Classi aperte e laboratori

di Giancarlo Cavinato

una scuola comunità
si può fare…scuola al di fuori della classe

Le finalità educative previste dalle Indicazioni Nazionali  possono essere assorbite e soddisfatte completamente nel chiuso di una classe? Noi riteniamo indispensabile l’apertura, la dinamica del comporsi e ricomporsi di gruppi diversi: per età, per incarichi, per percorsi.

 

Nel convegno di Reggio Emilia del 1976 sulla scuola a tempo pieno Daria Ridolfi scriveva: ‘’Noi vogliamo una scuola piena, articolata, multiforme, capace di accogliere ogni bambino con la sua storia, la sua cultura, i suoi interessi, e di porlo in un rapporto utile e stimolante coi coetanei, con gli insegnanti, con l’ambiente.[1]

La proposta che il Movimento di cooperazione educativa sta portando avanti prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte.
L’idea che intendiamo sostenere è la proposta di unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca. Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi come nel caso  delle UDA, che rischiano a volte di  ricalcare  le programmazioni tassonomiche, ma una progettazione in itinere fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature (‘teatri cognitivi’) e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente consentire di produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….

Si tratta di mettere in atto procedure che consentono che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni attorno a cui operino dei gruppi mobili. Quindi non una scuola come sommatoria di classi.

Nel contempo è necessario rinforzare l’idea che la classe stessa è in primis un laboratorio; la classe non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità ( piani di lavoro, ricerche tematiche, tecniche, rivisitazione strumenti di base per rinforzo a piccoli gruppi, attività individuali).

Un gruppo di insegnanti che intenda sperimentare questa formula ha bisogno di scandire le attività dell’anno in modo coordinato, condividendo le attività fondamentali e quelle di integrazione e arricchimento: impostando assieme il lavoro da svolgere nell’arco dell’anno. [2]

Ancora Daria Ridolfi: ‘Per condurre un lavoro qualificato e gratificante per otto ore al giorno, per poter avere incontri interclasse di piccoli gruppi di bambini, per poter proporre un’ampia gamma di attività, è necessario un alto numero di insegnanti; probabilmente una media di due per classe è appena sufficiente se si considera che la maggioranza delle classi della scuola dell’obbligo è costituita da non meno di 25 alunni ciascuna. Quel che ci pare interessante è che la titolarità, almeno nella prassi pedagogica-didattica, possa essere superata dalle classi aperte. Nel gruppo delle classi parallele gli insegnanti possono ruotare con compiti specifici diversi anche se l’unitarietà dell’insegnamento deve essere salvaguardata al massimo.
Non si tratta di fare dei maestri degli specialisti (nemmeno i professori della scuola media inferiore vanno incoraggiati ad essere professionalmente per la monocultura), si tratta di far emergere una struttura in cui i pregi e i difetti di ogni insegnante- o meglio, le competenze, gli interessi, il modo di mettersi in rapporto con gli altri-siano distribuiti tra i bambini in una giusta e buona alternanza, in una proficua e corretta compenetrazione. Importantissimo è curare che ogni attività non sia voluta dal caso, ma che si inserisca profondamente nella dinamica della giornata di scuola. […]
La scuola a tempo pieno acquista fisionomia di scuola vera se è riuscita a far sì che ogni insegnante esca dal suo secolare isolamento e si metta a lavorare con i colleghi nella realizzazione di un piano di lavoro che spinga verso l’uso alternativo degli spazi, degli strumenti, del tempo, cioè di dare ad ogni scolaro tutte le occasioni educative per crescere, esprimersi, ricercare, ecc
[3]

[1] D. Ridolfi ‘Finalità e problemi della scuola a tempo pieno’ in MCE  ‘La realizzazione della scuola a tempo pieno’, La linea, Padova, 1977

[2] Un’esemplificazione di un possibile schema di lavoro si trova nel capitolo sulle classi aperte nel fascicolo MCE sui 4 passi. In esso di propone che ciascun gruppo di classi coinvolte realizzino attività di interclasse e di laboratorio con varietà di orari nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività sia di apprendimento che espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche. Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. i gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono fissi per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

[3] D. Ridolfi, op. cit., pp.79-81




A scuola senza bussola

di Giovanni FioravantiStefanel

Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a  generare mostri, se non ci riscuotiamo.
Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci!

Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.

E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.
Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.

Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.
A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.
Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.

Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per  rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.
Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali.
Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione alla meschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.

Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale.
Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.
Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.
Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.

Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà.
La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.
Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.

Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.

La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe.
Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.
Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.

Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.
Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione.

La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.
Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni,  segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.




L’alfabeto della lingua

a cura del Gruppo Nazionale Lingua MCE

Un tempo in diversi Paesi europei le più remote località erano raggiunte dai ‘colporteurs’, venditori ambulanti che offrivano le più svariate tipologie della cosiddetta ‘letteratura di colportage’, libretti morali, immagini e stampe, testi di canzoni, testi religiosi, storie cavalleresche e romanzi diffusi a puntate.
Oggi le tecniche di diffusione sono molto più raffinate, ma è con lo stesso spirito che come Gruppo Nazionale Lingua MCE intendiamo diffondere un’idea di lingua e di educazione linguistica di cui si riscontra un gran bisogno- e una grande assenza- nella scuola.
Si tratta dell’idea di lingua delineata nel Manifesto ‘Educare alla parola’, nelle ‘Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica’ del Giscel, nelle pubblicazioni curate dal MCE nelle collane Narrare la scuola e RicercAzione.
Contiamo con ciò di contribuire a fare chiarezza sulle teorie, esplicite e implicite, che stanno alla base delle molteplici modalità con cui nella nostra scuola è stata e viene ‘insegnata’ la lingua italiana.
Nella varietà e diversità di teorie, modelli, pratiche, abbiamo scelto una serie di ‘voci’ che pensiamo possano aiutare l’insegnante ad orientarsi e a scegliere, nella scuola, approcci e percorsi con consapevolezza.
L’insieme consiste in una serie di  fascicoli, ciascuno contenente alcune  ‘voci’.

Per saperne di più puoi partecipare al webinar in programma per il giorno 11 marzo con inizio alle ore 17.30.
Per iscriversi, compilare il form disponibile qui

VOLUME 1

VOLUME 2

 




PAROLE PER GIOCARE


Proponiamo ai nostri lettori uno straordinario documento di grande interesse storico.
Si tratta del n. 101-102 della Biblioteca di Lavoro di Mario Lodi del 1979.
Era stato realizzato con testi di Gianni Rodari e disegni di Frato (Francesco Tonucci)
L’interesse del documento risiede anche nella introduzione scritta da Tullio De Mauro.
[ringraziamo Massimo Bondioli che ha reperito il volumetto presso la Biblioteca Comunale di Piadena]

Per approfondire puoi guardare la registrazione del nostro webinar con Vanessa Roghi che parla proprio della Grammatica della fantasia di Gianni Rodari.




Quattro passi per una pedagogia dell’emancipazione

a cura di Giancarlo Cavinato

Il MCE propone 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione. Si tratta di organizzare un impianto sistemico costituito da moduli variamente componibili e adattabili alle esigenze dei singoli contesti. Sono proposte concrete, realizzabili in ogni scuola, in grado di attribuire valore aggiunto all’azione professionale e collegiale, e di rappresentare gli elementi da cui partire per realizzare percorsi di partecipazione e condivisione e dispositivi organizzativi in grado di qualificare i contesti e di aumentare i livelli formativi..
I 4 passi si propongono come ponti fra l’organizzazione e le relazioni e gli strumenti concettuali di ricerca. Ciascuno dei passi si realizza attraverso la  forza e le potenzialità delle esperienze che prevede: discutere e decidere insieme, appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, fare ricerca, possibilità di maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  veder nascere e contribuire a un prodotto come il giornale il libro il video…

Primo passo: gli strumenti di democrazia.

In una delle invarianti pedagogiche Freinet[1] afferma che un regime scolastico autoritario non può formare cittadini democratici. «La democrazia é impegno partecipativo nella costruzione dei valori che regolano la convivenza umana. In tale impegno, l’educazione svolge il ruolo fondamentale dello sviluppo dell’intelligenza, della comprensione, dell’esperienza, dell’apprendimento, della collaborazione e della difesa dell’uguaglianza.»[2]
La democrazia si esercita mediante regole, procedure, strumenti e pratiche attraverso cui si costruiscono e si determinano scelte possibili e condivise. Le idee, le opinioni, i giudizi sulla realtà non sono preesistenti alla loro scoperta da parte dei soggetti, ma si formano attraverso una pratica e un’esperienza di relazionalità e socialità. L’istituzione ad hoc è l’assemblea di classe come iniziazione alla vita democratica, alla solidarietà. Un’assemblea con le sue routine e le sue suddivisioni di compiti. Chi presiede, chi verbalizza, chi dà i tempi degli interventi. Durante la settimana su cartelloni i bambini trascrivono le loro osservazioni, proposte, critiche, suggerimenti da analizzare nell’assemblea. Ogni aspetto della vita scolastica acquista così senso e giustificazione. La finalità gradualmente condivisa è l’uguaglianza di diritti e il successo formativo di tutti. Le forme di partecipazione risultano tanto più efficaci quanto più ai ragazzi viene data parola e possibilità di progettare estendendo il raggio della loro progettualità alla città attraverso l’organizzazione di consulte e consigli.[3]

Secondo passo: gli strumenti per la ricerca

Si tratta di garantire un accesso ai saperi, favorendo la costruzione del pensiero. Ma come reperire informazioni che non siano fornite già confezionate così che ci si formi su una sola versione e non sia prevista una costruzione personale della conoscenza? [4]

Viviamo in un mondo connesso globalmente alla rete, per cui il problema non è più l’acquisizione delle informazioni di base (reperibili attraverso un qualsiasi motore di ricerca), ma la loro messa in relazione, la selezione, l’organizzazione in un quadro composito, la comprensione profonda. Tutte operazioni per attivare le quali i libri di testo non sono di alcuna utilità, sostituendo il già predisposto all’attività dei soggetti, fornendo risposte e soluzioni che non vanno al di là della superficie. La scuola deve diventare il luogo della rielaborazione, del riordino, del confronto delle interpretazioni, delle ipotesi. Per questo il libro di testo è strumento obsoleto: i libri delle discipline propongono serie di informazioni schematiche e non verificabili, che si traducono in una visione tassonomica dei contenuti storici, geografici, scientifici; le antologie di lettura costituiscono raccolte di brani, estrapolati dal contesto letterario a cui appartengono, scelti dagli autori e dagli editori in base a criteri standard. Con gli stessi fondi a disposizione per i testi, ogni classe e, ancor più, ogni scuola può acquistare narrativa, libri di divulgazione, approfondimenti tematici, documentazioni, materiale multimediale, strumenti per la riproduzione e la stampa, disponendo così di una biblioteca ricca di una pluralità di fonti. Leggere versioni diverse di storie, descrizioni di eventi, cogliere punti di vista diversi, confrontare diverse interpretazioni, scoprire i nessi fra eventi sono tutte operazioni che le biblioteche di lavoro disponibili grazie all’adozione alternativa sono favorite.[5]

Terzo passo: lavoro a classi aperte

La proposta prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte. «Un fondamentale elemento qualificante del tempo pieno può essere considerato il superamento della struttura-classe e, di conseguenza, del lavoro strettamente individuale dell’insegnante.»[6]
Il che richiede l’organizzazione di spazi in cui trovare stimoli adeguati, agire, attribuire significati, progettare, coordinare le proprie azioni con quelle degli altri. Non si può realizzare tali percorsi all’interno di gruppi chiusi, sempre con gli stessi componenti, in cui si condividono sempre le stesse attività. Si tratta di mettere in atto procedure che consentano che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni suddividendosi diversi aspetti. Quindi una scuola che non sia una sommatoria di classi non comunicanti.
L’organizzazione di gruppi mobili, eterogenei, con consegne di lavoro diversificate, può creare una dinamica, delle aspettative, la motivazione ad integrare le proprie ricerche con quelle di altri gruppi. La partecipazione a gruppi e classi di età diverse rende possibile agire sulla zona prossimale di sviluppo dei singoli attraverso la guida dell’adulto, la collaborazione tra pari, l’interazione sociale.[7]
Compete alla regia educativa degli insegnanti comporre le diverse realizzazioni dei gruppi, favorire le comunicazioni e gli scambi, proporre ulteriori sviluppi, conferire unitarietà alle attività. Il gruppo attraverso attività di laboratorio funziona da mente collettiva, conferendo significato alle singole parti, correlandole e collegandole. Le pratiche di ricerca che gli alunni affrontano costituiscono una parte dell’oggetto su cui operano, e ciò conferisce un valore relativo alle conoscenze che vengono acquisite, nella consapevolezza che esse saranno integrate dagli apporti di altri gruppi. La proposta prevede di individuare, alunni e insegnanti, delle unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca.
Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi, ma una progettazione in itinere e a ritroso[8] fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….
La classe stessa è in primis un laboratorio; non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità. Ciascun gruppo di classi coinvolte si proporrà di realizzare attività di interclasse e di laboratorio nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche, storiche, interculturali.
Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. I gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono stabiliti per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

Quarto passo: la valutazione formativa

«Ogni ragazzo è in gara con sé stesso per migliorarsi. Il merito non è di chi dà un maggiore rendimento, ma di chi riesce a superarsi e far progressi anche se il suo livello è inferiore a quello di altri.[…]Il fenomeno della selezione non potrà scomparire finché nella scuola non cambieranno certi atteggiamenti e non si capirà che il responsabile del mancato apprendimento, del disadattamento scolastico che porta alla ripetenza e poi all’abbandono, non è il soggetto in difficoltà e nemmeno l’ambiente di provenienza anche se è ‘svantaggiato’, ma è la scuola ad essere ‘disadattata’ in quanto induttrice di disadattamento.»[9]
La valutazione è uno degli aspetti del fare scuola che preoccupa maggiormente perché è lo spazio dove più si consolida la dialettica tra normalizzazione ed emancipazione dei soggetti. E’ un operazione complessa perché deve essere in grado di cogliere e interpretare una realtà in cui si mescolano molteplici aspetti che coinvolgono sia l’alunno che l’insegnante: conoscenze, abilità, motivazione, relazione, effetti alone, aspettative reciproche, ritmi e stili di apprendimento. Il passo sulla valutazione illumina e rinforza i precedenti passi in quanto una didattica trasmissiva non consente una valutazione autentica che richiede tempi lunghi e strumenti narrativi, descrittivi, interpretativi: lettere personalizzate, diari di bordo, monografie, studi di situazioni, aspetti che si adattano alle attività che si fondano su discussioni, partecipazione a progetti, laboratori, in cui accanto ai processi individuali rivestono pari importanza i processi di gruppo.
Mentre la didattica trasmissiva lavora su tempi brevi, risposte automatiche, abituando a un pensiero riflettente. Non richiede la messa alla prova attraverso particolari tecniche e il confronto interattivo, ma una comunicazione unidirezionale e la ripetizione. La grande assente è la relazione significativa che l’insegnante intrattiene attraverso il dialogo pedagogico. Maturana osserva che ogni insegnante che valuta la prestazione degli alunni sta valutando se stesso che valuta la prestazione. Con il suo giudizio non giudica lo studente, ma la relazione che lui intrattiene con lo studente.[10]
Ogni docente dovrebbe potere, alla luce della propria biografia professionale, riconoscere le proprie cornici culturali ed ermeneutiche che ne condizionano la pratica valutativa. Va sostenuta una valutazione intersoggettiva e collegiale come esercizio concreto di responsabilità, come funzione di autoregolazione dei percorsi e dei processi nella scuola dell’autonomia.
Sono necessarie pratiche di autoanalisi e autovalutazione degli alunni e di autointerrogazione degli insegnanti e la sperimentazione di strumenti di osservazione, ascolto dei soggetti, narrazione e problematizzazione. Come per ogni altro aspetto della vita della scuola, anche la valutazione può costituire oggetto di dibattito, esplicitazione dei propri riferimenti, presa di decisioni. Se questo aspetto non viene affrontato, rimane confinato nel potere discrezionale dei docenti e come tale inappellabile e indiscutibile. Il compito di una pedagogia del successo è esplorare con gli alunni le condizioni facilitanti e ostacolanti e i possibili miglioramenti. Agevolare la presa di coscienza delle diverse conseguenze di un lavoro individuale e di un lavoro di aiuto reciproco fra pari. Nel frattempo la scuola non rimane ferma.
La scuola italiana è sottoposta a un altalenarsi di procedure modalità modelli. Si è passati dai voti ai giudizi (una riforma incompleta che ha lasciato fuori la secondaria), per tornare ai voti e con l’ordinanza  172 del 2020 si istituisce una valutazione per livelli soltanto per la scuola primaria. Oggi il ministero del merito punta a tornare alla situazione preesistente, cioè la ‘riforma’ Gelmini del 2010.
A fronte di tale prospettiva sarà necessario ricorrere alle strategie che i Ciari, i Lodi. i Manzi nel tempo hanno utilizzato per una scuola al servizio di tutti, non selettiva, discriminatoria, gerarchizzante. Non va abbandonata la dimensione formativa ed ecologica della valutazione. L’eliminazione del voto numerico, pur tra molte difficoltà dovute a carente formazione e a procedure macchinose quali il registro elettronico,  ha avviato comunque un processo di cambiamento di prospettiva nella cultura e nelle pratiche valutative della scuola mettendo l’accento sull’esigenza di riscontri descrittivi dell’apprendimento in itinere, di differenti forme di comunicazione della valutazione e di maggiore coerenza e retroazione tra progettazione didattica e valutazione: in generale, un intero ripensamento della didattica e della relazione docente-studente.
La valutazione formativa non si limita a registrare esiti ma accompagna i processi. Assume che la responsabilità dell’eventuale mancato apprendimento non é dovuta soltanto a carenze dell’ allievo ma individua fra le cause il tipo di insegnamento del docente, che viene sollecitato  ad innovare le sue competenze psicopedagogiche e didattico-metodologiche e relazionali. Ad operare mantenendo strettamente connesse progettazione e valutazione.

[1] C. Freinet, Les invariants pédagogiques, in Oeuvres pédagpogiqques, Paris, Seuil, 1994, vol 2 pp. 383-413, trad. Ital. A. Goussot
[2] J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1951
[3] M. Marchi, P. Sartori (a cura di), Dall’io al noi. Città e scuola per un’educazione alla responsabilità, Trieste, Asterios, 2023
[4] C. Pontecorvo, A, M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma, Carocci, 2007
[5] M. Rosaria Di Santo, Mario Lodi e la “biblioteca di lavoro” una proposta didattica alternativa ancora attuale, Parma, ed. Junior, 2022
[6] Gruppo torinese MCE, Per una nuova professionalità docente, Milano, Emme, 1978
[7] L.S. Vygotskij. Il processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1980
[8] G.. Wiggins, j. Mc Tighe, Fare progettazione. La “teoria” di un percorso per la comprensione significativa, Roma, LAS, 2004
[9] B. Ciari, La grande disadattata, Bergamo, Junior, 2006
[10] H. R. Maturana, F.S. Varela, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 2001; C, Hadji, Una valutazione dal volto umano oltre i limiti della società della performance, Brescia, Scholé, 2003




Apprendere ad apprendere. Ma che significa? E per che cosa?

Stefaneldi Raimondo Giunta

Il ritmo inarrestabile dello sviluppo delle conoscenze che bisogna possedere per non restare ai margini dell’attuale società ridisegna i compiti che la scuola deve affrontare.
Un problema di non facile e immediata soluzione. La sua complessità è costituita anche dal fatto che media e internet hanno qualcosa che la scuola non sempre possiede per definire il proprio rapporto con le nuove generazioni: la capacità di seduzione e di coinvolgimento.

Si dice con monotonia sempre più assillante che per inserirsi in una società, segnata dalle continue trasformazioni dei suoi assetti economico-sociali e dalle innovazioni permanenti del patrimonio tecnologico e scientifico, e per essere capaci di dominare l’incertezza che per questi motivi si viene a determinare occorra un considerevole bagaglio di saperi e di competenze e soprattutto che si debba essere capaci di apprendere ad apprendere.
Se ne è fatto uno scopo e anche uno slogan…

Si sa che non si finisce mai di apprendere, che l’apprendimento è inevitabilmente permanente, perché è una condizione esistenziale e coincide con la stessa durata della vita di una persona.
L’apprendimento è un bisogno individuale che si trasforma in intenzione di apprendere, in desiderio di apprendere solo quando se ne fa un fine della propria vita , quando c’è una buona ragione.

Lo si può fare confusamente, lo si può fare con metodo, ma non senza una precisa direzione.

Oggi si dice, invece, che è necessario ed utile apprendere e soprattutto apprendere ad apprendere.
Questa indicazione non può essere ridotta ad una tecnica, ad un metodo, ad una procedura del pensiero.

E’ invece con tutta evidenza un imperativo morale per una persona, centrato sulla sua responsabilità umana nei confronti di se stesso e della società.
Senza vastità di interessi, senza un preciso orientamento di pensiero questo principio diventa un semplice attrezzo del mestiere di vivere, un possibile salvagente per non sparire nei flutti incontrollabili della società della conoscenza, per restare sul mercato.
Preoccupazione legittima, ma che intinge le migliori intenzioni nel consueto veleno dell’impostazione economicistica dei problemi della conoscenza e della formazione.

Bisogna fare emergere nei giovani il desiderio di apprendere e coltivarlo; ma non basta mostrare gli aspetti utili e le convenienze sociali dei saperi.
Il sapere deve avere un “senso” per chi lo deve possedere.
Deve inserirsi, cioè, dentro un sistema di significati personali: quelli che orientano i comportamenti e le scelte delle persone.
Deve innestarsi in una tensione continua all’allargamento del proprio orizzonte, della propria appartenenza; deve scaturire dal piacere di meravigliarsi e di lasciarsi stupire dal mondo e dalle persone; deve rispondere all’incoercibile bisogno di scacciare le paure e di emanciparsi dai pregiudizi.

Sapere aude proclamava Kant!
La capacità di apprendere deve sempre essere funzionale al bisogno di destabilizzare e di ricostruire il proprio sistema di rappresentazioni e di valori per disporre di un mondo alla propria portata e di un sistema di intelligibilità della realtà.

La capacità di apprendere ad apprendere nella persona implica dimensioni cognitive, emotive, sociali senza le quali rimane un’aspirazione vuota, quasi una costrizione.
L’apprendimento di cui si sta discutendo, non è quello naturale, ma quello sociale determinato da un’intenzione di fare apprendere e di volere apprendere al momento giusto e nel modo giusto e per scopi che non possono ridursi al timore di una marginalizzazione in una società che della competizione vuol fare l’unico principio di regolazione dei rapporti umani , che non fa del sapere una risorsa per vivere tutti meglio, ma un mezzo per vivere eventualmente meglio da soli.

Credo che a scuola non si possa e non si debba accettare lo snaturamento di un tratto costitutivo dell’essere umano. “Tutti gli uomini tendono per natura al sapere.”(Aristotile) “L’esercitare la sapienza e il conoscere sono desiderabili per se stessi dagli uomini; non è possibile infatti vivere da uomini senza queste cose ed inoltre sono utili per la vita”(Aristotele).

 




L’amore per il sapere e la sua trasmissione esistono ancora

di Monica Barisone

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Qualche tempo fa ho avuto una bella chiacchierata con Reginaldo Palermo sul fatto che si possa considerare ancora l’insegnamento come il mestiere più bello del mondo, ma anche che le sue evoluzioni storiche e contestuali lo hanno reso estremamente complesso e stressante, talvolta persino estenuante per il carico di responsabilità.
Il tempo che bambini e ragazzi trascorrono negli edifici scolastici e a contatto con personale docente e non docente raggiunge ormai estensioni tali da rendere la vita scolastica più che un’integrazione del contesto esperienziale familiare, quasi un’alternativa. Questo implica enormi potenzialità di influenzamento, orientamento, accompagnamento di piccoli, ragazzi e giovani al domani, verso il futuro che, almeno per qualche tempo, sarà anche il nostro.
La consapevolezza di questa responsabilità può disorientare e disarmare. Eppure, le scuole hanno ripreso a fervere di iniziative e progetti; ci si prova, nonostante le risorse non siano mai abbastanza.
Come ci ricorda Save the children ‘L’istruzione rappresenta la chiave e la possibilità per conoscere e costruire poi una propria idea di mondo e di futuro. È un diritto sancito dalla Carta dei diritti dei bambini (CRC – Convention on the Rights of the Child). Lo è perché è lo strumento più valido per combattere povertà, emarginazione e sfruttamento’ (aprile 1922).

Riflettere su questi temi mi ha riportato alla mente alcuni incontri che ho avuto negli ultimi anni e che ora vedo sotto una luce nuova, quella della trasmissione intergenerazionale di competenze e sapere, ed anche di una sorta di give back, restituzione appunto, alle nuove generazioni.
Può succedere, per esempio, di innamorarsi dell’insegnamento apparentemente per caso, come mi ha raccontato un laureato in fisica matematica, una mente meravigliosa, apparentemente incagliata nel sogno della ricerca per tutta la vita. Qualche incidente di percorso lo ha rimbalzato, durante la fuga dai contesti aziendali, proprio nelle aule degli adulti delle scuole serali. Lì ha scoperto quanto non sia poi così male lavorare come insegnante, stare accanto a chi ha trovato solo tardivamente la motivazione a completare o coronare gli studi, e soprattutto sperimentare l’urgenza di segnalare loro l’irregolarità della stessa matematica. Trascorre gli intervalli a rispondere alle domande dei suoi allievi, domande, come le definisce lui, terribilmente pertinenti.
Questo giovane ha scoperto che ci si può appassionare proprio laddove si temeva di sperimentare la noia mortale e, casomai, ottenere nello stesso periodo un pre-printing della prima pubblicazione che probabilmente potrà fare la differenza nei prossimi concorsi da ricercatore. I paradossi della vita, nella loro straordinarietà, ci colgono a volte proprio quando ci abbandoniamo al suo apparente non senso.

Un altro incontro significativo riguarda invece un giovane professore di matematica che, al mondo accademico, ha preferito la docenza al liceo. Dopo un percorso radioso di dottorato, contrassegnato da esperienze internazionali, nasce l’idea di una virata e la scelta di lavorare per rendere accessibile la sua amata disciplina agli studenti delle classi che gli sarebbero state assegnate.
È stato non solo confortante ma piacevolmente sorprendente ascoltare il racconto della sua cura e dedizione nel correggere i compiti degli allievi; l’analisi speleologica condotta per rintracciare, anche negli elaborati più disperati, tracce di processi logici che consentissero di dare valutazioni, non solo meno severe, ma davvero coerenti con il livello di preparazione dei ragazzi!
Certo non è stato semplice confrontarsi col mondo di ragazzi che si trovano alle superiori quasi per caso, con vissuti e visioni delle relazioni interpersonali quanto meno complesse ed ostiche; con la burocrazia intrecciata, in modo quasi inestricabile, all’insegnamento nella pratica quotidiana.
Nulla di tutto ciò lo ha fermato, ha affrontato altri concorsi e incontrato talvolta incomprensioni verso la sua visione di insegnamento ma ha conquistato il suo posto.

Ho avuto poi l’opportunità di vedere una neolaureata in Sociologia, studiare ore per arrivare preparata e pronta alle sue prime docenze nei suoi primi corsi di formazione aziendale! Assetata nell’apprendere dai colleghi anziani, propositiva nella modernità del suo pensiero avanguardistico, con l’atteggiamento fiero di chi sente fortemente l’urgenza di produrre un vero cambiamento con il proprio lavoro. L’ho sentita, parallelamente, raccontare con gioia, anche se stremata, i piccoli successi nel lavoro apparentemente insolito di aiuto cuoca in un contesto sostenibile, in realtà assolutamente coerente con le sue scelte ambientaliste coniugate con lo sguardo sociologico sulle professioni del futuro.

Più racconto queste storie e più me ne vengono in mente, come quella del ragazzo che è riuscito a portare un allievo non vedente a far canestro! Nel raccontarsi ricostruisce un aneddoto: lui era il bambino che, quando arrivava a scuola la mattina, diceva all’insegnante ‘Cosa facciamo di bello oggi?’. Dopo aver girato il mondo registrando eventi sportivi nazionali ed internazionali, torna alla scuola anche per metter su famiglia. È un po’ in ritardo sui punteggi per le graduatorie, fatica a conquistar supplenze significative, sopravvive in pandemia, riparte andando ad insegnare scienze motorie in un Istituto in cui non c’è neppure la palestra. Porta i ragazzi al parco, scopre sul territorio strutture con cui costruire convenzioni per portarli a correre, giocare, far sport in sicurezza. Stremato riesce a raggiungere la supplenza annuale nel suo Comune nelle scuole elementari dove finalmente, fanalino di coda in Europa, anche in Italia è stato inserito l’insegnante di Educazione motorie.

Se questi vissuti sono il risultato di anni di così grande confusione nel mondo valoriale degli adulti di riferimento, possiamo pensare che, nonostante tutto, dalla vita scolastica e sociale si continui ad apprendere. Ciò che viene trasmesso, come da vero mandato educativo, riguarda allora non solo la sfera dei contenuti, ormai di complessità e ampiezza estrema, ma anche l’area valoriale, ‘passionale’, creativa e produttrice di cambiamento.