L’imbuto di Norimberga: attenti alle metafore!

imbutodi Stefano Penge

Stanotte mi è tornata in mente una lezione di Bruno Cermignani, il mio amato professore di Filosofia della Scienza, che ci avvertiva dei rischi che si corrono quando si usa una metafora astratta per comprendere un’esperienza concreta.
L’esempio che faceva era quello della conoscenza come specchio del mondo.
Astratta, perché del fenomeno del rispecchiamento prendeva solo l’idea, ma non la realtà. Uno specchio non riflette sempre l’oggetto che gli sta di fronte, e l’immagine non è affatto realistica. Ci sono le leggi dell’ottica (la riflessione e l’inversione dell’immagine), ma anche altre condizioni reali, come l’umidità (lo specchio appannato) e la temperatura che può distorcere lo specchio, fino a fonderlo. Uno specchio in un forno non riflette un bel niente..

L’insegnamento come riversamento della conoscenza nella testa di uno studente tramite un imbuto è un caso dello stesso fenomeno. Prima di ridere dell’ingenuità di chi parla di riempire gli imbuti, proviamo a prenderla sul serio (la metafora) e a toglierle la dose di astrattezza. Se l’imbuto fosse una buona metafora dell’insegnamento, allora…

Prima di tutto: quando si usa un imbuto? Per esempio: da una damigiana di vino o di olio voglio riempire tanta bottiglie più piccole: si chiama travaso. E’ utile per distribuire un bene, per farlo viaggiare, o conservarlo meglio. Magari perché da un Sangiovese volgare si vuole ottenere un magnifico Brunello, che come ognuno sa deve stare in bottiglia almeno cinque anni.
E perché ha quella forma? Il flusso che esce dalla damigiana (che ha una bocca più larga) è maggiore di quello che potrebbe assorbire la bottiglia, che ha un collo piccolo. Se non ho una buona vista e una mano più che ferma rischio di rovesciare e disperdere il prezioso liquido. L’imbuto ha una bocca ancora più larga di quella della damigiana, e poi si restringe. Così si può sbagliare, sia in termini orizzontali (se sbaglio la direzione il liquido non va nel buco) che verticali (se esagero con l’inclinazione verso un flusso troppo importante che la bottiglia non riesce ad assorbire). L’imbuto ha senso perché ha una tolleranza all’errore maggiore di quello del collo della bottiglia; e ha senso se il liquido che si vuole travasare è prezioso.

Che tipo di contenuto si può travasare con un imbuto? Beh, non uno qualsiasi. Deve avere della caratteristiche fisiche precise: i liquidi vanno bene, i gas no. I solidi? Devono essere aggregati in particelle molto piccole (come lo zucchero); ma la farina o la sabbia, soprattutto se umidi, tendono a creare degli intasamenti. Dei tappi, appunto. Quindi bisogna fare attenzione anche alle condizioni meteorologiche.
Certo non basta averlo, l’imbuto: bisogna anche usarlo bene. Bisogna assicurarsi che l’imbuto stia ben fermo, che sia pulito (l’olio tende a restare appiccicato sulle pareti, il vino diventa aceto). Alla fine dell’operazione bisogna tappare la bottiglia, altrimenti è tutto inutile.

Che possiamo concludere? Che l’imbuto non è una (buona o cattiva) metafora dell’insegnamento, ma degli metodi e degli strumenti che si usano quando si vuole travasare conoscenza per distribuirla nel mondo. Metodi che servono a controllare il travaso, a evitare che ci sia dispersione. Strumenti che funzionano con certi tipi di conoscenze, o conoscenze in certa forma (fluida, cioè non strutturata fortemente, o molto parcellizzata). Strumenti che vanno manutenuti, verificati, controllati. Ah, e poi c’è il tappo: a cosa corrisponde un tappo? Per esempio ad un ritmo esagerato di versamento; o a una condizione sociale invasiva, oppure ad una conoscenza che tende a coagulare, a fare “mappazza”.
E se uno non vuole travasare conoscenza? Si poteva usare una metafora diversa? Certo. Per esempio, mescolare farina burro e uova per fare una torta. Oppure piantare un seme nel terriccio e innaffiarlo. O covare un uovo. Far cadere un granello di sabbia in una soluzione sovrassatura.
E per ogni metafora si poteva andare a scavare sulle sue condizioni reali d’uso.




Apologia dell’educare: dai conflitti al dialogo

spiraledi Raimondo Giunta

    • Il compito dell’educazione è inerente al rapporto, comunque configurato, tra adulti e nuove generazioni; lo si svolge e accade anche a prescindere dalla intenzione di assumerne la responsabilità.
      Le figure maggiormente coinvolte sono quelle dei genitori e quelle degli insegnanti, per la costanza dei rapporti che i primi hanno con i figli e gli altri con gli alunni e per la specificità dei compiti che devono assolvere nei loro confronti.
      Ma chiaramente non sono i soli ad avere questa responsabilità.
      In queste riflessioni ci si soffermerà sugli insegnanti e sulla scuola.
    • Il compito di educare le nuove generazioni oggi non è per nulla facile, ma presenterebbe minori problemi, se il rapporto tra scuola e famiglie nel tempo non si fosse incrinato per conflitti, recriminazioni e sfiducia e se si potesse comporre armonicamente le reciproche responsabilità.
      Uno dei motivi più seri di questa frattura è la difficoltà di comprendere che la scuola nella sua funzione educativa non è la prosecuzione lineare delle esigenze delle famiglie, perchè queste sono molto diverse l’una dall’altra per interessi, condizione sociale, convinzioni politiche e religiose e anche per provenienza etnica. Come istituzione pubblica la scuola condivide la logica delle relazioni, delle regole e dei principi della più ampia comunità che è la società di appartenenza.
      A scuola si mette in comune ciò che è comune e che può essere comune per tutte le famiglie. La scuola nell’esercizio delle proprie funzioni è separata rispetto alla società; ha un suo spazio che deve avere le proprie regole e se non può andare contro il mondo, non è nemmeno al semplice servizio delle famiglie. Avendo compiti pubblici inevitabilmente è altra rispetto alle singole convenienze e se può mediare, non può accondiscendere. In una società democratica la separazione dei poteri educativi è importante come quella dei poteri dello Stato (Philippe Meirieu).
      Separazione che funziona nella reciproca accettazione delle ragioni della propria esistenza. I poteri dello Stato, come si sa non son autorizzati a farsi la guerra..

  • La situazione in cui va pensata oggi l’educazione dei giovani è configurata dall’abdicazione crescente delle famiglie alle proprie responsabilità e dalle difficoltà delle scuole a ripensare in ragione di questo dato le proprie .La scuola non può liberarsi da questo compito, perché è come istituzione investita del compito di preparare i giovani ad assumere ruoli e responsabilità nella società. E questo non avviene dando ai giovani solo gli strumenti per esercitare un lavoro o una professione. L’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’uomo (Kant) e proprio per questo diventa un diritto inalienabile; ed è anche un elemento indispensabile per la costruzione della democrazia (Dewey). Cosa vuol dire educare allora e come farlo a scuola, questi sono i problemi con i quali bisogna misurarsi.
  • A scuola se si deve educare bisogna fare posto tra programmi, saperi, regolamenti e valutazione alla PRESENZA DELL’ALUNNO; lavorare per la sua emancipazione e per la sua autonomia. La scuola non è solo una struttura tecnico-professionale: le sue funzioni devono avere un’incisività esistenziale per quanti vi sono ospitati. La scuola non può non avere delle finalità educative, se vuole orientare, motivare e promuovere nei giovani comportamenti positivi, sviluppare le loro capacità, guidarli alla conquista di significati per la loro vita.
    E tutto questo senza dimenticare che da tempo scuola e mondo giovanile sono in rotta di collisione, che c’è una frattura di cui tenere conto e nei limiti del possibile sanare con intelligenza e passione.
    L’educazione a scuola deve svilupparsi nei compiti stessi che devono essere svolti e nei rapporti che si vengono a costituire tra alunni, tra alunni e docenti, tra alunni e sapere; tra alunni e istituzione, tra alunni e società.
    Nella sua natura questa è un’educazione civica e morale per la sollecitazione a rispondere al dovere di sapere stare con gli altri, di sviluppare le proprie capacità ,di prepararsi ad assumere una funzione nel lavoro e nella società come cittadino.
    In questo senso l’insegnante è un educatore e non può non esserlo. Educa insegnando e nel modo di insegnare.
    Nel modo di porgersi, nel modo di ascoltare, nel modo di valutare, nel modo di gestire la classe, nel modo di gestire i rapporti con gli altri insegnanti, le responsabilità collegiali, i rapporti con le famiglie.
  • Educare a scuola significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare sempre meglio di quanto non sembri e di quanto non si sia creduto; significa lavorare perchè ogni alunno abbia il diritto di crescere nei tempi e con i modi a lui più congeniali.
    Significa interrogarsi sulla resistenza che l’alunno talvolta oppone al lavoro dell’insegnante, con i suoi rifiuti, con la sua avversione, con la sua opacità.
    Significa fare esperienza della propria impotenza. L’educazione è un percorso accidentato e avventuroso, sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse.
    La relazione educativa non è pacifica; vi emergono reazioni di difesa e tentativi di conquista; irrigidimenti e contestazioni; propositi di assimilazione e difficoltà ad accettare l’alterità dell’alunno.
    E’ spesso uno scontro di intenzionalità diverse.
    L’insegnante si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento.
    Mettere al centro l’alunno significa anche questo, non fargli volere ciò che noi vogliamo. La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione, di condizionamento, di manipolazione.
    L’educatore non plasma a propria immagine chi viene educato. L’educazione a scuola è condivisione, non violenza; è chiamata non costrizione. L’azione educativa per le emozioni molteplici che suscita, per la disparità di statuto dei partner in causa, per le poste in gioco, è un’esperienza che resiste ai tentativi di razionalizzazione, verso i quali ci si deve dotare di un sovrappiù di precauzione e di preoccupazione. Non c’è niente di peggio per la ragione degli eccessi razionalistici.
  • Gli alunni costituiscono un mondo diverso e in qualche modo sono gli intrusi in quello degli insegnanti. I giovani, in grandissima parte, con la loro estraneità ai codici e alle tradizioni del sistema scuola costituiscono una sfida e spingono a trovare le ragioni dell’esistenza e delle finalità del sistema di istruzione. Interpellano con i loro problemi, con la loro inquietudine e alcuni con la loro avversione . Pongono problemi di senso, di motivazione, di prospettiva. Con questa realtà l’insegnante ogni giorno deve fare i conti, non dimenticando mai che a scuola è “l’uomo dell’incontro e del confronto. Nello stesso tempo solidale, promotore e vittima del rinnovamento, si trova così alla giuntura tra passato e presente; serve allo stesso tempo la causa della tradizione per quello che insegna e la causa della rivoluzione per coloro che forma”(M.de Certeau).
  • La risposta al conflitto innescato dagli alunni, alla sfida dell’alterità da loro rappresentata non è l’abbandono, non è l’indifferenza, non è la trincea del proprio sapere. La sfida al conflitto è il dialogo tra docenti e alunni. Il dialogo è ciò che fa della necessaria informazione l’elemento della formazione. Nel dialogo si forma l’uomo chiamato a imparare per tutta la vita, a perfezionarsi ,a riciclarsi continuamente. L’insegnante consapevole delle sue responsabilità ”deve continuamente badare alle parole che riceve e a quelle che restituisce;(…) Attraverso il confronto tra il linguaggio al quale deve rispondere e il linguaggio che trasmette, arriverà simultaneamente a individuare il senso di quello che ascolta e a intendere quello che dice” (M.de Certeau).
  • Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo. La classe dovrebbe essere il luogo dove la verità della parola non è relativa allo status di chi la pronuncia”(B.Rey). ”L’educatore non deve persuadere con la violenza, con la superiorità del suo statuto, col ricatto delle punizioni o delle ricompense, ma con la verità del discorso che propone”(B.Rey).
    La responsabilità educativa si realizza nella capacità di riconoscere e valorizzare l’alterità dell’alunno come fondamento del dovere di attenzione alla sua soggettività, del dovere di cura del suo sviluppo equilibrato.
    I giovani hanno bisogno di una relazione educativa che li interpelli individualmente, che li metta al centro delle preoccupazioni degli insegnanti. ”Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B.Rey).
    Gli alunni hanno bisogno di essere accettati .
  • L’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che è tenuta ad ascoltare. Senza conversazione, senza la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure, soprattutto tecnologiche, e degli obblighi professionali.
    L’alunno deve sentire la prossimità umana, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. Non c’è confronto, nè dialogo in una relazione in cui uno vede e l’altro viene visto come nella didattica a distanza.
    ”Al primato della vista sull’incontro o della conoscenza sul dialogo si oppone nell’esperienza dell’educatore il primato della sua relazione con i propri allievi.(…)L’educatore è legato dallo spazio e dalla contiguità .E’ anzitutto l’uomo del faccia a faccia”(M.de Certeau).
  • Se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande.
    ”Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui.”(Pascal).
    Le domande che hanno senso, però, non si pongono a caso; bisogna educare a porre e a porsi domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande.
    Bisogna dare strumenti per potere discutere e dialogare; per diventare capaci di resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze. Bisogna educare a problematizzare, per non accontentarsi delle prime e rassicuranti risposte e andare oltre in profondità su ogni questione, su ogni dato, su ogni fatto, su ogni notizia, su ogni nuova conoscenza. Bisogna contrastare con energia la tendenza a insegnare saperi, trascurando di fare capire e conoscere i problemi che li hanno generati. Puo’ succedere che il dialogo sfugga di mano, ma non bisogna averne paura. Non esiste una scuola del silenzio che sia anche scuola di partecipazione.
    Il dialogo è mezzo e fine dell’educazione; è il modo a scuola come in ogni luogo per dare valore e significato all’altrui presenza.
    Il dialogo è confidenza tra gli alunni e tra gli alunni e gli insegnanti; è piacere di appartenere ad una comunità, che porta avanti insieme il progetto educativo.
  • Il dialogo non ha fretta; è per le pari opportunità; non esclude, non stigmatizza; non è competitivo. Il dialogo non è solo tra presenti, ma si estende, va fuori dell’aula, incontra la società, incontra il passato. Il dialogo è l’antidoto per vaccinare la scuola contro le seduzioni e gli eccessi tecnologici, che la stanno immiserendo e sterilizzando, perchè pone la centralità della parola viva nella relazione educativa e perchè solo nella parola viva si incontrano le persone che hanno qualcosa da dirsi.
    Il dialogo impedisce alla scuola di essere una caserma, di trasformarsi in una spuria azienda di formazione professionale; invita ad andarvi e a frequentarla senza angoscia; allontana la sottomissione, incentiva l’autonomia, fa spazio alle differenze.



Contro la didattica e la valutazione per “competenze”

rete_numeridi Alessandra Fantauzzi e Carlo Baiocco

Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una  formazione scolastica “per competenze” sono due:
(a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale;
(b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.

In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna, ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che sia possibile apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.

E’evidente che la tematica della didattica per “competenze” abbia ben altra natura e risponda ad altri scopi. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che, da tempo, si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento omettendo che tale teoria fu introdotta dallo psicologo statunitense David McClelland il quale, dopo una breve sperimentazione teorica, la introdusse nelle organizzazioni aziendali, in particolare attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963.
Il tentativo era volto alla misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e della sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test).
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti.
La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità, conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà. Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale “fa acqua” da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico e imposta ex lege come nel nostro caso.
Una legge dello Stato, il Decreto Legislativo numero 62 del 2017 e un coacervo di circolari e note ministeriali, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica, impongono agli insegnanti italiani una scelta didattica precisa: insegnare per competenze attraverso l’ introduzione di una certificazione delle Competenze.
Competenze che vanno misurate secondo i dettami di un ente esterno (Invalsi) attraverso sia la procedura di somministrazione censuaria di test, sia la compilazione di un Rapporto di Autovalutazione (RAV), al quale segue un Piano di Miglioramento (PDM), entrambi soggetti, poi, al controllo, al parere ed alla valutazione del (Nucleo esterno (!) di Valutazione (NEV), organo, che a sua volta, valuta poi gli stessi docenti!

Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che una competenza complessa, come ad esempio la comprensione linguistica, non è misurabile!

Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure, ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta, ma è intrisa di fattori soggettivi.

Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri, si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile a livello della valutazione di “competenze” minime, pur restando intriso di elementi soggettivi. È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici.
Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato. Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali nessuna stima quantitativa è possibile.

Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostini, con insano fanatismo e becera prepotenza, a parlare di misurabilità delle “competenze”, addirittura di “competenze della vita”e “competenze di cittadinanza” ed a cercare di imporla per legge. Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano addirittura un intralcio.

Le “competenze” chiave enunciate dal Parlamento europeo e recepite poi dal Parlamento italiano, corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente, cercando anche in parte di semplificare la complessità, indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative-esecutive.
Chi, come un insegnante, ha a cuore il futuro della scuola deve invece battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratichee di mercato del lavoro, senza nulla togliere a queste esigenze che nella Scuola, però, non dovrebbero entrare.
E’ singolare la leggerezza con cui le posizioni, pedagogiche e culturali, che fanno capo a una visione fondata sulla “paideia” socratica, costituita dal circolo luminoso e fecondo di “agalma” ovvero l’attrazione verso il sapere, come vuoto da non riempire, come vuoto da produrre, come vuoto da aprire, come luogo di una mancanza da preservare e come circolarità di e fra “eromenoi” (maestri che amano il sapere), “erastes” (amante del sapere) ed “eromenos” (ciò che è degno di essere amato) e su una tradizione umanistica che esalta l’epistemologia delle discipline e la scuola come percorso di costruzione culturale ed educazione all’esercizio del sapere critico e del libero pensiero, siano state “gettate alle ortiche”, in favore dell’adesione acritica a visioni aziendaliste ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale a esigenze di carattere produttivo, a quelle esigenze che concepiscono la scuola come un luogo di formazione di addetti per aziende e non di cittadini che sulla cultura fondano la loro libertà di essere, di conoscere e, perciò, di agire!

Il problema è che il “fatal, letal trittico” di abilità, conoscenze e competenze non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi, perché codifica una separazione a tre livelli: come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze, ma non sa farne uso, oppure sa farne uso, ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti, giustamente mai distinti, sempre complementari e paritari e sempre da valutare complessivamente.

Molti, infatti, confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali ed anche emotive, affettive e relazionali per risolvere problemi ed affrontare situazioni. Insomma, alla fine, la competenza è semplicemente un agire personale strettamente basato e legato armonicamente ed armoniosamente a conoscenze e abilità!

A cosa servono questi marchingegni e questa intricata ed assurda logomachia del “niente”? A battere il nozionismo, si dice! Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni.
Ed è proprio in coerenza con questo convincimento che si dà allora il benvenuto e si aprono tutte le porte delle aule al nozionismo più becero, “esclusivo”, invasivo e distruttivo: quello dell’Invalsi!
E siccome il mondo, finora, è stato popolato di idioti, la capacità di formare gente colta e capace è finalmente nata e disvelata e tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente, oggi non c’è più d’aver paura, poiché, da oltre oceano, dove ormai da diversi anni le stanno modificando ed eliminando a causa della comprovata dilagante ignoranza che alimentano e delle loro comprovate conseguenze nefaste e fallimentari sugli apprendimenti, è arrivata finalmente la panacea di ogni male della Scuola e sono arrivate finalmente la somministrazione coatta di ambigui, univoci e sibillini test, l’insulsa didattica per competenze, l’ancora più deleteria valutazione per “crocette” ed addirittura, udite udite, la più incongrua ed imbecille “strategia” didattica che le demenziali mode pseudo-psico-pedagogiche potessero inventarsi: ovvero la “flipped classroom”, la “classe rovesciata”, dove i discenti miracolosamente diventano tali, dal momento che la mattina l’insegnante non spiega mai e svolge esercizi e quiz e, ancora e di nuovo, quiz ed esercizi ed il pomeriggio, a casa, gli alunni “si app-licano” da soli oppure comodamente “connessi” in chat, mediante altrettanti miracolosi pc ed ipad, questi sì, davvero e per fortuna ritenuti “smart … in the high smart set”!

Noi crediamo fermamente che:

  • così come velocemente la Scuola ha attuato la DaD altrettanto ed ancor più velocemente debba rifuggire la DaD dell’“all connected” e dell’“always connected” prima di tutto e soprattutto perché esclude il “corpo” e la “presenza” del “corpo” e, escludendoli, accentua un’ulteriore dicotomia tra il “sapere” ed il “saper fare”, banalizzando l’apprendimento e riducendolo ad un percorso di mero addestramento;
  • una Scuola che, per risparmiare sul Sostegno, chiede agli insegnanti di diventare “fabbricatori” di PdP, di individuare a piè sospinto BES non certificati (che ormai in ogni classe potrebbero essere più della metà degli alunni) e poi gli impone di sottoporli alla “somministrazione” di test standardizzati “oggettivi” ed uguali per tutti, sia assolutamente schizofrenica, perfida ed esclusiva;
  • una scuola di qualità sia basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline;
  • le discipline, in tutte le loro declinazioni, siano la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro e che una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedano riferimenti che affondino le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia della conoscenza delle discipline;
  • separare i tre livelli, “conoscenze/abilità/competenze” conduca ad effetti disastrosi sui processi di apprendimento e sulla costruzione di un sapere simbolico e critico e riduca la conoscenza ad addestramento, ammaestramento ed imbonimento, banalizzandone contenuti e metodi;
  • aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano anche se ammantate del demagogico appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”;
  • la competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi e la cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non sia un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”;
  • non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo;
  • il sapere non si acquisisca mai definitivamente, in quanto esso è continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche;
  • accostare una valutazione autoreferenziale di “agenzie” esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
  • un’agenzia “terza”, l’INVALSI, (che a noi costa più dell’intera somma destinata a livello nazionale al “Fondo d’Istituto” e che ora, ahinoi, si appresta addirittura a voler valutare gli alunni nella e dopo la DaD con batterie di test “ad hoc”!!!) non possa svolgere affatto compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola;
  • la terzietà non sia, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità e differenziazione;
  • la presenza di agenzie esterne, “Fondazione Agnelli” e “3L”, nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa e raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità ed “umanità” di ogni insegnante che sole possono condurre alla valutazione vera ed autentica degli studenti.E inoltre
  • Noi riteniamo che sia diritto-dovere di ogni docente quello di esercitare la propria libertà di insegnamento “come autonomia didattica e come libera espressione culturale al fine di  promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.”;
  • noi riteniamo giusto promuovere e perseguire la saldatura del legame intergenerazionale attraverso la trasmissione coerente, anche a livello cronologico, di conoscenze, la costruzione di percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, l’apprendimento cooperativo fra pari, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle emotività, ai livelli di partenza, alle possibilità e finanche alle reazioni di sguardi e comportamenti;
  • noi insegneremo senza “competenze”, noi valuteremo senza “competenze”, noi faremo lezione senza competenze e saremo seminatori di “segni”, saremo guide di incontri fra persone in cammino in una comunità inclusiva;
  • faremo lezione “con i pari e tra pari”, anche senza gli aggettivi “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale”, “tutoriale”, “collaborativa”, aggettivi che sono mere rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può, infatti, e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti ed anche fra i disagi, i successi, gli insuccessi, i cambiamenti ed i miglioramenti di ciascuno, insegnante incluso, al fine di “educere” ovvero di tirar fuori e non di “tirar dentro”;
  • ci “commuoveremo” insieme agli studenti, in quanto ci “muoveremo” con loro e per loro;
  • ci “interesseremo di loro, nella loro totalità di “anima e mente” per “essere fra loro” e con loro;
  • saremo responsabili e garanti di quell’“incontro” che solo dà un senso ed un valore ai fatti culturali delle discipline insegnate in una relazione di pari dignità tra maestro e studente, nel microcosmo di un’autentica collettività di classe per quanto più possibile non giudicante e valutante. Soltanto quest’ultima relazione, infatti, permette agli allievi il “ben-essere” di frequentare sereni la Scuola e di imbattersi nel non conosciuto, di praticare il dubbio, il senso critico, la poliedricità del reale, l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità e di aprire un orizzonte culturale diverso magari anche da quello familiare o sociale;
  • valuteremo “percorsi lunghi ed “incorporati” (e, perciò, soggettivamente valutabili), senza “griglie” e senza “rubriche” e, soprattutto, prove “oggettive”, convinti che la valutazione degli studenti sia impegno non unico, qualificante e delicato dell’insegnante, soggettivo ed anche condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli dei cambiamenti che generano i processi di apprendimento e che la valutazione, a scuola, sia autovalutazione, sia un’osservazione “prossimale” e corresponsabile, modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto, del qui ed ora;
  • saremo aperti al confronto collegiale con gli altri colleghi in una dimensione aperta e narrativa che tenga insieme il progetto ed il percorso, e non privilegi unicamente il punto d’arrivo, l’ epistemologia delle discipline e la didattica, la specificità degli ordini di scuola e la continuità, la tradizione pedagogica e l’innovazione metodologica o tecnologica/digitale, considerata, però, come un’ulteriore opportunità di diversi possibili strumenti di ampliamento ed accesso a contenuti e conoscenze, convinti che l’impiego di tali “innovazioni” debba essere il frutto di una costante riflessione e di un’attenta, equilibrata valutazione, incondizionata e libera.

 

Noi, infine, siamo fermamente convinti del fatto che codificare pratiche e sclerotizzare metodi, presentandoli come la priorità della Scuola, sia una vergognosa operazione che annulla i percorsi cognitivi e metacognitivi dei ragazzi, una semplificazione banalissima, retorica arbitraria e demagogica, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che tenta di ridefinire finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio e sudditanza ad un’ideologia opprimente, in quanto univoca ed indiscussa, ossia quanto di più lontano dalla Scuola, che è stata, è e rimane “Organo Costituzionale” preposto a sanare le differenze socio-culturali così come mirabilmente la disegnava Piero Calamandrei.




Educazione diffusa e scuola nel territorio

ripresa_scuoladi Simonetta Fasoli

La formula “educazione diffusa” è densa di significati e proprio per questo esposta a interpretazioni contrastanti e ad opposte opzioni di natura “politica”.

Dal mio punto di vista, postula alcune premesse:
1) la scuola, titolare della cosiddetta “educazione formale” è l’asse portante di un più vasto processo educativo che vede coinvolti altri attori nel territorio, titolari della cosiddetta “educazione non formale”.
2) In questa sua collocazione, la scuola esercita una funzione strategica, ma al tempo stesso si riconosce non autosufficiente, per la complessità dei processi socioculturali che la interpellano. In tale riconoscimento risiede la radice di una sua sistematica iniziativa di interazione che coinvolge le agenzie educative (o più generalmente culturali) che operano nel territorio.
3) La scuola è NEL territorio in un duplice senso:

A) attesta la presenza dell’istituzione, in questo senso è presidio di diritti sanciti costituzionalmente;
B) progetta e realizza concrete azioni di politica scolastica, con la specificità del suo progetto pedagogico e con gli strumenti giuridici che le sono conferiti dall’autonomia.

4) Le azioni sinergiche della scuola e dei suoi interlocutori nel territorio, istituzionali e non, rendono visibile la cosiddetta “comunità educante”. In questo senso, i confini dell’educazione non coincidono con quelli dell’istituzione-scuola. E ha fondamento l’espressione “educazione diffusa”.

Queste sintetiche premesse, se condivisibili, permettono di segnare una netta linea di demarcazione nei confronti di un’idea di “scuola diffusa” che è, al contrario, problematica, in quanto esposta a derive, a mio parere, molto rischiose.
Sarà necessario, dunque, vigilare attentamente affinché non si verifichino impropri processi di “appalto” della funzione di istruzione/educazione della scuola, che le è assegnata dalla Costituzione, a soggetti esterni. Appalto che si sostanzia, in definitiva, nell’esternalizzazione di quote di curricolo ad agenzie esterne.
Non è difficile prevedere l’esito di questi movimenti: un taglio ulteriore di risorse, materiali e professionali, che sarebbero da destinare in via esclusiva alla scuola. E, corrispettivamente, un allocamento (in forme dirette o indirette) di risorse pubbliche a favore di soggetti del privato sociale. Qualcosa di analogo è accaduto nel settore della Sanità, con le conseguenze che in questi mesi sono emerse in modo drammaticamente evidente.

In sintesi
In un caso, PIÙ SCUOLA. Una scuola rafforzata dalla rete di relazioni nel territorio, dalla sua capacità di interagire ed arricchire con azioni sinergiche la densità educativa di un territorio.
Nell’altro caso: MENO SCUOLA. Meno risorse, meno strumenti di iniziativa istituzionale. Come se si offrisse il lasciapassare a un processo di spoliazione, a favore di interessi che, pur legittimi, non devono essere soddisfatti a spese della scuola.

In un quadro chiaro, sgomberate le ambiguità, saranno evidenti le scelte operate e le conseguenti responsabilità.




Vorrei una scuola che non lascia indietro nessuno

io_noidi Raimondo Giunta

La scuola che vorrei è quella che non lascia nessuno indietro e in cui gli insegnanti si impegnano affinché tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita e per inserirsi nel mondo del lavoro.
Una scuola che tiene fede a queste finalità non abbassa il livello delle proprie esigenze,anzi; sceglie soltanto di non essere un luogo di discriminazione; di volere il successo di tutti e non quello di una minoranza.

Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti.
E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perché spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere ,arbitrari i livelli da superare,arbitrari i criteri di valutazione, non adeguati i metodi di insegnamento.
Oggi diventa fondamentale esercitare i giovani a sapere utilizzare l’immenso capitale culturale parallelo ed esterno a quello della scuola;farli diventare capaci di discernimento e di selezione delle informazioni.
L’educazione e l’istruzione sono diventate una sfida difficile,ma sono le uniche alternative alla stupidità e alla violenza,alla seduzione dei media e dei social che non danno conoscenza.
Se si vuole il bene dei giovani, se si vuole sottrarli alla realtà virtuale, la scuola sia per loro l’incontro con le cose, le persone, le tradizioni e i valori del mondo circostante.
Sia per loro l’incontro con la realtà. Per apprendere a scuola e fuori della scuola bisogna volerlo; questo significa che bisogna motivare i giovani a volerlo, perché senza il piacere di volere imparare non si produce apprendimento.
Non ci sono in giuoco, però, solo elementi intellettuali e cognitivi. Questi sono alcuni aspetti del problema, che non è solo un problema pedagogico-scolastico.

Un modo per affrontare e vincere questa sfida è quello di sapere trasformare i contenuti e gli scopi della formazione in interessi presenti e quotidiani per i giovani. Non è un’operazione facile.
Per raggiungere i risultati sperati occorre misurarsi con la crescita esponenziale dell’insofferenza di parte non insignificante dei giovani verso la scuola;molti non sono preparati come un tempo a vivervi dentro e ad accettarne cultura, regole, organizzazione e ritmi.
Tanti giovani, abituati a casa ad un regime di vita senza tanti controlli, a volte abbandonati a se stessi, a scuola non riescono a trovarsi a proprio agio e ad accettare quelle limitazioni alla propria libertà che consentono di potere svolgere regolarmente le attività di formazione.
Occorre fare comprendere che a scuola è necessario che tutti si riconoscano vincolati, per potere stare insieme, da quei principi che consentono nelle stesso tempo di rispettare le altrui esigenze e le proprie; gli altrui convincimenti e i propri e che lo spazio comune di convivenza sia gelosamente delimitato e difeso.
Il mondo giovanile che riempie la scuola è diventato complesso e a volte indecifrabile a motivo della sua sempre più frastagliata composizione sociale, della sua diversa provenienza nazionale, della sua molteplice appartenenza religiosa.
Nella scuola che è diventata multietnica e multiculturale non si viene a capo dei problemi da affrontare, proponendo come indiscutibile un solo modello di razionalità, di cultura e di umanità; a scuola non ci dovrebbero essere mondi da civilizzare; l’etno-centrismo delle nostre tradizioni scolastiche non è un fattore di integrazione e andrebbe seriamente discusso, quando si elaborano i curricoli scolastici.
Si richiedono ai giovani capacità di iniziativa, attitudini al lavoro di gruppo e alla collaborazione, senso di responsabilità; ma come possono acquisirli se in classe si crea un clima competitivo individualistico e si lavora con una didattica autoritaria?
D’altra parte l’educazione al senso di responsabilità non compete solo alla scuola, perchè se dovesse appartenere solo alla scuola, non si andrebbe molto lontano con tanti cattivi esempi nelle istituzioni e nella società. Per fare bene il proprio mestiere e per rispondere al bisogno di educazione e di formazione delle nuove generazioni la scuola ha bisogno di tempo; a volte di molto tempo.
Nella scuola, invece, si ha sempre fretta, perché ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento.

Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione. E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno e ai particolari problemi che può presentare.
Ogni volta che si entra in classe ogni insegnante dovrebbe chiedersi per quale tipo di società si sta istruendo e formando i giovani e dovrebbe farlo per dare un senso al proprio lavoro.
Certo, il primo dei compiti della scuola è quello di dare a loro gli strumenti per costruire il proprio progetto di vita e per inserirsi nel mondo del lavoro.
Credo che non basti.
La scuola deve sviluppare e proteggere l’umanità che è in ognuno di noi,è questo è possibile rendendo i giovani eredi consapevoli del patrimonio di conoscenze e di valori della società alla quale appartengono,spronandoli ad essere persone accoglienti, dialoganti, aperte alla comprensione e all’accettazione delle diversità.
Lo si voglia o no, per fare una buona scuola, oggi, si deve porre attenzione alle dimensioni affettive della persona.
A molti ragazzi mancano la presenza, la guida e l’affettività della famiglia, ma non dovrebbero mancare le attenzioni della scuola.
Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza.
Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M.Serres) e non possono essere lasciati soli.

 




Accomodamento ragionevole e determinazione. Proposte per il rientro a scuola

ripresa_scuoladi Raffaele Iosa

 Abstract
Il saggio precisa le ragioni per cui la riapertura urgente delle scuole e dei servizi educativi fin dai centri estivi sono un’emergenza educativa di carattere prioritario, non accessorio, per il futuro del paese.
Le cinque emergenze educative descritte sono presupposti politici, culturali e istituzionali per realizzare con determinazione scelte intelligenti e chiare di ripresa della scuola.
Il saggio propone di adottare il metodo dell’ “accomodamento ragionevole” (ONU 2006), una mediazione scientifica attiva tra ragioni pedagogiche e ragioni epidemiologiche in rapporto all’evoluzione nel tempo della pandemia nei diversi territori del paese e alle esigenze sociali e pedagogiche sempre più urgenti.
Questo approccio interdisciplinare (e ragionevole) suggerisce di non adottare un unico modello rigido di riapertura delle scuole per i tempi, per i modi didattici e organizzativi, per l’utilizzo delle risorse, per le regole di sicurezza, tenuto conto della pluralità e autonomia delle diverse scuole nel paese, e in relazione all’evoluzione della pandemia nel tempo e nei territori. Naturalmente la riapertura deve essere realizzata solo dopo la predisposizione di tutti gli strumenti di prevenzione e tracciamento territoriale. Si propongono qui le alternative possibili al modello rigido unico, suggerendo un meta-metodo di lavoro interdisciplinare che parta dal livello nazionale fino a quello locale, con pratiche di governance continue di corresponsabilità.
Soggetti centrali sono le scuole e gli enti locali, cui è affidata la gestione e responsabilità diretta.
Si suggeriscono anche utili soluzioni originali e innovative sull’utilizzo del personale, degli ambienti del territorio e delle risorse sociali e culturali. Opportuna è la massima chiarezza sugli aspetti contrattuali.
La politica deve con determinazione e coraggio saper scegliere, sulla base integrata delle indicazioni dei diversi approcci tecnico-scientifici e le diverse condizioni territoriali, individuando più scenari da adottare.

 Il rientro a scuola è prima di tutto questione di emergenza pedagogica

Questo studio intende offrire proposte e suggestioni circa l’auspicato rientro a scuola di tutti i bambini e i ragazzi italiani che da fine febbraio 2020 hanno perso l’esperienza comunitaria della vita scolastica a causa della pandemia da Covid-19. Bambini e ragazzi che assieme alla chiusura della scuola hanno vissuto contemporaneamente per mesi la dura esperienza della loro chiusura in casa. Questo doppio confinamento esistenziale, sociale, cognitivo, relazionale è lo sfondo cui il rientro deve essere pensato in chiave formativa e di ripristino delle giuste condizioni di crescita dei nostri figli nella comunità sociale.
Vi è dunque, fin dall’inizio della progettazione di questo ritorno, la necessità di un incontro non facile ma da sviluppare in contemporanea tra due approcci, entrambi necessari: il pedagogico e il sanitario.

  1. L’approccio pedagogico

 Le scienze della formazione, con le loro articolazioni interdisciplinari di carattere pedagogico, psicologico evolutivo, sociologico, antropologico, epistemologico, sono una cosa seria. Sono la pre-condizione del senso della scuola nel suo sviluppo concreto di apprendimenti, di pratiche didattiche, di socializzazione, di educazione alla vita all’autonomia della persona.
La scuola è un sistema pubblico che ha al centro del suo agire la pedagogia, in tutti i suoi aspetti.
Non è dunque possibile che le regole sanitarie non si incontrino dialogicamente con le esigenze educative, è necessario invece un incontro parallelo di mutualità che abbia chiaro gli obiettivi del rientro a scuola come premessa necessaria di qualsiasi regolazione. Ad esempio, se la riapertura fosse centrata solo sul bisogno di guardianìa per i genitori tornati al lavoro basterebbero forme di babysitteraggio educativo, senza ulteriori preoccupazioni. Ma lo sguardo pedagogico ci segnala ben altro di necessità per i nostri figli e nipoti.

E’ questo ben altro pedagogico che il rientro a scuola considera prioritario, in particolare su questi punti:

  • Tornare alla vita. La doppia chiusura delle scuole e dei ragazzi in casa per tre mesi è un evento straordinariamente complesso e difficile, che va compreso e non sottovalutato. Non si tratta solamente degli eventuali segni dolorosi psicologici emersi, ma anche del senso esistenziale ed emotivo che i bambini e i ragazzi danno a questi eventi, sia nei segni negativi emersi sia nelle doti di resilienza che siano stati in grado di realizzare. Si tratta di eventi straordinari di grande portata sociale. SI tratta di bambini e ragazzi tornati prevalentemente figli, con rischi di regressione e di incertezza che vanno risolti il più presto possibile. E’ quindi un’emergenza educativa di fondo la nostra priorità.
  • Garantire eguaglianza delle opportunità. Il confinamento è stato ammorbidito (ma non risolto del tutto) dallo straordinario impegno di migliaia di insegnanti che si sono mossi in tutti i modi per ristabilire la relazione educativa. Perché questo ha voluto dire la Didattica a distanza: non tanto “tradurre la scuola ordinaria con altri metodi a distanza”, ma creare attraverso le macchine virtuali la vicinanza umana e deontologica ai nostri ragazzi. Lo si è fatto in mille modi, ha funzionato meglio quando si è cercato di fare cose diverse dal scimmiottare la lezione tradizionale, ed ha aperto radicali riflessioni negli insegnanti su aspetti fondativi dell’educazione (il valutare, la didattica in sé, il valore dell’ascolto dell’altro, il senso di comunità, ecc..). Insomma una didattica della vicinanza con la nostalgia dell’altro. Non è un caso che le migliori esperienze sono rappresentate dalle soluzioni in cui adulti e bambini si “vedevano e parlavano” attraverso il video. Un’esperienza di massa, nata dal basso, di grande valore civico in cui gli insegnanti hanno espresso un moto professionale che Spinoza avrebbe chiamato di “passioni generose”. Un ricco patrimonio di apprendimento professionale nato dalla necessità, che sarà utile in futuro quanto meno a ri-scoprire la relazione educativa come fondamentale. E anche una mediazione tra analogico e virtuale nell’insegnare e apprendere che non potrà mai essere la Dad sostitutiva della scuola fisica e umana, ma l’e-learnig e le ICT come strumenti di arricchimento degli apprendimenti, non e mai di sostituzione della vita comunitaria in un luogo chiamato scuola (e dintorni).

Detto ogni bene possibile dell’impegno determinato degli insegnanti, è onesto ammettere che l’esperienza ha invece rilevato gravi limiti sui principi fondativi della scuola democratica. L’esperienza ha accentuato il gap tra i ragazzi mainstream e quella fascia di nostri alunni che per varie condizioni (economiche, familiari, di lontananza culturale, per povertà di stimoli, per condizioni di disabilità, disagio sociale e così via) hanno pagato lo scarto in diversi modi e intensità, fino all’abbandono, pur con tutto l’impegno profuso dai docenti. C’è dunque ragione per riaprire quanto prima e meglio possibile le nostre scuole per un’emergenza democratica, pena il dimenticarci dell’art. 3 Costituzione (comma 2…Compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli…che impediscono la realizzazione della persona umana, ecc..). La scuola garante delle opportunità per tutti , capace di non perdere nessuno è una priorità nazionale. Tornare a scuola si deve, quanto prima per loro. Forse anche una scuola diversa da quella di prima della chiusura, scuola in cui non sempre l’eguaglianza delle opportunità veniva effettivamente garantita.

  • Ripristinare la cittadinanza sociale. I bambini e i ragazzi non sono solo studenti o scolari. Sono cittadini a loro modo attivi nella comunità sociale. Dunque è opportuno che non solo la scuola, ma tutto il territorio (famiglie, ente locale, società civile, soggetti sociali, sportivi, culturali del territorio) apra una progettazione del ritorno alla vita. Non può che essere fatto insieme e contemporaneamente alla scuola, pena il rischio che la scuola diventi un’isola in un deserto di incertezze bassa vita comunitaria.

Ci vuole dunque uno spirito attivo di governance locale tra i diversi soggetti, piani integrati territoriali di ricostruzione della vita sociale dei nostri bambini e giovani. Possono esserci molte soluzioni che rispettino le regole sanitarie, ma liberino i ragazzi dalla chiusura. Questa è una vera emergenza di cittadinanza sociale di altrettanta priorità. Scuole, ente locale, società civile insieme.

  • Tornare ad apprendere insieme. Il rientro a scuola non può essere solo un ripasso e un rabbocco dei curricoli non del tutto realizzati quest’anno. Certo si dovrà pensare anche a questo, con modalità flessibili secondo i ragazzi e le scuole, ma è un errore ripartire “da dove eravamo rimasti…”.

E’ successo qualcosa di significativo in questi mesi, si è imparato anche a vivere. Si riportano in classe i vissuti, non solo le tabelline imparate a memoria. C’è dunque da prevedere una fase transitoria (almeno fino a novembre?) di “accomodamento ragionevole” della condizione di ogni alunno ma soprattutto di ritorno all’apprendimento comunitario, cioè “in presenza attiva”, anche con l’utilizzo di tecnologie, questa volta non sostitutive ma complementari. Ciò che conta davvero è la natura dell’apprendere insieme, che prima della chiusura delle scuole non era sempre dignitoso e attivo, ma a volte direttivo e separativo. Questa volta l’insieme che apprende ha anche cose da dire, da raccontare. Sa di più e di diverso. C’è quindi una necessità data dall’emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari che va compresa e risolta anche con modalità didattiche nuove.

  • Dietro ogni alunno, una famiglia. Anche i genitori hanno vissuto con difficoltà questa difficile fase, sia per la crisi del lavoro, sia per il confinamento, sia per un rapporto con i figli per i quali spesso sono stati tramite attivi con la scuola. Una ri-scoperta di dialogo ma anche un impegno, inutile negarlo, faticoso. E che ha diversi esiti secondo le condizioni delle diverse famiglie. Oggi che i genitori tornano al lavoro, li si carica di un problema complesso e duro circa chi seguirà i figli a casa. Le soluzioni di aiuto modello baby sitter sembrano non risolvere il problema non solo per i costi (e le differenze tra famiglie) ma anzi accentuano l’isolamento dei figli e rappresentano una soluzione posticcia. Dunque anche alle famiglie serve il ritorno a scuola, non come guardianìa, ma come ripristino della massima normalità della vita possibile. I genitori tornano a lavorare, e i loro figli tornano ad essere anche bambini e ragazzi, non solo figli.

Dunque, in sintesi, cinque emergenze pedagogiche (e politiche) impongono la predisposizione del piano di rientro a scuola a settembre 2020, con la presenza attiva di uno sguardo e una priorità pedagogici che accompagnino un positivo rientro dei nostri bambini e ragazzi alla vita da bambini e ragazzi:

  • emergenza educativa di ritorno alla vita da bambino e ragazzo
  • emergenza democratica delle opportunità educative
  •  emergenza di cittadinanza sociale
  • emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari
  • emergenza delle condizioni familiari

Insomma, un vasto programma, di alta valenza politica istituzionale. Per sanare quella “ferita nel paese” espressa dal presidente Mattarella a fronte della chiusura delle scuole e delle sue conseguenze.

CLICCA QUI PER LEGGERE IL SAGGIO COMPLETO DI RAFFAELE IOSA

 




A scuola chiusa, come sarà la chiusura dell’anno scolastico?

spiraledi Massimo Giugler, psicologo  – Studio Sigre

C’è un tema che mi è parso poco trattato in questi mesi in cui sono stati posti i sigilli agli istituti scolastici: la chiusura dell’anno scolastico 2019/2020. Come sarà? Avverrà a distanza o sarà possibile immaginarsi forme non dico di contatto, ma almeno di presenza fisica?

Trovo che, tra le altre forme di disagio che si possono essere create nei bambini in questo periodo, ve ne sia una che è evidente, ma poco considerata: l’impossibilità di salutarsi tra compagni nel momento in cui la scuola è stata chiusa e l’impossibilità di salutare i loro insegnanti, così come avviene per le vacanze. I bambini sono rimasti a casa, almeno qui in Canavese, per il Carnevale, quindi per un momento ludico.
Poi una prima breve chiusura per virare a chiusure prolungate con il passaggio dei genitori a scuola a ritirare libri e quaderni, quando si è capito che la chiusura sarebbe stata di una certa durata.
E oltre a non essersi salutati prima della chiusura c’è il rischio che non possano farlo nemmeno a giugno.

Trovo necessario che i bambini riescano a vedersi, non per motivi didattici, ma psicologici e relazionali. E’ importante ritrovarsi per condividere ciò che è stato in questi mesi e per gettare un ponte per la ripresa. Trovo pericoloso lasciare aperto questo buco, che può diventare, nel corso dell’estate, una voragine. Non è sano lasciare le situazioni aperte, indefinite, incerte, come è avvenuto in questi mesi, quando si è stati attraversati da continue ipotesi di riapertura. Tutti noi abbiamo bisogno di certezze e ancora di più che vive la fase dello sviluppo. E’ stata già rimarcata da molti l’importanza di determinare i tempi, di tenere i ritmi in queste giornate tutte uguali. Così come lo è sapere quando finirà la scuola e quando e come riaprirà. Sia per noi adulti, sia per loro bambini.

Un altro punto da determinare, da chiudere è la relazione con gli insegnanti e fra di loro. Se vi sono state numerose esperienze in cui i bambini, grazie al dinamismo e all’intraprendenza dei propri insegnanti, hanno potuto vedersi attraverso un video, dialogare tra di loro e con i loro insegnati, ve ne sono altrettante in cui ciò non è avvenuto. Per entrambe le situazioni ravvedo comunque la necessità di uno/due incontri entro giugno per le ragioni che ho già esposto, a cui ne aggiungo una: realizzare un simile incontro equivale inoltre costruire un solido pilone per attraversare l’estate e per creare condizioni favorevoli per il rientro a scuola per l’anno 2020/21. Altrimenti la gittata potrebbe risultare troppo ampia e crollare.

La necessità di incontrarsi risulta ancora più cogente per quei bambini che si trovano nella fase di passaggio da un grado di istruzione all’altro. Se il bisogno di chiudere è evidente per tutte le classi, diventa cogente per quei gruppi che non si possono dire arrivederci. La chiusura del ciclo dell’infanzia, della primaria e della secondaria sono dei passaggi fondamentali nella crescita di un individuo. Credo che tutti ricordiamo l’emozione dei saluti, della consegna dei lavori svolti nel corso dell’anno dai bambini nell’infanzia, la foto di gruppo che si appende per anni in camera e che segna una pietra miliare per misurare il cambiamento negli anni (già mancherà il saggio finale!). O ancora il passaggio di consegna fra gli alunni della V elementare con i relativi investimenti sulla preparazione, la cura del passaggio e primi riti di saluto di gruppo (cena in pizzeria o in casa di genitori disponibili). Significativa è la chiusura della secondaria di primo grado, anche perché il gruppo poi si disperde. Mancheranno quest’anno le feste di chiusura, le scorribande di gruppo in città, la cena in pizzeria, le magliette personalizzate. I ragazzi della maturità avranno, così pare, la possibilità di un esame orale in situazione (pare negato per i colleghi della terza media), dove però mancherà la dimensione del gruppo. Sono anche ragazzi dotati di maggiori risorse, con pluriappartenenze e con possibilità di incontro anche in tempi successivi, in cui la situazione tornerà ordinaria.

Ultima annotazione: viviamo in una società dove i riti di passaggio sono pressoché scomparsi, in cui si rimane in una condizione di eterna gioventù. Conosciamo la valenza di questi riti: danno struttura , identità e legittimazione sociale: rappresentano gli scalini da percorrere nella crescita individuale e nel posizionamento sociale. Non creare almeno un’occasione di incontro significa privarli di un ulteriore sostegno evolutivo.

Mi auguro pertanto che si possano creare le condizioni per cui attraverso un’alleanza fra insegnanti, scuola, genitori, enti locali, si riesca a realizzare almeno un momento di incontro fra i compagni di classe e i loro inseganti, sfruttando gli spazi all’aperto di cui, almeno da noi, tutte le scuole dispongono. E se non fosse possibile per tutte le classi, mi auguro che possa esserlo per quelle che si apprestano a chiudere un ciclo. E ad aprirne un altro.