I 4 cantoni in epoca COVID19: aula, classe, tempo e curricolo

rete_numeridi  Daniele Barca

Più volte in questi anni parlando di innovazione e didattica ho constatato che tutte le idee di scuola divergenti dalla prassi in Italia mirano a rompere coerenza e fissità del rapporto tra
• classe come “leva”, data dalla nascita nello stesso anno
• aula come spazio fisico
• tempo inteso come organizzazione oraria dei monte ore
• curricolo inteso come progressione di competenze e contenuti, anche in relazione alla valutazione come feedback

Si trattava di iniziative autonome dei collegi, dei dirigenti, in cui deliberatamente si interveniva su uno o più di queste variabili, che, a loro volta, ne scompigliavano altre. Il più diffuso, forse, era l’intervento che alcune scuole avevano messo in atto realizzando aule disciplinari, aggregazioni diverse di gruppi classe, compattazioni orarie. Quindi la modifica di un “cantone” inevitabilmente comportava a cascata la modifica degli altri. Cambiare i gruppi classe significava intervenire sugli ambienti e talvolta sugli orari. Per citare due esempi, le scuole senza zaino e le scuole DADA.

Analogamente la scuola, per come la conosciamo nella prassi più diffusa, si realizza grazie alla stretta dipendenza tra i quattro cantoni. Semplificando e generalizzando, dà per scontato che la 1B composta da 25 studenti, nati nell’anno X, stiano per un orario definito ma uguale per tutti nell’aula y e ad essi sia “erogata” contemporaneamente la stessa formazione con gli stessi strumenti.

Le soluzioni per un eventuale rientro a scuola a settembre impattano inevitabilmente sui primi tre; l’aula nel suo assetto e nella sua gestione (distanziamento, sanificazioni, turni, ecc.), la composizione della classe (smembrata l’unità-classe), i tempi (diminuzione del monte ore, alternare presenza-distanza, turni, ecc.).

Rimodulare i tre aspetti significa farlo in coerenza e non rende immune il quarto, il curricolo, come sta succedendo oggi nella didattica a distanza dove si essenzializzano anche i contenuti privilegiando e introducendo competenze che hanno a che fare con la vita.

E, probabilmente ne introduce un altro, che può fungere da collante e fil rouge: l’apprendimento a distanza tramite internet.
L’idea di un sistema di istruzione misto, ibrido, aggiunge quest’altra variabile, ma cambia anche le regole del gioco.

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Bambini e dottori dopo il Coronavirus

io_noidi Raffaele Iosa

Una previsione facile per la fase 3 del corona virus.
Ci saranno dottori strizzacervelli allupati pronti a vendere per i bambini diagnosi invalidanti e terapie consolatorie e disabilitanti. Avremo ricerche su neuroni specchio intimiditi dal confinamento in casa.
E scoperte genetiche di qualche combinazione nel DNA che diagnosticherà la noia biologica.
E teorie epigenetiche per cui il coronavirus avrebbe modificato il fenotipo dei bambini. Vedrete quante certificazioni da “stress post traumatico” arriveranno. Proprio ai bambini, che invece hanno una resilienza ben migliore di noi grandi. Bambini che sanno distrarsi e giocare con poco. A fronte di genitori narcisi che si attenderebbero dai piccoli manie adultistiche. Ci saranno miracolosi “farmaci del rientro”.
Ci vuole invece l’ I CARE don milaniano (prendersi cura) educativo e non il TO CURE medicale. Vedrete che ci saranno 5 deputati (uno di sinistra, uno di destra, un altro di centro e due di sopra e di sotto) che proporranno una legge per “tutelare” con dispense e compense a gogò bambini affetti da DCC (disturbo da casa chiusa).
Genitori ansiosi a frotte per avere la cartina medica giusta dal titolo “meglio un po’ malato che bocciato”.
Liberiamo i bambini da questi vicini pericoli. Liberi di star bene, di star male, di star così così.




Per liberare i bambini dal confinamento serve la “scuola in comune” (sostantivo avverbio aggettivo)

spiraledi Raffaele Iosa

E’ sconcertante che per la progettazione della fase 2 e anche 3 le cosiddette “commissioni nazionali” non abbiano al loro interno competenze ed un punto di vista attivo sul ritorno dei bambini e dei ragazzi alla vita sociale, e non solo a quella scolastica. Come se il tema fosse solo materia da ministeriali, a settembre. Cioè il passare dal chiuso delle case al chiuso delle aule. E gli enti locali?

Insomma l’agenda sul futuro dei bambini non c’è. Viene lasciata ai genitori e al rischio di un assistenzialismo da 100 euro al mese per la babysitter.
Ma non funziona così, perché la scuola è parte significativa della vita non solo dei bambini, ma delle città e la sua chiusura protratta rischia di aumentare divari sociali e diseguaglianze.
Si deve quindi riflettere su cosa accadrà nelle nostre comunità civiche se le fasi 2 e 3 del dopo-coronavirus non saranno lette assieme alle esigenze dei bambini in tutte le opportunità di vita, tema che verrà aggravato dal probabile (e auspicato) ritorno dei genitori al lavoro.

Non c’è dubbio quindi che si debba lavorare insieme per costruire, sistema scuola e sistema dei comuni, un piano integrato non solo per la riapertura delle scuole, ma anche e soprattutto per la liberazione dei bambini dal rischio di regredire come solo figli confinati e per riprendere ad essere bambini tout court, quindi anche oltre la scuola, in quel territorio comune (“Comune” appunto) dove il bambino vive 24 ore al giorno. Insomma per tornare ad essere piccoli cittadini in comune (avverbio) per fare cose comuni (aggettivo) in quell’ambito civico che mette tutti insieme e che si chiama Comune (sostantivo).

Dunque è grave e dannosa la scelta di tenere i comuni fuori dalle riflessioni sul futuro, sia quello macro (la commissione Colao) che micro (la commissione Bianchi).
E’ un segno, tra i tanti di errori strategici che si stanno compiendo, perché il futuro si apra bene, avendo appreso da questa pandemia drammatica che solo se c’è collaborazione, o meglio governance tra i diversi soggetti del territorio, sarà possibile operare efficacemente per i bambini.

Non si tratta di avere qualcuno in più nelle Commissioni tanto per fare, ma per questioni dirimenti sia sul piano scolastico ma soprattutto di educazione in generale e di integrazione di tutte le opportunità del territorio, a partire dai bambini e dalle famiglie più deboli. E soprattutto per i bambini da 1 a 11 anni, cui le possibilità di autonomia come di uso delle DAD sono per forza di cose inferiori.
Quindi, è nel Comune, visto come soggetto attivo di integrazione di tutte le opportunità e non solo erogatore di meri servizi, che si colloca la cabina di regìa per liberare i bambini dal confinamento in casa, per esempio attraverso la vivibilità degli ambienti sociali, il tempo libero, le attività culturali, quelle aggregative, del volontariato e dell’associazionismo.
Tutto ciò che serve, messo insieme, a crescere. Il Comune che mette in comune tutte le risorse per offrire a tutti i bambini (tutti) le giuste opportunità.

D’altra parte l’art. 3 del Regolamento Autonomia (DPR 275/99) prevede espressamente che nella realizzazione del POTF i dirigenti scolastici siano obbligati a sentire gli enti locali, a raccogliere le loro proposte, perché la scuola autonoma è prima del tutto del e per il territorio e non del Ministero. Ce lo siamo dimenticati?

La necessità di un sistema integrato tra scuola e Comuni è dovuta non solo in epoche normali, ma più che mai oggi in quest’epoca tragica dove i rischi di regressione e depauperamento (sia economico che culturale) dei bambini sono molto alti.
Ecco dunque perché è indispensabile che sia a livello orizzontale (tra scuole e amministrazioni locali) che nazionale (per un ritorno alla normalità sano e intelligente) si operi per una progettazione coraggiosa che abbia in mente i bambini come risorse del nostro civismo, non come peso da scaricare ai soli babbi e mamme, in attesa che arrivi il vaccino.
Non parlo qui di guardianìa o babysitteraggio di massa per supplire i genitori al lavoro. Parlo di qualcosa di più importante: esistono le condizioni, o almeno un ragionamento su come crearle, per offrire ai bambini opportunità di rientro alla vita sociale “da bambini” prima che “da figli”, il più presto possibile, con le dovute protezione? Dobbiamo fare un mito catastrofico della loro corporeità vivace come “impossibilità ad uscire di casa?
La questione prima che scolastica è psicologia, sociale, direi politica, nel cercare regole che permettano di uscire e reincontrare i coetanei perché da “figli” possano ri-tornare ad essere “bambini”, perché è solo così che si cresce.

Sta accadendo purtroppo, che il rientro alla loro vita pubblica sia per ora prevista solo come tema scolasticistico, roba da calendario scolastico e quindi “da riparlarne a settembre”. L’esito di questo errore di prospettiva è che ci ci limiti a coinvolgere solo il Ministero Istruzione. Intanto confiniamoli in casa… Intanto che i babbi e le mamme tornino a lavorare…
Però in Europa va diversamente: Macron in Francia apre le scuole dell’infanzia, In Danimarca le scuole infanzia e primarie sono aperte da ieri, la Norvegia aprirà asili nido e scuole dei piccoli il 20 aprile, Il Lussemburgo il 4 maggio, la Grecia il 10 e l’Estonia il 15. La Spagna, nonostante stia peggio di noi, ci sta pensando altrettanto. Sono tutti matti? Non hanno anche loro scienziati esperti di epidemie? Ma cosa significa che tutti questi paesi abbiano pensato prima ai bambini più piccoli?

Alcuni giorni fa ho lanciato l’idea di realizzare “progetti territoriali integrati” scuola-enti locali- associazionismo-educatori delle cooperative sociali per attivare ciò che ho chiamato (tanto per dargli un nome) “scuole del sole” tipo CRE educativi allargati in spazi il più aperti possibile, in cui ci aiuta l’estate. Per prudenza epidemiologica pensavo da metà giugno ad agosto, cioè fra due mesi, periodo superiore a quello passato finora nella Fase 1, visto anche che probabilmente ben poche famiglie potranno permettersi le ferie.

E subito all’inizio di questa benedetta fase 2, per prima, gli assistenti educativi per l’autonomia e la comunicazione (variamente denominati in Italia) devono tornare fisicamente vicini ai loro alunni con disabilità perché tutti sappiamo quanto è difficile realizzare a distanza una didattica veramente inclusiva. Sarebbe anche il tempo di pensare, sulla base del caos che è accaduto con le norma che si sono sovrapposte, che queste figure educative rientrassero nell’organizzazione e nell’organico delle scuole, a pieno titolo.
Capisco che sono questioni delicate, ma pensare che per i bambini debba pensarci solo la scuola, e a settembre, senza alcuna alternativa a me pare assurdo. Le ragioni non sono quindi tanto legate solo ai genitori e al lavoro (anche se non è tema da poco), ma prima di tutto alla condizione infantile che è quella che sta pagando di più questo confinamento. Con tutte le cautele del caso, perché non pensare anche a questa ipotesi fin dai centri estivi? Perché non pensare che potrebbero esserci anche gli insegnanti, magari come volontari, per ri-prendere la vita di relazione e anche un po’ di ricostruzione di legami.

E comunque qualsiasi sia l’epoca del rientro alla vita, sarebbe ridicolo che a questo ci pensasse, per i bambini, solo la scuola. Per farlo bene il ruolo del Comune è evidente: non c’è solo la scuola, c’è una città o paese interi che deve dare tutte le opportunità per ri-vitalizzare la loro crescita in ogni luogo.

Sindaci, per piacere, fatevi sentire. I bambini sono di tutti e necessari a tutti, non solo ai loro genitori. E lo sono ancora di più per chi ha una disabilità, chi è povero, chi rischiamo di perdere.
La scuola vi aspetta per lavorare insieme, ha bisogno di voi.




La Fase 2 dell’emergenza dimentica i bambini?

spiraledi Raffaele Iosa

Riprendo qui una giustissima critica che l’amico Stefano Stefanel ha sollevato ieri sulla sua pagina FB sul fatto che nella “Commissione Corrao” sulla programmazione del rientro alla vita pubblica nella cosiddetta Fase 2 non sia presente nessuno che si occupi dei bambini, dei loro diritti di crescere in libertà, del rientro a scuola e/o alla vita di relazione quando e come.

E’ bizzarro, d’altra parte che si pensi a pianificare (con regole sicure) il rientro al lavoro dei genitori e non di come saranno seguiti i loro figli se ancora confinati in casa.
Non parlo qui di una specie di guardianìa o babysitteraggio di massa per supplire i genitori al lavoro. Parlo di qualcosa di più serio e importante: esistono le condizioni o almeno un ragionamento su come offrire ai bambini (soprattutto ai piccoli da 1 a 11 anni) opportunità di rientro alla vita sociale “da bambini” prima che da figli il più presto possibile, con tutte le condizioni garantite di protezione?


Dobbiamo fare un mito negativo catastrofico della loro corporeità vivace come “impossibilità ad uscire di casa” fino alla scoperta del miracoloso vaccino? La questione prima che scolastica è invece sociale, psicologica, di adattare ai bambini regole sanitarie che permettano loro di uscire e reincontrare i coetanei perché da figli possano tornare ad essere bambini, perché è così che si cresce. Sta accadendo purtroppo, che il rientro alla loro vita sociale sia per ora prevista solo come tema scolasticistico, cioè roba da calendario scolastico e quindi da settembre, con tanti distinguo e chiacchiere su mascherine, classi sdoppiate e bla bla.
L’esito di questo errore di prospettiva è che per i bambini ci penserà solo l’istruzione, c’è tempo: fino a settembre confiniamoli in casa. Intanto che babbi e mamme tornino a lavorare.
Leggo però cose in Europa diverse: Macron in Francia aprirà presto le scuole dell’infanzia (vedi: prima i bambini!) anche con opportunità flessibili e regolate negli spazi locali.
In Danimarca le scuole infanzia e primarie sono aperte da ieri, la Norvegia aprirà asili nido e scuole dei piccoli il 20 aprile, Il Lussemburgo il 4 maggio, la Grecia il 10 e l’Estonia il 15.

La Spagna, nonostante stia peggio di noi, ci sta pensando altrettanto. Sono tutti matti? Non hanno anche loro scienziati esperti di epidemie? Come mai lì hanno detto sì? Non è significativo che tutti questi Paesi abbiano pensato prima ai bambini più piccoli? Solo per “becere” questioni economicistiche o non anche per un’analisi sociale della condizione claustrofobica dell’infanzia?
Tre giorni fa ho lanciato l’idea di costruire progetti integrati scuola-enti locali- associazionismo-educatori delle cooperative sociali per attivare quelle che ho chiamato (tanto per dargli un nome) “scuole del sole” cioè CRE educativi in spazi più aperti possibile, in cui ci aiuta l’estate.

Per prudenza epidemiologica pensavo per luglio e agosto, cioè fra due mesi e mezzo, periodo superiore a quello che abbiamo passato finora nella Fase 1, visto anche che probabilmente ben poche famiglie potranno permettersi le ferie.

Marco Rossi Doria ha ieri su Repubblica espresso un’opinione simile, Dario Missaglia presidente di Proteo altrettanto propone di pensarci.
Sulla mia proposta ho ricevuto molti consensi ma anche molte critiche, il che è naturale perché è tema delicato, ma pensare che per i bambini debba pensarci solo la scuola a settembre senza alcuna altra alternativa a me pare non vada bene, come se per i nostri bambini il problema fosse solo i programmi, il restare indietro, le tabelline e così via. La questione dei nostri bambini chiusi in casa è invece questione prima di tutto SOCIALE e PSICOLOGICA.
Il loro essere tornati a fare i figli a tempo pieno fa perdere la bambinità orizzontale che è straordinariamente importante a questa età.
Rischiamo che la benemerita e volonterosa “didattica a distanza” (io preferisco non a caso chiamarla “didattica della vicinanza”) diventi un comodo surrogato a questa mancanza di riflessione sui bambini ridotti solo alla scolarità. Le ragioni non sono affatto legate solo ai genitori e al lavoro (anche se non è tema da poco), ma prima di tutto alla condizione infantile che è quella che sta pagando di più questo confinamento. Con tutte le cautele del caso, e tenendo conto che abbiamo tempo due mesi per prepararci (calerà questa maledetta gaussiana!), perché non cominciare a pensare anche a questa ipotesi estiva?
Perché non pensare debbano esserci anche i nostri insegnanti, magari come volontari e pagati, per ri-prendere la vita di relazione e anche un po’ di ricostruzione di un legame (non “recupero”, per carità) con la scuola?
E non sarebbe opportuno pensarci in primis per i bambini con disabilità e poveri confinati due volte nell’isolamento? Proviamo almeno ad avere la voglia di pensarci? Se qualcuno ha alternative le dica, ma restare fermi al metafisico ritorno alle scuole tradizionali a settembre mi pare corra il rischio di aumentare le diseguaglianze e i problemi evolutivi dei bambini. Se gli scienziati sanno scrivere regole serie per gli operai, non possono farlo anche per i bambini? Meglio all’aria aperta con la mascherina che chiusi nel loro confino quasi eterno.
Chiediamo dunque che la Commissione Corrao ne parli, la veda come questione strategica e non accessoria o sentimentale. E che in questa Commissione ci sia chi sa qualcuno che sa dei bambini e dell’educazione (non solo della scuola) mi pare il minimo.




Educare e insegnare ai tempi del Covid-19. Parla lo psicologo

spiraledi Massimo Giugler, psicologo
Studio Sigre – Ivrea

In Canavese l’ultimo giorno di lezione è stato il 21 febbraio. La chiusura delle scuole per le vacanze di Carnevale si è tramutata in chiusura per la prevenzione della diffusione del Covid-19. Da allora sono trascorsi quasi due mesi e altrettanti ne trascorreranno prima di un’altra chiusura: quella di un anno scolastico decisamente anomalo.

Ma come cambia la scuola in questo nuovo scenario e come cambia di conseguenza il ruolo degli insegnanti? Credo sia necessario porsi questa domanda, prima di declinare le azioni che gli insegnanti possono attivare in questi mesi di chiusura forzata.

E’ necessario partire dal contesto: le scuole, ribadiamo, sono chiuse per un motivo sanitario e gli allievi sono a casa in una situazione di forte restrizione. Convivono forzatamente con i propri familiari in un contesto in cui si respira un’aria di preoccupazione per la salute propria e dei propri cari, per il futuro personale e collettivo, per le conseguenze di questa pandemia, per il lavoro, per la situazione economica. In molte famiglie la preoccupazione è ancora più elevata laddove vi sono dei componenti che svolgono delle professioni sanitarie. In altre famiglie si sono vissuti dei lutti o dei momenti di significativa preoccupazione dovuti ai ricoveri di famigliari in ospedale o per la contrazione della malattia.

I bambini si trovano in mezzo a una tempesta emotiva: anche se i genitori si impegnano a erigere un cordone protettivo, le preoccupazioni transitano e si sedimentano in loro. Spesso i bambini non possono vedere i nonni, o altri componenti della famiglia, con i quali avevano un rapporto significativo. Se hanno i genitori impiegati in professioni sanitarie devono mantenere le distanze di sicurezza: non possono abbracciarli ed essere abbracciati. Possono aver subito un trauma, come i propri genitori, nel caso in cui il nonno sia deceduto. E non lo hanno nemmeno potuto salutare, né accompagnare al cimitero: un sparizione incomprensibile e un vuoto che pesa in famiglia e che aumenta il carico emotivo.
E ancora: non possono uscire per giocare, non possono vedere i propri compagni di scuola, non possono praticare lo sport preferito e frequentare altri compagi di gioco, non possono più seguire fisicamente i corsi ai quali erano iscritti. Il ritmo della giornata è allentato e ciò crea in loro ulteriore disorientamento. Convivono in spazi e situazioni a volte carichi di tensione per le difficoltà di relazione tra e con i genitori o con i fratelli, hanno dovuto adattarsi, in poco tempo, a una nuova modalità di organizzazione della propria vita e, in particolare, di approccio allo studio e alla scuola.
Quando questa è stata chiusa non hanno potuto salutare né gli insegnanti, né i compagni. Non si sono detti arrivederci, né dati un appuntamento certo, come quando la scuola chiude per le vacanze estive. Vivono, come tutti noi, un tempo sospeso, senza una data certa per il ritorno a scuola.

Se esprimiamo quanto detto in termini di BISOGNI dei bambini, li possiamo così sintetizzare:

–          BISOGNO DI RELAZIONE CON FIGURE ADULTE SIGNIFICATIVE “SCOMPARSE”
–          BISOGNO DI CONDIVISIONE CON I COETANEI in forme “NUOVE” proposte dagli adulti
–          BISOGNO DI EMPATIA (DI EMOZIONARSI CON…)
–          BISOGNO DI PROSEGUIRE il proprio PROCESSO di APPRENDIMENTO” (ATTRAVERSO nuovi             STIMOLI alla RICERCA)
–          BISOGNO DI RITMI (anche rituali) CHE LI STRUTTURINO DURANTE LA GIORNATA
–          BISOGNO DI PENSARSI IN UNA PROSPETTIVA FUTURA DI RITORNO ALLA NORMALITA’

Viene allora da chiedersi come possano gli insegnanti riuscire a colmare, almeno in parte, questi bisogni. Ritengo che questa debba essere la sfida, la nuova frontiera. Dal mio punto di vista agli insegnanti viene chiesto un cambiamento significativo, che non è basato sull’apprendimento delle nuove tecnologie. La sfida è come riuscire a rimanere empaticamente connessi ai propri alunni, come continuare ad essere quel punto di riferimento significativo come lo sono stati negli ultimi mesi (o anni), come trasformare la didattica della distanza a didattica della vicinanza.

Provo a suggerire alcune attenzioni, convinto però che l’agire dell’insegnante passa necessariamente dalla connessione con la condizione emotiva dei bambini di questi giorni o, in altre parole, dalla risposta alla domanda posta in premessa: quale diventa il ruolo dell’insegnante ai tempi del Covid-19?
Cito due funzioni: una a livello di singolo bambino, una a livello di gruppo classe.
Credo che sia molto importante che i bambini percepiscano i docenti, che li sentano non solo e tanto attraverso i compiti, ma sentano la loro voce, li possano vedere. La voce è calda, suscita emozioni, conduce a ricordi, lega al contesto scuola che oggi manca. Se poi potessero sentire che la voce, in alcuni momenti, è solo per loro (messaggi personalizzati), si sentirebbero ancor più gratificati e legati alla voce stessa. E ritroverebbero un significativo punto di riferimento.

A livello di gruppo: gli insegnanti possono agire azioni che facciano percepire che la classe c’è ancora, che i compagni sono vivi e stanno bene. Ciò vale soprattutto per la fascia delle infanzia e primaria, dove, almeno fino alle classi V°, non vi è, sanamente, autonomia nell’uso di smartphone e social e quindi contatto diretto con i compagni. Come può essere mantenuta la dimensione classe in una situazione in cui ognuno è a casa sua? Ideale sarebbe la presenza di tutti sullo stesso monitor, con i loro volti, le loro voci: un luogo virtuale che diventa un contenitore. Ma se ciò non è possibile ci si può immaginare altre forme di comunicazione, purché si abbia presente anche l’esigenza dei bambini di percepire il gruppo classe.

Ci tengo ancora ad evidenziare una funzione trasversale che possono agire gli insegnanti: recuperare il legame con il recente passato e dare prospettiva. I bambini hanno una dimensione del tempo concentrata sul presente, fanno fatica, per costruzione cognitiva, a sviluppare un pensiero ipotetico deduttivo che li porti a immaginare il tempo futuro e pongono i ricordi temporali in modo disordinato. Gli insegnanti possono da un lato riproporre, seppur in forma virtuale, abitudini, consuetudini, rituali che erano propri del loro tempo scuola; dall’altro assegnare compiti quali tracciare un ricordo di questi giorni (con foto, disegni, scritti, vocali, video) da tenere e portare poi al rientro a scuola. Un modo per creare una continuità orizzontale che colleghi il presente con il passato e trovare un punto da cui ripartire nel prossimo anno scolastico e ricucire lo strappo che c’è stato.




Il Brevetto nella pedagogia Freinet

abcdi Giancarlo Cavinato

Freinet parla di autovalutazione piuttosto che di valutazione. Il che non significa che non sia consapevole della complessità del problema e della sua centralità nella pedagogia dell’educazione. Di come il cosiddetto profitto scolastico accompagni per tutto l’arco della carriera scolastica un ragazzo e possa incidere sull’orientamento per il suo futuro. [1]

Preoccupato per il successo scolastico dei suoi alunni e di tutti i ‘figli del popolo’, di stabilire con loro un dialogo basato sul riconoscimento della dignità dei loro tentativi e delle loro esplorazioni, accanto alle sue tecniche e a quello che definisce il ‘complesso di interessi’ per l’organizzazione della vita della classe [2], egli sperimenta e propone una serie di strumenti il cui presupposto è l’autocontrollo attraverso il piano di lavoro per l’alunno, il ‘profilo vitale che l’insegnante viene via via compilando sulla falsariga del diario in cui l’alunno registra i suoi progressi. [3]

La dimostrazione dell’avvenuta acquisizione di capacità viene effettuata attraverso il brevetto, strumento di riconoscimento mutuato da un lato dall’apprendistato artigianale (la cosiddetta ‘prova d’uso’ che il garzone doveva dimostrare di essere in grado di produrre) , dall’altro dal mondo dello scoutismo, da un altro ancora dall’attestazione da parte di un ente statale della proprietà di un’invenzione.

La valutazione non concerne cioè il complesso di un impianto disciplinare, ma singoli passaggi e tecniche nel percorso di individualizzazione. Il brevetto viene riconosciuto in base a una prova pratica che mostra cosa l’alunno sa e sa fare.
Non è una prova standardizzata, la prova non è lo stessa per tutti ma risponde alle specifiche capacità, esigenze, proposte di ciascuno. A volte si tratta di oggetti, tecniche, schede, ricerche, procedure funzionali al lavoro che sta facendo la classe.
E’ la classe (insegnante incluso) che lo valida. Il ‘prodotto’ viene esposto e diviene oggetto di osservazioni. in determinati momenti il ragazzo lo presenta attraverso una esposizione, la cosiddetta ‘conferenza’. Può essere mostrato a genitori e autorità scolastiche. Al termine dell’anno scolastico viene restituito all’autore. Con il sistema dei brevetti Freinet offre un’alternativa al sistema di emulazione e competizione tipico del voto, ai rischi di demotivazione e frustrazione che esso determina in molti. . ‘Non esistono primi e ultimi. Ognuno può e deve acquistare capacità nelle attività manuali o intellettuali di sua scelta. Ognuno ha così successo a suo modo e secondo le sue attitudini, e ciò è perfettamente conforme alla psicologia del bambino e alle complesse possibilità sociali attuali.’ [4]

Un’esperienza di uso di brevetti al termine di un’attività come il ‘mercato delle conoscenze’ che coinvolge alunni di più classi in forme di insegnamento e apprendimento reciproco si trova nel quaderno MCE ‘Narrare la scuola’ [5].
In questo caso si trattava di far sperimentare agli alunni la necessità e l’efficacia di una messa a disposizione in forme democratiche dei saperi presenti in una comunità.

[1] Redazione Quaderni cooperazione educativa ‘Freinet: dialoghi a distanza’, La Nuova Italia, Firenze, 1997 P. 96
[2] C. Freinet ‘La scuola del popolo’ Ed. Riuniti, Roma, 1973
[3] op. cit. p. 144-146
[4] op. cit. p. 146
[5] P. Scotto, G. Caavinato, A. Busato, ‘Al mercato delle conoscenze. Dare visibilità ai saperi dei bambini’ in, S. Nicolli ( a cura di) ‘Narrare la scuola. insegnanti riflessivi e documentazione didattica’ ed. Asterios, Trieste, 2018, pp. 123-140




Un’analisi della Scuola e dei suoi bisogni ai tempi del Covid-19

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a cura del Movimento di Cooperazione Educativa

LA SCUOLA CHIUSA HA UN COSTO SOCIALE ENORME
La scuola è il luogo fondamentale della vita sociale, la prima istituzione che si attraversa come persone e cittadini.
Andare a scuola dà un ritmo alle nostre vite e nello stesso tempo costruisce e consolida l’appartenenza a una comunità.
La chiusura delle scuole sta creando instabilità, senso di vuoto, spaesamento. Sconvolgimento del ciclo della giornata, della settimana e dell’anno.
La scuola è luogo di vita, di partecipazione, di dialogo e ascolto. È lo spazio dell’educare. Ed è in questo spazio che si realizza l’apprendimento e si accede all’elaborazione culturale attraverso la relazione con i pari e i soggetti dell’insegnamento/apprendimento: alunni/e, docenti e la necessaria mediazione didattica.
La Scuola chiusa e il venir meno del suo funzionamento ordinario ci sta permettendo di sbanalizzare l’ovvio e di vedere con chiarezza quanto la scuola sia importante nella vita di ciascuno, in quella familiare e sociale.
La chiusura a tempo indeterminato delle scuole contribuisce ad affievolire ulteriormente i legami sociali, portato della nostra epoca di ‘passioni tristi’.

LA DIDATTICA A DISTANZA È PER L’EMERGENZA. LA SCUOLA SI FA IN PRESENZA.

La Scuola come spazio di socialità e apprendimento, come presidio di democrazia, partecipazione, collegialità non può essere surrogata dalla didattica a distanza. L’apprendimento è esplorazione, scoperta, è costruzione di conoscenza attraverso esperienze dotate di senso, cariche di significati, che sono largamente significati relazionali

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