Archivi categoria: PEDAGOGIA

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E la chiamano estate … educativa

Stefaneldi Mario Maviglia

Vogliamo dare credito al Ministro Valditara e al suo Piano estate per il biennio 2023-2024 e 2024-2025. Sul sito del MIM il Ministro sostiene che l’obiettivo del Piano è quello di considerare la scuola come “punto di riferimento per gli studenti e per le famiglie anche d’estate, con sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento, ricorrendo a tutte le sinergie positive possibili, dagli enti locali alle associazioni del terzo settore. Una scuola che sia sempre più un luogo aperto, parte integrante della comunità per tutto l’anno, realizzando attività di aggregazione e formazione soprattutto per i bambini e i ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari”.
Parole assolutamente condivisibili.
Il problema è valutare se le misure proposte (e i comportamenti del Ministero stesso) sono in grado di conseguire questi obiettivi tenendo conto della specifica realtà delle scuole, che hanno tempo fino al 24 maggio 2024 per avanzare la loro candidatura (l’adesione al piano è, com’è noto, su base volontaria).

 I tempi

Questo è già un primo problema, sia nel breve che nel medio periodo. Pensare che le scuole abbiano lo spazio mentale, prim’ancora che progettuale, di condurre una progettazione adeguata delle attività estive in collaborazione con le agenzie del territorio in questa fase conclusiva dell’anno scolastica (già affollata da altri adempimenti rituali) vuol dire non conoscere le scuole e l’affanno che vivono in questo periodo dell’anno scolastico, oppure considerare l’intero Piano come un’operazione per spendere soldi perché debbono essere spesi. A prescindere. Continua a leggere

Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009). Continua a leggere

La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.

Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Continua a leggere

Francesco De Bartolomeis, un maestro della pedagogia contemporanea, e di molti di noi

di Gianni Giardiello

 Vi racconto di Francesco De Bartolomeis, un importante maestro della pedagogia contemporanea, docente emerito della Università di Torino, insignito del titolo d’onore dell’Accademia Albertina delle Arti di Torino per i suoi meriti di critico d’arte.

Christian Raimo nel gennaio del 2020, in un articolo sulla rivista “Internazionale” pubblicato in occasione del 102esimo compleanno del prof., lo presentava così:

“E’ nato a Salerno mentre finiva la prima guerra mondiale e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 anni ha pubblicato –per intercessione di Benedetto Croce-  il suo primo saggio “Idealismo e Esistenzialismo”, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità idealogica del fascismo. E’ un antifascista convinto.  …. Da molti anni vive a Torino e la sua storia è la storia della migliore classe intellettuale che questo Paese abbia avuto. … Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è molto più che lucido: è analitico, puntualissimo, idiosincratico, aggiornato, combattivo.”

Il racconto che mi accingo a fare riguarda un paio di decenni della sua, mia /nostra vita, quelli in cui noi ci siamo formati umanamente e professionalmente che vanno grosso modo dalla seconda metà degli anni   ’50 o giù di lì, ai primi anni ’70. Uso il noi plurale con un po’ di supponenza, ma senza timore di sbagliare, poiché sono certo che in questa storia non ci sono solo Francesco ed io, ma anche molti di voi, colleghi e amici e miei contemporanei, che mi state leggendo. Poi ci stanno molte altre cose, le nostre scuole, le idee sociali, i principi per una nuova educazione, le teorie pedagogiche, le vicende di un Paese che cercava di rimettersi in sesto e rilanciarsi dopo gli anni orribili del ventennio fascista e le conseguenze di una guerra rovinosa.

Francesco De Bartolomeis è stato uomo di grande cultura, esponente della migliore classe di intellettuali che abbia avuto il nostro Paese “Quella classe –come dice Raimo nella già citata sua presentazione – che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste”. Continua a leggere

Far amare agli allievi il sapere che devono possedere


di Raimondo Giunta 

A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).

Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare. Continua a leggere

Il diritto all’educazione nel mondo attuale

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Il diritto alla educazione nel mondo attuale è un piccolo volume di Jean Piaget pubblicato nel 1951 dalle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano Olivetti.

Il volumetto faceva parte della collana Diritti dell’Uomo curata dalla Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) ed era stato tradotto in italiano da Carla Musatti.

Nel libro Piaget affronta la questione del diritto all’educazione nel mondo attuale, diritto che, a suo parere, dovrebbe garantire che tutti gli individui abbiano accesso a un’istruzione che rispetti il loro sviluppo cognitivo unico e che promuova l’apprendimento attivo e significativo. Ciò implica la necessità di un sistema educativo che sia flessibile, inclusivo e in grado di adattarsi alle esigenze di una società in rapido cambiamento.

Un breve passaggio tratto dalle prime pagine del libro ben chiarisce cosa intendesse Piaget per diritto alla educazione:

Affermare il diritto della persona umana all’edu­cazione è assumersi una responsabilità assai più grave che non quella di assicurare a ciascuno il pos­sesso della lettura, della scrittura e del calcolo: è garantire effettivamente a ogni bambino l’intero sviluppo delle sue funzioni mentali e l’acquisizione delle cono­scenze e dei valori morali che corrispondono all’eser­cizio di tali funzioni, fino all’adattamento alla vita so­ciale attuale. Di conseguenza significa soprattutto assu­mersi l’obbligo- tenendo conto della costituzione e delle attitudini che distinguono ogni individuo – di non distruggere nè sprecare alcuna delle possibilità che egli racchiude in sè e di cui per prima la società è chia­mata a beneficiare, evitando di lasciare che se ne per­dano importanti frazioni e che altre rimangano sof­focate.

 

Il poliziotto e l’insegnante, entrambi al servizio della “salus”

di Antonio Vigilante

All’età di diciotto anni ho fatto il concorso in Polizia. Ricordo un viaggio in treno di notte, nel corridoio, una mattina al foro romano e un pomeriggio all’hotel Ergife a mettere crocette su un foglio – mi si chiedeva tra l’altro, ricordo, cos’è l’echidna – cercando di non addormentarmi. Lo superai. E per qualche giorno, dunque, mi chiesi se quella non fosse la mia via. Una uscita assolutamente onorevole per uno della mia classe sociale; e del resto il mio professore di musica a lungo aveva cercato di convincermi a lasciare la scuola, evidentemente così poco efficace con me, per fare il poliziotto, un lavoro che, in difetto di qualità intellettuali, avrebbe potuto mettere a buon frutto le mie qualità fisiche.
Decisi di no, alla fine. Avevo cominciato l’università e i primi due esami erano andati molto bene. Forse qualche qualità intellettuale c’era.

Ho ripensato a quel bivio in questi giorni. Alcuni studenti manganellati dai poliziotti in una manifestazione pacifica. Una cosa che ha indignato tutti gli insegnanti. E nei comunicati delle scuole emerge una certa visione della scuola come alternativa radicale alla violenza: il luogo in cui ci si educa al dialogo, alla nonviolenza, al confronto costruttivo, ai valori democratici: eccetera.

Ora, sarà per colpa di quel bivio, ma mi capita spesso di pensare che io e il poliziotto che avrei potuto essere procediamo in parallelo, se non proprio fianco a fianco.
È colpa anche, a dire il vero, di Althusser e della sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato.
Mi capita di chiedermi se, oltre a lavorare entrambi per lo Stato, non si faccia entrambi, in fondo, la stessa cosa: difendere, puntellare, giustificare lo stato di cose esistente. L’assetto sociale, le stratificazioni di classe, le differenze di status, le intermittenze del riconoscimento. Per dirla con Galtung, che è venuto a mancare qualche giorno fa: la violenza strutturale. E, per aggiungere Galtung ad Althusser, siamo sicuri di non avere a che fare, in quanto insegnanti, con quella violenza culturale che giustifica e fonda sia la violenza strutturale che quella fisica? Continua a leggere