Contro la lezione frontale, per l’apprendimento cooperativo

bambini_scuoladi Gianni Di Pietro

Per come è stata la storia della scuola italiana, nessuno metterà in questione l’uso della lezione frontale da parte di un insegnante.
Per quanto questi sia un fuoriclasse, non credo però che possa riuscire a far partecipare TUTTI i suoi allievi in modo attivo e soddisfacente, cioè per un tempo realmente significaticvo sul piano dell’apprendimento, se si limita a fare fa lezione frontale .
Per una questione di tempo.

Con questo obiettivo riesce invece l’apprendimento cooperativo, con quella che Kagan chiama interazione simultanea: nei piccoli gruppi TUTTI non solo POSSONO ma DEVONO parlare e lo fanno in contemporanea, ciascuno all’interno dei suo piccolo gruppo.
Alla fine dell’ora di lezione tutti sono stati attivi e lo sono stati per un tempo significativo, almeno dai 5 ai 10 minuti, a seconda se il gruppo è composto da 2, 3 o 4 studenti. Nel contesto della lezione frontale in genere parla solo qualcuno quando fa una domanda e il prof, per forza di cose, può al massimo limitarsi a far provare a rispondere o chiedere che ne cosa ne pensa a solo a qualche altro prima di intervenire lui.

Nello stesso tempo in cui parlano questi pochi, in una classe di 30 oraganizzata in gruppi di 3 sono 10 persone che possono provare a formulare ciò che hanno capito o a far domande o a dare risposte ai compagni. E hanno a disposizione per fare questo non solo qualche minuto ma almeno sei-sette minuti a testa. E non solo ascoltano e prendono appunti (quando va bene) come nella lezione frontale, ma fanno anche tante altre cosine: leggere, parlare, usare il linguaggio in funzione esplorativa (che è la forma fisica del provare ad apprendere, soprattutto quando si ha a che fare con discipline che implicano un linguaggio specialistico come le sue) in una situazione reale come è l’insegnare ai compagni, discutere, provare a formulare la propria comprensione, provare a riformularla se i suoi compagni non l’hanno capito), porsi e sentirsi porre domande, domande e provare a dare e a darsi risposte.
E questo non per un paio di minuti al giorno ma per gran parte delle ore che si passano a scuola.

Se è lezione frontale, sarà l’insegnante a parlare più di tutti e alla fine la maggioranza degli studenti o impara attraverso l’ascolto o non impara. Imparare solo attraverso l’ascolto spesso non arriva alla comprensione profonda, che ha bisogno di molte altre operazioni, e si ferma alla memoria. Imparare attraverso la molteplicità di operazioni che si compiono nel lavoro in piccoli gruppi cooperativi delinea un modello di apprendimento molto più complesso ma paradossalmente brain friendly, perché in fondo fondato sul tentativo e la verifica del tentativo, la prova e l’errore.
Credo che la massima attribuita a Confucio colga nel segno quando recita: “Se ascolto, dimentico”, “Se ascolto e vedo, ricordo poco”, “Se ascolto, vedo e pongo domande o discuto con qualcun altro, comincio a comprendere”, “Se ascolto, vedo, discuto e faccio, acquisisco conoscenza e abilità”, “Se insegno a un altro, divento padrone”.

Certo non è colpa degli insegnanti se i documenti ministeriali in fondo in fondo sottendono il tipo di studente che impara con la fretta e la superficialità che in molti lascia la lezione frontale. Ma certo non fa tanto onore a chi fa l’insegnante il fatto di continuare a pensare per un’intera carriera che al modo di apprendere implicato dalla lezione frontale non esista alternativa.

Il segreto delle didattiche non trasmissive e non frontali è che mettono gli studenti in condizione di fare una notevole quantità di operazioni per l’apprendimento (non solo l’ascolto) e che alla fine tutti sono messi in condizioni di insegnare qualcosa agli altri in modo da diventare REALMENTE PADRONI di quello che studiano per insegnare ai compagni.

William Glasser ha formulato questo punto in un modo ancora più chiaro, quantificando: “Noi impariamo il 10% di ciò che leggiamo; il 20% di ciò che ascoltiamo; il 30% di ciò che vediamo; il 50 % di ciò che insieme ascoltiamo e vediamo; il 70% di ciò che è discusso con altri; l’80% di ciò che sperimentiamo di persona; il 95 % di ciò che insegniamo a qualcun altro”

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Innovazione, didattica e valutazione

arcobaleno di Stefano Stefanel

La scuola italiana è entrata dentro un’emergenza pandemica di carattere mondiale e ha dovuto accelerare sull’innovazione didattica e metodologica molto al di là di quanto avrebbero permesso le forze presenti nel sistema dell’istruzione italiano.
E’, dunque, importante comprendere come l’innovazione richiesta dalla Didattica a distanza, dalla Valutazione senza possibilità di bocciatura o di sospensione del giudizio, dalle ipotesi che si susseguono di giorno in giorno senza piani di attuazione strutturali che riguardino l’edilizia e la connettività, sia entrata a regime, senza alcun periodo di sperimentazione. Inoltre non c’è stato neppure alcun precedente “stress test”, che abbia potuto permettere di verificare lo stato dell’arte in una situazione senza eguali.
C’è stata una grande improvvisazione nazionale, che ha dato esiti nel suo complesso molto positivi, ma sempre dentro scelte di carattere empirico e non legate a ricerca e innovazione didattica.
Alcune scuole sono già molto avanti nella Didattica a distanza, nella connettività, nell’integrazione del web nel curricolo: ma queste scuole sono poche e soprattutto sono del secondo ciclo. Far guidare l’innovazione di tutto il sistema dell’istruzione da esperienze forti del secondo ciclo significa solo creare un ulteriore sbilanciamento nel sistema stesso.

L’innovazione, per sua natura, richiede tempo e verifiche sul campo, ricerca-azione e protocolli analitici, mentre noi siamo entrati nell’innovazione didattica e metodologica dall’oggi al domani, senza una preparazione, senza un supporto di sistema, ma anche senza contratti del personale, senza un quadro di rifermento nazionale, senza termini di confronto con esperienze simili. Per cui è necessario dire che il sistema scolastico italiano ha reagito benissimo, ha retto come non sarebbe stato prevedibile e, soprattutto, ha mostrato sensibilità, competenze nascoste che sono improvvisamente emerse, senso del dovere, senso dello stato. Da un lato c’è stata un’innovazione imposta da un’emergenza storica ed epocale, dall’altra una risposta attiva di un sistema che è stato scosso, ma che non si è mai arreso.

Credo che di tutto questo si debba tenere conto, riconoscendo soprattutto ai docenti e agli studenti qualità di empatia e impegno molto alte, che dovranno essere potenziate da dosi massicce di competenze tecniche e valutative quando tornerà una situazione normale. E’ necessario stare molto attenti, però, a maneggiare l’innovazione con cura, a non fare salti in avanti, a rendersi conto di come le scuole abbiano imbastito la Didattica a distanza senza stress test, senza procedure verificate, senza competenze certificate, senza connettività certa, senza sicurezza della recettività anche da parte degli studenti più deboli. Il sistema scolastico, dopo questa emergenza, ha bisogno di mutamenti strutturali che lo modifichino nella sostanza. Ad esempio la scuola per piccoli gruppi non può essere realizzata con una parte di studenti in classe e una parte a distanza (anche perché vista l’edilizia scolastica il concetto di distanza in presenza diventa vago in rapporto alle singole situazioni strutturali), ma deve prevedere una revisione totale della organizzazione degli studenti, che deve avvenire per gruppi e non per classi. Questo vuol dire rivoluzionare gli organici, la struttura delle classi, la struttura degli spazi: cose che non si possono improvvisare in poco tempo. Possiamo farlo nell’emergenza? Io credo di no, perché il sistema scolastico sottoposto a troppi mutamenti rischia forti criticità potenzialmente irreversibili. A scelte didattiche radicali, vanno affiancate scelte contrattuali e organizzative radicali, altrimenti cadiamo da un’emergenza pandemica a una emergenza innovativa, resa necessaria dalle cose, ma non attuabile in un sistema non governato. Ci deve poi essere un rapporto armonico tra Ministero e Rai scuola, che coinvolga anche le autonomie scolastiche. Chi deve ragionare su questo? Direi il Ministero con tutte le sue Direzioni generali (che magari dovrebbero diventare da strutture di emanazione e controllo a strutture di supporto), i Sindacati, i Dirigenti scolastici, gli Enti Locali. Perché una volta che le innovazioni organizzative arrivano a scuola i docenti dovranno poter progettare in forma collegiale e individuale in base a dati certi e scelte chiare.

DIDATTICA A DISTANZA

E’ naturale che la Didattica a distanza abbia ingenerato molte splendide esperienze e anche qualche confusione. Alcuni paradossi non possono però essere taciuti, perché non costituiscono critica ad un sistema che ha retto benissimo, ma solo elemento di analisi per guardare avanti con lucidità:

–      BYOD (Bring Your Own Device). In molte scuole fino al 21 febbraio lo studente che veniva scoperto connesso era punito. In molte scuole si firmavano protocolli per evitare anche di far portare i device a scuola. Una parte di docenti considerava virtuoso lo studente che non si connetteva e la cultura libresca prevaleva su quella del web (su questo bisognerebbe leggere con attenzione quanto in questi anni ha scritto Roberto Maragliano). Ebbene, improvvisamente alcuni insegnanti che mettevano la nota a chi usava lo smartphone in classe adesso vorrebbero mettere la nota a chi non lo usa da casa. Non si può passare dalla repressione del BYOD all’obbligatorietà del BYOD. Bisogna prima fare chiarezza su questo. E questa chiarezza deve essere fatta dalle singole istituzioni scolastiche in un territorio molto complesso e che ha visto ribaltarsi le priorità. Se prima del 21 febbraio c’era l’urgenza di proteggere lo studente dalla connettività ora c’è l’esigenza di accompagnare lo studente dentro la connettività.

–      LIBRI DI TESTO. Molti libri di carta stanno da due mesi nelle scuole e la didattica è andata avanti lo stesso. Si è compreso come la Didattica a distanza per sua natura si appoggi al web e alle piattaforma, oltre che alla pubblicistica on line, che è fatta di cose ottime ma anche di cose pessime e che, dunque, necessita della mediazione del docente. Però il rapporto tra scuola italiana e libro cartaceo si è interrotto in maniera traumatica e repentina a fine febbraio. E questa interruzione ha introdotto paradigmi nuovi che vanno esplorati con molta cautela.

–      TEMPO SCUOLA. Il tempo scuola prima dell’emergenza era segnato da una serialità semplice legata anche ai trasporti e ai tempi delle famiglie. L’anno scolastico si sviluppava su orari certi e tempi chiari, spesso complicati da seguire, ma comunque legati alla presenza in un edificio di molte persone. Quel tempo però era segnato anche da gite, viaggi d’istruzione, scambi, stage, attività sportive con gare scolastiche, visite a mostre o musei, conferenze, assemblee, assenze di docenti o studenti, ritardi, ecc. Tutto questo è saltato, ma una parte del sistema sta provando a ricreare tutto a distanza, con tempi e orari scanditi in modo reale in un mondo che è diventato irreale. Anche questa è una modifica di cui si dovrà tenere conto, in un anno finito dentro una convivenza che rimane attiva solo grazie al web.

Ho fatto solo tre esempi, ma ce n’è molti altri. La Didattica a distanza non è una didattica sostitutiva di quella in presenza, ma è una Didattica on line che cambia anche quella in presenza, perché cambia radicalmente il concetto di presenza.
Fino al 21 febbraio la presenza è stata per tutti una presenza di gruppo (salvo nelle splendide esperienze della Scuola in ospedale), mentre nella Didattica a distanza la presenza è una solitudine davanti ad uno schermo, che improvvisamente è diventata didatticamente sociale. Ripensare e riprogettare tutto questo non è cosa da poco, soprattutto se ci si dovrà rapportare a piccoli gruppi e non alle classi intere. In ogni caso un’integrazione tra didattiche sarà necessaria e dovrà essere ponderata, perché molte cose che facevamo in presenza ora le faremo per sempre a distanza. Una lezione frontale di un’ora può anche essere goduta o subita quando lo si ritiene opportuno, perché a quel punto, quando si è presenti sia in classe sia sul web, è meglio parlare di ciò che si è già ascoltato. Il web deve creare integrazione, perché permette una trasmissività non legata alla presenza.

LA VALUTAZIONE NON E’ UNA MISURAZIONE

La scuola italiana tende da sempre a confondere Misurazione, Valutazione e Certificazione. I tre vocaboli non sono affatto sinonimi e la media matematica è sempre una misurazione. Sorprende, ad esempio, che il ministero non tenga conto di quello che viene detto da varie persone di scuola molto illuminate (cito solo Giancarlo Cerini, Cinzia Mion, Franca Da Re e l’Andis) e non eviti in questa fase di obbligare le scuole primarie ad attribuire i voti numerici alle materie. Questo sarebbe il momento di uscire da una docimologia che andava stretta alle scuole primarie anche prima della pandemia. Credo in ogni caso che le scuole primarie possano rendere leggera la valutazione alla fine di quest’anno anche attraverso meccanismi comunicativi gestiti in autonomia, che vadano oltre il registro elettronico coi voti e il complesso giudizio analitico, che dovrebbe descrivere l’andamento dell’alunno e invece molto spesso è una difficile lettura per famiglie che alla fine si mettono a contare le valutazioni trasformandole in misurazioni. E’ necessario affiancare a questo strumento tecnico anche un qualcosa di descrittivo ed empatico che resti nella mente e nel ricordo dei bambini e che suggelli questo periodo difficile con le maestre lontane. Ai docenti dell’Istituto comprensivo che dirigo ho proposto un disegno fatto da loro e personalizzato per ogni bambino, che sintetizzi l’anno e lasci un ricordo. Non un disegno fatto dall’alunno per la maestra, ma un disegno fatto dalle maestre per l’alunno. Quella sarà la pagella aggiuntiva, che penso molti bambini appenderanno in camera.

Al di là dell’empatia va detto che la scuola italiana, confondendo misurazione con valutazione, può fare il grande errore di valutare gli studenti attraverso le misurazioni della Didattica in presenza (compiti in classe ed interrogazioni) trasferite dentro la Didattica a distanza. Soprattutto nel secondo ciclo questo altererebbe il sistema di valutazione complessivo (messo in sicurezza dal Ministero dai “colpi di testa” di chi avrebbe comunque voluto bocciare anche dentro una pandemia), perché la misurazione per sua natura tende ad aiutare i migliori (che hanno molto bisogno di misurazioni) e a penalizzare i ragazzi più deboli (che vengono mortificati dalle misurazioni standard al di là della loro debolezza). Citerei, come esempio, tre elementi utili per valutare la Didattica a distanza: il colloquio colto (cioè il colloquio tra soggetti che condividono determinati specialismi), i compiti di realtà (connessi alle competenze tecniche, al rapporto con quello che gli studenti vivono, a ciò che può essere traslato dalla teoria alla pratica), la pluridisciplinarietà attraverso argomenti di vasta portata che amplino l’orizzonte culturale dello studente e richiedano argomentazione e non ripetizione.

Chi continuerà a misurare i prodotti (compiti e interrogazioni) in questa fase semplicemente commetterà un errore più grave di quelli già commessi in passato. Quello che è cero è che la misurazione per lo studente di livello medio alto o alto è un elemento di valorizzazione, mentre per lo studente debole è la strada maestra per la dispersione. Misurare in questa emergenza è dunque un errore, ma per valutare bisogna aver compreso appieno gli elementi cardine della valutazione, che attengono al rapporto empatico del valutatore col soggetto valutato, ad una comprensione del reale valore aggiunto dalla scuola (formale) e dalla realtà (non formale e informale) nel processo di apprendimento dello studente, ad un’attenzione per i percorsi culturali personalizzati. Tutto questo è visibile anche dentro problem solving, problem posing, analisi sistematiche di dati e notizie. Il luogo della valutazione deve essere messo a contatto con strumenti qualitativi e flessibili, non con rigide prove basate su standard autoreferenziali.

Non c’è dubbio che nella formazione dei docenti ci sono buone o ottime competenze specialistiche e una notevole empatia didattica e pedagogica, ma la valutazione non è stata studiata dai docenti e tra i loro obblighi non c’è quello di formarsi sui migliori modelli di valutazione. Tutta colpa dei docenti, dunque? Direi proprio di no: genitori, studenti e società civile sono molto più lontani della scuola dal concetto di valutazione. Nessuna categoria vuole farsi valutare e infatti davanti a qualunque proposta valutativa scatta il richiamo al detto di Giovenale Quis custodiet ipsos custodes? E in quel “Chi controlla i controllori” è già specificato che la valutazione non si farà. La società civile (genitori e studenti) si sentono più al sicuro dietro misurazioni standardizzate e autoprodotte in modo artigianale, perché comunque ritenute meno arbitrarie e volubili. E questo è uno dei punti deboli del sistema dell’istruzione. Ma il Ministero e noi Dirigenti non abbiamo investito come avremmo potuto e dovuto sulla cultura della valutazione e sulla formazione alla valutazione (anche nostra). Quindi è tutto il sistema a doversi riaddentrare dentro questo elemento della pedagogia, per slegarlo da una docimologia rigida e inefficace.

In questa fase innovativa ed emergenziale una misurazione che si traveste da valutazione può diventare un peso e consegnare troppi studenti dentro una fotografia errata. E’ necessario avere ben chiaro che in una didattica nuova e sconosciuta bisogna avere sempre il polso della situazione, per aprirsi verso il prossimo anno scolastico che sarà pieno di incognite. In questo ultimo mese di scuola bisogna rallentare la didattica, ampliare gli stati di conoscenza ed empatia, analizzare competenze e valutare progressi, mettere in sicurezza gli studenti bravi e meno bravi che non devono essere coinvolti in un finale d’anno con compiti e verifiche, anche al fine di individuare le sacche di debolezza del sistema da sottoporre a rinforzo, con proposte anche estive di supporto, tutoraggio, recupero.

 

 




Scuola-servizio o scuola-diritto?

bambini_scuoladi Simonetta Fasoli

Non mi convince affatto l’espressione “servizi alla persona”, che accomuna nel burocratese Sanità e Scuola: non sono “servizi”, sono “diritti”. In più di un’occasione pubblica o in incontri di riflessione ho ritenuto opportuno sottolinearlo. Non è una questione terminologica, ma politica, per ragioni che mi sembrano dirimenti. Il “servizio” si modula seguendo la logica economicista del rapporto costi/benefici. Il “diritto” non è modulabile: o c’è ed è garantito, o non c’è.

Questo passaggio epocale della pandemia, che è ben più di una semplice contingenza, sta dimostrando con drammatica evidenza la stortura di quella impostazione. Servizi tagliati, dunque diritti negati. Parliamo di vite, non di casistica.
I tempi sono maturi per innescare una vasta e articolata riflessione collettiva, “dal basso”, capace di condizionare le scelte dei decisori politici, in quanto libera dalla preoccupazione del consenso, o addirittura del successo elettorale, che da troppi anni affligge e distorce il quadro politico.
In caso contrario, c’è da temere che tutto si riduca ad una gestione dei problemi, senza andare a rimuovere le cause strutturali che li hanno determinati.

Temo in particolare che, nella scuola, di tutto quello che l’emergenza ha sollevato, resti qualche aula o spazio in più (non classi, non tempo scuola, non risorse docenti!) e la didattica a distanza come organizzazione ORDINARIA, parallela ad una didattica in presenza sempre più residuale. Un processo che significa, al suo esito estremo, descolarizzazione. E nel frattempo, una politica di tagli alle risorse umane e materiali, in perfetta continuità con il passato recente e meno recente.

Non bisogna ignorare le difficoltà in cui si stanno dibattendo le scuole e gli insegnanti in queste difficili settimane tutt’altro che concluse. Proprio per il riconoscimento che è dovuto all’impegno profuso, è essenziale che la scuola entri nella sua specifica “Fase 2”: no, non mi riferisco in questa sede al quando e al come riaprire…Mi riferisco piuttosto agli orientamenti che devono caratterizzare il passaggio, in un’ottica di largo respiro e di visione lungimirante.
Da questo punto di vista, le elaborazioni dell’universo culturale e professionale che si muove attorno alla scuola-istituzione, le relative concrete iniziative, sono preziosi strumenti di intervento: tanto più efficaci, quanto più frutto di condivisione e di progettazione partecipata.
Sul punto, ritengo che non sia davvero utile in questa fase dare alle singole scuole le “istruzioni per l’uso”: penso sia piuttosto opportuno assumere iniziative coordinate, volte ad incalzare chi ha responsabilità politiche di governo affinché siano superati in modo generalizzato e strutturale modelli iniqui.
Le diseguaglianze sociali e culturali non sono una scoperta della didattica a distanza, che semmai le ha drammaticamente evidenziate e accentuate. Sono la sfida incessante e sempre aperta, perché non definitivamente vinta, di una scuola che sia davvero a misura dei diritti costituzionali.

Dieci…cento scuole “politicamente corrette” non fanno un sistema politico-istituzionale che sia finalmente ed inequivocabilmente impegnato nel superamento di modelli culturali e pedagogici iniqui. E che persegua l’obiettivo con gli strumenti legislativi di cui dispone. Di questo c’è urgente bisogno.
Se non ora, quando?




La scuola “normale” è la grande “malata” e va cambiata

arcobalenodi Ermanno Morello

 Il documento a firma di Italo Fiorin e altri esperti pone una serie di questioni che riguardano la scuola “normale” , quella di prima del covid.
La scuola dell’emergenza (cosa ben diversa dalla DaD) ha solo agito da lente di ingrandimento: in essa non vedo indicazioni innovative, men che meno la “classe rovesciata”; l’unico dato positivo è l’impegno di quella parte di insegnanti (solo una parte) che ha cercato, con approssimazioni progressive (non improvvisando “a muzzo”) soluzioni da adeguare alla situazione per mantenere un contatto significativo con gli allievi, anche sul piano dell’apprendimento.
Sono gli insegnanti che stanno “pensando”, per modificare e verificare il proprio agire in una realtà sconosciuta (qualcuno anche con i pochi colleghi più vicini, sparita già prima l’idea stessa di collegialità); moltissimi altri si sono solo buttati a capofitto sulle piattaforme, continuando imperterriti a praticare la distanza già presente in classe.

Se si vuole “sfruttare l’occasione” per individuare percorsi di rinnovamento pedagogico e didattico (diverso dall’innovazione oggi sulla bocca digitale di troppi) della scuola della relazione educativa e dell’apprendimento significativo ed emancipante, occorre avere il coraggio e la capacità (volontà squisitamente politica) di interpellare e coinvolgere gli insegnanti del primo tipo (quelli pensanti per orientarsi nell’approssimazione) in un grande confronto collettivo di esperienze e riflessività; da cui trarre “modelli” sensati e potenzialmente condivisibili su larga scala, non solo pratiche replicabili secondo l’ottica della disseminazione che non ha dato grandi risultati, se non nell’applicazione pedestre di procedure (un’ottica funzionale alla didattica della distanza, in cui le procedure possono nascondere il vuoto delle scelte metodologiche e culturali).
Ne usciremo solo se rimetteremo le mani sulla scuola “normale”, la vera malata; non se si cercherà di sfruttare gli sconvolgimenti di questo periodo emergenziale, magari per trovare un po’ di spazio all’avventurismo delle “grandi idee” di qualche pensatore individualista, utopista oppure reazionario: tipi già attivi sulla scena di una “ricostruzione radicale”, come se di decenni di sperimentazioni e di costruzione (che in fondo sono alla base, negli orientamenti e nelle persone, delle Indicazioni 2012) non vi sia più traccia.
A margine: agire l’approssimazione consapevole è una delle pratiche più efficaci della didattica delle competenze. Pessimisticamente disponibile, continuo a pensare possibile la discussione e persino non essere proni di fronte al delirio innovativo, che c’entra poco con il “cambiamento”.




La scuola del primo ciclo oggi e domani: una riflessione a più voci

spiraleL’emergenza del coronavirus ha destrutturato la nostra vita ordinaria, quella delle istituzioni e del mondo produttivo. L’istituzione più colpita è stata senza dubbio la scuola, mantenuta in vita, grazie agli encomiabili sforzi dei docenti e dirigenti scolastici, con la cosiddetta didattica a distanza che ha mostrato le sue grandi potenzialità, ma, comprensibilmente, anche i suoi limiti, soprattutto per gli alunni più giovani. In questa fase di destabilizzazione molte sono state le analisi, le riflessioni e le proposte tese sia a migliorare l’esistente sia ad avanzare ipotesi di “rinascita formativa” con la riapertura delle scuole a settembre. Abbiamo provato anche noi, già componenti del Comitato Scientifico Nazionale per l’accompagnamento delle Indicazioni nazionali della scuola dell’infanzia e del primo ciclo (2012), a proporre una riflessione che si pone in continuità con il lavoro svolto nei sei anni di incarico dal 2013 al 2019 e che ci sembra doveroso condividere con i docenti e dirigenti che ci hanno seguito nelle iniziative a suo tempo realizzate. Crediamo che l’apporto di più voci possa aiutare a reperire soluzioni ampiamente condivise e più rispondenti ai bisogni degli allievi, dei docenti e degli stessi genitori, anche nella prospettiva della ripresa delle attività nel prossimo anno scolastico.

Italo Fiorin, Maria Patrizia Bettini, Giancarlo Cerini, Sergio Cicatelli, Franca Da Re, Gisella Langè, Franco Lorenzoni, Elisabetta Nigris, Carlo Petracca, Franca Rossi, Maria Rosa Silvestro, Rosetta Zan. Collaborazione di Daniela Marrocchi (già componenti del Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali e il miglioramento continuo dell’insegnamento, non più ricostituito dopo la scadenza dell’incarico ad agosto 2019)

Oltre l’emergenza

L’emergenza sanitaria che sta sconvolgendo la vita di tutti noi impone un serio ripensamento del modo di fare e di essere scuola. Il contesto è radicalmente cambiato. La nostra immagine di scuola, costruita intorno ad alcuni schemi apparentemente intoccabili: la classe, la cattedra, la comunicazione verbale, le verifiche formali… risulta oggi superata.
Si rende necessario un ripensamento profondo, a partire dal superamento della logica burocratico-amministrativa che si preoccupa di conservare, anche in queste condizioni di emergenza, le stesse routine (e la stessa mentalità) della scuola tradizionale: scadenze, orari, obblighi contrattuali, modalità di insegnamento e di verifica, adempimenti formali. Si comprende quanto sia difficile modificare la didattica sotto il peso dell’emergenza, nella parte finale di un anno scolastico che era stato avviato nei modi consueti, e che probabilmente dovrà chiudersi con qualche soluzione di inevitabile compromesso.
Ma pensare di iniziare un nuovo anno ancora con le stesse formule sarebbe un errore, oltre che un’occasione perduta. E già fin d’ora è facile prevedere un avvio del prossimo anno scolastico con delle criticità.

Ecco perché è importante utilizzare questo momento di prova e riflettere su di esso non solo come un’emergenza da fronteggiare cercando la riduzione dei danni, ma come una sfida educativa e didattica capace di generare una scuola nuova.

L’emergenza ha visto una grande mobilitazione di dirigenti e docenti, che cercano in vari modi di ricreare una relazione educativa e didattica significativa con gli allievi e di contrastare l’isolamento, le solitudini, le varie forme di nuova povertà che si stanno evidenziando. Una esperienza difficile, ma anche una risorsa preziosa da interrogare e valorizzare, per ripartire in modo nuovo.

Rinnovare l’ambiente di apprendimento

Nelle esperienze avviate in questi mesi di “distanziamento sociale” e di “didattica a distanza” si sono imposte scelte di massima flessibilità, che hanno messo e metteranno alla prova alcune rigidità tipiche del nostro sistema.

Da un lato ci sono gli orari di insegnamento, che non possono coincidere con quelli istituzionali in cui l’insegnante è in relazione con l’intero gruppo classe: nella didattica a distanza si rendono necessarie soluzioni personalizzate che impongono una diversa distribuzione del tempo. Per esempio, risulta opportuno, ovunque, ma soprattutto nel primo ciclo, alternare momenti di lezioni a distanza, che coinvolgono l’intera classe, con altri in cui l’insegnante lavora in piccoli gruppi, avendo così modo di differenziare i suoi interventi, ascoltare le diverse reazioni, favorire l’interazione tra gli alunni. Organizzare parte del lavoro in piccoli gruppi favorisce anche gli alunni con bisogni educativi speciali, che soffrono maggiormente questa situazione di isolamento.

Dall’altro c’è la preoccupazione per la verifica degli apprendimenti, talvolta concentrata solo su modalità usuali (svolgimento di prove scritte e prove orali), sottovalutando il valore formativo e pro-attivo della valutazione, con la restituzione all’alunno di informazioni sul suo lavoro, indicazioni su come procedere per il miglioramento e soprattutto riflessione metacognitiva e autovalutativa dell’alunno sul proprio processo di apprendimento.

Al di là delle valutazioni finali, legate a scrutini ed esami che si dovranno svolgere in forme semplificate, si dovrà pensare per il futuro alla possibilità di riorganizzare la didattica su tempi lunghi e su periodizzazioni almeno biennali, che consentano di promuovere e di verificare – come è giusto che sia – la conquista di competenze complesse più che l’adempimento di un compito.

In ogni caso, la riorganizzazione dei tempi e degli spazi, anche virtuali, non deve far dimenticare il senso dell’esperienza educativa e l’importanza dell’ambiente di apprendimento come “contesto idoneo a promuovere apprendimenti significativi”. Tornano, in questo senso, utili i riferimenti delle Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012, che, seppur declinati in modo diverso, ricordano l’importanza di valorizzare l’esperienza e le conoscenze degli alunni, attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità, favorire l’esplorazione e la scoperta, incoraggiare l’apprendimento collaborativo, promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere, realizzare attività didattiche in forma di laboratorio.

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Un’altra pagina. La scuola dopo il Covid19

arcobalenodi Dario Missaglia
presidente nazionale Proteo  

  1. La scuola in movimento

Il movimento esploso nelle scuole in questo periodo di forzato dominio del distanziamento sociale, rappresenta un fatto imprevisto e di grande interesse.

Un movimento in evoluzione, ancora da decifrare in tutti i suoi aspetti, in cui abbiamo colto spontaneismo, improvvisazione, apprendimento sul campo, cooperazione a distanza. Sono emersi visibili alcuni errori ( spesso troppi compiti assegnati, talvolta poco coordinamento degli interventi, ecc) ma il valore umano, pedagogico e sociale di questa onda lunga è stato significativo ed è entrato nelle famiglie alle prese con una chiusura forzata delle proprie relazioni e una gestione molto complicata della giornata dei propri figli. Un soffio di fiducia. Quei bambini e adolescenti in una condizione di costrizione difficile per tutti ma per loro certamente sofferta oltre misura, hanno avvertito che fuori dalle mura domestiche c’erano degli adulti che si interessavano di loro, della loro giornata; che cercavano, ben sapendo che nulla di virtuale può sostituire la ricchezza e le emozioni di un luogo chiamato scuola/classe, di dare un senso, anche una finalità di cultura ed istruzione a queste giornate così difficili.
E’ un movimento di persone che hanno avvertito una responsabilità deontologica di fronte al proprio lavoro e alla società . Non ci eravamo forse più abituati: ma non è questo il senso più significativo dell’impegno politico? Il civismo che avevamo visto sepolto sotto la coltre della virulenta narrazione della destra al potere, è riemerso offrendoci finalmente nel mondo della scuola, una testimonianza limpida e partecipata. La   vocazione democratica come desiderio fatto testimonianza concreta, di ricostruire legami sociali di solidarietà e impegno verso le nuove generazioni, è riemersa.

La scuola riprende una sua funzione politica, civile, sociale e lo fa in una delle condizioni più difficili e drammatiche della nostra storia del secondo novecento: trovo tutto questo sorprendente e promettente. Una leva per riaprire un ciclo nuovo della politica, della iniziativa nella scuola e non solo . E’ il messaggio, da me condiviso, che ho letto nel “Manifesto” sulla scuola proposto dalla Flc-cgil e dal suo segretario generale, Francesco Sinopoli.

  1. Insegnamento e didattica a distanza

Non di meno, quel processo va sottoposto ad attenta riflessione: per “conservare”, come scriveva H.Arendt, e per pensare il futuro, come è nel dna dell’educare. Comprendere, in una discussione a tante voci, i punti forti e i punti deboli di questa inedita esperienza.

Non vi è dubbio innanzitutto che il frequente ed inedito utilizzo delle nuove tecnologie e lo scenario dei prossimi mesi , stia aprendo nel mondo della scuola un dibattito su questi temi come mai era accaduto in precedenza . Del resto , una parte di docenti, considerata l’età anagrafica, è “immigrata” digitale e ha una conoscenza spesso non approfondita delle nuove tecniche e degli effetti di queste nella comunicazione educativa. Prevale pertanto una certa diffidenza che io stesso condivido, avendo osservato da vicino l’effetto deleterio di alcuni potenti mezzi: facebook in primis ma anche altre suggestioni tecnologiche. In questi anni le nuove tecnologie sono state forze potenti al servizio di un modello sociale che ha demolito le pratiche di cooperazione professionale, le relazioni sociali, i legami comunitari .R. Sennett ci ha lasciato pagine memorabili su questo e richiama tutti noi all’esigenza di attrezzare un pensiero critico forte, denso di quei nuovi valori scientifici ed umanistici auspicati da A.Sen e M.Nusbaumm per una nuova cultura della scuola , del lavoro, della società.

Il potere deleterio delle nuove tecnologie si scatena quando sono esse a dirigerci e non viceversa. Nell’insegnamento, sia ben chiaro, uno strumento, per quanto evoluto possa essere, non sostituirà mai la persona. Insegnare infatti è una attività molto delicata, complessa, basata sulla relazione diretta, fisica ed emotiva, con l’altro. Per questa ragione insegnare è sempre una attività contestualizzata ( non è la stessa cosa insegnare a piccoli o adolescenti, a bambini con disabilità, a cittadini extracomunitari, ad adulti, in una scuola di città o di campagna, del nord o del sud, ecc). Ho appreso questo concetto, da giovane maestro elementare, leggendo le pagine di un grande maestro di pedagogia e didattica, Alberto Alberti. Ed è proprio questa dimensione della contestualizzazione a non essere riproducibile da una macchina.

Da qui occorre partire per una riflessione pedagogica sulle nuove tecnologie e il loro impatto con la didattica in presenza, con la comunicazione, con il lavoro cooperativo. Toccherà in sostanza ai docenti, e solo a loro, decidere in che modo e forma ,una tecnologia possa essere utilizzata per concorrere a migliorare un percorso didattico e un modello organizzativo, definito e gestito in prima persona dai docenti e dalla loro cultura professionale. Ancora una volta nella storia, è il rapporto con la modernità che mette alla prova la capacità di chi insegna di padroneggiare i nuovi strumenti e non esserne vittima: è già accaduto con la carta stampata, con la televisione. Sono sfide da affrontare che forse avevamo lasciato un po’ sullo sfondo delle scadenze future ed invece la pandemia le ha violentemente attualizzate. Mai come oggi non possiamo negarci il fatto che l’innovazione tecnologica stia già cambiando in profondità lo scenario sul quale si svolge la vita, quella di tutti noi. I bambini sviluppano abilità sconosciute fin dai primi anni: i giovani hanno una consuetudine con le nuove tecnologie, straordinaria. Che cosa sta cambiando nel loro modo di apprendere? Possiamo noi pensare che obiettivi didattici, curricoli, repertori di conoscenza e abilità, restino gli stessi come se questa rivoluzione non stesse avvenendo?

Se rimuoviamo queste sfide, si entra in un altro territorio: quello della difesa, anche involontaria, della scuola e della didattica così com’è. Nulla di male se potessimo cantare le lodi della didattica corrente ma a chi ne volesse tessere le lodi, ricorderei il monito di Tullio De Mauro che vedeva nel triangolo che lui definiva “perdente”, le ragioni dei tanti insuccessi educativi: la lezione, l’interrogazione, il tema. La scuola di classe che è sopravvissuta al ‘68 malgrado i nostri sogni, è la scuola in cui trionfa ancora l’uso esclusivo della parola ( un solo e selettivo linguaggio), la comunicazione unidirezionale-autoritaria ( la lezione), il componimento scritto tradizionale ( con il suo carico di conformismo indotto). E’ la scuola degli irriducibili gentiliani di sempre; loro sono certamente in grado di essere conservatori anche a distanza e con gli effetti speciali delle nuove tecnologie.

Possiamo dunque essere cauti e riflessivi sulle nuove tecnologie come opportunità didattica, non dobbiamo essere per nulla cauti nel dire che resta aperto il tema di una nuova professionalità docente , di un rinnovamento profondo delle didattiche e dei modelli organizzativi nelle scuole. L’emergenza del coronavirus ci consegna la necessità di riprendere con forza il cammino interrotto di una nuova cultura dell’autonomia da costruire nel mondo della scuola. Siamo di fronte a una sfida culturale e politica, non tecnica. Se e quanto le nuove tecnologie potranno concorrere al raggiungimento di questo obiettivo è questione di sicuro interesse ed importanza, ma secondaria.

  1. Per una nuova cultura della vicinanza

Nei prossimi mesi questo Paese sarà chiamato a fare i conti con una crisi economica e sociale dalle proporzioni immani .Nessuno si faccia ingannare dalla quiete apparente delle abitazioni, delle aziende, delle fabbriche, degli uffici chiusi. E’ un silenzio greve, pesante, foriero purtroppo di ciò che accadrà perché l’impatto economico con la crisi sarà drammatico. Tutto ciò che si muoverà nella società entrerà nelle scuole e nelle università. Dovranno essere luoghi di elaborazione di lutti e dolori, di paure ed angosce, di ricostruzione della socialità e della collaborazione, di costruzione di una memoria condivisa dei mesi che ci lasceremo alle spalle e di nuovi percorsi di istruzione di cui hanno diritto i nostri giovani, di fiducia nello stare insieme e qualche idea forte per ricominciare una nuova fase della società. Non sarà semplice.

In questi anni le nuove tecnologie ci avevano persuaso sul superamento delle distanze o almeno questo era il volto con cui tendevano a presentarsi : la “globalizzazione”. In questo annullamento delle distanze finivano per perdere significato i nostri spazi vicini di vita ( le comunità, i partiti, le grandi strutture pubbliche, i luoghi e i soggetti della intermediazione sociale, ecc) con le conseguenze che abbiamo visto con i nostri occhi: l’erosione dei legami sociali, la precarietà come condizione esistenziale e non solo lavorativa, la diffusione di un individualismo profondo, la regressione della cultura e l’avanzare di sottoculture dense di stereotipi e rancore. La comunicazione ha sostituito l’empatia, l’enfasi sulla sacralità delle nuove tecnologie ha disseminato l’illusione di soluzioni facili e veloci per qualsiasi problema trascinando con sé una buona dose di deresponsabilizzazione collettiva. La globalizzazione ha cancellato la vicinanza.

L’uso delle nuove tecnologie sta determinando modifiche profonde anche nei processi produttivi. Il possesso delle informazioni, delle nuove competenze, ha disegnato rischi di nuove marginalità , gerarchie, dipendenze, precarietà ma anche di nuove opportunità. Il diritto alla conoscenza nel mondo del lavoro è diventato così non solo questione di garanzia di occupabilità ma anche di “potere” nella organizzazione del lavoro, di autonomia del lavoratore, di una nuova relazione con il proprio lavoro e gli esiti del lavoro. Una nuova sfida per il sindacato. Nei mesi che verranno anche il lavoro , nelle sue diverse forme concrete, non sarà più lo stesso e sarà il fattore decisivo per la rinascita del Paese.

La distanza imposta dalla pandemia è oggi quella anomala dimensione concreta che ci priva dell’incontro, della relazione, del contatto, Ed è per questo che i luoghi della vicinanza riscoprono il valore della loro insostituibilità; perché sono i luoghi delle relazioni, degli affetti, dei sentimenti, delle nostre azioni possibili, del lavoro concreto. Dopo questa tragedia, i luoghi della vicinanza non saranno più gli stessi e non saranno più le stesse le persone che hanno provato la privazione, la durezza della distanza e che hanno tentato di utilizzare nuovi strumenti e tecniche per neutralizzare gli effetti più deleteri della distanza.

Anche per la scuola si stanno creando forse le condizioni per superare una fase in cui è stato pagato il prezzo di una perdita evidente di valore sociale. Ora, a fronte della privazione forzata della socialità e delle dinamiche profonde che questa emergenza sta diffondendo, si intravvedono i segni di una possibile nuova cultura della vicinanza; di un ribaltamento possibile dei valori e dei modelli di vita, di sviluppo, di lavoro, che hanno segnato questi ultimi decenni . Una nuova cultura della vicinanza è il nuovo possibile approccio alla ricostruzione, culturale e pedagogica, del rapporto tra scuola e territorio. La nostalgia della scuola come fatto “fisico” è la rappresentazione di un sentimento che coglie una verità profonda: l’apprendimento è un fatto sociale e non può vivere senza una dimensione di socialità aperta, sicura, strutturata, La scuola come spazio pubblico insostituibile nella più ampia comunità del territorio.

La spinta verso la vicinanza ridà senso agli spazi perduti e ci spinge a un profondo ripensamento dell’assetto della nostra società : per questo abbiamo bisogno di una nuova cultura politica e di una nuova visione educativa Superare l’emergenza non per tornare al passato ma per scrivere un’altra pagina.

Ridare senso ai legami di prossimità, perché anche il welfare, quello che noi vogliamo, non richiede solo finanziamenti ma soprattutto persone capaci di solidarietà tra diversi. Uno spazio immenso per un sindacato generale e per chi crede che la scuola non sia solo adempimento, voti e direttive ministeriali ma un nuovo sorprendente cantiere sociale. Per questo avremo più che mai bisogno di un sindacato dei diritti, della solidarietà e dell’etica della responsabilità. Decisive, ancora una volta, saranno le persone, le loro scelte, il loro impegno nella società. Anche sapendo utilizzare, con la necessaria consapevolezza ,i migliori mezzi tecnologici a disposizione.

 

 

 




Come si sentono i miei figli in questi giorni?

rete_numeriA cura di Ilaria Pollono

“E come Le sembra che stia Anna in questi giorni (primogenita di 7 anni)?”
“Mi sembra serena, giochiamo, facciamo tante cose insieme, le maestre ci mandano le video lezioni (pausa)   … Beh, in realtà,  da qualche settimana mi sembra più svogliata, ha iniziato a “sognare brutto” di notte e, in generale,  la vedo molto irrequieta.”
“E lei, come sta? Lavorare in casa, seguire Anna e Luca con la scuola, suo marito è medico. Dev’essere difficile.”
“Tutto sommato sto bene (pausa)  Beh, insomma… (commozione). In realtà sono disorientata, a volte mi sembra di non concludere niente. Adesso che ci penso mi sento smarrita e sono stufa di questa situazione!”

Durante questo primo mese di vita in casa abbiamo spesso parlato con molti genitori come la mamma di Anna e Luca. Genitori amorevoli che hanno messo in campo tutte le risorse possibili per accompagnare i figli in questo drastico e repentino cambiamento.  Genitori che, impegnati a riorganizzare la loro vita (familiare, professionale, personale), hanno impiegato molte energie nell’aiutare i figli a riorganizzarsi, nel tentativo di adattarsi a questo nuovo, seppur temporaneo, stile di vita.

Dialogando con i genitori al telefono, in video chiamata o in video call di gruppo, emerge un denominatore comune legato alla difficoltà di comprendere realmente lo stato d’animo dei figli. Impresa già abitualmente ardua, ma in questi giorni ancor più complessa.

Difficile immaginare come si sentano i figli, in un momento in cui anche per i genitori è difficile ascoltarsi.

In questo spazio temporale quasi “sospeso”,  i genitori spesso raccontano di non avere avuto il tempo di riflettere su come si sentono.
Eppure, sapersi riorganizzare, riuscire a condividere momenti piacevoli con compagni e figli, essere in grado di stare bene in una nuova dimensione esistenziale, non preserva dall’angoscia di questo momento.
Dal timore che tutto possa non andare necessariamente bene. Da molti punti di vista.
Primo tra tutti quello sanitario: sconfiggeremo il Covid ?;  poi quello lavorativo: sarò in grado di adattarmi a questo nuovo modo di lavorare?; quello economico: quanto durerà questa situazione e quali ricadute economiche avrà?; quello sociale: quando potrò ri-contattarmi con le persone, con il mondo?; quello personale: sarò in grado di superare questo momento?; e non da ultimo, quello genitoriale: riuscirò a sostenere i miei figli in questo significativo passaggio della loro crescita?

Fermiamoci qui. Perché non abbiamo una risposta, ma certamente possiamo formulare buone domande che ci possano guidare il più possibile verso i figli, verso il loro stato d’animo, verso il loro modo di vivere questo cambiamento, nel tentativo di adattarsi ad una situazione che tornerà a cambiare nuovamente.
Difficile immaginare per un bambino di 4 anni cosa significhi non relazionarsi più con i coetanei e con le figure educative di riferimento, non poter correre più liberamente in un parco.
Così come è difficile spiegare ad un bambino di 2 anni che non si può uscire dalla porta di casa quando si abita in un palazzo senza balcone né cortile.
Difficile immaginare le sensazioni di un bambino di 8 anni che si allenava tre volte alla settimana e che ha interrotto improvvisamente le sue relazioni sociali.

E ancora, come si sente un adolescente (animale sociale per definizione) alla ricerca di sé, tra le mura domestiche? Un paradosso.
Forse non  resta che domandarsi realmente come si sta. Farlo ogni giorno. Avvicinandosi. E chiedendo loro come li fa sentire questa nuova situazione. Accogliendo tutto ciò che loro portano, avendo cura di non sdrammatizzare, di non cercare di “placcare d’oro” ciò che provoca malessere (tristezza, rabbia, noia, irritabilità…) .
Accogliendo. Facendosi sentire vicini a quel loro stato d’animo. Esserci, anche senza commentare. Per poi infondere fiducia.

Come ha fatto la mamma di Anna qualche giorno dopo aver riflettuto sul suo malessere:
“Lo so che anche se sei contenta di stare a casa da scuola insieme a noi a volte ti senti spaventata Anna.  A volte ti vedo triste, lo so che ti mancano i tuoi compagni. Certi giorni sono più difficili di altri, lo so anche per i grandi è così. Per questo a volte in questi giorni ci scontriamo anche! Troveremo il modo per affrontare anche questo momento Anna, vedrai” (abbraccio).

Stare accanto all’emozione dei figli. Quando si ha l’energia e la disponibilità per farlo. Accoglierla senza giudicarla, senza “abbellirla” o “aggiustarla”. Un esercizio difficile [perché assistere al malessere dei figli è difficile!], ma non impossibile, se rinunciamo a voler necessariamente migliorare le cose in quel preciso momento.
Le cose si migliorano con il tempo. Passo a passo, ascoltandosi e accogliendosi a vicenda. Quando si sente di avere l’energia per farlo.