma e la particolarità dei propri alunni e della propria classe; c’è la sua responsabilità di porsi come esempio nella passione per il sapere e quella di farsi carico, per quello che gli compete, del futuro di ogni alunno che è stato affidato alle sue cure.